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Autore: Miyuki chan    01/12/2013    4 recensioni
«La leggenda narra che la Luna si innamorò di un pescatore.
E si dice che lo amasse a tal punto da volergli offrire la Vita Eterna, cosicché il loro amore potesse essere per sempre.
Ma, si sa, la Luna rappresenta il principio femminile, mutevole e capricciosa: volle mettere alla prova il pescatore, volle assicurarsi che fosse degno del suo amore.
Tre sarebbero state le prove per lui da affrontare…
Ma è solo una leggenda, una storia per bambini. »
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace, Smoker
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'The Fire and the Tiger'
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So fragile on the inside

La ragazzina non fece quasi in tempo ad andarsene sbattendo la porta, che sulla mia nave scoppiò in pochi istanti il putiferio.
 
Avrei voluto che il suo andarsene e l’inizio del baccano fossero stati soltanto una mera coincidenza, ma non ero tanto ingenuo da sperarci. Emisi un ringhio minaccioso, mentre mi facevo più scuro in volto. La rabbia è sempre un sentimento pericoloso, ma quando è qualcuno di estremamente avventato come Mikami ad essere arrabbiato… allora sì, che è assicurato un maledettissimo disastro.
 
Uscii rapido sul ponte, ringhiando, sbuffando fumo e masticando imprecazioni.
 
 L’avevo saputo fin dal primo istante, da quando si era presentata di punto in bianco nella mia cabina, che non ne sarebbe mai potuto uscire nulla di buono.
 
…lei e quegli stupidi sentimentalismi! Da quando ne era diventata così ossessionata?
 
Non sarebbe dovuta venire, avrebbe dovuto continuare a stare con quel suo dannato pirata e entrambi, sia lei che il moccioso, avrebbero dovuto rimanermi fuori dai piedi. Soltanto questo.
 
Ma chiaramente, sarebbe stato chiedere troppo.
 
Non c’era proprio niente che le fosse rimasto in testa di tutto quello che le avevo insegnato? Sangue freddo, autocontrollo, calma, raziocinio…tutto tempo, lavoro e fatica sprecato.
 
Un drappello di marine era riunito sul ponte, mentre altri uomini stavano scendendo a terra, con i fucili imbracciati e le katana sfoderate. «Che diavolo sta succedendo?» tuonai, parandomi minacciosamente davanti ad uno dei soldati.
 
«Commodoro Smoker!» sussultò il marine, mettendosi nervosamente sull’attenti. «Il Sergente maggiore Tashigi è ferito! Stiamo scendendo a terra per inseguire quella tigre e-
 
Il ringhio basso e irato che proruppe dalle mie labbra, mentre serravo con violenza i denti attorno ai sigari, unito al cipiglio estremamente minaccioso e torvo che dovetti assumere, fece sbiancare il soldato, che si azzittì all’istante.
 
Dannazione!
 
Avevo capito fin da subito che quel baccano era opera della ragazzina, ma avevo almeno voluto sperare che non fosse stata tanto stupida e avventata da attaccare uno dei miei.
 
Mi diressi a grandi falcate verso il punto in cui erano riuniti i soldati che, vedendomi, si scansarono rapidamente e senza bisogno che io dicessi una sola parola.
 
Davanti ai miei occhi comparve Tashigi. Aveva l’aria stravolta, ed era sostenuta da due uomini che, uno per fianco, la sorreggevano tenendola per la vita. Da entrambe le braccia gocciolava abbondante sangue scarlatto, che si era già raccolto a formare due vistose e dense pozze ai suoi piedi.
 
Non mi fu difficile indovinare la causa di quelle ferite nelle unghie e nei denti di Mikami.
 
Vedendomi, Tashigi mi rivolse uno sguardo mesto e sofferente. «…ho visto quella ragazza che si aggirava per la nave, e l’ho fermata prima che fuggisse… Non potevo sapere che era-
 
Impassibile, la feci tacere con un cenno della mano, e diedi disposizioni perché venisse portata in infermeria.
 
«E voi, lasciate perdere» ringhiai secco, rivolto agli uomini che ancora stavano sbarcando per mettersi all’inseguimento di Mikami.
 
Forse loro si illudevano di poterla raggiungere, ma io la conoscevo abbastanza bene da sapere quanto fosse veloce, e da rendermi conto che, anche a causa dell’oscurità, non sarebbero riusciti a trovarla.
 
Alcuni marine, a quell’ordine, mi rivolsero uno sguardo perplesso e confuso, ma mi bastò una sola gelida occhiata perché tutti ubbidissero all’istante.
 
Scrutai l’oscurità, mentre i soldati tornavano a bordo, ancora agitati dall’intrusione audace ed inaspettata della ragazza.
 
