Il destino di Qayin
La sveglia
arrivò presto, quella mattina, molto prima di qualunque
canto del gallo a cui Machiavelli potesse aver mai fatto cenno.
Di fatti, quando Ezio Auditore li mandò a chiamare, il sole
era ben lontano dal sorgere e l’aria fredda della notte si
insinuava nella stanza con ben poca discrezione, passando attraverso i
vecchi infissi di legno.
Augusto Spallaci arricciò il naso, crogiolandosi un poco nel
sonno pesante in cui era caduto non appena le candele erano state
smorzate. Durante la notte, si era svegliato un paio di volte a causa
di qualche deficiente che russava come un orso in letargo. Deficiente
che era stato naturalmente colpito da una raffica di quattro o cinque
stivali e messo a tacere in maniera più o meno brusca.
Non aveva nessuna intenzione di alzarsi, Augusto, ma venne ugualmente
scaraventato giù dal suo cumulo di lenzuola immacolate
quando il suono di un vecchio campanaccio da mucche ruppe
definitivamente il silenzio della stanza.
Il ragazzo aprì gli occhi di scatto, rovesciandosi
pericolosamente verso il pavimento, e riuscì a riprendere
l’equilibro sulla sua branda che ormai la fonte del rumore si
era spostata dal suo giaciglio a quello di un altro paio di ragazzi.
Assottigliando lo sguardo impastato dal sonno, il ragazzo vide un
Assassino vestito di ocra e marrone sgusciare tra uno zaino e
l’altro, ben contento di essersi guadagnato il compito della
sveglia.
E dire che non era neanche l’unico.
Dal corridoio, il vocione dell’uomo che qualcuno non
tardò a identificare come Bartolomeo d’Alviano
sbraitava ordini uno dopo l’altro, alternando le grida a
delle fragorose risate che, parola di Augusto Spallaci, facevano
letteralmente tremare i muri.
«Sveglia, sveglia!», urlava, mentre
l’Assassino con il campanaccio ricominciava il suo giro.
«Altrimenti Volpe finirà per farvi sanguinare le
orecchie!»
E ancora, una chiassosa risata rimbombò nel corridoio.
Augusto rotolò sul fianco, scrollandosi di dosso le lenzuola
immacolate che si era portato da casa per evitare di attaccarsi le
pulci. Scese dal letto imprecando sottovoce, senza badare al ragazzo
che dormiva nella branda sotto alla sua, e finendo per pestargli un
piede. Aprì la bocca per insultarlo, ma questi
sembrò troppo addormentato per dargli ascolto,
allontanandosi con fare assopito verso la sua camicia appallottolata
sul baule.
«Avete avuto il vostro riposo, è tempo di
cominciare l’allenamento», tuonò
all’improvviso la voce di Niccolò Machiavelli, il
quale comparve sul ciglio della porta mentre, con lentezza,
l’intera camera si destava. «Tutti pronti senza
armatura e senza armi nel cortile, prima dell’alba. Avrete
tempo di fare colazione dopo che vi avranno divisi nei vostri gruppi di
appartenenza.»
Detto questo, senza sbilanciarsi in saluti o inutili auguri,
l’Assassino girò sui tacchi e sparì nel
buio del corridoio, seguito dalla Volpe e dal suo stramaledetto
strumento infernale.
Mentalmente, Augusto si augurò che quella non fosse la
norma, da quelle parti. Poteva anche sopportare una leva mattutina, ma
una sveglia così chiassosa avrebbe fatto a brandelli la
pazienza di chiunque.
Per un momento, nella stanza ci fu il silenzio, dopodiché
brusii e commenti sommessi cominciarono a rendere quel brusco risveglio
qualcosa di più reale, ricordando ad Augusto di essersi
dovuto alzare nel bel mezzo della notte per andare a scoprire qualche
inutile nome di qualche inutile compagno di squadra.
«Tu lo sapevi, che ci avrebbero divisi?», chiese un
ragazzo, rivolto a Bengiamino Lorenzetti, già vestito e in
piedi al centro della stanza con un’espressione stanca ma
composta.
Il milanese scrollò le spalle.
«Di certo non si possono tenere d’occhio
venticinque persone tutte assieme», rispose, dando un sospiro.
Non aggiunse altro.
