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Autore: VandasGirls    13/11/2013    3 recensioni
«Ti ho tenuto nascoste molte cose, bambina mia», disse addolorata Lucia Marcelli, portandosi una mano al viso. «Ma ora è giusto che tu abbia una vita migliore. Questa è l’eredità di tuo padre.»
«Io sto bene qui.»
Violante guardò la chiave che sua madre le stava porgendo, senza far nulla per afferrarla. Tutto stava avvenendo troppo rapidamente, senza preavviso alcuno; si sentiva spaventata, stranita. Non voleva saperne nulla.
«Non andrò con Messer d’Alviano da nessuna parte.»

Cinque Assassini figli di Caino, cinque destini mescolati tra loro per raggiungere lo stesso obiettivo.
Genere: Azione, Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bartolomeo d'Alviano, Ezio Auditore, Niccolò Machiavelli, Nuovo personaggio, Volpe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il destino di Qayin

Capitolo primo







Le porte di Roma le si aprirono dinanzi che il sole era già alto nel cielo.
Lasciandosi scappare un sospiro carico di soddisfazione, Chiara Filippi sgusciò tra la folla di mercanti che si accalcava dinanzi all’entrata della città, superando goffamente un paio di guardie cittadine per immettersi infine sulla strada che seguiva il corso delle mura.
Dal cappuccio verde scuro che portava sul capo, soltanto un ricciolo dorato sbucava, dondolandole sulla spalla a ogni suo passo.
Alternava la sua andatura con qualche giravolta mirata a scrutare i palazzi che le si stagliavano intorno, mentre i suoi occhi scuri passavano da un balcone all’altro, da un viso sporto dalla finestra a uno nascosto dietro a una tenda.
Quella era la prima volta che metteva piede a Roma e già poteva dirsene soddisfatta. Rimpiangeva il fatto di non aver voluto che suo padre l’accompagnasse, eppure era felice di non avere nessun altro con cui condividere la sua scoperta. Poteva tenere per sé ogni sensazione, ogni profumo, ogni sguardo che la gente le riservava.
Era la sua avventura.
Balzando sul muro di una vecchia casa, liberò i capelli biondi dal cappuccio, rovesciando il capo all’indietro quando raggiunse la sommità del tetto.
Di certo non sapeva orientarsi in una città immensa come Roma, ma era alla ricerca di un luogo ben preciso, certamente visibile da una prospettiva sufficientemente alta.
Il corso del Tevere, in fondo, non doveva poi essere tanto difficile da individuare.
Raccolse la gonna tra le mani, saltando da un tetto all’altro fino a che non individuò il ponte dei Quattro Capi tagliare l’ansa del fiume.
Sorrise, allora, e accelerò il passo, saltando sulle tegole con composta grazia. Senza dubbio, i tetti di Roma erano di fattura assai più raffinata di quelli di Firenze. Il laterizio non si sbriciolava sotto i suoi lievi saltelli e la pendenza era minore, il che le dava maggior stabilità.
Arrivò in prossimità del ponte in un tempo così breve che ella stessa se ne stupì.
Appollaiata sulla torretta del palazzo che vi si stagliava di fronte, si concesse qualche istante per osservare la folla.
Non aveva amicizie a Roma, né persone che poteva esserle utile visitare, ma agli artisti che suo padre frequentava piaceva viaggiare, e non si poteva mai sapere il luogo da dove sarebbero sbucati, né tantomeno il momento.
Fu per questo che non si stupì affatto quando, proprio sul ponte, notò un cappello di raso rosso muoversi cauto tra la folla, accompagnato dal mantello del medesimo colore che il suo padrone portava sulla schiena. Capelli grigi lunghi fino alle spalle, qualche strano gingillo fissato alla cinta. A Chiara non ci volle poi molto per riconoscerlo.
Si tuffò tra la gente, atterrando ben dritta su uno dei pilastri del ponte, e si buttò all’inseguimento dell’uomo.