Ero furioso.
 
Quella ragazzina non mi lasciava scelta.
 
Se fino ad allora avevo pensato di chiudere un occhio sul fatto che fosse diventata un pirata e – diversamente da quanto le avevo detto – non mi era mai passata per la testa nemmeno per un instante l’idea di arrestarla soltanto per pirateria e diserzione, ora le cose erano radicalmente cambiate.
 
Quello che mi faceva più infuriare era che sapevo che lei aveva scelto di combattere contro Tashigi. Ero stato io ad insegnarle praticamente tutto ciò che sapeva in fatto di combattimento, e sapevo molto bene che, se trovatasi davanti a Tashigi, avesse voluto evitare lo scontro, avrebbe potuto farlo senza problemi: se si fosse messa a correre, la marine non sarebbe mai riuscita a tenerle dietro.
 
Invece aveva deliberatamente scelto di attaccare e combattere.
 
Mi era bastata una sola occhiata alla quantità di sangue che sgorgava dalle ferite di Tashigi per rendermi conto che quelle erano ferite inflitte con la deliberata intenzione di fare del male, molto male, e non per auto difesa. Del resto, glielo avevo insegnato io: quando combatti un avversario che impugna una spada, colpisci i polsi o le braccia e fai in modo che non riesca più a tenere in mano la sua arma.
 
Allora dopotutto qualcosa delle mie lezioni le era rimasta. Non che la cosa contribuisse minimamente a migliorare il mio umore.
 
Mi fece anzi ancor più rabbia constatare l’ uso che aveva fatto di quell’insegnamento mentre, nonostante tutto gli anni che avevamo passato insieme, non c’era mai stata una volta in cui avesse pensato prima di agire, nonostante i miei rimproveri e i miei ammonimenti.
 
Inspirai una lunga boccata di fumo dai sigari, imponendomi l’autocontrollo che non ero mai riuscito ad insegnare a Mikami.
 
Quella dannata ragazzina non mi lasciava proprio scelta.
 
*
 
Era stato tutto inutile: sembrava che nemmeno lo scontro con Smoker, la corsa su per la valle e poi in mezzo al bosco e fino alla nave con Robert a peso morto e tutto il resto fossero riusciti a stancarmi abbastanza da riuscire a regalarmi un sonno tranquillo e ristoratore.
 
Incubi, di nuovo.
 
Quella notte, avevo sognato di trovarmi in un enorme radura brulla, con la terra umida e smossa, rivoltata come quando nei campi passa l’aratro. Non c’era traccia di vegetazione, né erba né tantomeno piante, fatta eccezione per l’intrico di fitti e minacciosi alberi che crescevano, come una barriera impenetrabile, al limitare della radura stessa. Erano grigi alberi lunghi e smilzi dai sottili rami ossuti, con rade chiome dalle foglie secche, di un verde sgradevole che tendeva anch’esso al grigio.
 
Nell’aria aleggiava uno sgradevole odore pungente, acre e penetrante. Era un odore familiare, anche se non mi era riuscito, sul momento, di riconoscerlo.
 
Non c’era nulla, assolutamente nulla.
 
Nel sogno mi ero guardato un po’ attorno, spaesato, senza capire dove mi trovassi e perchè. Mi ero avvicinato guardingo agli alberi rinsecchiti, sperando di trovare qualcosa che potesse suggerire il motivo della mia presenza in quel luogo, ma senza successo.
 
Poi, quando ero tornato a voltarmi verso il centro della radura, avevo con mio grande stupore notato che, dal nulla, era comparso un massiccio tavolo di scura pietra grezza, lungo almeno due metri.
 
Mi ci ero avvicinato, con l’ingenuità tipica dei sogni.
 
Solo allora, avevo notato due lumini gialli baluginare diabolici da sotto il tavolo: gli occhi del gatto, quel gatto. Stranamente, quella visione non mi aveva causato alcuna paura, e anzi mi aveva lasciato del tutto indifferente.
 
Quella volta, l’animale non aveva parlato, si era limitato a lanciarmi un lungo sguardo maligno ed io, come ipnotizzato, avevo afferrato un badile, comparso chissà quando e da chissà dove, che era stato adagiato sul tavolo.
 
Mi ero voltato, con l’attrezzo in mano, e lo avevo conficcato con vigore nella terra, facendo forza con il piede perché penetrasse a fondo nel terriccio. Smossa la prima zolla, l’avevo lanciata di lato con un gesto meccanico, ed altrettanto meccanicamente ero di nuovo tornato a piantare nella terra la punta affilata e robusta della pala, per smuovere una seconda e poi una terza zolla.
 