Augusto sbuffò, sfilandosi la camicia da notte e rovistando
tra il suo groviglio di coperte alla ricerca dei pantaloni. La sera
prima non si era disturbato a mettere tutto in ordine nello zaino e ora
tutti suoi averi erano intrappolati sotto quel cumulo di lenzuola che
sua madre aveva insistito lui prendesse con sé.
Recuperati i calzoni e la camicia, decise che una giacca sarebbe stata
superflua. Fuori cominciava a fare freddo, ma dopotutto stavano per
allenarsi e di certo un ulteriore capo addosso lo avrebbe soltanto
impacciato.
Guardò il suo bastone da passeggio, facendosi dubbioso.
Machiavelli aveva detto niente armi.
Per sicurezza, estrasse comunque un coltello dallo zaino e se lo
legò alla cintura, nascondendolo sotto le pieghe della blusa.
Raggiunse i suoi due compagni dall’altra parte della camera,
scrutandoli con attenzione.
Pio e Geranio erano di poco più giovani di lui, ma lo
superavano comunque in altezza. Non erano particolarmente svegli, ma
sapevano comunque distinguersi da quella marmaglia di ragazzine che
Ezio Auditore aveva raccattato chissà dove.
Sistemandosi i bracciali di cuoio attorno agli avambracci, Augusto li
salutò entrambi con un cenno del capo e si avviò
verso il piazzale dove erano stati chiamati senza iniziare alcuna
conversazione.
Non aveva alcuna voglia di perdersi a discorrere, non a
quell’ora del mattino.
Arrivarono nel cortile in gruppo, tutti ammassati nel piccolo spazio
che si apriva tra il ponte e la chiesa, in tempo per notare come tutte
e cinque le ragazze si fossero già disposte in ordine
davanti alla scalinata.
Augusto strinse i pugni, osservandole una a una. Di certo non avrebbe
tollerato di essere messo in squadra con una di loro. Una donna lo
avrebbe soltanto rallentato, non gli avrebbe permesso di brillare come
invece avrebbe potuto fare se avesse lavorato da solo.
Non avevano l’aria eccessivamente stupida, comunque. Forse
c’era una ragione, se Ezio Auditore le aveva volute
lì.
Si costrinse a stare buono dietro ai suoi compagni, aspettando
l’arrivo del Mentore.
Prima di iniziare a protestare su quelli che sarebbero stati i
componenti della sua squadra, voleva almeno ascoltare cosa Ezio avesse
da dire a riguardo.
Il lavoro, comunque, lo avrebbe svolto da solo. Non aveva intenzione di
scendere a compromessi su quello.
Augusto Spallaci agiva da solo, che agli Assassini piacesse o meno.
Il Mentore non si fece vedere per
quasi un’ora.
Il sole fece in tempo ad affacciarsi oltre le cime delle case e degli
alberi, tingendo il cielo e il Tevere di un rosa pallido.
Al suo arrivo, tutti sospirarono sollevati, dai ragazzi che si erano
messi a sedere scomposti sulle scalinate della chiesa, alle ragazze che
si erano come richiuse su loro stesse per formare un piccolo gruppetto
a parte.
«Che visi svegli», fu il primo commento ironico di
Ezio, seppur non molto apprezzato. «Badate bene, vi
capiterà spesso di interrompere il sonno nel cuore della
notte per impugnare la spada con ancora gli occhi chiusi. Dovete farci
l’abitudine, alla levataccia!»
Sorrise, prima di appoggiare le mani chiuse a pugno sui fianchi,
passando in rassegna i suoi collaboratori.
«Vedo che avete già conosciuto Bartolomeo
d’Alviano e il mio buon amico Gilberto, detto la Volpe. Spero
che non siano stati eccessivamente bruschi nell’aiutare
Machiavelli a destarvi.»
Dalla folla di ragazzi si levò un lieve brusio di
confusione. Qualcuno ripeté confusamente il nome della
Volpe, qualcuno parve illuminare i suoi compagni con una qualche
spiegazione. Ci fu qualcuno, tra cui brillava Spallaci, che
azzardò persino una lamentela soffusa a tutta
quell’attesa.
In effetti ora, oltre che stanchi, i venticinque ragazzi radunati nel
piazzale della chiesa erano anche infreddoliti e affamati.
Si erano già formati dei gruppi, tra i quali più
distintivo era quello delle ragazze, strette tra di loro quasi ad
evitare ogni contatto con i loro coetanei. Ad ogni modo difficilmente
sarebbero rimaste così tanto attaccate alla loro esclusiva
compagnia: le intenzioni del Mentore parevano andare a braccetto con
l’idea di dividerle.
