Fanfic su artisti musicali > One Direction
Segui la storia  |       
Autore: Acinorev    01/12/2013    17 recensioni
«Hai mai visto i Guinness World Records?» chiese ad un tratto Harry, continuando a fissare il sole splendente sopra le loro teste.
«Cosa c'entra ora?» domandò Zayn spiazzato, guardando l'amico attraverso le lenti scure degli occhiali.
«Hai presente quei pazzi che provano a stare in apnea per un tempo sempre maggiore? Ecco, tu devi fare la stessa cosa», spiegò il riccio, come se fosse un'ovvietà.
Gli occhi di Zayn si spalancarono, mentre iniziava a pensare che Harry si fosse beccato un'insolazione. «Devo provare a battere un record di apnea?»
«No, ovvio che no - rispose l'altro scuotendo la testa. - Loro si allenano per rimanere sott'acqua, un posto dove non c'è la nostra fonte di vita, l'ossigeno. Tu devi fare lo stesso, devi imparare a vivere senza di lei.»
Sequel di "Unexpected", da leggere anche separatamente.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Zayn Malik
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Unexpected'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


The anchor

Capitolo 27

Zayn.
 
Lo show televisivo era finalmente finito, io avevo finalmente smesso di costringere un sorriso perenne e falso sul mio volto – più falso del solito, dato che il presentatore di mezza età era davvero patetico – e, dopo tre quarti d’ora di cambio d’abiti, foto con le fans e tragitto verso casa, potevo finalmente abbandonarmi sul mio divano. L’appartamento era silenzioso, infondendomi il senso di familiarità e quiete che mi serviva per scrollarmi di dosso una parte della stanchezza: i miei capelli erano ormai senza una forma, dato che in auto Louis e Niall avevano deciso di inscenare una piccola lotta in cui io fungevo da povera vittima. Le labbra secche e le palpebre pesanti per quella giornata frenetica.
Gettai un’occhiata fuori dalla finestra e osservai il cielo buio, ma rischiarato a tratti dalle luci di Londra: in un certo senso, odiavo la notte. Non sapevo per quale strano e sadico motivo, ma mi obbligava a pensare più di quanto non fossi solito fare, ed io non volevo pensare, non potevo farlo.
Avrei voluto solo dimenticare tutto e vivere di nuovo, poter respirare a pieni polmoni senza sentire l’ormai solito dolore e dire “sto bene” perché lo pensavo effettivamente. Invece quegli obiettivi sembravano ancora lontani, perché, sul divano che ormai aveva preso la forma del mio corpo sdraiato, i miei pensieri si concentravano inevitabilmente su di lei. Sul modo in cui mi accarezzava il viso e i capelli quando io tornavo da un impegno lavorativo e la stanchezza era troppa per fare altro, sul modo in cui mi raccontava la sua giornata – “di certo è meno interessante della tua, ma chi se ne frega?” – per riempire i miei silenzi e per cullarmi, sul modo in cui, nell’esatto momento in cui sentivo le forze abbandonarmi e gli occhi chiudersi, mi baciava delicatamente le labbra, ed io ero più sveglio che mai.
Vicki aveva terribilmente ragione, purtroppo. Io, Kathleen, non l’avevo mai lasciata andare: era ancora lì, dentro e fuori di me, in ogni oggetto che mi stava intorno anche se la casa era diversa, in ogni movimento e in ogni episodio che avrei solo voluto raccontarle. Ed ero convinto che fosse così che doveva essere, perché una persona non si può semplicemente dimenticare o mettere da parte, ma era il modo in cui il suo ricordo mi influenzava ad essere sbagliato: dovevo imparare ad accoglierlo con serenità, grato che esistesse e che testimoniasse quanto fossi stato fortunato ad avere Leen al mio fianco, anziché reagire con rabbia e dolore, maledicendolo e allo stesso tempo aggrappandomi a lui disperatamente.
E aveva terribilmente ragione anche nel dire che io non avevo mai davvero affrontato la sua scomparsa, limitandomi a nascondere il dolore dentro di me per non deludere i miei migliori amici, la mia carriera e altri milioni di persone: sapevo benissimo che stavo semplicemente reagendo in ritardo, ma che tutto quello era necessario per andare avanti. Per farlo sul serio. Victoria, con la sua ingenuità e la sua sfrontatezza nel dire le cose come stavano, senza preoccuparsi troppo di come le sue parole mi avrebbero potuto ferire o risvegliare, mi aveva scosso e mi aveva fatto aprire gli occhi.
Prima era stato il turno della mia famiglia: aveva cercato di attutire la mia sofferenza con il suo amore puro ed immutabile, ma con scarsi risultati. E quando aveva notato come io mi stessi allontanando sempre di più, solo per sfuggire ai suoi tentativi per me soffocanti, aveva deciso di assecondarmi, di rispettare le mie decisioni e il mio dolore.
