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Autore: VandasGirls    11/11/2013    4 recensioni
«Ti ho tenuto nascoste molte cose, bambina mia», disse addolorata Lucia Marcelli, portandosi una mano al viso. «Ma ora è giusto che tu abbia una vita migliore. Questa è l’eredità di tuo padre.»
«Io sto bene qui.»
Violante guardò la chiave che sua madre le stava porgendo, senza far nulla per afferrarla. Tutto stava avvenendo troppo rapidamente, senza preavviso alcuno; si sentiva spaventata, stranita. Non voleva saperne nulla.
«Non andrò con Messer d’Alviano da nessuna parte.»

Cinque Assassini figli di Caino, cinque destini mescolati tra loro per raggiungere lo stesso obiettivo.
Genere: Azione, Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bartolomeo d'Alviano, Ezio Auditore, Niccolò Machiavelli, Nuovo personaggio, Volpe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sssssalve.
Nuovo progetto, nuovo fandom, nuovo tutto.

Che dire?

Innanzitutto che dietro allo schermo siamo in due. A-ah! Non ve lo aspettavate, eh?

Invece sì. Chemical Lady e Lechatvert, due balde studentesse che, non avendo niente da fare all'università (esami? Quando mai!) scrivono assieme nel dopocena notturno.
Questo corposo esperimento è il frutto di un lungo pomeriggio al sapore di muffin e ciambelle rosa passato al tavolo del nostro coffee bar preferito.

Ci è piaciuto abbastanza com'è venuto fuori e speriamo che l'evolversi della trama possa dare maggiore spazio a ogni nostra idea.
Per ora, lasciamo tutto nelle vostre mani! ♥

