Il destino di Qayin
Le porte di Roma le si aprirono dinanzi che il sole era già
alto nel cielo.
Lasciandosi scappare un sospiro carico di soddisfazione, Chiara Filippi
sgusciò tra la folla di mercanti che si accalcava dinanzi
all’entrata della città, superando goffamente un
paio di guardie cittadine per immettersi infine sulla strada che
seguiva il corso delle mura.
Dal cappuccio verde scuro che portava sul capo, soltanto un ricciolo
dorato sbucava, dondolandole sulla spalla a ogni suo passo.
Alternava la sua andatura con qualche giravolta mirata a scrutare i
palazzi che le si stagliavano intorno, mentre i suoi occhi scuri
passavano da un balcone all’altro, da un viso sporto dalla
finestra a uno nascosto dietro a una tenda.
Quella era la prima volta che metteva piede a Roma e già
poteva dirsene soddisfatta. Rimpiangeva il fatto di non aver voluto che
suo padre l’accompagnasse, eppure era felice di non avere
nessun altro con cui condividere la sua scoperta. Poteva tenere per
sé ogni sensazione, ogni profumo, ogni sguardo che la gente
le riservava.
Era la sua avventura.
Balzando sul muro di una vecchia casa, liberò i capelli
biondi dal cappuccio, rovesciando il capo all’indietro quando
raggiunse la sommità del tetto.
Di certo non sapeva orientarsi in una città immensa come
Roma, ma era alla ricerca di un luogo ben preciso, certamente visibile
da una prospettiva sufficientemente alta.
Il corso del Tevere, in fondo, non doveva poi essere tanto difficile da
individuare.
Raccolse la gonna tra le mani, saltando da un tetto all’altro
fino a che non individuò il ponte dei Quattro Capi tagliare
l’ansa del fiume.
Sorrise, allora, e accelerò il passo, saltando sulle tegole
con composta grazia. Senza dubbio, i tetti di Roma erano di fattura
assai più raffinata di quelli di Firenze. Il laterizio non
si sbriciolava sotto i suoi lievi saltelli e la pendenza era minore, il
che le dava maggior stabilità.
Arrivò in prossimità del ponte in un tempo
così breve che ella stessa se ne stupì.
Appollaiata sulla torretta del palazzo che vi si stagliava di fronte,
si concesse qualche istante per osservare la folla.
Non aveva amicizie a Roma, né persone che poteva esserle
utile visitare, ma agli artisti che suo padre frequentava piaceva
viaggiare, e non si poteva mai sapere il luogo da dove sarebbero
sbucati, né tantomeno il momento.
Fu per questo che non si stupì affatto quando, proprio sul
ponte, notò un cappello di raso rosso muoversi cauto tra la
folla, accompagnato dal mantello del medesimo colore che il suo padrone
portava sulla schiena. Capelli grigi lunghi fino alle spalle, qualche
strano gingillo fissato alla cinta. A Chiara non ci volle poi molto per
riconoscerlo.
Si tuffò tra la gente, atterrando ben dritta su uno dei
pilastri del ponte, e si buttò all’inseguimento
dell’uomo.
«Messer Leonardo!», chiamò, nonostante
la sua vocina così flebile fu presto mangiata da quella ben
più potente della folla. Scattò in avanti,
afferrando un lembo del mantello color sangue che aveva avvistato dalla
sua postazione. «Leonardo da Vinci!»
Lui si voltò, probabilmente stranito dal sentirsi chiamare
per nome da una voce così giovane, e rimase in silenzio a
guardare Chiara.
Lei scioccò la lingua, senza lasciare la sua presa.
«Sono Chiara!», esclamò, sorridendo.
«La figlia di Mastro Filippi!»
L’uomo le buttò addosso un’occhiata che
la esaminò da capo a piedi, dopodiché si sciolse
in un sorriso, chinandosi su di lei per abbracciarla.
«Chiara Filippi! Ma certo!», esclamò,
battendole entrambe le mani sulle spalle. «Quanto tempo
è passato! Guarda come ti sei fatta grande, sempre
più simile a tuo padre! Quanti anni hai?»