Lo stesso dolore con il quale anche i miei migliori amici si erano dovuti confrontare: anche loro, all’inizio, avevano provato a farmi ragionare e sfogare, a farmene venire fuori. Liam con le sue parole calme e i suoi occhi attenti, Niall e Louis con la loro serietà malcelata, che poi smorzavano solo per cercare di farmi sorridere, ed Harry con la sua voce bassa e i suoi discorsi filosofici. Eppure, anche loro avevano desistito, ad un certo punto: intorno a me si ergeva un muro impenetrabile che nessuna parola avrebbe potuto abbattere, ma che ad ogni attacco mi faceva ribollire il sangue nelle vene per la rabbia. Così, nessuno parlò più di Kathleen, facendo finta che anche loro avessero superato la sua scomparsa – cosa che invece sapevo non essere così – e assecondando il mio silenzio straziante.
Ed Abbie. Abbie ci aveva provato più di tutti gli altri, diventando la mia roccia di sostegno e la mia spalla su cui piangere quando nessun altro avrebbe potuto o dovuto vedermi. Ma era una roccia a pezzi, che si stava sgretolando sotto i miei occhi perché non era forte come avrebbe voluto essere, ed io non potevo essere egoista: così, il nostro non era stato un salvarci, ma un tenerci a galla, in  attesa. Abbie, alla fine, era riuscita a mettersi in salvo da sola, con le notti in bianco e le lacrime nascoste da tutti, con l’amore per la sua vecchia amica e i momenti bui in cui tutti i suoi sforzi venivano meno. Io, invece, stavo ancora aspettando che qualcuno accorresse in mio aiuto.
In quel momento era arrivata Victoria, una sconosciuta – anche se dai tratti del viso così simili ai suoi –, ed era riuscita ad influenzarmi più di qualsiasi altra persona, inaspettatamente: mi aveva fatto capire quanto fosse impossibile trovare una persona come Kathleen, nonostante le eventuali somiglianza fisiche, e quanto io fossi uno stupido a sperare in qualcosa del genere. E mi aveva sbattuto la scomoda verità dei miei fallimenti, quella che io cercavo in tutti i modi di mettere da parte. Per questo sentivo di doverla ringraziare, anche se ero convinto che non ci fossero modi esaurienti per farlo. Dovevo ringraziarla perché mi aveva gettato un salvagente, e stava solo a me decidere se aggrapparmi ad esso oppure continuare ad annegare, ancora e ancora.
Ed io avevo preso la mia decisione.
Mi alzai dal divano inspirando profondamente, e mi diressi verso la mia stanza: il letto era ancora disfatto, un paio di calzini spaiati giacevano sul pavimento freddo e la sedia della scrivania era ricoperta di vestiti. Mi passai una mano tra i capelli e sospirai, guardando con intensità il cassetto in cui avevo riposto tutto.
Quando mi decisi ad aprirlo, con il respiro trattenuto e la mascella tesa, il quaderno rosso e leggermente sgualcito risaltò subito ai miei occhi: aspettai qualche secondo prima di prenderlo tra le mani rigide ed esitanti, ed evitai di sfogliarlo tutto. Andai direttamente alle ultime pagine – più per paura che potesse finire il mio momentaneo coraggio, che per il dolore che rivedere quei ritratti avrebbe risvegliato in me – e osservai il disegno incompiuto che spiccava dalla carta bianca. Il viso di Kathleen era ancora un semplice miscuglio di linee indefinite e riluttanti: dopo quasi un anno dalla sua morte, avevo provato a ritrarla di nuovo, basandomi sulla mia memoria, ma per quanto ricordassi alla perfezione ogni suo particolare, era semplicemente insopportabile. Quella era una piccola prova del mio fallimento, del mio tradimento alle promesse fatte a Leen riguardo l’andare avanti e l’essere felice.
Al suo fianco, la busta bianca che conteneva le parole di Kathleen. La lettera che Abbie mi aveva consegnato dopo la sua morte e che io avevo odiato con tutto me stesso, quella che avevo tenuto lontana da me come se avesse potuto ferirmi mortalmente, quella che ormai era diventata la mia ancora. Perché quel mare in cui io stavo annegando, quel mare fatto di Leen e di tutti i momenti passati insieme, io non volevo lasciarlo definitivamente: nonostante il salvagente fosse lì per me, nonostante avessi la possibilità di scappare e vivere, quella lettera era un’ancora che mi impediva di muovermi, che mi teneva legato indissolubilmente a Leen.
Era come se, leggendo quelle sue ultime parole, avessi potuto spezzare quel flebile legame. Come se avessi potuto rendere la sua assenza ancora più vera, perché ero sicuro che dentro quel pezzo di carta avrei trovato un addio. E per tutto quel tempo avevo rifuggito anche solo il pensiero di prenderla in mano, ma ormai dovevo farlo. Dovevo accettare il suo addio e confrontarmi con i suoi ultimi pensieri. Dovevo lasciarla andare e lasciare andare me.
Posai il quaderno sulla scrivania e rigirai la busta sottile tra le mie mani, deglutendo a vuoto quando riconobbi la scrittura di Kath formare una piccola dedica: “Tua, Leen”.
Chiusi gli occhi e mi imposi di farcela.
Scartai la lettera, ripiegata su se stessa un po’ di volte e con l’inchiostro che traspariva in alcuni punti. Lentamente, la riportai alla sua forma originale. Chiusi di nuovo gli occhi, inspirando a lungo.
Quando li riaprii – le mani che tremavano impercettibilmente e le labbra in una linea dura –, capii che non avrei potuto tirarmi indietro. Non più.
 