Un abbraccio,
    Chemical Lady & Lechatvert
    In arte: VandasGirls






Il destino di Qayin

Prologo







Un singolo istante può cambiare il corso di una vita intera.
Aveva appena finito di appuntare quella frase sul bordo di una pagina stropicciata, quando la carrozza su cui sonnecchiava arrestò improvvisamente la sua corsa.
Stropicciando gli occhi, Marcello Donà si alzò dal sedile su cui riposava e lasciò il suo posto, affacciandosi alla strada sterrata che lo circondava.
L’odore salmastre del mare gli riempì le narici e, per un secondo, quasi credette di trovarsi ancora a casa.
Da Venezia a Roma la strada era lunga, lo sapeva, eppure non gli sembrava che, una volta lasciata la laguna, si dovesse incontrare nuovamente la costa.
Invece il mare era lì da qualche parte, con il suo odore pungente e la sua umidità.
Marcello sospirò, abbandonando definitivamente la carrozza per andare a chiedere spiegazioni agli unici due mercenari che suo padre era stato disposto ad assumere per il viaggio.
Non con sua enorme sorpresa, quando raggiunse il sedile del cocchiere, lo scoprì completamente deserto. La sua magra scorta, così come il ridicolo stipendio che aveva concordato, erano spariti per sempre.
Inveendo, Marcello si ripromise di contrattare meno con i mercenari, in futuro, e soprattutto di spezzare il pagamento in una prima, minima parte, e un’ultima a lavoro compiuto.
Guardò i cavalli ancora imbrigliati alla carrozza.
Se non altro, nella fuga la sua scorta aveva avuto il buon cuore di lasciargli un mezzo per raggiungere un qualunque centro civilizzato senza che dovesse per forza distruggersi gli stivali a forza di camminare.
Sbuffò, cominciando a trafficare con i nodi delle briglie.
Non era decisamente un bravo cavallerizzo – in effetti vi era un motivo ben preciso se per compiere una strada come quella che separava Venezia da Roma aveva rifiutato di cavalcare egli stesso – ma poteva riuscire, in qualche modo, ad arrivare in città sano e salvo. Dopodiché, contava su qualcuno in grado di riconoscere il buon nome dei Donà, modesta famiglia di mercanti di spezie ed erbe officinali in tutto l’Adriatico.
Schioccò la lingua un paio di volte, facendo lavorare le mani sugli ultimi nodi, poi alzò le spalle con un sorriso soddisfatto e girò sui tacchi per prendere la sua borsa all’interno della carrozza e partire alla volta della salvezza.
Non arrivò a toccare i suoi averi neanche con la punta delle dita, visto che si trovò faccia a faccia con la lama sguainata di una spada.
Un uomo, circondato da almeno dieci soldati, gliela puntava alla gola, soffocando appena una risatina divertita.
«Il figlio più giovane di quel maiale di Donà, immagino», esordì, sputando a terra.
Marcello spostò il piede, controllando che la saliva dello sconosciuto non gli fosse finita sullo stivale.
«Immaginate bene», rispose, scrollando le spalle. «Con chi ho il piacere di conversare?»
«Federico Cimaglia, Conte di Ladispoli. Avrete di certo sentito il mio nome tra le mura della vostra insulsa famiglia.»
«In realtà, no, ma vedo che sapete molte cose veritiere circa mio padre e la mia famiglia, quindi vi credo sulla parola.»
Mostrò al conte un ampio sorriso, scostandosi quel poco che lo spazio ridotto gli permetteva per non avere la lama puntata alla giugulare.
«Qual buon vento, quindi?», chiese, scuotendo appena i suoi riccioli castani.
L’altro grugnì, senza scomporsi troppo dinanzi all’atteggiamento pacifico del ragazzo. Che Marcello Donà fosse un ottimo arciere lo sapevano in molti, a Venezia. Che la sua passione per le frecce si limitava a centrare un pagliericcio nel cortile di casa, bé, era un particolare che di certo la sua famiglia non usava per vantarsi.
«Vostro padre ha con noi un debito più grande della sua pancia!», gli disse, spavaldo, scoppiando in una grassa risata. «Voi sarete il pegno che lo costringerà a risarcirci.»
Marcello si lasciò scappare un sospiro mortificato.
«Allora temo che marciremo assieme, Conte», rispose. «Persino i bottoni del panciotto di mio padre, occupano un posto migliore di me nella sua scala di importanza. Dovevate provare con mio fratello Andrea. Lui sì, che si è attirato le grazie di tutta la famiglia!»
Ed era vero.