«Messer Leonardo!», chiamò, nonostante la sua vocina così flebile fu presto mangiata da quella ben più potente della folla. Scattò in avanti, afferrando un lembo del mantello color sangue che aveva avvistato dalla sua postazione. «Leonardo da Vinci!»
Lui si voltò, probabilmente stranito dal sentirsi chiamare per nome da una voce così giovane, e rimase in silenzio a guardare Chiara.
Lei scioccò la lingua, senza lasciare la sua presa.
«Sono Chiara!», esclamò, sorridendo. «La figlia di Mastro Filippi!»
L’uomo le buttò addosso un’occhiata che la esaminò da capo a piedi, dopodiché si sciolse in un sorriso, chinandosi su di lei per abbracciarla.
«Chiara Filippi! Ma certo!», esclamò, battendole entrambe le mani sulle spalle. «Quanto tempo è passato! Guarda come ti sei fatta grande, sempre più simile a tuo padre! Quanti anni hai?»
Chiara arrossì appena, inevitabilmente imbarazzata dal paragone con Mastro Filippi. Succedeva sempre, quando la gente faceva notare quanto si somigliassero.
«Ho compiuto quindici anni la scorsa estate», balbettò, cercando di non scomporsi.
Leonardo da Vinci annuì, riprendendo a camminare lungo il ponte, diretto verso l’Isola Tiberina.
«Devo dedurre che Matteo è nei paraggi?», le chiese, senza mascherare un certo tono allegro.
Chiara scosse il capo.
«No, sono sola», rispose, soddisfatta di sé. «Messer Machiavelli ha mandato un messo alla bottega a pregare mio padre di mandarmi a Roma al più presto. Dice che è arrivato il momento anche per me.»
«Ezio ti vuole tra le sue reclute?»
«Così pare.»
Camminarono in silenzio per qualche istante, raggiungendo l’isola dietro un piccolo gruppo di persone che si affrettavano ad attraversarla.
Chiara era così piena di pensieri che, per un istante, si dimenticò persino di parlare.
«In realtà, speravo proprio di incontrarvi, Messer Leonardo», disse dopo un po’, nascondendo di nuovo il viso sotto il cappuccio. «Io e mio padre abbiamo messo a punto un’arma che potrebbe tornare utile. Funziona, tuttavia vi sono alcuni dettagli che non siamo stati in grado di sistemare.»
L’uomo le lanciò un mezzo sorriso.
«Sempre più simile a Matteo, non c’è che dire. Progettare un’arma non è lavoro da recluta, Chiara, ma le darò volentieri un’occhiata.»
La ragazzina sorrise, stringendosi nel mantello e allontanandosi da Leonardo.
Quando lui la guardò con aria interrogativa, lei rispose ampliando il suo sorriso.
«Non mi aspettano prima di domani!», esclamò, buttandosi tra la folla con una mano alzata in segno di saluto. «Farò un giro nei dintorni!»
Girò sui tacchi e non rimase ad ascoltare la risposta dell’uomo, sgusciando a piccoli balzi tra la gente di Roma. Aveva intenzione di godersi il più possibile quelle ore di libertà che le rimanevano e un’esplorazione di ciò che la circondava le sembrava il metodo più adatto per sfruttare al meglio quell’occasione.
Si buttò quindi addosso al pilastro del secondo ponte che lasciava l’isola e cominciò a camminare verso il fiume, stavolta più lentamente, attratta dalla modesta folla che si era radunata attorno a una lite sulla riva.
Un ragazzo basso, ben piazzato e armato di un bastone da passeggio saltava addosso a una ragazza di gran lunga più minuta di lui. La attaccava fendendo l’aria, mentre ella evitava con sveltezza ogni fendente, scostandosi quel poco che le bastava per mandare il colpo a vuoto.
La gente, intorno, incitava i due alla lotta.
Chiara rimase seduta lungo il parapetto del ponte, osservando la scena da una discreta distanza.
Di certo non aveva intenzione di finirci in mezzo.
«Prendete quella puttana!», gridò d’un tratto il ragazzo, puntando il bastone verso la sua avversaria. «Mi ha rubato il borsello!»