“Ciao, Jawi.
 
È da qualche giorno che penso di scriverti questa lettera, ed è da altrettanto tempo che penso a cosa avrei potuto metterci dentro o a come avrei potuto iniziarla. Oggi mi sono stancata di rimandare e ho pensato: “Al diavolo, una volta che avrò il foglio bianco davanti, le parole verranno da sé”. Be’, posso dirti che sono seduta qui da più di mezz’ora ed è molto più difficile di quanto pensassi: tutto quello che vorrei dirti è solo un groviglio nella mia testa e non riesco a riordinarlo per poterlo riportare qui, sulla carta.
Sono sola in casa e devo approfittarne: Abbie è uscita e tu starai fuori per tutto il giorno per registrare il nuovo album, anche se hai promesso di correre a casa ad ogni pausa in cui ti sarà concesso. Credo che sia l’unica volta in cui vorrei dirti: “No, rimani lì e lasciami scrivere questa dannata lettera”. Immagino tu sappia già che il mio intento è quello di tenerla nascosta fino a…  Be’, fino a quando non ci sarò più.
Ma non voglio parlare di questo.
Voglio parlare di te, Zayn.
Ho talmente tante cose dentro di me, provo talmente tante sensazioni, che non so più come fare per contenerle tutte: di sicuro in questo momento ti starai chiedendo come mai io abbia deciso di scriverle, piuttosto che parlarne con te. Sono sicura, però, che ti sia anche già dato una risposta: sai benissimo che certe cose preferisco tenerle per me, che non voglio fartele pesare e che anche per me sono difficili da affrontare, e sai anche che non sopporto vedere il tuo viso cambiare espressione quando ci tocca confrontarci con quell’argomento.
Quindi sì, preferisco scrivere questa lettera e metterci dentro tutto quello che non riesco a dire a voce, per un motivo o per un altro; preferisco fartela avere quando non potrai più leggerla per poi guardarmi con gli occhi sofferenti e rassicurarmi, perché io con quegli occhi su di me non riuscirei a respirare.
 
Mi scuso in anticipo se il discorso non avrà un filo logico, ma ho tante cose da dire e poco coraggio per scriverle, o per pensarci abbastanza da poterle rendere quantomeno comprensibili.
Cercherò comunque di fare del mio meglio.
 