Ci erano voluti alcuni istanti prima di poter capire il motivo per cui, all’improvviso, come se avessi obbedito all’ordine di qualcuno, mi ero messo a scavare con così tanta insistenza, ma poi la consapevolezza di ciò che stavo facendo – arrivando da non so dove – si era abbattuta su di me con la stessa forza di un fiume in piena: stavo scavando una fossa da morto.
 
E non era nemmeno una tomba qualsiasi: era la mia tomba.
 
Ero stato preso dal panico ed avevo iniziato a urlare, strepitare e gridare, ma non era servito a nulla.
 
Non avevo potuto smettere.
 
Non ero riuscito a ribellarmi alla forza invisibile che mi imponeva di scavare la mia stessa fossa.
 
In fine, arrendendomi, avevo persino iniziando a piangere, ma nemmeno questo aveva avuto il benché minimo effetto.
 
Finchè non mi ero svegliato di soprassalto, ansimante e sudato, con ancora una voce che ripeteva istericamente nella mia testa “E’ la mia tomba! Mi sto scavando la fossa da solo! La mia fossa! Lamiafossa! Lamiafossa!”.
 
Mi ci erano voluti diversi istanti per rendermi conto che quello era stato soltanto un incubo, l’ennesimo incubo, e che non mi trovavo realmente in una radura brulla con un badile in mano ma che, semplicemente, ero seduto sul mio letto, con le lenzuola aggrovigliate attorno al corpo e strette tra le mani.
 
Raggiunta finalmente la consapevolezza che mi si era trattato solo di un brutto sogno, mi ero lasciato ricadere pesantemente sul cuscino, asciugandomi il sudore dalla fronte con il dorso della mano, mentre il mio respiro lentamente si regolarizzava. Trovai addirittura piacevole sentire il dolore dei lividi, che mi aiutò a tornare alla realtà.
 
«Tutto bene?»
 
Sobbalzai mettendomi nuovamente a sedere con un rapido movimento, allerta.
 
Poi, alzando lo sguardo in direzione di quella voce, vidi che a parlare era stato soltanto Kai, che sporgeva verso di me la testa dalla branda sopra la mia.
 
Tornai a sdraiarmi tirando un sospiro di sollievo. Per un attimo, avevo irrazionalmente pensato che fosse stato quel dannatissimo felino a parlare, appostato da qualche parte in qualche angolo buio.
 
«Sì» esalai stancamente, massaggiandomi le tempie con una mano. «Ti ho svegliato io?»
 
Lo vidi annuire nelle penombra. «Ti agitavi un bel po’» confermò.
 
«Scusa» bofonchiai, girandomi su un fianco e dandogli le spalle. Tuttavia, continuai a sentirmi puntati addosso gli occhi di Kai.
 
«Se c’è qualcosa di cui vuoi parlare…»
 
«No.» tagliai corto senza tanti complimenti. Mi sforzai di ignorare il suo sguardo insistente e, sistemandomi più comodamente sul materasso, feci forza su me stesso per convincermi a chiudere gli occhi e prendere nuovamente sonno.
 
Bastarono tuttavia un paio di minuti soltanto per farmi rinunciare all’impresa.
 
Non appena chiudevo gli occhi, mi rivedevo in quella radura desolata intento a lavorare di badile, e mi sembrava persino di sentire nuovamente quell’odore acidulo e forte, quasi come se mi si fosse appiccicato addosso nel sogno e lì fosse rimasto anche quando mi ero svegliato.
 
«Vado a prendere una boccata d’aria» annunciai bruscamente, e senza attendere una risposta mi alzai dal letto e uscii dalla porta, scalzo e a dorso nudo.
 
Era già da una mezz’ora che camminavo svogliatamente avanti e indietro per il ponte principale, godendomi la brezza fresca e il profumo rassicurante del mare, quando vidi un ombra scivolare a qualche metro da me. Smisi di bighellonare e mi feci attento.
 
Avvicinandomi silenziosamente, scorsi una figura minuta, che si muoveva nella penombra, goffa e impacciata.
 
… che qualche marine avesse alla fine localizzato la nave?
 
Rimasi sbalordito quando, dopo aver osservato quella figura  per un altro paio di minuti, vi riconobbi Mikami.
 
«Che stai facendo?» chiesi stranito, palesando la mia presenza.
 
Mikami trasalì, lasciandosi sfuggire un suono simile ad un singhiozzo spaventato. «Nulla!» si affrettò poi a rispondere con voce acuta, quasi stridula, riconoscendomi.
 