La ragazza rise di rimando, scostandosi i capelli dietro le spalle, e non lo degnò nemmeno di una risposta, balzando in alto e sparendo sui tetti di Roma nello stesso tempo che Chiara impiegò a battere le palpebre.
Il ragazzo con il bastone da passeggio rimase immobile per strada, mostrando il viso irato di chi ha appena fatto una pessima figura dinanzi a un gran numero di persone. Inveì un paio di volte, battendo i piedi a terra, e andò a prendersela con uno degli spettatori più vicini. Scelse un ragazzo molto più alto di lui, meno massiccio ma decisamente meglio proporzionato.
Aveva un viso pallido senza alcuna espressione a incresparlo. Gli occhi color cobalto, spenti sulla punta degli stivali, non si alzarono nemmeno quando vennero attaccati dal bastone.
Il ragazzo dal viso pallido si limitò a chinarsi in avanti, mostrando alla folla la balestra che portava a tracolla sulla schiena.
Era un’arma di ottima fattura, intagliata in un legno scuro cerato, e montava delle frecce più corte del normale dal piumaggio bianco che il loro proprietario portava in una sacca legata al fianco.
Rapita dalla scena, Chiara si strinse le ginocchia al petto, cercando nella borsa il fazzoletto in cui, quella mattina, aveva raccolto qualche fragola di bosco.
«L’hai vista, quella puttana di tua sorella!», tuonò il ragazzo col bastone, avvicinandosi minaccioso a quello dal viso pallido. «E non hai fatto niente per prenderla! Schifosi milanesi! Non siete altro che cani al servizio dei Borgia!»
Il ragazzo dal viso pallido si alzò e, sospirando rumorosamente, si scrocchiò le dita.
«Spallaci, non scocciarmi», rispose, atono, senza dare un accenno di cambiamento all’espressione vuota del suo viso.
«Bengiamino Lorenzetti, torna tra i tuoi simili!», ribatté Spallaci, indicando con il capo un paio di polli che in quel momento affollavano la strada.
Dalla folla radunata attorno al ponte si levò un lieve sghignazzo.
Chiara sorrise, spingendosi in bocca la fragola che teneva appoggiata alle labbra con un dito. Il sapore aspro le fece arricciare il naso, ma non arrivò a distrarla dalla lite in atto.
Bengiamino Lorenzetti alzò le spalle, concedendosi di alzare lo sguardo verso il cielo prima di rimettere nella faretra la freccia che stringeva nella mano sinistra.
«Non ne vale la pena», commentò, più rivolto a se stesso che ai presenti.
Si sistemò il laccio della balestra sul petto e prese a camminare verso l’Isola Tiberina, saltando da un piede all’altro per poi buttarsi tra la folla.
«Che fai, Lorenzetti! Fuggi da me?», ruggì Spallaci, mollando a terra il bastone con un gesto di stizza. «Coniglio!»
La voce di Bengiamino arrivò pacata e distante.
«Fuggo dalla tua ignoranza, Spallaci!»
Tra le grida irate di Spallaci e gli sghignazzi dei presenti, Chiara non poté fare a meno di soffocare una grossa risata con una fragola.
Sistemandosi il vestito, sì alzò. Era intenzionata a seguire Bengiamino Lorenzetti, ma si bloccò quando il suo sguardo scuro captò qualcosa di bianco nascosto tra la folla.
Lontano da lei, con la schiena appoggiata contro il muro di una casa, l’anonima figura di Ezio Auditore osservava la scena. L’unica cosa lasciata trapelare dalla sua tunica immacolata, era un sorriso divertito.
Chiara l’aveva visto qualche volta, a Firenze, soprattutto in compagnia di Leonardo e di suo padre. Sapeva chi fosse e sapeva cosa aveva fatto per la Repubblica Fiorentina; lei e il suo fratellino erano stati istruiti a dovere sul mondo degli Assassini ancor prima che imparassero a leggere e a scrivere con una buona dose di racconti che poi avevano finito per diventare leggende.
Si voltò quindi per salutarlo, convinta che lui l’avrebbe in qualche modo riconosciuta.