Qualche tempo fa, ho letto su una stupida rivista che, per quella settimana, le persone del mio segno zodiacale avrebbero avuto la fortuna dalla loro parte. A quelle parole ho chiuso tutto e non ho potuto fare a meno di sorridere. Da sola, seduta intorno all’isolotto in pietra della cucina, sorridevo: può sembrare un po’ inquietante se raccontato così, ma in quel momento io mi sentivo quasi una vincitrice. Ripensavo all’oroscopo e mi prendevo gioco di lui, così come di tutte le persone a cui si riferiva. Ricordo di aver pensato: “Che cosa stupida. Io sono già fortunata”.
Zayn, io Non credo che tu abbia mai capito – capito sul serio, intendo – quanto tu sia stato importante per me, fondamentale. Quanto lo sei e quanto lo sarai. Forse è colpa mia, perché non mi sono mai impegnata al meglio per dimostrartelo, anche se ci ho provato più volte, o forse una cosa del genere non si può semplicemente spiegare. Ecco, vorrei dirlo ancora una volta: mi hai reso la persona più fortunata del mondo.
Al diavolo gli oroscopi e le parole di qualche vecchia megera alla tv, loro non sanno cosa sia la vera fortuna, quella con la F maiuscola: io l’ho trovata, grazie a chissà quale aiuto divino, e sei tu. Sei tu, perché forse non te ne rendi conto, ma in tutti questi mesi sei stato la mia forza, la mia motivazione.
Sì, credo che “motivazione” sia la parola giusta. Perché, sarò sincera, se non ci fossi stato tu io mi sarei lasciata andare: avrei lasciato che questo dannato tumore mi portasse via ancora prima, avrei passato le giornate chiusa in casa a pensare a mille modi per farla finita. Invece ho avuto te al mio fianco: mi hai tenuta ancorata a questa vita, nonostante tutto. Mi hai dato un motivo per alzarmi ogni mattina e affrontare una nuova giornata, con te. Mi hai preso per mano e mi hai infuso tutto il tuo coraggio, tutta la tua forza, fino a privartene completamente: ed io ho sempre accettato tutto senza nemmeno rendermene conto, comportandomi come la peggiore delle egoiste.
E mi dispiace di averti caricato di tutto questo, mi dispiace di averti legato a me, mi dispiace e credo di avertelo detto mille volte, ormai: tu dici che non devo dispiacermene, ma io non ti ascolto, perché in fondo lo sai che sono testarda. Forse anche ora, mentre leggi queste mie parole, stai corrugando la fronte e mi stai maledicendo per questi miei pensieri, ma il fatto è che non posso farne a meno.
Eppure anche questo sembra costituire la mia fortuna, perché io sfido chiunque, su questo pianeta, ad essere pronto a soffrire ogni giorno pur di stare accanto a qualcuno nelle mie condizioni: me ne accorgo, sai? Mi accorgo di ogni espressione che passa sul tuo viso, di ogni sfumatura che assumono i tuoi occhi, di ogni timore che le tue mani cercano di nascondermi: mi accorgo di quanto tu ti trattenga dal farmi sapere il tuo reale stato d’animo quando le mie condizioni si aggravano, quando sono troppo stanca, quando tossisco sangue, quando non riesco a dormire. E sei un ingenuo se credi di essere un ottimo attore – ne sei sempre stato convinto -, perché dovresti sapere che ti conosco troppo bene, per non fare caso al dolore che provoco in te. C’è da ammettere, però, che ti comporti così anche perché te l’ho chiesto io, perché ti ho implorato di trattarmi normalmente, senza alcuna paura e come se noi avessimo ancora anni da passare insieme, uno affianco all’altra: so che tu non hai mai capito come fare e che hai accettato la mia richiesta nonostante ti stesse stretta, ma credimi, ho bisogno che tu sia lo Zayn di sempre.
Ne ho bisogno per non sentire il senso di colpa e anche per consolare me stessa, come se vederti condurre la vita di sempre potesse costituire una garanzia: come se, nella consapevolezza di doverti lasciare, io potessi contare sulla tua vita a tamponare la mia assenza. Più volte ti sei dichiarato disposto a mettere tutto da parte solo per starmi accanto, e altrettante volte abbiamo litigato perché io non voglio e perché tu non mi capisci: ma il fatto è, se tu azzerassi tutta la tua vita, nel momento in cui io non ci sarò e tu non dovrai più prenderti cura di me, a cosa torneresti?
Ecco, finalmente l’ho detto e tu non puoi ribattere, o almeno, io non sarò lì per sentire le tue proteste: o forse, leggendo queste mie parole, capirai finalmente fino in fondo il perché dei miei comportamenti e – chissà - arriverai persino a ringraziarmi.
Sono la persona più fortunata del mondo anche perché non ti sei arreso. Un futuro noi non l’abbiamo mai avuto, perché ce l’hanno portato via senza nemmeno darci la possibilità di fare qualcosa a riguardo, ma tu non ti sei arreso e hai lottato per assicurarmi un presente. Un presente degno di essere vissuto.
E ci sei riuscito, Zayn: mi hai dato qualcosa per cui valesse vivere. Sei arrivato tu ed io ho vissuto per te, ho lottato per te e, nonostante non sia stata abbastanza forte per vincere, sono felice di aver fatto tutto ciò che era in mio potere, perché ne è valsa la pena.
 