Chiara arrossì appena, inevitabilmente imbarazzata dal
paragone con Mastro Filippi. Succedeva sempre, quando la gente faceva
notare quanto si somigliassero.
«Ho compiuto quindici anni la scorsa estate»,
balbettò, cercando di non scomporsi.
Leonardo da Vinci annuì, riprendendo a camminare lungo il
ponte, diretto verso l’Isola Tiberina.
«Devo dedurre che Matteo è nei
paraggi?», le chiese, senza mascherare un certo tono allegro.
Chiara scosse il capo.
«No, sono sola», rispose, soddisfatta di
sé. «Messer Machiavelli ha mandato un messo alla
bottega a pregare mio padre di mandarmi a Roma al più
presto. Dice che è arrivato il momento anche per
me.»
«Ezio ti vuole tra le sue reclute?»
«Così pare.»
Camminarono in silenzio per qualche istante, raggiungendo
l’isola dietro un piccolo gruppo di persone che si
affrettavano ad attraversarla.
Chiara era così piena di pensieri che, per un istante, si
dimenticò persino di parlare.
«In realtà, speravo proprio di incontrarvi, Messer
Leonardo», disse dopo un po’, nascondendo di nuovo
il viso sotto il cappuccio. «Io e mio padre abbiamo messo a
punto un’arma che potrebbe tornare utile. Funziona, tuttavia
vi sono alcuni dettagli che non siamo stati in grado di
sistemare.»
L’uomo le lanciò un mezzo sorriso.
«Sempre più simile a Matteo, non
c’è che dire. Progettare un’arma non
è lavoro da recluta, Chiara, ma le darò
volentieri un’occhiata.»
La ragazzina sorrise, stringendosi nel mantello e allontanandosi da
Leonardo.
Quando lui la guardò con aria interrogativa, lei rispose
ampliando il suo sorriso.
«Non mi aspettano prima di domani!»,
esclamò, buttandosi tra la folla con una mano alzata in
segno di saluto. «Farò un giro nei
dintorni!»
Girò sui tacchi e non rimase ad ascoltare la risposta
dell’uomo, sgusciando a piccoli balzi tra la gente di Roma.
Aveva intenzione di godersi il più possibile quelle ore di
libertà che le rimanevano e un’esplorazione di
ciò che la circondava le sembrava il metodo più
adatto per sfruttare al meglio quell’occasione.
Si buttò quindi addosso al pilastro del secondo ponte che
lasciava l’isola e cominciò a camminare verso il
fiume, stavolta più lentamente, attratta dalla modesta folla
che si era radunata attorno a una lite sulla riva.
Un ragazzo basso, ben piazzato e armato di un bastone da passeggio
saltava addosso a una ragazza di gran lunga più minuta di
lui. La attaccava fendendo l’aria, mentre ella evitava con
sveltezza ogni fendente, scostandosi quel poco che le bastava per
mandare il colpo a vuoto.
La gente, intorno, incitava i due alla lotta.
Chiara rimase seduta lungo il parapetto del ponte, osservando la scena
da una discreta distanza.
Di certo non aveva intenzione di finirci in mezzo.
«Prendete quella puttana!», gridò
d’un tratto il ragazzo, puntando il bastone verso la sua
avversaria. «Mi ha rubato il borsello!»
La ragazza rise di rimando, scostandosi i capelli dietro le spalle, e
non lo degnò nemmeno di una risposta, balzando in alto e
sparendo sui tetti di Roma nello stesso tempo che Chiara
impiegò a battere le palpebre.
Il ragazzo con il bastone da passeggio rimase immobile per strada,
mostrando il viso irato di chi ha appena fatto una pessima figura
dinanzi a un gran numero di persone. Inveì un paio di volte,
battendo i piedi a terra, e andò a prendersela con uno degli
spettatori più vicini. Scelse un ragazzo molto
più alto di lui, meno massiccio ma decisamente meglio
proporzionato.