Quando arrivò a raggiungere il punto in cui l’aveva intravisto, però, lui era già sparito senza lasciare traccia di sé.











Violante arrivò a vedere in lontananza la Città Eterna nell’esatto momento in cui il sole prese a scendere oltre le mura di cinta, lasciando spazio ad una fresca sera di inizio autunno. Non era mai stata in un posto simile nemmeno nei suoi sogni, tant’è che rimase del tutto senza parole innanzi a ciò che l’Urbe aveva da offrirle anche a quell’ora. I negozi stavano chiudendo, i bambini rincasavano rincorrendosi e per le vie vi erano volti smagriti dalla fame o rallegrati dal vino.
Sentì parlare in almeno sei lingue differenti nel tragitto che la portò al Covo.
Smise addirittura di parlare con Bartolomeo d’Alviano, che per tutto quel viaggio non aveva fatto altro che discutere con lei riguardo l’Ordine e chi lo componeva, seppur in modo abbastanza superficiale.
A sentir lui, Viola avrebbe avuto le risposte alle sue domande direttamente dal grande Mentore.
Chi fosse quest’uomo le era sconosciuto, ma aveva acquisito una certa fiducia nel condottiero che l’aveva accompagnata durante tutto quel viaggio.
Discesero lungo il Tevere sino all’Isola Tiberina, di cui Violante non aveva mai nemmeno sentito parlare, e lì si separarono. Le fu detto solo di lasciare il cavallo alla stalla che avrebbe trovato in fondo alla via.
Scorgere l’entrata al Covo richiese una buona dose di pazienza. Vagò stordita per alcuni minuti prima di incontrare un ragazzo che le disse di chiamarsi Ettore de Angelis e che le fece strada, scalando la facciata del palazzo prima di lei.
Violante si sentì incredibilmente fuori forma e pesante rispetto a quello che doveva essere senza ombra di dubbio un Assassino fatto e finito. Una volta sul tetto lui la aiutò a sollevarsi dal bordo, per poi aprirle la porta.
Le loro strade si separarono all’ingresso e Viola venne spedita lungo un ampio corridoio che sbucava in un altro ambiente.
La stanza era immensa e illuminata dalla luce fioca di molte candele, con drappeggi rossi che cadevano armoniosi dall’alto sino al soffitto tra le pieghe vermiglie recanti il simbolo della congrega.
Violante lasciò che il suo sguardo vagasse per ogni angolo di quell’enorme salone, ignorando per un istante la presenza di almeno una dozzina di giovani come lei.
Di fattor comune sembravano portare sul viso la medesima espressione di pura confusione ed eccitante aspettativa, seppur con qualche eccezione.
Violante si guardò alle spalle mentre, con un gesto esitante, si abbassava il cappuccio. Si sedette accanto ad un ragazzo biondo dall’aria annoiata, stringendo tra le mani la treccia castana che aveva acconciato quella stessa mattina, poco prima della partenza da Bologna. Le pareva ancora strano trovarsi lì, in una Roma avvolta dal quieto torpore notturno, in mezzo a persone dall’aspetto così interessante.
Si chiese dove fosse finito d’Alviano, prima di iniziare a studiare quella che per lei era più una concorrenza che un gruppo che, a sentire il veneziano, sarebbe dovuto divenire al pari di una famiglia.
All’improvviso, dal centro della sala si levò un sonoro brusio, mentre qualche ragazzo si accostava alle colonne come a creare una specie di cerchio attorno a qualcuno intento a dare mostra di sé.
Al centro di tutto c’era un giovane piuttosto massiccio, sebbene non troppo alto, vestito di tutto punto e brandente un bastone intagliato. Portava piuttosto solennemente la casacca recante lo stemma della sua famiglia e non dava certo cenno di essere intimorito dall’ambiente che lo circondava, né tantomeno dalla situazione.