Suo padre aveva provato così tanto a lungo a sbarazzarsi di lui che ormai stava andando a farsi prete a Roma, ben lontano dall’attività di famiglia. Non era un cattivo mercante, in fondo, ma aveva interessi ben diversi dal duro lavoro e aveva sempre finito col fruttare ai Donà la metà dei suoi fratelli.
Sospirando, guardò il conte, posandogli una mano sulla spalla.
«Mi dispiace per il vostro buco nell’acqua», gli disse, chinando il capo. «Ma sono sicuro che dietro un buon compenso nessuno a Roma verrà a sapere di questo spiacevole incontro. Credo di aver sentito che rapimento e ricatto siano puniti in maniera esemplare, laggiù.»
Sorrise appena, osservando il suo aggressore attraverso i suoi occhi color miele.
Gli bastò uno sguardo per capire che non era il caso di intrattenersi in ulteriori discussioni.
Arrivò a malapena ad accucciarsi che la lama del conte si conficcò nella carrozza.
«Cane!», gli urlò lui, liberando l’arma dal legno dove fino a un istante prima c’era la sua faccia. «Tu, tuo padre e la tua famiglia!»
Rapido, Marcello si buttò a terra su una spalla, rotolando sotto la carrozza fino all’altro lato della strada. Si rimise in piedi e abbandonò ogni idea di tornare a riprendersi la sua borsa, lanciandosi nella corsa più veloce che avesse mai fatto attraverso il rado bosco che si apriva sulla pianura.
Non aveva la minima idea di dove stesse andando, né di dove si trovasse, ma di certo non aveva voglia di fermarsi ad indagare.
Così si obbligò ad accelerare ulteriormente il passo, mentre alle sue spalle udiva l’inveire del conte e le voci dei suoi uomini farsi più vicine.
Scavalcò massi, si tagliò il viso con i rami appuntiti degli alberi più bassi, inciampò, un paio di volte, su delle radici sporgenti coperte dalle foglie autunnali.
Quando realizzò che i suoi inseguitori gli erano praticamente addosso, si buttò addosso al tronco di un grosso pino, cercando di guadagnare in altezza appendendosi ai rami.
Tra i nomi delle tante cose che non era, spiccava anche quello dell’ottimo arrampicatore e difatti gli ci volle più di un tentativo per trovare il ramo giusto che non si spezzasse sotto il suo peso.
Si arrampicò a memoria, seguendo i movimenti che aveva visto fare a suo fratello nel cortile di casa e in qualche modo, tra un ramo in faccia e una manciata di aghi secchi negli occhi, arrivò fino quasi in cima.
Da quel momento, si impose che la regola sarebbe stata “non guardare di sotto”.
Anche se sentiva i suoi inseguitore fare il suo nome, anche se la curiosità di scoprire a quale altezza si trovava era enorme, non voleva cadere nell’errore di scoprirsi terrorizzato dall’altezza.
Si concentrò quindi sul paesaggio che lo circondava.
Oltre le punte degli alberi, si estendeva la pianura, chiara e coperte dalle nubi basse del mattino. Dietro di lui, i gabbiani cantavano alla vista del mare. Per quanto si sforzasse di aguzzare la vista, però, non riusciva a individuare neanche una misera casupola.
Si drizzò sulle spalle, cercando di passare da una punta all’altra attraverso i rami più robusti.
Nessuno gli aveva insegnato che, in prossimità della cima, la robustezza è l’ultima delle caratteristiche attribuibili ai rami.
Non appena il suo piede toccò il punto d’appoggio, un gemito sommesso uscì dalla bocca di Marcello, e l’unica cosa che venne prima della caduta fu il sonoro spezzarsi del legno.
In un istante, si ritrovò il vuoto sotto i piedi e piombò verso terra, impigliandosi in ogni singola frasca.
Quando la sua schiena arrivò a scontrarsi con il terreno umido del sottobosco, aveva foglie secche persino nei pantaloni e il sapore del sangue nella sua bocca era così forte che per un istante credette di essersi trafitto con un ramo.
Soltanto quando il Conte di Ladispoli lo afferrò per la camicia, alzandolo da terra per potergli sputacchiare in faccia le sue offese da osteria, Marcello si rese conto con sollievo di essersi soltanto tagliato il labbro.
«I cani non volano!», gli gridò il conte, agitandolo avanti e indietro nella ferrea stretta della sua mano.
Marcello si concesse la scortesia di non rispondere. Gli faceva un gran male la testa e tutto aveva preso a girare vorticosamente intorno al suo braccio.
Quando il conte si decise a caricarselo in spalla, aveva già perso conoscenza.