«Non voglio rubarvi ulteriore tempo, immagino che bramiate
una tazza di latte appena munto tanto quanto me.»
Ezio sorrise, facendo un cenno al ragazzo dietro di lui di farsi
avanti. Questi era alto, aveva le spalle larghe e il sorriso tranquillo
e rassicurante.
Violante lo riconobbe come il giovane che l’aveva aiutata a
trovare l’ingresso del Covo il giorno precedente.
«Lui è Ettore, per me è come un
fratello e quindi, per voi, un secondo padre. Dovete sempre stare ad
ascoltare ciò che vi dice e prenderà spesso le
mie veci. Machiavelli, invece, che avete già avuto il
piacere di conoscere, sarà colui che terrà
monitorati i vostri cambiamenti e miglioramenti. Niccolò, ti
prego, introduci gli obiettivi che i ragazzi dovranno
superare.»
Il consigliere si fece avanti, brandendo la pergamena recante i nomi
dei ragazzi come se fosse chissà quale bolla papale.
«Studierò ogni vostra mossa, ogni vostro respiro o
parola. Dovrete raggiungere un livello che ora nemmeno potete
immaginare nei vostri sogni più reconditi.»
Ezio lo interruppe, dando una piccola gomitata ad Ettore e scambiando
con lui un sorrisetto furbo.
«So che hai diviso le squadre, perché non ci dici
il criterio scelto?»
Machiavelli gonfiò il petto, fiero della sua opera
certamente impeccabile.
«Ho cercato di studiarvi almeno in parte, ieri sera. A
livello fisico e mentale, ho suddiviso in modo equo ogni squadra,
così che vi sia parità. Starà a voi
creare l’unità necessaria a portare a termine ogni
missione al meglio.»
Fece una breve pausa, concedendosi un sospiro durante il quale
scoccò un’occhiata carica di severità
verso Spallaci.
«Prima che qualcuno me lo chieda, non sono concessi
cambiamenti», disse, limpido. «Il mio giudizio, in
questo caso e nei prossimi, è indiscutibile e
definitivo.»
Infilò la mano sotto al mantello, estraendo, da una delle
tasche, un foglio accuratamente piegato che venne aperto con
esasperante lentezza, quasi contenesse la più grande
verità del mondo.
I nomi della prima squadra vennero pronunciati rapidamente, senza
particolari riguardi o commenti nei confronti dei componenti.
Machiavelli si tirò un po’ su, schiarendosi la
voce, e li chiamò uno a uno, in ordine alfabetico, quasi
senza respirare tra un nome e l’altro.
«Augusto Spallaci da Roma, Bengiamino e Laura Lorenzetti da
Milano, Chiara Filippi da Firenze e Pierpaolo Maffei da
Faenza.»
Attese che i cinque si staccassero dai loro gruppi e che si
avvicinassero in prossimità della scalinata. Li
squadrò per bene uno a uno, assicurandosi di non aver
commesso errori nel riunirli, e li congedò con un cenno del
capo.
Ezio colse quell’istante di distrazione per strappargli il
foglio di mano, strappandone persino un angolo.
«Accelererei le cose, se per te va bene,
Niccolò.»
L’uomo lo guardò con puro risentimento, ma non
disse nulla.
Il Mentore lo prese come un fatto positivo, visto che sorrise leggendo
la seconda squadra.
«Alessandro Corella il forlivese, Cristiano Pagni
de’ la bella Ferrara, Paola Gregorio del Regno napoletano,
Virgilio Trevisan della Serenissima Repubblica e Violante degli Antoni
della città dalle alte torri!»
Viola sembrò ridestarsi in quel momento, avvicinandosi con
passo spedito a Ezio insieme a Paola. Guardò i membri della
sua squadra, ringraziando il cielo di non aver nessuna testa calda a
cui badare.
Cristiano, privato dell’opprimente presenza di Spallaci, non
pareva così male. Anzi, prima di dormire Paola aveva molto
parlato della sua grande abilità da Assassino; era figlio di
Eugenio Pagni, nome che alla bolognese non diceva nulla ma che, a
sentire le altre ragazze, era molto noto all’Ordine.
I nomi delle altre tre squadre vennero elencati rapidamente, senza
alcun particolare accento sui loro componenti.