«Sono Augusto Spallaci, figlio di Filippo Spallaci!», tuonò, puntando la sua arma contro il naso di un ragazzo di poco più piccolo. «Impara il mio nome, stupido verme. La mia famiglia prendeva a calci in culo quei cani dei Borgia che la tua ancora spellava galline!»
Una lieve risata si alzò dai due suoi compari che lo spalleggiavano. Anche loro come lui, non parevano affatto intenzionati a una pacifica convivenza. Se ne stavano lì, dietro la schiena di Augusto, a sghignazzare sugli altri presenti mentre lui se la prendeva con il primo malcapitato che lo aveva urtato.
Viola si alzò in piedi, salendo l’ultimo gradino per poter guardare il volto dell’idiota da cui avrebbe dovuto guardarsi le spalle sino alla fine dell’addestramento.
Con sua grande sorpresa, il ragazzo seduto accanto a lei levò una risata fragorosa e forzata, quasi come se il suo intento fosse quello di farsi notare da tutti.
Ci riuscì, poiché l’intero gruppetto si aprì, consentendo a Spallaci di guardare il volto parzialmente nascosto dal cappuccio nero e argento a punta, circondato da morbidi ricci dorati che sbucavano da sotto la stoffa.
«Ma sentitelo, come se ne va tronfio del suo casato. Se io fossi un lacchè degli Orsini starei bene attento a non farlo sapere in giro, visto che la loro propensione a cambiare continuamente bandiera porta molti nemici.»
Per risposta, Spallaci tolse il bastone dal viso della sua prima vittima, voltandosi bene a guardare il ragazzo che si era azzardato a controbattere.
«Divertente», commentò, non mancando di soffocare forzatamente una risata. «Tu saresti?»
Appariva estremamente intrattenuto dalla situazione, quasi quel luogo così tetro lo rendesse solare. Faceva la voce grossa, ma in realtà era ben lontano dall’apparire temibile o particolarmente pericoloso.
Il biondo si alzò, abbassando al contempo il cappuccio della casacca per poter farsi vedere per bene, quasi a voler evitare così ogni fraintendimento.
«Cristiano Pagni, da Ferrara», disse, peccando a sua volta di un certo orgoglio.
L’intera sala fu pervasa da un leggero brusio, mentre Cristiano camminava lentamente verso Augusto, sovrastandolo in altezza.
«Tuo padre deve dei soldi al mio, così come mezza Roma, grazie a Papa Borgia. Ma siete fortunati, Frate Savonarola ha ridotto i Medici ad un gruppo di debosciati esiliati. Siete in debito solo con la Romagna, così.»
Augusto Spallaci gli rise in faccia. Fece roteare il bastone sopra la sua testa un paio di volte, dopodiché lo lanciò in aria, riprendendolo prontamente per puntarglielo contro.
«Sei qui a regolare i conti in banca, fratello?», sibilò, mostrando una fila di denti bianchissimi. «Non sia mai che io mi tiri indietro.» Fece una pausa, guardandosi attorno, probabilmente alla ricerca di uno spazio sufficientemente largo dove poter passare all’attacco. «Vediamo chi è il più bravo, Pagni.»
Per risposta, Cristiano alzò lentamente un sopracciglio, poi si voltò verso Violante e fece per rivolgersi a lei.
«Non sono così maleducato da battermi laddove non è casa mia, Madonna. Vi sono uomini, o mezzi uomini, che non hanno il minimo senso della decenza.»
Un coro di risatine si levò dal gruppetto, mentre Viola osservava silenziosa la scena.
Era sempre stata molto meditativa e non aveva mai peccato di impulsività, salvandosi sempre la vita. Non avrebbe commesso l’errore di schierarsi apertamente contro nessuno; non voleva nemici.
Cristiano non parve comunque notarlo, visto che tornò a rivolgersi ad Augusto con tono vago.
«Non vorrei che vi sporcaste questa bella blusa. Ditemi, esistono anche i capi maschili, di questa meravigliosa stoffa?»
In parte zittito dall’affermazione di Cristiano, Augusto parve perdere una punta di quel suo fare tanto sprezzante. La recuperò subito, però, gonfiando il petto fin quasi a scoppiare e tendendo pericolosamente la stoffa di quella sua camicia così raffinata.