La sua reazione suscitò il mio interesse, che crebbe in modo esponenziale quando notai che, oltre ad aggirarsi furtivamente per la nave in piena notte, era anche ferita, come testimoniava la vistosa scia rossastra che si lasciava dietro. «Stai sanguinando» dissi quindi, sempre più perplesso. «Sul serio, cos’hai combinato?» domandai nuovamente visto che Mikami non accennava a spiccar parola, senza riuscire ad impedire che un sogghigno interessato comparisse sulle mie labbra.
 
Qualunque cosa stesse accadendo, una cosa mi era chiara: avevo beccato Mikami con le mani nel vasetto della marmellata.
 
Ora, tutto stava nel capire cosa ci facesse lei, sola e ferita, a quell’ora sul ponte, e perché la cosa la mettesse tanto in agitazione.
 
«Nulla che ti riguardi» sbottò la ragazza, rifilandomi uno sguardo indispettito e minaccioso.
 
Da lei non mi sarei aspettato nessun altra reazione, perciò non mi stupii nemmeno un po’ di fronte al suo tono duro e allo sguardo torvo.
 
Notai soltanto in quel momento che, la porta davanti alla quale era ferma, era quella dell’infermeria. Non mi fu difficile indovinare che le sue intenzioni fossero di sgraffignare delle bende o qualcosa di simile per medicare la ferita che aveva alla spalla. Peccato solo che in infermeria ci fosse ancora Robert. E anche il vecchio medico con tutta probabilità era ancora là dentro. E dal momento che era chiaro che Mikami stesse facendo – o avesse fatto – qualcosa che invece si sarebbe dovuta ben guardare dal fare, era palese che non si azzardasse ad entrare per paura di essere vista da loro.
 
Un presentimento sgradevole mi suggerì che, qualunque bravata lei avesse fatto, ci sarebbe costato dell’altro tempo prezioso. Ed io di tempo non ne avevo. Ne avevamo già perso anche troppo grazie all’ostinazione di Ace nell’affrontare il marine che si era poi scoperto essere Garp, non potevo permettere che anche qualcos’altro andasse storto.
 
C’era una sola cosa da fare per cercare di limitare i danni, qualunque cosa Mikami avesse combinato.
 
Sorrisi. «E va bene, forse posso aiutarti, nonostante il tuo caratteraccio. Ho alcune bende in camera. Aspettami lì, io prendo una cosa e arrivo.»
 
La ragazza mi scoccò un’occhiata ancora più torva delle precedenti, studiandomi sospettosa.
 
Mi sfuggii una risata. «Se non vuoi tanto meglio, me ne torno subito a letto» dissi subito con un sogghigno, facendo già per andarmene.
 
«E va bene» borbottò lei nel giro di un paio di secondi, voltandomi subito le spalle e scomparendo rapida nella semioscurità. Proprio ciò che mi sarei aspettato da lei.
 
Anche io mi voltai, e m’incamminai velocemente verso la cabina di Ace.
 
Bussai.
 
Attesi qualche istante, senza ottenere risposta. Bussai di nuovo, con maggior vigore, reprimendo uno sbuffo infastidito. Di nuovo nulla. Tesi l’orecchio: dalla cabina proveniva un lieve russare.
 
Scossi la testa scocciato. Faceva quasi rabbia: Portgas D. Ace, potenzialmente, con il frutto del diavolo che si ritrovava, sarebbe tranquillamente potuto diventare uno degli uomini in assoluto più forte al mondo. E invece cosa faceva? Passava il suo tempo a mangiare, russare, e correre dietro a quella ragazzina scontrosa.
 
L’avessi avuto io il frutto foco-foco…
 
Scacciai quei pensieri, ed entrai comunque nella cabina. Il pirata dormiva della grossa, a pancia in giù con il viso affondato nel cuscino e le braccia spalancate ad occupare tutto il letto.
 
«Ace» chiamai a mezza voce, con fermezza, senza ottenere però alcuna reazione.
 
Repressi il fortissimo impulso che provavo di svegliarlo con una secchiata d’acqua gelida, ripetendomi che di problemi, una volta che avesse scoperto cosa combinava Mikami alle sue spalle – perché era chiaro che fosse Ace quello da cui non voleva farsi scoprire, anche se ancora non riuscivo a capire cosa avesse combinato – ne avrebbe probabilmente avuti più che a sufficienza.
 
Alla fine, per svegliarlo, presi a scuoterlo per una spalla, prima piano poi sempre più forte finchè, finalmente, quello aprì gli occhi.
 
Sbattè le palpebre un paio di volte, scrutandomi con aria trasognata. Si mise seduto, passandosi una mano tra i capelli ed esibendosi in un enorme sbadiglio, continuando ad osservarmi perplesso, ma per nulla preoccupato da quella situazione insolita.
 