Maria, che la sera prima avevano scoperto essere al Covo già
da qualche anno, fu l’unica a venir sistemata in un gruppo
senza un’altra compagnia femminile: le vennero affibbiati
Cesco Ventimiglia, conte di chissà quale terra nei dintorni
di Genova, Nicolino Cervi di Verona e due giovanissimi gemelli di
Firenze con un cognome che Violante non riuscì a capire.
La cosa non si protrasse oltre e tutti vennero spediti senza troppi
complimenti a fare colazione nella sala che la sera prima li aveva
accolti.
Quella mattina, vi era stata sistemata una grande tavolata,
parzialmente occupata da un gruppo di Assassini presi da
un’accesa discussione circa la strada per Milano, e avvolta
in un invitante odore di latte caldo.
Una donna che sul volto portava i segni di molti anni passati,
versò loro del latte e, aiutata da una giovane che le
rassomigliava molto, distribuì delle pagnotte di pane,
raccolte in un canestro.
Appena Ezio le vide, si alzò, cingendole entrambe per i
fianchi.
«Codeste meravigliose Madonne sono mia madre, Maria, e mia
sorella minore, Claudia. Badate molto bene a come vi rivolgete a loro,
sono assai geloso della mia famiglia, o di ciò che ne
resta!»
«Quindi sarai geloso anche di questi ragazzi?»,
domandò la Volpe, affabile. «In cortile ti sei
praticamente proclamato loro padre!»
«In vero, amico mio, già lo sono!»
La Volpe si limitò a sogghignare, ma il versetto soffuso che
produsse venne del tutto coperto dalla fragorosa risata di Bartolomeo
d’Alviano, appoggiato con la schiena contro il muro della
sala.
Nessuno dei ragazzi rise. Erano tutti troppo stanchi o troppo confusi
per permettersi il lusso di avere un po’ di umorismo,
così si limitarono a prendere posto alla tavolata, ben
rispettando i gruppi imposti da Machiavelli.
Con quella mossa, la compagnia delle ragazze venne definitivamente
divisa.
Mentre Maria si allontanò dalla sua squadra per sedersi tra
Ezio e la Volpe quasi fosse un'amica di vecchia data, Violante prese
posto assieme a Paola di fronte ad Alessandro Corella e insieme
attesero l’arrivo di Cristiano e dell’altro
ragazzo, prima di cominciare a buttare nello stomaco quel poco che
avevano per colazione.
Virgilio Trevisan era un ragazzetto piuttosto ben piazzato, alto quanto
basta a un buon soldato per impugnare una lancia anche se non
particolarmente forzuto. Ingurgitò il suo latte nel
più completo silenzio, addentando anche una pagnotta calda,
guardandosi bene attorno con quel paio di spilli verdi che si ritrovava
al posto degli occhi.
Mentre Claudia passava con un piccolo pentolino pieno di miele, i
ragazzi iniziarono a svegliarsi e il tono delle loro voci si
alzò progressivamente.
Ezio, incoraggiato dai toni spigliati e gli occhi decisamente meno
appannati, si alzò nuovamente, appoggiando una mano sulla
spalla di Machiavelli che stava bevendo una strana tisana che faceva
storcere il naso persino a lui.
Sospirando, riprese la parola.
«Il prima possibile, dovrete comunicare a Niccolò
il nome di un caposquadra, così da poter identificare
ciascun gruppo con un solo di voi. Ora, passiamo alla prima
missione.»
Prese da sopra al tavolo un foglietto, leggendolo un istante a mente
prima di sogghignare.
Ettore si portò una mano al viso, vergognandosi prima ancora
che Ezio potesse fornire alcuna informazione.
«Entro sera, dovrete procurarvi tutti una pagnotta di pane a
testa, della carne, qualsivoglia tubero o cereale. Ciò che
poterete sarà la cena della squadra.»
Alessandro sbatté incredulo le palpebre e fu il primo a
parlare.
«Dobbiamo … comprare la cena?»
Volpe scrollò il capo.
«Non vi verrà dato un ducato. Dovrete rubare senza
farvi scoprire.»
«E se qualcuno viene preso, dovrete liberarlo»,
aggiunse Ezio, per poi concludere: «E il tutto senza toccare
terra. Dovete raggiungere mercati e botteghe camminando per i tetti ed
evitando gli arcieri. Per i romani sarà più
semplice, mentre per chi viene da fuori una vera sfida: la prima cosa
che un Assassino deve imparare è a sopravvivere in luoghi
mai visti, in quanto viaggiare sarà vostra prerogativa,
nella vita.»