Un giorno, ricordo di averti detto che uno dei vantaggi dell’avere te al mio fianco era poter assistere a concerti privati nel nostro letto o quando più ne avevo voglia, e, quando tu mi hai chiesto quali fossero gli altri, io ti ho promesso che prima o poi te li avrei elencati. E so che probabilmente tu li conosci già, ma ho la sensazione di doverteli comunque ripetere: sei sempre stato tu quello con le parole giuste e adatte a me, quello che riesce a dirle, certe cose, mentre io la maggior parte delle volte do tutto per scontato. Così voglio scriverli qui, questi vantaggi: magari ti convinceranno anche mentre pensi di non aver fatto abbastanza per me. Non voglio rendere tutto più sdolcinato di quanto già sia, ma cercherò di essere il più sincera possibile, con tutto quello che ne consegue.
Ormai credo che tu mi conosca abbastanza bene da sapere che, rispetto ai grandi gesti, quelli minuscoli e spesso inosservati mi colpiscono molto di più: ai allo stesso modo, il tuo rimanermi accanto anche durante la malattia, anche durante la fine di me e di noi – e forse di una parte di te -, non sarebbe stato lo stesso se non fosse stato supportato da quei piccoli particolari che sono solo tuoi e che mi hai sempre regalato oltre ogni logica.
Forse non lo sai, ma sono davvero poche le volte in cui io mi sono addormentata prima che tu tornassi a casa a notte fonda: mi trovi sempre raggomitolata nel letto e con gli occhi chiusi, è vero, ma è solo un piccolo tranello. Voglio sentirti rientrare nella stanza senza avere i miei occhi addosso e senza importi alcun limite: voglio sentire i tuoi sospiri stanchi e i tuoi movimenti lenti, il fruscio delicato delle lenzuola con il quale non vuoi fare rumore e la tua immobilità con la quale so che mi stai scrutando nel buio: e voglio, anzi, ho bisogno di sentire le tue mani accarezzarmi leggermente, come se fossi tanto delicata da potermi rompere con una lieve pressione, o le tue labbra sfiorare le mie ma non troppo, per non svegliarmi. È il mio modo per capirti un po’ di più, per spiarti un po’ più a fondo: perché so che, se tu mi trovassi sveglia ad aspettarti, prima mi rimprovereresti per non essere andata a dormire e poi ti daresti un contegno. Non mi faresti capire quanto sia stanco o quanto le mie occhiaie ti preoccupino, né mi accarezzeresti in quel modo. Non che in altri momenti tu sia indelicato o chissà cos’altro, ma nel tentativo di non darmi alcun peso da sopportare e di non trasmettermi il tuo dolore, non mi tocchi quasi mai come se fosse l’ultima volta, tranne quando la sofferenza è troppa e tu non riesci a contenerla. Quindi direi che uno dei vantaggi è proprio quello di poterti sentire, in ogni tua sfaccettatura. Sentirti vicino e lontano, sentirti per me e sentirti fin nelle ossa, al buio o con i tuoi occhi addosso, nelle bugie di protezione e nella tua ingenuità.
E non posso non aggiungere la tua risata. Hai idea di come ci si senta ad ascoltarti ridere? Ad ascoltarti nel vero senso della parola, facendo attenzione ad ogni intonazione della tua voce e ad ogni particolare del tuo viso che si modifica solo per formare un sorriso. Non puoi nemmeno immaginare quante volte la tua risata mi abbia impedito di lasciarmi andare, di arrendermi e mandare tutto all’aria. Non puoi immaginare quanto mi faccia bene vederti con la testa buttata all’indietro e gli occhi socchiusi che trattengono le lacrime di ilarità. Mi fa sentire ancora viva.
Quante volte ti ho chiesto di raccontarmi tutti i tuoi viaggi? Di descrivermi ogni cosa che tu avessi visto e ogni posto che avessi visitato? Quante volte tu hai sbuffato perché era la terza volta che ti facevo ripetere le stesse cose, poi mi hai sorriso e mi hai accontentata? Sarà banale da dire, ma io ho conosciuto il mondo, grazie ai tuoi occhi: non sto qui a ribadire quanto poco tempo mi rimanga, però ho sfruttato le tue esperienze per immaginare tutto quello che non potrò mai vedere. Ho sempre usato le tue parole per sentirmi piccola di fronte ai grattacieli di New York, per immergermi nell’aria invernale di Parigi a Natale e per sentire il naso freddo mentre ho lo sguardo rivolto verso la Tour Effeil, per ridere dei modi eccessivamente cortesi dei giapponesi e per sentire il sole australiano sulla pelle. Ho viaggiato con te.
Ho provato l’amore, Zayn. Sai quante persone vivono e hanno vissuto decine di anni più di me e non possono dire lo stesso? E non è un amore qualunque: mi toglie il respiro, mi fa sentire così piccola e insignificante da farsi quasi odiare, ma allo stesso tempo è tutto ciò che io avrei chiesto e che ho avuto senza nemmeno dirlo ad alta voce. Ho sentito sulla mia pelle il tuo, di amore, e mi sono lasciata trapassare da esso senza opporre alcuna resistenza, in un modo talmente totalizzante che non so nemmeno come abbia fatto a sopportarlo. Eppure, non avrei potuto avere di meglio.
E ho l’impressione che questa lettera stia venendo fuori fin troppo lunga, anche se mi stanno saltando in mente altre mille cose da dire, altri mille lati positivi di te e di noi: i litigi per i panni sporchi sul pavimento che mi piacciono solo perché poi facciamo pace, i tuoi occhi mentre canti di fronte a migliaia di persone e gli stessi occhi che tra tutte quelle persone vedono solo me, il tuo profumo sul cuscino, le notti in cui non riesco a dormire e cerco di concentrarmi sul tuo respiro profondo e regolare per non pensare, l’arrosto che hai imparato a fare da poco e che è meglio del mio, e le tue mani. Le mani che mi sorreggono, che mi stringono quando tremo e che mi sfiorano quando il dolore è troppo forte: le mani che non stanno ferme fin quando non smetto di tossire e che mi accarezzano i capelli quando sono troppo stanca.
Tu sei il mio vantaggio, Zayn. Lo sei stato e lo sarai sempre, il mio vantaggio sul mondo intero, su tutte le altre persone.
 