Gli scoccai una fredda occhiata. «Credo che ci sia qualcosa che tu debba vedere.»
 
Anche quella frase, sembrò non mettere affatto in allarme il pirata. «Adesso? Non possiamo aspettare domattina? Ho sonno» e via un altro sbadiglio.
 
«Adesso» confermai.
 
Ace continuò a non dar segni di volersi alzare, e mi fissava anzi con un espressione tra l’offeso e l’imbronciato che sembrava dire “altri cinque minuti!”.
 
«Dove credi che sia Mikami?» domandai, sforzandomi di mantenere la calma di fronte al suo atteggiamento infantile.
 
Finalmente, quella frase ebbe su di lui l’effetto sperato.
 
Spalancò gli occhi e ogni residuo di sonnolenza scivolò via dal suo viso mentre, improvvisamente allarmato, si guardava attorno, voltando la testa ora a destra e ora a sinistra. Infine, il suo sguardo irrequieto tornò a posarsi su di me, e fu il mio turno di stupirmi quando vi lessi dentro una muta minaccia.
 
Arretrai istintivamente di un passo. «A qualunque cosa tu stia pensando, io non centro» ci tenni subito a precisare. Vero che non ero un vigliacco, ma affrontare Pugno di Fuoco disarmato non era decisamente sulla mia lista delle cose da fare.
 
«Dov’è?»
 
«Qui fuori» risposi sostenendo il suo sguardo, indicando l’uscio della cabina. «Non ho idea di cosa sia successo, mi ci sono imbattuto poco fa. Era sul ponte, con una ferita alla spalla.» Mentre parlavo, osservai attentamente la sua reazione, sperando che mi aiutasse a capire cosa stesse accadendo.
 
Ace perse subito la sua aria minacciosa e balzò in piedi, un espressione preoccupata dipinta in volto. Fece per precipitarsi fuori dalla cabina, ma si immobilizzò di colpo, divenendo all’improvviso scuro in viso e stranamente serio.
 
Continuai ad osservarlo. Ancora non capivo cosa stesse accadendo – e ciò mi infastidiva parecchio –  ma pareva che, dal modo in cui la sua espressione era rapidamente mutata, Ace lo avesse invece compreso.
 
Uscimmo assieme dalla stanza.
 
Il pirata era stranamente silenzioso ed irrequieto, ma non era la sua solita irrequietezza da bambino che ha in corpo troppe energie e non sa come adoperarle, era piuttosto un irrequietezza ansiosa e carica di agitazione, che male si addiceva al suo carattere infantile e solare.
 
Non disse più una parola e, quando arrivammo davanti a Mikami, divenne ancora più torvo.
 
Da parte sua Mikami era sbiancata ed era rimasta con la bocca aperta, come se fosse stata sul punto di dire qualcosa ma poi fosse ammutolita di colpo.
 
Solo in quel momento notai un vistoso cappello arancione poggiato sulla sua schiena, che prima ero certo non avesse avuto. Non era il cappello con cui era ritratto, nei manifesti con le taglie che la Marina aveva affisso in giro, Ace?
 
Fui distratto dalle mie riflessioni dallo sguardo glaciale che mi scoccò Mikami, divenuta livida di rabbia in viso.
 
Sebbene in realtà stessi ancora cercando di capire cosa stesse accadendo e, in tutta quella situazione, non trovassi proprio nulla di divertente, mi sentii in dovere di rispondere a quello sguardo con un ampio sorriso provocatorio.
 
Dopotutto era inutile che se la prendesse con me, era lei quella che era andata in cerca di guai, qualunque cosa avesse combinato. Voleva prendersela con me per non pensare al guaio che probabilmente aveva combinato? Che facesse pure, a me non importava minimamente.
 
Le passai accanto, continuando ad esibire quel sorriso quasi di sfida, infilandomi nella mia cabina e chiudendomi la porta alle spalle.
 
Rimasi fermo immobile, appoggiato all’uscio, tendendo le orecchie, sperando di capire finalmente cosa stesse succedendo. Ma tutto ciò che sentii fu per un breve istante la voce di Ace, e poi i passi pesanti di entrambi che si allontanavano.
 
Sospirai, arrendendomi all’evidenza che non sarei riuscito a capire, almeno per quel momento, cosa stesse bollendo in pentola.
 
Mi andai a sedere sul mio letto.
 
«E’ successo qualcosa?»
 
Sobbalzai nuovamente, all’improvviso suono della voce di Kai. «Ma sei ancora sveglio?!» imprecai, infastidito.
 
Sospirai ancora. «Sì, ma non sono riuscito a capire cosa» sussurrai, passandomi stancamente una mano sul viso.
 