Aveva un viso pallido senza alcuna espressione a incresparlo. Gli occhi
color cobalto, spenti sulla punta degli stivali, non si alzarono
nemmeno quando vennero attaccati dal bastone.
Il ragazzo dal viso pallido si limitò a chinarsi in avanti,
mostrando alla folla la balestra che portava a tracolla sulla schiena.
Era un’arma di ottima fattura, intagliata in un legno scuro
cerato, e montava delle frecce più corte del normale dal
piumaggio bianco che il loro proprietario portava in una sacca legata
al fianco.
Rapita dalla scena, Chiara si strinse le ginocchia al petto, cercando
nella borsa il fazzoletto in cui, quella mattina, aveva raccolto
qualche fragola di bosco.
«L’hai vista, quella puttana di tua
sorella!», tuonò il ragazzo col bastone,
avvicinandosi minaccioso a quello dal viso pallido. «E non
hai fatto niente per prenderla! Schifosi milanesi! Non siete altro che
cani al servizio dei Borgia!»
Il ragazzo dal viso pallido si alzò e, sospirando
rumorosamente, si scrocchiò le dita.
«Spallaci, non scocciarmi», rispose, atono, senza
dare un accenno di cambiamento all’espressione vuota del suo
viso.
«Bengiamino Lorenzetti, torna tra i tuoi simili!»,
ribatté Spallaci, indicando con il capo un paio di polli che
in quel momento affollavano la strada.
Dalla folla radunata attorno al ponte si levò un lieve
sghignazzo.
Chiara sorrise, spingendosi in bocca la fragola che teneva appoggiata
alle labbra con un dito. Il sapore aspro le fece arricciare il naso, ma
non arrivò a distrarla dalla lite in atto.
Bengiamino Lorenzetti alzò le spalle, concedendosi di alzare
lo sguardo verso il cielo prima di rimettere nella faretra la freccia
che stringeva nella mano sinistra.
«Non ne vale la pena», commentò,
più rivolto a se stesso che ai presenti.
Si sistemò il laccio della balestra sul petto e prese a
camminare verso l’Isola Tiberina, saltando da un piede
all’altro per poi buttarsi tra la folla.
«Che fai, Lorenzetti! Fuggi da me?»,
ruggì Spallaci, mollando a terra il bastone con un gesto di
stizza. «Coniglio!»
La voce di Bengiamino arrivò pacata e distante.
«Fuggo dalla tua ignoranza, Spallaci!»
Tra le grida irate di Spallaci e gli sghignazzi dei presenti, Chiara
non poté fare a meno di soffocare una grossa risata con una
fragola.
Sistemandosi il vestito, sì alzò. Era
intenzionata a seguire Bengiamino Lorenzetti, ma si bloccò
quando il suo sguardo scuro captò qualcosa di bianco
nascosto tra la folla.
Lontano da lei, con la schiena appoggiata contro il muro di una casa,
l’anonima figura di Ezio Auditore osservava la scena.
L’unica cosa lasciata trapelare dalla sua tunica immacolata,
era un sorriso divertito.
Chiara l’aveva visto qualche volta, a Firenze, soprattutto in
compagnia di Leonardo e di suo padre. Sapeva chi fosse e sapeva cosa
aveva fatto per la Repubblica Fiorentina; lei e il suo fratellino erano
stati istruiti a dovere sul mondo degli Assassini ancor prima che
imparassero a leggere e a scrivere con una buona dose di racconti che
poi avevano finito per diventare leggende.
Si voltò quindi per salutarlo, convinta che lui
l’avrebbe in qualche modo riconosciuta.
Quando arrivò a raggiungere il punto in cui
l’aveva intravisto, però, lui era già
sparito senza lasciare traccia di sé.
Violante arrivò a vedere
in lontananza la Città Eterna nell’esatto momento
in cui il sole prese a scendere oltre le mura di cinta, lasciando
spazio ad una fresca sera di inizio autunno. Non era mai stata in un
posto simile nemmeno nei suoi sogni, tant’è che
rimase del tutto senza parole innanzi a ciò che
l’Urbe aveva da offrirle anche a quell’ora. I
negozi stavano chiudendo, i bambini rincasavano rincorrendosi e per le
vie vi erano volti smagriti dalla fame o rallegrati dal vino.