Il brusio nella sala calò notevolmente, mentre le prime
menti cominciavano già a ragionare e qualcuno si dichiarava
a gran voce pronto alla sfida.
Come già Machiavelli aveva preannunciato, non vi era bisogno
né di armature né tantomeno di spada o coltello.
Le loro mani sarebbero dovute bastare, anche se non era ancora chiaro
come.
Di certo vi era chi, come Violante, era abile nel borseggio, ma non era
difficile notare come la maggior parte dei ragazzi provenisse da
famiglie benestanti, che di certo non avevano avuto la
necessità di insegnare ai loro figli come allungare le mani
sugli averi del prossimo.
Ma se quello non era un gioco, citando ancora Machiavelli, non era
certo problema degli Assassini provvedere ad ogni singolo bisogno dei
loro nuovi adepti. Dopotutto erano lì per imparare e da
qualche parte, sebbene un po’ più di delicatezza
sarebbe stata gradita, bisognava pur cominciare.
Laura Lorenzetti si alzò in piedi, titubante, chiedendo
così di poter parlare al Mentore.
Quando ricevette un cenno di assenso, domandò, con voce
tremolante: «E nel caso in cui una squadra non riuscisse a
trovare cibo a sufficienza per tutti?»
Ezio le sorrise, allegro.
«Bé, in quel caso dovete sperare nella benevolenza
degli altri gruppi e nel loro desiderio di condivisione. In caso
contrario, mancare un rancio non ha mai ucciso nessuno.»
Machiavelli si alzò in piedi a sua volta.
«Avete tempo fino al tramonto, in seguito dovrete tornare qui
e portare alle cucine ciò che avete raccolto. Chi
arriverà in ritardo non mangerà
affatto.»
Ci fu un veloce scambio di sguardi tra i ragazzi, dopodiché
tutti si chiusero nel loro gruppo alla ricerca della strategia vincente.
Sopra tutte, si levò la voce di Spallaci.
«Non vedo dove stia il problema!»,
tuonò, battendosi un pugno sul petto. «Un paio di
mercanti debosciati, che vuoi che sia! Possiamo stenderli anche a mani
nude!»
Bengiamino gli scoccò un’occhiata esasperata, ma
non si scompose.
«Temo ti sia sfuggito un ‘senza farsi
scoprire’», commentò Alessandro Corella.
A quel punto, la sala tacque.
Qualcuno soffocò una lieve risata, ma fu tutto.
Saggiamente, le reclute decisero di concentrarsi su quella che per loro
era una ragione quasi vitale: procurarsi del cibo commestibile per non
morire di fame con solo una mela e un pezzo di pane nello stomaco.
Paola si voltò con un sorriso verso Violante, portando una
mano sul suo braccio.
«Abbiamo un gran vantaggio, visto che tra noi abbiamo la
figlia di Enrico degli Antoni!»
Cristiano guardò la bolognese, stupito.
«Sei la figlia di Enrico?», chiese, alzando le
sopracciglia. «Era un grande amico di mio padre.»
«E mio.»
Viola si voltò di scatto, trovando Volpe alle sue spalle che
la guardava con un sorriso strano, carico di mistero e nostalgia.
«Era il mio braccio destro, un uomo d’onore. Ci
manca, qui all’Ordine.»
La ragazza avrebbe voluto aggiungere che mancava anche a casa, anche a
lei, ma le risate di scherno di Spallaci la distrassero.
Lo fulminò con lo sguardo.
«C’è qualcosa di divertente?»,
chiese, stringendo i pugni sotto alla tovaglia.
Non lo sopportava, avrebbe tanto voluto spaccargli quel muso
strafottente.
Augusto Spallaci si alzò, quasi rispondendo meccanicamente a
quella frecciatina, e buttò fuori la sua immancabile
provocazione.
«Niente», sibilò, mostrando, con un
sorriso, una fila di denti bianchissimi. «Ho soltanto capito
che non sarò io a vincere la sfida, quest’oggi.
Non ho speranze contro la figlia di un ladraccio come Enrico degli
Antoni. Scommetto che il suo sporco sangue di tagliaborse ti scorre
nelle vene!»
Si avvicinò un poco, accostandosi al tavolo per poi
incrociare le braccia sul petto.
Negli occhi, gli brillava la fiamma della sfida.