«Fermate quella cagna!»
Le ombre delle torri che si innalzavano verso il cielo sopra di lei non erano altro che un ulteriore riparo agli occhi del fornaio che la stava cercando, brandendo in mano un vecchio coltellaccio.
Riuscì a sgusciare tra le persone che si accalcavano lungo la via principale, evitando di urtarle al meglio delle sue possibilità, arrivando in fine al quartiere povero di Bologna, delimitato dai torrioni principali della Signoria.
Si schiacciò con la schiena contro il basamento della Garisenda, stringendo al petto una pagnotta avvolta da uno straccio color sabbia quasi fosse il suo bambino.
«Quella maledetta ladra! Fermatela e consentitemi di tagliarle io stesso le mani!»
Oh, l’avrebbe di certo fatto, se mai l’avesse catturata.
Sfortuna voleva che Violante degli Antoni fosse ben nota nella cittadina per le ottime doti atletiche, oltre che per le mani leggere come piume, in grado di levare il borsello anche al più temuto capitano di ventura.
Attese in quel nascondiglio di fortuna per qualche minuto, osservando sospettosa e con le orecchie ben tese i passanti. Poi, sempre stringendo a sé il pane, tirò un sospiro di sollievo e si avviò verso casa.
Sempre che una vecchia mansarda polverosa potesse davvero chiamarsi casa.
Grazie a Madonna Pandora e a suo marito Ignazio poteva, quanto meno, dormire in un luogo asciutto e caldo, grazie al camino che dal piano di sotto riusciva a scaldare ogni ambiente.
Nonostante questo, però, Violante continuava a sentire freddo dentro al petto. La sua vita non era mai stata semplice. Era la figlia bastarda di un uomo dalla figura tutt’altro che esemplare, di cui sapeva poco o nulla. Aveva sempre vissuto sola con sua madre, passando da un alloggio di fortuna all’altro e rubando quel poco di pane che riusciva a sgraffignare sotto al naso del fornaio, quando i pochi ducati che lei e sua madre guadagnavano conciando la lana non bastavano per aspettare una nuova commissione. Aveva sempre vissuto ai margini della società, crescendo da sola con poche passioni.
Quando suo padre era morto, le aveva lasciato un baule chiuso a chiave e la promessa che un giorno avrebbe provveduto a lei.
Perché si sa, i morti hanno parecchio potere sul destino dei vivi … ’
Tutto quel sarcasmo non era poi così immotivato; era sopravvissuta diciannove anni grazie ad esso e non mancava giorno che non ringraziasse l’Iddio di averla fatta nascere libera, seppur senza null’altro che la sua tenacia.
Arrivata sotto alla palazzina pendente e dall’intonacatura scrostata nella quale viveva, si accorse di qualcosa di sospetto. Un paio di bei cavalli, bardati d’azzurro e argento, facevano sfoggio di loro insieme ad un gruppetto di almeno sei mercenari recanti i colori della Serenissima.
Attenta a non mostrarsi a loro, Violante strisciò contro la parete fino a un’entrata secondaria, posta sul fianco del palazzo. Quando entrò, lasciò un piccolo barile vuoto tra il pesante portone e il muro, al fine di lasciarsi una pratica via di fuga.
Non poteva sapere cosa avrebbe trovato lì dentro.
Con sua grande sorpresa, vide che nessun signore veneziano entra andato a far visita a Madonna Porciani, mentre un chiacchiericcio diffuso sembrava irradiarsi dalla mansarda misera nella quale doveva trovarsi sua madre.
Avanzò su per la scalinata di legno con passo leggero, riuscendo a non far scricchiolare le assi vecchie che la componevano. Si affacciò in via del tutto sperimentale, notando subito sua madre, seduta alla loro vecchia tavolaccia bucherellata insieme a un uomo e a una donna.
Mentre ella era piccola e dalle forme prosperose, egli era alto e ben piazzato, con due grandi spalle larghe e uno spadone da duello alla vita. Viola si premurò di avere ben assicurato il suo pugnale sotto alla blusa, prima di avanzare con passo volutamente più pesante, attirando così le attenzioni di tutti i presenti su di sé.
«Oh, Violante!»
Sua madre scattò in piedi, avanzando con un gran sorriso verso di lei. Pareva rilassata e a suo agio in compagnia di quelli che, per la giovane, erano due volti sconosciuti.
Anche l’uomo si alzò, ruggendo una sorta di risata che gli partì fragorosa dal petto.
«Così questa è la figlia di Enrico? Signore, sono passati solo tre inverni dall’ultima volta che t’ho vista! Eri poco più alta di un canestro per mele!»
«Madonna Marcelli, avete cresciuto una splendida fanciulla.»
All’intromissione della donna, Violante decise con garbo di domandare spiegazioni.
«Madre, chi sono costoro?», sussurrò, ma venne comunque captata dallo sconosciuto.