Sentì parlare in almeno sei lingue differenti nel tragitto
che la portò al Covo.
Smise addirittura di parlare con Bartolomeo d’Alviano, che
per tutto quel viaggio non aveva fatto altro che discutere con lei
riguardo l’Ordine e chi lo componeva, seppur in modo
abbastanza superficiale.
A sentir lui, Viola avrebbe avuto le risposte alle sue domande
direttamente dal grande Mentore.
Chi fosse quest’uomo le era sconosciuto, ma aveva acquisito
una certa fiducia nel condottiero che l’aveva accompagnata
durante tutto quel viaggio.
Discesero lungo il Tevere sino all’Isola Tiberina, di cui
Violante non aveva mai nemmeno sentito parlare, e lì si
separarono. Le fu detto solo di lasciare il cavallo alla stalla che
avrebbe trovato in fondo alla via.
Scorgere l’entrata al Covo richiese una buona dose di
pazienza. Vagò stordita per alcuni minuti prima di
incontrare un ragazzo che le disse di chiamarsi Ettore de Angelis e che
le fece strada, scalando la facciata del palazzo prima di lei.
Violante si sentì incredibilmente fuori forma e pesante
rispetto a quello che doveva essere senza ombra di dubbio un Assassino
fatto e finito. Una volta sul tetto lui la aiutò a
sollevarsi dal bordo, per poi aprirle la porta.
Le loro strade si separarono all’ingresso e Viola venne
spedita lungo un ampio corridoio che sbucava in un altro ambiente.
La stanza era immensa e illuminata dalla luce fioca di molte candele,
con drappeggi rossi che cadevano armoniosi dall’alto sino al
soffitto tra le pieghe vermiglie recanti il simbolo della congrega.
Violante lasciò che il suo sguardo vagasse per ogni angolo
di quell’enorme salone, ignorando per un istante la presenza
di almeno una dozzina di giovani come lei.
Di fattor comune sembravano portare sul viso la medesima espressione di
pura confusione ed eccitante aspettativa, seppur con qualche eccezione.
Violante si guardò alle spalle mentre, con un gesto
esitante, si abbassava il cappuccio. Si sedette accanto ad un ragazzo
biondo dall’aria annoiata, stringendo tra le mani la treccia
castana che aveva acconciato quella stessa mattina, poco prima della
partenza da Bologna. Le pareva ancora strano trovarsi lì, in
una Roma avvolta dal quieto torpore notturno, in mezzo a persone
dall’aspetto così interessante.
Si chiese dove fosse finito d’Alviano, prima di iniziare a
studiare quella che per lei era più una concorrenza che un
gruppo che, a sentire il veneziano, sarebbe dovuto divenire al pari di
una famiglia.
All’improvviso, dal centro della sala si levò un
sonoro brusio, mentre qualche ragazzo si accostava alle colonne come a
creare una specie di cerchio attorno a qualcuno intento a dare mostra
di sé.
Al centro di tutto c’era un giovane piuttosto massiccio,
sebbene non troppo alto, vestito di tutto punto e brandente un bastone
intagliato. Portava piuttosto solennemente la casacca recante lo stemma
della sua famiglia e non dava certo cenno di essere intimorito
dall’ambiente che lo circondava, né tantomeno
dalla situazione.
«Sono Augusto Spallaci, figlio di Filippo
Spallaci!», tuonò, puntando la sua arma contro il
naso di un ragazzo di poco più piccolo. «Impara il
mio nome, stupido verme. La mia famiglia prendeva a calci in culo quei
cani dei Borgia che la tua ancora spellava galline!»
Una lieve risata si alzò dai due suoi compari che lo
spalleggiavano. Anche loro come lui, non parevano affatto intenzionati
a una pacifica convivenza. Se ne stavano lì, dietro la
schiena di Augusto, a sghignazzare sugli altri presenti mentre lui se
la prendeva con il primo malcapitato che lo aveva urtato.