Violante scattò sua volta in piedi, mentre Bartolomeo
d’Alviano si avvicinò per minacciare Spallaci di
chiudere la bocca. Volpe però glielo impedì,
portando un braccio davanti al suo busto.
«Aspetta. Vediamo.»
La bolognese scacciò l’ira dagli occhi,
assottigliando le labbra in un sorriso tirato.
«Detto da un individuo che si nasconde dietro al suo nome per
far sputar sentenze su tutti, non mi tocca per nulla. La sola cosa che
mi rende tanto felice è il pensiero che dimostrerete di
certo quanto poco valete a fatti.»
Cristiano sorrise a sua volta, voltando il busto per guardare Augusto
in viso.
«Mettiti avanti con le incombenze odierne, Spallaci, o
stasera mangerai il tuo ego! Quanto meno, ti sfamerai.»
«Stanne fuori, Pagni», gli rispose Augusto.
«La Ladra sa di certo difendersi molto meglio di quanto tu
potresti fare.» Si leccò appena le labbra,
piegandosi in avanti sulle ginocchia. «Di certo sarete voi a
mostrarci il vostro grande talento, Madonna degli Antoni»,
continuò, schernendo la ragazza. «Non dubito che
vostro padre vi abbia insegnato per bene dove mettere quelle graziosa
manine.»
Il rumore della panca che stridette sul marmo della sala al suo
spostarsi, mise fine a ogni ulteriore discussione.
Laura e Bengiamino si alzarono in contemporanea, camminando velocemente
uno verso Augusto, l’altra verso Violante senza lasciare
spazio ad alcun commento.
Bengiamino si piazzò per bene di fronte al ragazzo,
posandogli una mano sulla spalla e guardandolo dall’alto
della sua statura da colosso.
«Abbastanza, Spallaci», gli disse, pacato, senza
accennare ad alcuna espressione.
Laura, invece, prese Violante per le spalle, trascinandola indietro di
almeno due passi mentre le passava un braccio dietro la schiena.
«Non ascoltarlo», mormorò, lanciando ai
ragazzi un’occhiata preoccupata. «Non tutti quelli
che hanno una bocca sono dotati dell’intelligenza necessaria
per farle pronunciare parole sensate.»
Violante doveva decidersi se seguire il suo buonsenso e dar retta a
Laura, o accontentare la sua testa, nella quale cantilenava una lenta
litania che per ritornello le proponeva: ‘spaccagli la panca in testa,
spaccagli la panca in testa’.
Alla fine, il buon senso vinse.
Scrollò le spalle, guardando uno ad uno i suoi compagni di
squadra. Dovevano organizzare al meglio la giornata, magari dividendosi
in un paio di gruppetti per fare prima e trovare tutto il necessario.
Dopotutto, fra loro non vi era nessun romano.
«Sarà meglio andare, il tanfo del respiro di
Spallaci mi sta facendo passare la voglia di saltare da un tetto
all’altro.»
Alessandro Corella si alzò a sua volta, raggiungendo le due
ragazze mentre Cristiano e Virgilio si attardavano attorno ad Augusto,
come se attendessero una mossa falsa per attaccar briga.
Viola ringraziò Laura con un sorriso sincero, prima di
seguire il forlivese e Paola fuori dalla stanza, fino
all’ingresso sul tetto.
Laura si fiondò verso il fratello, raggiungendolo appena in
tempo per caricare Spallaci con un’ulteriore occhiata
fiammeggiate d’astio.
«Avanti!», esclamò, cacciando via
Cristiano e Virgilio con un gesto veloce della mano. «Fate i
cavalieri e aiutate Violante! Qui ce la sbrighiamo da soli!»
Volse uno sguardo carico di sicurezza a Bengiamino, prima di tornare a
fissare Spallaci.
«Spero tu voglia almeno chiederle scusa!»,
obiettò, portandosi le mani ai fianchi con tono severo.
Lui la guardò di sottecchi, tirando su col naso un paio di
volte prima di ficcare le mani in tasca per avviarsi verso
l’uscita.
«Non fare tanto la matrona, Lorenzetti numero due»,
disse, camminando da solo.
Dietro di lui, si avviarono piano Chiara e Pierpaolo, lasciandosi alle
spalle i due fratelli milanesi. Non sembravano molto convinti della
scelta del loro capo, ma, evidentemente, avevano optato per la via che
avrebbe causato meno litigi.