All’inizio di questa lettera ho detto una piccola bugia, lo ammetto, anzi, è più corretto dire che abbia omesso qualcosa: la verità è che lo scopo di tutto questo, oltre dirti tutte quelle cose alle quali non riesco dare voce, è lasciarti qualcosa che possa aiutarti.
Mi spiego meglio. Io so quanto tu ci stia provando, Zayn. So quanta forza tu stia usando per tenere in piedi me e per non far crollare te stesso, e so anche che vorresti credere a pieno a tutte le parole di rassicurazione che mi rivolgi. E anche io voglio credere a tutte le tue promesse, al fatto che tu sarai forte abbastanza da sopportare la mia scomparsa e da andare avanti, anche perché mi fa male pensare che potrebbe non essere così. Eppure, c’è una parte di me che non crede a questa illusione, perché ti conosco e so che, per quanto entrambi vogliamo crogiolarci in questa verità costruita per farci bene, la realtà rischia di essere ben diversa: ho paura che tu non ce la faccia, perché anche ora ti vedo sgretolarti davanti a me ogni giorno che passa, e ho paura che io possa renderti infelice.
Quindi voglio che tu sappia che qualsiasi cosa tu stia affrontando in questo momento, qualsiasi giorno sia e qualsiasi quantità di tempo sia passata dalla mia morte, non mi hai deluso. Mai. In qualsiasi modo tu abbia reagito, che tu sia andato avanti o meno, io sono fiera di te perché non potrebbe essere altrimenti: ma voglio anche che tu sappia che, nel caso la tua forza non sia stata sufficiente, devi trovarne dell’altra e rimetterti in piedi, perché ne sei capace e perché te lo meriti più di chiunque altro. Meriti di stare bene, di tornare a sorridere come ora non riesci più a fare e di vivere senza di me: devi poter avere e fare ciò che vuoi, senza badare a nessun malato terminale e senza vivere nel continuo terrore di perdere qualcuno, ridere a crepapelle e in modo spensierato. Devi poter amare di nuovo e rendere fortunata un’altra persona, che saprà come renderti vivo in ogni centimetro di pelle proprio come tu hai sempre fatto con me.
E non importa quanto tempo ci metterai, quanto il senso di colpa ti divorerà – perché lo sta facendo già ora che io sono ancora qui -, perché l’importante è che tu ci riesca: sono convinta che, ovunque io sarò, riuscirò ad aspettare pazientemente tutto il tempo necessario, solo per poterti vedere risplendere, per poterti vedere riacquistare tutto ciò che io stessa ti ho tolto.
In caso contrario, se tutto questo è già avvenuto, non posso che essere felice per te. Nel modo più completo e genuino che esista.
 
Come ultima cosa, vorrei farti una confessione che non riuscirei mai a pronunciare ad alta voce o, peggio ancora, di fronte ai tuoi occhi attenti. C’è una cosa che mi fa preoccupa molto, ultimamente: ho paura che tra di noi non ci sarà un vero e proprio addio, che magari il mio stupido corpo deciderà di cedere mentre tu non ci sei e che io non avrò modo di salutarti. Così ho deciso che, ogni giorno che mi rimane, lo passerò a salutarti: tu non te ne accorgerai ed io non te lo dirò, ma è quello che ho intenzione di fare. E magari mi sbaglio e il nostro addio ci sarà, come nel più drammatico dei film romantici, ma non voglio rischiare: così, ora che hai letto questa lettera, qualsiasi cosa sia successa, sai che ho passato tutto il mio tempo a disposizione a salutarti. A baciarti nel caso non potessi più farlo e a meravigliarmi di svegliarmi il giorno dopo e di averne ancora la possibilità, ad accarezzarti senza motivo per prendere di te tutto ciò che potevo, a sentirti cantare per stampare la tua voce nella mia testa, come se non ci fosse già. E intanto, tu mi avrai salutato a tuo modo, senza nemmeno saperlo: perché in fondo credo che sia meglio di un addio in stile cinematografico. Perché è meglio salutarsi con un sorriso, piuttosto che con paroloni. Perché io sono troppo codarda per poterti dire addio. Perché a me basta così anche se sei tu a non bastarmi mai.
 