Viola si alzò in piedi, salendo l’ultimo gradino
per poter guardare il volto dell’idiota da cui avrebbe dovuto
guardarsi le spalle sino alla fine dell’addestramento.
Con sua grande sorpresa, il ragazzo seduto accanto a lei
levò una risata fragorosa e forzata, quasi come se il suo
intento fosse quello di farsi notare da tutti.
Ci riuscì, poiché l’intero gruppetto si
aprì, consentendo a Spallaci di guardare il volto
parzialmente nascosto dal cappuccio nero e argento a punta, circondato
da morbidi ricci dorati che sbucavano da sotto la stoffa.
«Ma sentitelo, come se ne va tronfio del suo casato. Se io
fossi un lacchè degli Orsini starei bene attento a non farlo
sapere in giro, visto che la loro propensione a cambiare continuamente
bandiera porta molti nemici.»
Per risposta, Spallaci tolse il bastone dal viso della sua prima
vittima, voltandosi bene a guardare il ragazzo che si era azzardato a
controbattere.
«Divertente», commentò, non mancando di
soffocare forzatamente una risata. «Tu saresti?»
Appariva estremamente intrattenuto dalla situazione, quasi quel luogo
così tetro lo rendesse solare. Faceva la voce grossa, ma in
realtà era ben lontano dall’apparire temibile o
particolarmente pericoloso.
Il biondo si alzò, abbassando al contempo il cappuccio della
casacca per poter farsi vedere per bene, quasi a voler evitare
così ogni fraintendimento.
«Cristiano Pagni, da Ferrara», disse, peccando a
sua volta di un certo orgoglio.
L’intera sala fu pervasa da un leggero brusio, mentre
Cristiano camminava lentamente verso Augusto, sovrastandolo in altezza.
«Tuo padre deve dei soldi al mio, così come mezza
Roma, grazie a Papa Borgia. Ma siete fortunati, Frate Savonarola ha
ridotto i Medici ad un gruppo di debosciati esiliati. Siete in debito
solo con la Romagna, così.»
Augusto Spallaci gli rise in faccia. Fece roteare il bastone sopra la
sua testa un paio di volte, dopodiché lo lanciò
in aria, riprendendolo prontamente per puntarglielo contro.
«Sei qui a regolare i conti in banca, fratello?»,
sibilò, mostrando una fila di denti bianchissimi.
«Non sia mai che io mi tiri indietro.» Fece una
pausa, guardandosi attorno, probabilmente alla ricerca di uno spazio
sufficientemente largo dove poter passare all’attacco.
«Vediamo chi è il più bravo,
Pagni.»
Per risposta, Cristiano alzò lentamente un sopracciglio, poi
si voltò verso Violante e fece per rivolgersi a lei.
«Non sono così maleducato da battermi laddove non
è casa mia, Madonna. Vi sono uomini, o mezzi uomini, che
non hanno il minimo senso della decenza.»
Un coro di risatine si levò dal gruppetto, mentre Viola
osservava silenziosa la scena.
Era sempre stata molto meditativa e non aveva mai peccato di
impulsività, salvandosi sempre la vita. Non avrebbe commesso
l’errore di schierarsi apertamente contro nessuno; non voleva
nemici.
Cristiano non parve comunque notarlo, visto che tornò a
rivolgersi ad Augusto con tono vago.
«Non vorrei che vi sporcaste questa bella blusa. Ditemi,
esistono anche i capi maschili, di questa meravigliosa
stoffa?»
In parte zittito dall’affermazione di Cristiano, Augusto
parve perdere una punta di quel suo fare tanto sprezzante. La
recuperò subito, però, gonfiando il petto fin
quasi a scoppiare e tendendo pericolosamente la stoffa di quella sua
camicia così raffinata.
«Caro Pagni, l’abito non fa di certo il
monaco», rispose, dondolando appena il capo e alzando il suo
bastone sui capelli biondi di Cristiano. «Se così
fosse, che si faccia il nome del poco astuto che ha assoldato una
ragazzina dai boccoli d’oro nella sua gilda di
assassini!»