«Caro Pagni, l’abito non fa di certo il monaco», rispose, dondolando appena il capo e alzando il suo bastone sui capelli biondi di Cristiano. «Se così fosse, che si faccia il nome del poco astuto che ha assoldato una ragazzina dai boccoli d’oro nella sua gilda di assassini!»
Non si accorse di aver perso il bastone sino a che non si voltò e vide Cristiano avvicinarsi ad uno degli ampi drappeggi con tra le mani, l’oggetto di sua proprietà. Non lo aveva sentito rubarglielo e quasi non l’aveva visto superarlo per proseguire nella direzione opposta.
Il biondo si accostò alla parete, appoggiandosi alla spalla quel ninnolo da riccastro e sorridendo sornione.
«Bé, la ragazzina con i boccoli ti ha dimostrato che, tra tutti noi, sei tu la scelta sbagliata, Serpe
Augusto digrignò appena i denti, stringendo nei pugni le sue grosse mani, ma tuttavia non si scompose. Mostrò l’ennesimo sorriso, sbuffando e alzando un poco le spalle, dopodiché scoccò a Cristiano un’occhiata divertita.
«Di certo sei veloce», considerò, mostrandosi sempre allegro sebbene fosse palese provasse sentimenti del tutto differenti. «Tuttavia non basta saper scappare, là fuori». Si piegò un poco sulle ginocchia, leccandosi le labbra. «Aspetta di arrivare a un vero combattimento, e vediamo chi la spunta.»
Parve abbandonare il suo tanto amato bastone, e si allontanò dal centro della sala a passo spedito, seguito dai suoi due compagni, per buttarsi in un angolo con la schiena contro il muro e le braccia conserte.
La scena si sarebbe di certo potuta coronare di risa di scherno e battute sull’onore di Spallaci, ma il suono di un applauso ben scandito rimbombò da una parete all’altra, causando un forte eco.
Tutti si voltarono verso la fonte di tale rumore, notando che due figure si erano unite a loro senza farsi notare.
Violante si ritrovò accanto un uomo sulla quarantina, bardato d’un armatura bianca e rossa di mirabile fattura. Dietro di lui, di due o tre passi al massimo, vi era invece un uomo dall’aria più anziana, anche se non di molto.
«Interessante scena, davvero», proruppe il primo uomo in tono gioviale, prima di aggiungere, sarcastico: «Speravo davvero che socializzaste così tanto.»
«Chiedo perdono per il mio comportamento, Mentore», disse Cristiano, staccandosi dal muro e lanciando il bastone in direzione di Augusto. «Ma ogni tanto va insegnata l’educazione.»
«Sei modesto quanto tuo padre, Cristiano», rispose l’uomo, incrociando le braccia sul petto con aria affabile. «Credi di poter impartire tu le lezioni? Audace.»
Il biondo chinò il capo, totalmente sottomesso.
«Vi chiedo perdono nuovamente, Mentore. Non l’ho mai pensato, invero.»
Spallaci rimase in silenzio, senza osare nemmeno muovere un muscolo per chinarsi a raccogliere il suo bastone finito a terra con un tonfo sordo. Tutta la sua spavalderia e la sua solarità erano improvvisamente sparite così come il suo sorriso sornione. Restò lì fermo, con le spalle contro il muro e gli occhi sgranati sulla figura del Mentore, quasi non avesse visto nulla di più spaventoso e possente in vita sua.
L’intera sala si chiuse in un silenzio ammirato, mentre Ezio Auditore si mostrava per la prima volta alle sue nuove reclute.
Si schiarì la voce, passando gli occhi da un volto all’altro per memorizzare le fattezze dei suoi allievi.