Prima non sapevo come iniziarla, e ora non so come finirla, questa lettera, ma sta diventando davvero difficile mantenere gli occhi asciutti e sento di doverla terminare in fretta. Quindi, concludo dicendo che mi hai dato tutto ciò che una persona potrebbe desiderare o di cui potrebbe aver bisogno.
Anche questa notte ti aspetterò sveglia nel letto, anche se tu non lo saprai, e continuerò a vivere fin quando potrò, solo per ringraziarti.
Grazie per esserci stato.
Grazie per avermi amata.
Grazie per avermi fatta vivere.
Grazie per non avermi lasciato alcun rimpianto.
 
E scusa, se io non ci sono più.
 
Ti amo,
Kathleen.” 
 


Abbie.
 
Come ormai da tradizione, mi trovavo davanti alla porta di casa di Zayn, a sbuffare per la frustrazione di non riuscire ad inserire la chiave nella serratura: il mio doppione era sempre stato difettoso, ma non mi ricordavo mai di farlo sostituire. Era normale, per me, aspettare il messaggio in cui Zayn mi avvertiva di essere tornato a casa da un impegno – ad un orario accettabile, con un sopportabile grado di stanchezza e in assenza di miei progetti diversi – e attrezzarmi con due bottiglie di birra e un cartone della pizza, pronta a raggiungerlo e a passare del tempo insieme. Per distrarci, per tirare un respiro di sollievo o per qualsiasi cosa di cui avessimo bisogno.
Alzai gli occhi al cielo mentre la porta si apriva, grata che le birre non mi fossero cadute e che la pizza fosse ancora in equilibrio sulla mia mano sinistra. Soffiai contro una ciocca di capelli che mi era finita dinanzi al viso ed entrai nell’appartamento.
«Perché sono così masochista da non aver ancora cambiato la chiave?» chiesi retoricamente, ad uno Zayn che non avevo ancora visto. La luce del salotto era accesa e non sentivo nemmeno un rumore, tanto che dubitai del fatto che fosse sveglio.
«Zayn?» esclamai, per sicurezza.
Non ricevendo risposta, appoggiai il cartone e le bibite su un tavolino lì di fianco e corrugai la fronte, facendo qualche passo in avanti: il giubbotto ancora a tenermi calda e la stoffa dei pantaloni della tuta che causava un leggero fruscio.
Stavo per chiamare di nuovo il suo nome, quando vidi Zayn seduto a terra.
Era appoggiato al mobile che ospitava il televisore, con ancora addosso gli abiti che probabilmente aveva usato quella sera: una gamba era piegata contro il petto e l’altra era distesa sul pavimento, teneva le mani in grembo e la testa reclinata all’indietro, appoggiata al materiale lucido e scuro del mobile.
«Zayn» sussurrai soltanto, avvicinandomi e studiando con attenzione i suoi occhi vuoti e arrossati, che erano fissi su di me ma che non mostravano alcun tipo di emozione o di interesse.
Mi tolsi velocemente il cappotto, rabbrividendo per lo sbalzo di temperatura e chiedendomi cosa potesse essere successo: non chiesi spiegazioni, però, quando mi accorsi della lettera stropicciata che giaceva tra le sue gambe e quando riconobbi la scrittura di Kathleen.
Rimasi a fissarla per un minuto buono, forse. L’aveva letta. C’era riuscito.
Quando gliel’avevo consegnata, la rabbia che aveva dimostrato mi aveva consigliato di non nominarla nemmeno una seconda volta, perché non avrei ottenuto nulla: sapevo solo a grandi linee quale fosse il suo contenuto – Kathleen me l’aveva rivelato senza però svelare troppo – e non avevo idea di come Zayn avrebbe potuto reagire nel leggere quelle parole.
Era diverso dal solito: non era lo Zayn furioso o stanco, in preda ad un dolore troppo forte da sopportare o ad un senso di colpa che non gli dava pace. Era semplicemente vuoto, esattamente come lo era il giorno in cui Kath era dietro alle porte del pronto soccorso a lottare invano per la sua vita.
Non proferii parola, limitandomi a stringere le labbra in una linea dura e a sistemarmi i capelli dietro le orecchie, mentre mi sedevo al suo fianco con un respiro profondo.
Sapevo che non ci fosse bisogno di parlare o di fare domande. Sapevo che c’era solo bisogno di aspettare, di aspettarlo.
Deglutii a vuoto, muovendo lentamente la mano sinistra verso la sua, fredda e debole. Incrociai le nostre dita e aspettai che lui ricambiasse il gesto, anche solo con un accenno. Immediatamente sentii la sua mano stringere la mia e il suo capo inclinarsi verso la mia spalla, per appoggiarsi su di essa.
Le mie labbra formarono l’abbozzo di un sorriso nel constatare che la situazione fosse meno grave del previsto: se Zayn fosse caduto a pezzi nel confrontarsi con le parole di Kathleen, non mi avrebbe permesso di invadere in quel modo il suo spazio, né mi avrebbe concesso di stargli accanto così tranquillamente. Avrebbe urlato, nel peggiore dei casi, o mi avrebbe dato contro senza motivo per poi uscire di casa facendo sbattere la porta.
Gli lasciai un bacio tra i capelli arruffati.
«È sempre stata troppo testarda» lo sentii sussurrare, così flebilmente da farmi chiedere se avessi sentito bene. E il suo non era stato un tono di rimprovero, né di dolore o rabbia: era quello che usava quando Kath era ancora viva, quello con il quale parlava di lei quando litigavano e non riusciva a farla desistere, quello con il quale si sfogava solo per poi andare a baciarla.
Così io sorrisi davvero, mostrando i denti e accarezzandogli la mano. «Era incorreggibile» ricordai, con la conferma che Kathleen l’avesse sempre anticipato, anche quando gli lasciava credere il contrario: perché lei sapeva cosa sarebbe successo dopo la sua scomparsa, sapeva esattamente che io e Zayn avremmo dovuto sostenerci e che Zayn, per quanto gli piacesse credere il contrario, avrebbe avuto bisogno di lei per andare avanti, anche quando lei non ci sarebbe potuta essere.
Kathleen l’aveva sempre saputo, e aveva fatto qualcosa a riguardo.
 