Non si accorse di aver perso il bastone sino a che non si
voltò e vide Cristiano avvicinarsi ad uno degli ampi
drappeggi con tra le mani, l’oggetto di sua
proprietà. Non lo aveva sentito rubarglielo e quasi non
l’aveva visto superarlo per proseguire nella direzione
opposta.
Il biondo si accostò alla parete, appoggiandosi alla spalla
quel ninnolo da riccastro e sorridendo sornione.
«Bé, la ragazzina con i boccoli ti ha dimostrato
che, tra tutti noi, sei tu la scelta sbagliata, Serpe.»
Augusto digrignò appena i denti, stringendo nei pugni le sue
grosse mani, ma tuttavia non si scompose. Mostrò
l’ennesimo sorriso, sbuffando e alzando un poco le spalle,
dopodiché scoccò a Cristiano
un’occhiata divertita.
«Di certo sei veloce», considerò,
mostrandosi sempre allegro sebbene fosse palese provasse sentimenti del
tutto differenti. «Tuttavia non basta saper scappare,
là fuori». Si piegò un poco sulle
ginocchia, leccandosi le labbra. «Aspetta di arrivare a un
vero combattimento, e vediamo chi la spunta.»
Parve abbandonare il suo tanto amato bastone, e si allontanò
dal centro della sala a passo spedito, seguito dai suoi due compagni,
per buttarsi in un angolo con la schiena contro il muro e le braccia
conserte.
La scena si sarebbe di certo potuta coronare di risa di scherno e
battute sull’onore di Spallaci, ma il suono di un applauso
ben scandito rimbombò da una parete all’altra,
causando un forte eco.
Tutti si voltarono verso la fonte di tale rumore, notando che due
figure si erano unite a loro senza farsi notare.
Violante si ritrovò accanto un uomo sulla quarantina,
bardato d’un armatura bianca e rossa di mirabile fattura.
Dietro di lui, di due o tre passi al massimo, vi era invece un uomo
dall’aria più anziana, anche se non di molto.
«Interessante scena, davvero», proruppe il primo
uomo in tono gioviale, prima di aggiungere, sarcastico:
«Speravo davvero che socializzaste così
tanto.»
«Chiedo perdono per il mio comportamento, Mentore»,
disse Cristiano, staccandosi dal muro e lanciando il bastone in
direzione di Augusto. «Ma ogni tanto va insegnata
l’educazione.»
«Sei modesto quanto tuo padre, Cristiano», rispose
l’uomo, incrociando le braccia sul petto con aria affabile.
«Credi di poter impartire tu le lezioni? Audace.»
Il biondo chinò il capo, totalmente sottomesso.
«Vi chiedo perdono nuovamente, Mentore. Non l’ho
mai pensato, invero.»
Spallaci rimase in silenzio, senza osare nemmeno muovere un muscolo per
chinarsi a raccogliere il suo bastone finito a terra con un tonfo
sordo. Tutta la sua spavalderia e la sua solarità erano
improvvisamente sparite così come il suo sorriso sornione.
Restò lì fermo, con le spalle contro il muro e
gli occhi sgranati sulla figura del Mentore, quasi non avesse visto
nulla di più spaventoso e possente in vita sua.
L’intera sala si chiuse in un silenzio ammirato, mentre Ezio
Auditore si mostrava per la prima volta alle sue nuove reclute.
Si schiarì la voce, passando gli occhi da un volto
all’altro per memorizzare le fattezze dei suoi allievi.
«La liberazione di Roma e del mondo dalla minaccia dei
templari ha inizio e voi ne sarete gli artefici. Quanto meno, quelli
che fra voi saranno in grado di distinguersi in abilità e
scaltrezza. Al termine di un periodo di addestramento verranno scelti
cinque di voi, che diventeranno i miei occhi e le mie orecchie per
tutta la Penisola.» Fece una pausa, soffermandosi un istante
prima su Violante e poi su un ragazzo dall’aria pacata che si
era a sua volta avvicinato a braccia conserte. Se la ragazza mostrava
sul viso la confusione tipica di chi non sa chi si trova
d’innanzi, il giovane sembrava invece ammirato e al tempo
stesso determinato a dimostrare qualcosa al Mentore. «Voi
siete il futuro dell’Ordine, non voglio pentirmi di avervi
selezionati. Dovete dare il meglio di voi di giorno in
giorno.»