«La liberazione di Roma e del mondo dalla minaccia dei templari ha inizio e voi ne sarete gli artefici. Quanto meno, quelli che fra voi saranno in grado di distinguersi in abilità e scaltrezza. Al termine di un periodo di addestramento verranno scelti cinque di voi, che diventeranno i miei occhi e le mie orecchie per tutta la Penisola.» Fece una pausa, soffermandosi un istante prima su Violante e poi su un ragazzo dall’aria pacata che si era a sua volta avvicinato a braccia conserte. Se la ragazza mostrava sul viso la confusione tipica di chi non sa chi si trova d’innanzi, il giovane sembrava invece ammirato e al tempo stesso determinato a dimostrare qualcosa al Mentore. «Voi siete il futuro dell’Ordine, non voglio pentirmi di avervi selezionati. Dovete dare il meglio di voi di giorno in giorno.»
Il ragazzo dall’aria pacata, che qualche sussurro nella sala riconobbe essere tale Bengiamino Lorenzetti, asserì con un grande sospiro, chinando poi il viso per affondarlo nella sciarpa che gli circondava il collo.
Durante tutta la scena che aveva visto protagonisti Augusto e Cristiano, non aveva proferito parola, restandosene in un angolo a sbucciare la mela che poi si era affrettato a ingurgitare con l’arrivo di Ezio Auditore.
Dinanzi a lui non aprì bocca, restando in quel silenzio che lo aveva avvolto sino a quel momento e limitandosi a un’occhiata tra l’ammirazione e la circospezione. Di certo non appariva spavaldo come i due giovani che prima avevano dato spettacolo, ma indubbiamente possedeva un’aura tutta sua, che non lo faceva passare per uno sprovveduto.
Rimase lì in piedi per tutto il tempo, senza staccare lo sguardo dall’Assassino, quasi in quella stanza non vi fossero che loro due.
Prese la parola l’altro uomo, quello dal volto più scarno e i capelli tenuti cortissimi sul capo. Portò le mani dietro alla schiena, mostrando in tutta la sua bellezza ed eleganza la blusa che indossava.
«Io sono Niccolò Machiavelli e, nella vostra permanenza all’Isola Tiberina, dovrete far rapporto a me di ogni vostra decisione o spostamento. Vi seguirò insieme ad Ezio e sappiate che sarò impietoso verso di voi. Non tutti hanno la stoffa dell’Assassino e l’Ordine non ha bisogno di accollarsi incompetenti. Ora potete ritirarvi nei dormitori. Lì vi verrà portato qualcosa da mangiare prima di coricarvi.»
Violante notò solo in quel momento che su venti, venticinque giovani, solamente cinque erano ragazze. Scambiò uno sguardo con quella più vicino a lei, una giovane alta dalla chioma ramata, prima di riportare la sua attenzione su Machiavelli.
A quanto pare non aveva terminato.
«Sappiate che questo non è un gioco; non garantiremo per la vostra incolumità.»
E detto l’uomo ciò si ritirò, passando per una piccola porta alle sue spalle.
Ezio Auditore sorrise appena, abbassando il viso e celandolo così sotto al cappuccio, prima di seguirlo senza aggiungere nulla.
Per un istante, la sala rimase avvolta in uno strano silenzio. C’era chi si guardava attorno attonito, chi era restato immobile a fissare il punto esatto in cui poco prima parlavano gli Assassini, c’era persino chi vagava per l’ambiente con gli occhi, alla ricerca di un contatto in grado di rassicurarlo. Era una situazione sospesa, fragile, e toccò ad Augusto Spallaci romperla definitivamente, brandendo nuovamente il bastone e smantellando quel silenzio con un sonoro sciocco di lingua.
«Se lo scordano, di farmi dormire in questa topaia!», esclamò, partendo verso l’uscita con il suo piccolo gruppo al seguito. «Preferisco stare in strada, che condividere la stanza con questa feccia!»
Passò accanto ai ragazzi addossati al muro e li urtò uno a uno, guardandoli con aria minacciosa mentre si allontanava.
Accanto a Violante, Bengiamino Lorenzetti commentò con l’ennesimo sospiro, chiudendo gli occhi come per sforzarsi di mantenere la calma.
La bolognese scambiò un sorrisetto teso con lui, prima di cercare con lo sguardo il ragazzo biondo che aveva tenuto testa a Spallaci precedentemente.