La stanza era troppo buia perché potessi distinguere l’espressione di Kai, ma non faticai molto ad indovinare l’espressione perplessa che doveva essersi dipinta sul suo viso. «Ti spiego domani quel poco che ho capito, adesso mi è miracolosamente venuto sonno» dissi, anticipando una sua possibile domanda.
 
«Ho capito…» mormorò Kai, e senza dire altro la sua testa sparì oltre l’orlo della branda.
 
«Quanto odio non avere il controllo della situazione…» borbottami tra me e me scocciato,  sdraiandomi nel letto e sistemando le lenzuola.
 
*
 
«Sto dicendo che non capisco perché tu sia tornata qui anziché rimanere con Smoker» rispose Ace, confermando le mie paure che avesse completamente frainteso le mie intenzioni.
 
«Io non avrei mai potuto fare una cosa del genere! Tu… tu credi davvero che fossero queste le mie intenzioni?!» gridai, spaventata da ciò che Ace aveva detto e, contemporaneamente, ferita: ma davvero credeva che sarei stata capace di andarmene a quel modo? Davvero aveva così poca fiducia in me?
 
Il suo sguardo spento e nero come il catrame fu l’unica risposta che ottenni.
 
Sì.
 
A quanto pareva sì, pensava davvero che avrei potuto andarmene in quel modo.
 
Non seppi dire se quella scoperta mi fece più arrabbiare o disperare, perché entrambi questi sentimenti mi sopraffecero con una forza devastante.
 
Ora sì che mi era venuta voglia di andarmene, il più lontano possibile. Sia da lui che da Smoker.
 
«Perché?» fu l’unica cosa che mi venne da chiedere, con la voce che tremava per la rabbia e la tristezza.
 
Il tono che usai sembrò scuoterlo, e nonostante tutto mi sentii sollevata vedendo che, finalmente, una scintilla di interesse era tornata ad accendere i suoi occhi. Ma si spense subito. «Dopotutto, avrei dovuto aspettarmelo» sussurrò, così piano che non potei nemmeno essere certa che fossero realmente quelle le parole che aveva pronunciato.
 
«Smettila!» gridai, non riuscendo più ad impedire che le lacrime iniziassero a rigarmi le guance e che la mia voce si incrinasse e si spezzasse, suonando acuta e stridula e strozzata.
 
Perché continuava a dire quelle cose?! Possibile che avesse sempre dubitato a quel modo di me? Eppure, io mi ero totalmente fidata di lui! Era ingiusto, era crudele che continuasse a parlare così!
 
«Smettila! Io non… Io non sono così! Smettila di incolparmi!»
 
A quella frase Ace fissò subito i suoi occhi nei miei, ed io mi stupii di vedergli in volto un espressione confusa e stordita. «Non ti sto incolpando! …lo so benissimo che è tutta colpa mia» aggiunse, lanciandomi uno sguardo così triste che mi spezzò il cuore.
 
Fu il mio turno di sentirmi confusa, al punto che smisi all’istante di singhiozzare.
 
Rimasi in silenzio, sforzandomi inutilmente di capire la situazione in cui mi ero cacciata. Continuavo ad osservare Ace e non capivo, ma la sua espressione – le labbra serrate con gli angoli piegati verso il basso, le sopracciglia aggrottate, gli occhi lucidi e tristi – era così rassegnata e addolorata che prima che potessi evitarlo, ripresi a piangere senza ritegno.
 
«Tu non sai chi è mio padre, vero?» domandò in un sussurro mesto.
 
Scossi la testa senza guardarlo, tenendo gli occhi serrati, premendomi istintivamente una mano sulla bocca come a cercare di zittire quei singhiozzi incontrollati.
 
Mi sentivo sempre più confusa, avrei solo voluto che Ace parlasse chiaramente, anziché mettersi a raccontarmi di suo padre. Ma chi se ne fregava di suo padre! Io volevo solo sapere cosa stava cercando di dire!
 
Avevo ancora gli occhi serrati e continuavo a singhiozzare e piangere rumorosamente, quindi non potei accorgermi di come Ace avesse tratto un profondo respiro per farsi coraggio, e non vidi nemmeno l’espressione tetra, allo stesso tempo furiosa e rassegnata, con cui diceva: «Mio padre è Gol D. Roger.»
 
Mi ci vollero alcuni secondi per capire cosa aveva detto.
 
Gol D. Roger.
 
Gol D. Roger.
 
Gol D. Roger era il padre di Ace.
 
*
 
Trovai, alla fine, il coraggio di confessarglielo. «Mio padre è Gol D. Roger.»
 
Trattenni il fiato, preparandomi alla reazione di Mikami.
 
Per alcuni istanti non successe assolutamente nulla.
 