«Sapevo che non mi avresti riconosciuto: io sono Bartolomeo d’Alviano e questa è mia moglie, Pantasilea.» Fece una pausa, appoggiando una mano sulla spalla della moglie e guardandola con una certa dose d’orgoglio, prima di rivolgersi nuovamente a Violante. «Ero un caro amico di tuo padre.»
A quelle parole, tutta l’attenzione di Viola si concentrò sul condottiero veneziano.
«Mio padre?», chiese, quasi trepidante, domandandosi se quello sarebbe stato il giorno in cui sarebbe finalmente riuscita a scoprire qualcosa in più su suo padre. Non ricordava molto di lui, era morto che era solo una bambina, ma quelle poche memorie che aveva le custodiva gelosamente in un cassetto della sua memoria. Al collo portava ancora un piccolo pendente con un ciondolo in pietra d’agata, unico regalo che le aveva portato da Roma molti anni prima.
Che essa ti protegga dai mali, sia fisici che dell’animo’.
Sapeva di essergli stata cara e, in un certo senso, lui lo era stato a lei anche se non lo conosceva.
Bartolomeo asserì con un singolo cenno del capo.
«Tuo padre, Enrico degli Antoni. Sono qui in sua vece.» Si godette l’espressione confusa della giovane «Molti anni fa, ho promesso a tuo padre di venire a prenderti con me, quando saresti stata grande abbastanza da essere pronta. Tua madre, in una lettera, mi ha detto che sei molto brava a scappare da un tetto all’altro e che sei maestra nell’arte di renderti invisibile, se lo desideri.»
«Mia madre mi idolatra troppo», rispose la ragazza, prima di voltarsi verso Madonna Marcelli. «Cosa significa che quest’uomo è qui per prendermi con sé?»
La donna indugiò, prima di andare verso la vetrina di sambuco e aprirne due scomparti. Da essi, prese un baule di medie dimensioni che, un po’ a fatica, appoggiò sul tavolo. Su di esso vi era uno strano simbolo, inciso a fuoco. Violante l’aveva già visto su uno degli avambracci di cuoio che suo padre indossava sempre.
«Ti ho tenuto nascoste molte cose, bambina mia», disse addolorata Lucia Marcelli, portandosi una mano al viso. «Ma ora è giusto che tu abbia una vita migliore. Questa è l’eredità di tuo padre.»
«Io sto bene qui.»
Violante guardò la chiave che sua madre le stava porgendo, senza far nulla per afferrarla. Tutto stava avvenendo troppo rapidamente, senza preavviso alcuno; si sentiva spaventata, stranita. Non voleva saperne nulla.
«Non andrò con Messer d’Alviano da nessuna parte.»
«Io credo che dovresti ascoltare tua madre», le fece presente quest’ultimo, prendendo la chiave e sorridendo a monna Lucia. «Fallo per tuo padre.»
«Mio padre non ha mai fatto nulla per me, perché io dovrei fare qualcosa per lui?»
Bartolomeo scoppiò a ridere, girando la chiave nella toppa.
«Sei proprio uguale a lui! Fossi in te darei un’occhiata a questo baule; a dopo le domande.»
Viola si avvicinò cauta, lanciando una lunga occhiata sospettosa al veneziano, prima di aprire con lentezza il baule. Al suo interno vi trovò due spade corte, di ottima fattura, con l’elsa in cuoio e argento e la lama scintillante. Le passò a sua madre che le appoggiò con timore riverenziale sul ripiano della tavola, prima di sporgersi a guardare con gli occhi umidi ciò che Violante reggeva tra le mani: una blusa grande, maschile, di un bianco tendente all’argento e bordata di rosso; un ampio cappuccio faceva bella mostra di sé e lei lo accarezzò dopo averla appoggiata al tavolo.
«Questo era di mio padre …», sussurrò, piano, tenendo gli occhi sgranati su quell’armatura strana, unica.
«Con ago e filo potrebbe essere tua», tentò monna Lucia, sorridendo incoraggiante.
«Ancora non capisco …», sussurrò la giovane ragazza, con una confusione in capo così forte da farle venire il mal di testa.
«Siediti e ti sarà spiegato tutto», la invitò Bartolomeo, prendendo posto a sua volta.
Violante annuì piano, guardando sua madre che correva verso un piccolo angolo della stanza per versarle una tisana. Fu in quel momento che le cadde l’occhio sul fondo del baule, che credeva vuoto.
Così non era, però.
Abbandonato a se stesso, quasi del tutto nascosto in un angolo, vi era un bigliettino. Lo aveva scritto suo padre, avrebbe riconosciuto ovunque quella scrittura che aveva letto e riletto sulle poche lettera che Enrico le aveva spedito.
Quelle parole, incise con una piuma su una pergamena ingiallita dagli anni, le parvero acquisire senso con lentezza esasperante.
Non lo sapeva ancora, ma esse erano vere quando quelle di un testo sacro.
Un singolo istante può cambiare il corso di una vita intera’.



   
 
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