Il ragazzo dall’aria pacata, che qualche sussurro nella sala
riconobbe essere tale Bengiamino Lorenzetti, asserì con un
grande sospiro, chinando poi il viso per affondarlo nella sciarpa che
gli circondava il collo.
Durante tutta la scena che aveva visto protagonisti Augusto e
Cristiano, non aveva proferito parola, restandosene in un angolo a
sbucciare la mela che poi si era affrettato a ingurgitare con
l’arrivo di Ezio Auditore.
Dinanzi a lui non aprì bocca, restando in quel silenzio che
lo aveva avvolto sino a quel momento e limitandosi a
un’occhiata tra l’ammirazione e la circospezione.
Di certo non appariva spavaldo come i due giovani che prima avevano
dato spettacolo, ma indubbiamente possedeva un’aura tutta
sua, che non lo faceva passare per uno sprovveduto.
Rimase lì in piedi per tutto il tempo, senza staccare lo
sguardo dall’Assassino, quasi in quella stanza non vi fossero
che loro due.
Prese la parola l’altro uomo, quello dal volto più
scarno e i capelli tenuti cortissimi sul capo. Portò le mani
dietro alla schiena, mostrando in tutta la sua bellezza ed eleganza la
blusa che indossava.
«Io sono Niccolò Machiavelli e, nella vostra
permanenza all’Isola Tiberina, dovrete far rapporto a me di
ogni vostra decisione o spostamento. Vi seguirò insieme ad
Ezio e sappiate che sarò impietoso verso di voi. Non tutti
hanno la stoffa dell’Assassino e l’Ordine non ha
bisogno di accollarsi incompetenti. Ora potete ritirarvi nei dormitori.
Lì vi verrà portato qualcosa da mangiare prima di
coricarvi.»
Violante notò solo in quel momento che su venti, venticinque
giovani, solamente cinque erano ragazze. Scambiò uno sguardo
con quella più vicino a lei, una giovane alta dalla chioma
ramata, prima di riportare la sua attenzione su Machiavelli.
A quanto pare non aveva terminato.
«Sappiate che questo non è un gioco; non
garantiremo per la vostra incolumità.»
E detto l’uomo ciò si ritirò, passando
per una piccola porta alle sue spalle.
Ezio Auditore sorrise appena, abbassando il viso e celandolo
così sotto al cappuccio, prima di seguirlo senza aggiungere
nulla.
Per un istante, la sala rimase avvolta in uno strano silenzio.
C’era chi si guardava attorno attonito, chi era restato
immobile a fissare il punto esatto in cui poco prima parlavano gli
Assassini, c’era persino chi vagava per l’ambiente
con gli occhi, alla ricerca di un contatto in grado di rassicurarlo.
Era una situazione sospesa, fragile, e toccò ad Augusto
Spallaci romperla definitivamente, brandendo nuovamente il bastone e
smantellando quel silenzio con un sonoro sciocco di lingua.
«Se lo scordano, di farmi dormire in questa
topaia!», esclamò, partendo verso
l’uscita con il suo piccolo gruppo al seguito.
«Preferisco stare in strada, che condividere la stanza con
questa feccia!»
Passò accanto ai ragazzi addossati al muro e li
urtò uno a uno, guardandoli con aria minacciosa mentre si
allontanava.
Accanto a Violante, Bengiamino Lorenzetti commentò con
l’ennesimo sospiro, chiudendo gli occhi come per sforzarsi di
mantenere la calma.
La bolognese scambiò un sorrisetto teso con lui, prima di
cercare con lo sguardo il ragazzo biondo che aveva tenuto testa a
Spallaci precedentemente.