Poi, lentamente, smise di singhiozzare ed aprì gli occhi, guardandomi. Mi sembrò quasi di sentire il mio cuore smettere di battere. Forse avrebbe iniziato a piangere ancora più forte, forse se ne sarebbe andata senza aggiungere una parola, o forse – probabilmente – si sarebbe infuriata... certamente, non mi avrebbe più visto allo stesso modo.
 
Ed effettivamente, dopo la mia confessione, mi guardò con occhi diversi.
 
Ma rimasi completamente spiazzato nel constatare che nei suoi occhi arrossati dal pianto non c’era né disprezzo nè repulsione e nemmeno odio, rabbia, delusione e tutta quell’ampia gamma di sentimenti negativi e sprezzanti a cui ero abituato e che mi ero aspettato.
 
C’era… ammirazione?
 
Rimanemmo a fissarci a lungo senza dire nulla – io sospettoso e incredulo, lei incredula quanto me ma con gli occhi che brillavano di interesse.
 
«Tu… sai chi è Gol D. Roger, vero?» mi sentii costretto a domandare ad un certo punto. Come poteva rimanere così calma, dopo aver saputo di chi era il sangue che scorreva nelle mie vene? L’unica soluzione, era che non si fosse resa davvero conto di cosa le avevo appena rivelato.
 
«Certo che lo so!» esclamò, ed ora ogni traccia di rabbia e tristezza era scomparsa dalla sua voce. Sembrava che l’unico sentimento che la animasse ora fosse un profondo e vivace interesse. «Tu… sei il figlio del Re dei pirati!»
 
«Esattamente» confermai cupo.
 
Mikami si asciugò rapidamente gli occhi con il dorso della mano, continuando a studiarmi attentamente come se mi vedesse per la prima volta.
 
Iniziai a sentirmi a disagio.
 
«Forse allora non ti rendi conto. Sono il figlio di Gol D. Roger, nelle mie vene scorre il suo sangue di demonio. Per metà, io sono lui» dissi con un sussurro, con la voce che tremava dell’odio che provavo verso quell’uomo.
 
A quella frase, Mikami sembrò finalmente rendersi conto della portata di ciò che le avevo confessato, perché sussulto e si fece improvvisamente seria e attenta.
 
«Tu non sei lui…» disse piano.
 
«Per metà lo sono» ripetei. «E metà è più che sufficiente per rendermi un demonio.»
 
Mikami sembrava divenire di istante in istante sempre più preoccupata e ansiosa. Ora sì, che iniziava a capire.
 
«Non lo sei affatto» insistette, ma il suo tono nervoso non suonò molto convincente.
 
«Non c’è bisogno che tu finga. Sapevo che prima o poi sarebbe successo, che te ne saresti voluta andare. E’ stato anche per questo che non ti ho detto prima chi fosse il mio vero padre, ma non mi illudevo realmente che bastasse tacertelo per fare in modo che tu non capissi chi fossi realmente.»
 
«Ma io lo so benissimo chi sei realmente, e sicuramente non sei un mostro, né un demonio né nulla di simile, indipendentemente da chi sia tuo padre» disse lentamente lei, studiandomi con attenzione.
 
Le mie labbra si torsero un in una smorfia. Allora, ancora non capiva.
 
«Sono figlio di un demonio e sono un mostro a mia volta, io non sarei mai dovuto nascere.»
 
«Ace ma co-
 
«Se io non fossi nato, mia madre sarebbe ancora viva. Se mio padre non l’avesse conosciuta, o se poi non la avesse abbandonata, lei sarebbe ancora viva. Cosa ti dicevo? Siamo uguali, due mostri, io e lui» dissi a fatica tra i denti serrati, stringendo tra le dita con forza il legno del parapetto.
 
Mikami sussultò nuovamente, intimorita. Ma ancora non sembrò decidersi ad andarsene. «Non dovresti parlare in questo modo…» disse in un sussurro, preoccupata.
 
«Perché no? E’ la verità. Soltanto la verità, la verità su come sarebbero dovute andare le cose. Mia madre ha dato la vita, per una persona inutile come me. Non è giusto. Non sarei dovuto nascere.»
 
«Smettila! Sono certa che lei non vorrebbe sentirti parlare così e-
 
«Cosa ne vuoi sapere tu?» esplosi, esasperato, lanciandole una minacciosa occhiata infuocata. Perché non si limitava ad andarsene subito e basta come avevano fatto tutti, anziché protrarre a quel modo il momento in cui sarebbe sparita dalla mia vita?
 
Mikami sobbalzò, ma non desistette. «Lo so perché ti voglio bene! E se soffro io, a sentirti dire queste cose, posso solo immaginare come soffrirebbe lei!» esclamò a sua volta, sostenendo con i suoi occhi di ghiaccio i miei.
 