Si aspettò si vederlo sogghignare, ma così non fu; fissava l’araldo che pendeva sopra alla sua testa, appeso alla parete innanzi a lui. Con il volto serio, concentrato, sembrava immerso in chissà quale gravoso pensiero.
Viola si chiese se fosse il caso di andare a parlargli, ma una ragazzina più giovane di lei si aggrappò con sincero entusiasmo al suo braccio, trascinando con sue una mora dall’aria ispanica.
«Io sono Chiara!», disse semplicemente, con tono solare ed entusiasta.
Non mostrava più di quindici anni, tutti racchiusi in una graziosa pettinatura ornata da fiori e un sorriso più innocente di quello di un infante. Aveva i capelli biondi che le coronavano morbidamente il viso tondo e un paio di occhi scuri, per niente specchio di cattive intenzioni, che brillavano alla fioca luce delle candele.
«Lei è Maria», continuò, indicando con un gesto della mano la sua compagna, la quale salutò con un vago cenno del capo. «Ho pensato che, visto che siamo così poche, dovremmo essere amiche!» Sorrideva con sincerità, saltellando da un piede all’altro a causa dell’emozione. Anche lei, era ben lontana dall’arroganza di Spallaci. «Ho sentito che vieni da Bologna. È vero che ci sono solo torri, da voi?», commentò poi, avvicinandosi appena. «Come ti chiami?» Solo in un secondo momento, si accorse del suo bombardare Violante di domande e allora parve spegnersi, assumendo un’espressione mortificata. «Oh, mi dispiace», mormorò, chinando il capo. «Non volevo essere invadente!»
Violante, però, non parve per nulla turbata dalle tante domande di Chiara. Scrollò piano il capo, muovendo le lunghe onde morbide dei capelli color ebano, mentre rispondeva
«Io sono Violante e sì, vengo da Bologna. Effettivamente è una città conosciuta a causa delle molte torri, ma posso assicurarti che, se hai i denari necessari, è la cucina, la vera protagonista.»
Anche la rossa al suo fianco si presentò. «Io sono Paola Gregorio, del Regno di Napoli», annunciò senza troppa presunzione. «Tu da dove vieni, Chiara?»
«Firenze», rispose la ragazzina, dondolando appena il capo. «Dalla bottega di Mastro Filippi.»
Si voltò verso la sua amica mora, aspettandosi da parte sua un qualche tentativo di entrare nella conversazione, ma non venne accontentata.
Maria rimase impassibile, ferma a guardare la sala, quasi le ragazze dinanzi a lei non meritassero di essere calcolate.
Chiara sospirò, parlando per lei senza troppi problemi.
«E lei viene da Modena, anche se è a Roma da qualche anno», disse, allegra. Si voltò verso Violante, sbattendo le palpebre. «Tu e lei siete vicine di casa, in un certo senso!» Si guardò un po’ intorno, scattando all’ultimo per andare a catturare l’ultima ragazza in fondo alla sala, prendendola per il polso e trascinandola dalle altre. «E questa è Laura, di Milano!», trillò, battendo le mani con fare estasiato. «Ci siamo presentate stamattina.» Fece una pausa, passando il suo sguardo scuro su tutte le ragazze, esaminandole una ad una senza insistenza, sempre con il sorriso sulle labbra. «Sono sicura che diventeremo grandi amiche!», commentò, infine, senza cattiveria.
Sembrava davvero convinta che, in un ambiente come quello, potesse nascere qualcosa di anche lontanamente simile a un vero sentimento di simpatia.
Violante non era certa che quella fosse una vera e propria competizione, ma nell’aria c’era l’odore della sfida e, per quanto le potesse far piacere avere un paio di amiche in più, decise di asserire, più che altro per tenere buona Chiara.
Si concesse anche un sorriso incoraggiante, prima di andare a recuperare la sacca con dentro quelle poche cose che si era porta da casa.
Aveva già avuto il piacere di notare le prime teste calde e di certo non aveva voglia di inimicarsi né loro né nessun altro.



   
 
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