Si aspettò si vederlo sogghignare, ma così non
fu; fissava l’araldo che pendeva sopra alla sua testa, appeso
alla parete innanzi a lui. Con il volto serio, concentrato, sembrava
immerso in chissà quale gravoso pensiero.
Viola si chiese se fosse il caso di andare a parlargli, ma una
ragazzina più giovane di lei si aggrappò con
sincero entusiasmo al suo braccio, trascinando con sue una mora
dall’aria ispanica.
«Io sono Chiara!», disse semplicemente, con tono
solare ed entusiasta.
Non mostrava più di quindici anni, tutti racchiusi in una
graziosa pettinatura ornata da fiori e un sorriso più
innocente di quello di un infante. Aveva i capelli biondi che le
coronavano morbidamente il viso tondo e un paio di occhi scuri, per
niente specchio di cattive intenzioni, che brillavano alla fioca luce
delle candele.
«Lei è Maria», continuò,
indicando con un gesto della mano la sua compagna, la quale
salutò con un vago cenno del capo. «Ho pensato
che, visto che siamo così poche, dovremmo essere
amiche!» Sorrideva con sincerità, saltellando da
un piede all’altro a causa dell’emozione. Anche
lei, era ben lontana dall’arroganza di Spallaci.
«Ho sentito che vieni da Bologna. È vero che ci
sono solo torri, da voi?», commentò poi,
avvicinandosi appena. «Come ti chiami?» Solo in un
secondo momento, si accorse del suo bombardare Violante di domande e
allora parve spegnersi, assumendo un’espressione mortificata.
«Oh, mi dispiace», mormorò, chinando il
capo. «Non volevo essere invadente!»
Violante, però, non parve per nulla turbata dalle tante
domande di Chiara. Scrollò piano il capo, muovendo le lunghe
onde morbide dei capelli color ebano, mentre rispondeva
«Io sono Violante e sì, vengo da Bologna.
Effettivamente è una città conosciuta a causa
delle molte torri, ma posso assicurarti che, se hai i denari necessari,
è la cucina, la vera protagonista.»
Anche la rossa al suo fianco si presentò. «Io sono
Paola Gregorio, del Regno di Napoli», annunciò
senza troppa presunzione. «Tu da dove vieni,
Chiara?»
«Firenze», rispose la ragazzina, dondolando appena
il capo. «Dalla bottega di Mastro Filippi.»
Si voltò verso la sua amica mora, aspettandosi da parte sua
un qualche tentativo di entrare nella conversazione, ma non venne
accontentata.
Maria rimase impassibile, ferma a guardare la sala, quasi le ragazze
dinanzi a lei non meritassero di essere calcolate.
Chiara sospirò, parlando per lei senza troppi problemi.
«E lei viene da Modena, anche se è a Roma da
qualche anno», disse, allegra. Si voltò verso
Violante, sbattendo le palpebre. «Tu e lei siete vicine di
casa, in un certo senso!» Si guardò un
po’ intorno, scattando all’ultimo per andare a
catturare l’ultima ragazza in fondo alla sala, prendendola
per il polso e trascinandola dalle altre. «E questa
è Laura, di Milano!», trillò, battendo
le mani con fare estasiato. «Ci siamo presentate
stamattina.» Fece una pausa, passando il suo sguardo scuro su
tutte le ragazze, esaminandole una ad una senza insistenza, sempre con
il sorriso sulle labbra. «Sono sicura che diventeremo grandi
amiche!», commentò, infine, senza cattiveria.
Sembrava davvero convinta che, in un ambiente come quello, potesse
nascere qualcosa di anche lontanamente simile a un vero sentimento di
simpatia.
Violante non era certa che quella fosse una vera e propria
competizione, ma nell’aria c’era l’odore
della sfida e, per quanto le potesse far piacere avere un paio di
amiche in più, decise di asserire, più che altro
per tenere buona Chiara.
Si concesse anche un sorriso incoraggiante, prima di andare a
recuperare la sacca con dentro quelle poche cose che si era porta da
casa.
Aveva già avuto il piacere di notare le prime teste calde e
di certo non aveva voglia di inimicarsi né loro
né nessun altro.