Fui io a tentennare.
 
«Mikmai, lei è morta. Non credo possa soffrire più di quanto abbia già sofferto» dissi dopo alcuni istanti, tornando ad incupirmi.
 
Non me l’aspettavo minimamente ed ero totalmente impreparato: vidi la sua mano scattare verso di me ma non mi mossi.
 
La forza dello schiaffo che colpì con un rumore secco la mia guancia mi fece voltare il viso.
 
Ripresomi dallo stupore tornai a girarmi, puntando i miei occhi in quelli di Mikami, risentito ed arrabbiato.
 
Ma la mia rabbia impallidì quando si trovò davanti al suo sguardo furibondo e feroce, così minaccioso che mi ricordò Smoker. Tacqui, con la guancia in fiamme e la pelle che pizzicava e bruciava.
 
«L’hai detto tu stesso, lei ha dato la sua vita per te, e nonostante questo tu continuo a dare alla tua vita così poco valore?» ringhiò irata.
 
Per la prima volta da quando conoscevo Mikami non riuscii a reggere il confronto con il suo sguardo, e fui costretto ad abbassare gli occhi.
 
«Se vuoi odiare tuo padre sei libero di farlo, ma non provare mai più a dire che sei un mostro e che non sei degno di vivere. E, a proposito: nelle tue vene scorre anche il sangue di tua madre, nel caso tu te ne fossi scordato.»
 
Non mi venne in mente nulla con cui ribattere.
 
Rimasi immobile, rigido, con il capo chino, ancora arrabbiato, ma iniziando davvero a vergognarmi di ciò che avevo detto poco prima.

Passarono diversi minuti di perfetto silenzio.
 
Sussultai, sentendo le braccia di Mikami avvolgermi le spalle e la sua fronte poggiare sul mio petto.
 
Nel mio sguardo c’erano ancora diffidenza e rabbia, ma quando lei si alzò in punta di piedi per sussurrarmi piano all’orecchio «Davvero, non parlare più così, ti prego», anche quei sentimenti si dissolsero rapidamente.
 
Sospirai, iniziando a rilassarmi, affondando il viso nei suoi capelli lunghi e morbidi. Ricambiai con trasporto l’abbraccio. Mi sentivo stanco e spossato ma, decisamente, più sereno.
 
Mikami mi passò un braccio attorno al collo, posando le labbra in un lieve bacio sulla guancia che ancora pizzicava per lo schiaffo.
 
«Non ho mai pensato di andarmene» disse poi in tono greve, scostando il viso dal mio e fissandomi seria, dritta negli occhi.
 
«Davvero?»
 
«Davvero. Ma forse, ora tocca a me spiegarti un paio di cose…» disse con un sospiro stanco, abbassando lo sguardo.
 
Spazio autrice:
Non vi aspettavate che aggiornassi così presto, eh? In realtà, nemmeno io.
Il merito della mia velocità va, oltre al fatto che mi sono finalmente levata dalle palle l'esame di chimica organica (nel senso che l'ho dato, e in attesa di sapere se l'ho passato o meno mi prendo una pausa dallo studio), al fatto che questo è stato sì un capitolo impegnativo, ma anche interessante da scrivere: non ci sono molte possibilità di tirare in ballo il lato oscuro di Ace, generalmente.
E a proposito di questo, spero di essere stata convincente, perchè vi devo confessare che in tutta sincerità l'odio di Ace per Roger non l'ho mai capito fino in fondo e, visto che parlandone con alcune di voi o cercando in giro su forum e siti specializzati è venuto fuori che quest'odio rimane incompreso da tutti, ho provato ad interpretarlo nel modo che mi sembrava più credibile...
So che avevo detto che ci sarebbe stato anche il chiarimento del rapporto tra Smoky e MIki, ma come avrete capito è stato rimandato al prossimo capitolo perchè ho voluto sviluppare alcune scene che inizialmente non avevo previstoe che alcune di voi mi hanno proposto nelle recensioni: la reazione di Ace quando Fall lo chiama per portarlo da Mikami come diceva Sherry e la scena con Smoker che suggeriva Michiko. Io ogni tanto tendo a seguire la mia scaletta per completare la trama con il paraocchi, se ci sono scene che vi piacerebbe leggere sentitevi pure libere di farmelo presente! ^W^
Quindi vi ringrazio per i consigli, e ringrazio anche tre 88 e Yellow Canadair: non so cosa farei senza voi quattro ragazze fedelissime! <3
Bene, sono abbastanza soddisfatta, posso andare a letto tranquilla :)
Un bacione a tutte! :*
  
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