 
Vicki.
 
Non capivo come un regista potesse avere l’autorizzazione a girare un film del genere: avrebbe dovuto essere un horror, ma – forse per l’anno preistorico a cui risaliva, o forse per gli effetti speciali che speciali non erano nemmeno con tanta fantasia – sembrava più una commedia ironica e realizzata solo per farsi quattro risate.
«Oh, andiamo. Credi ancora che pos-»
Chiusi immediatamente la bocca, quando, voltandomi verso Louis, lo trovai con gli occhi chiusi e il viso rilassato. Sorrisi spontaneamente e dimenticai quell’assurdità di film.
Louis era venuto a casa mia dopo aver partecipato ad uno show televisivo con i ragazzi: avremmo dovuto vederci nel pomeriggio, ma lui si era dimenticato di dover sistemare alcune cose in sala registrazioni, quindi mi aveva promesso che, una volta finito lo show, mi sarebbe passato a prendere per uscire. Ovviamente, quando avevo visto i suoi occhi stanchi e sentito la sua voce un po’ assonnata, l’avevo costretto a cambiare i nostri programmi: era così che avevamo deciso di guardare un semplice film, anche se, data la bassa qualità dei programmi in tv quella sera, il meglio che eravamo riusciti a trovare era quel vecchio orrore.
All’inizio non facevamo altro che prendere in giro ogni piccolo dettaglio che stonasse nella sceneggiatura o anche solo i capelli di un arancione assurdo della protagonista femminile, ridendo come se avessimo avuto davanti la scena più esilarante del pianeta. Poi, con il passare del tempo, i commenti si erano fatti più rari, come se entrambi ci stessimo accontentando di sentire il calore dei nostri corpi intrecciati e dei nostri respiri. Fino a che, Louis si era addormentato, senza nemmeno che io me ne accorgessi: aveva i piedi scalzi appoggiati sul tavolino di fronte al divano, il braccio destro abbandonato lungo il suo fianco con in mano il telecomando e l’altro braccio intorno alle mie spalle. La testa appoggiata sullo schienale e il mio viso sulla sua spalla magra.
Alzai una mano per sfiorargli l’accenno di barba e le labbra sottili, leggermente schiuse per lasciar passare i respiri lenti e regolari. I suoi lineamenti mi lasciavano sempre incantata, in qualsiasi momento o situazione li avessi davanti: quando ero troppo arrabbiata per farmi abbindolare da loro, quando avrei passato ore a studiarli anche se a lui avrebbe potuto dare fastidio, quando si imbronciavano o mi privavano del vero Louis, e quando lui dormiva ed io avevo l’occasione di osservarlo senza temere di essere scoperta. Sembrava così innocente, in quel momento, da farmi desiderare di non avere sonno e di non volerlo imitare, solo per godermi ancora un po’ l’assenza delle sue innumerevoli barriere di protezione.
Aveva parlato con Eleanor. Senza che io glielo chiedessi di nuovo, mi aveva semplicemente chiamata e me l’aveva detto: “Sto andando da Eleanor per chiarire questa storia” aveva detto, e io avevo sentito il cuore accelerare i battiti e la felicità diffondersi lentamente in ogni fibra del mio corpo. Felicità che avevo completamente accettato – mettendo da parte i piccoli dubbi riguardo l’esito del loro incontro – quando Louis era tornato da me con un sorriso sul volto, assicurandomi che, per quanto Eleanor avesse protestato, pianto e masticato velati insulti, per quanto bene le volesse e per quanta paura avesse, non me ne sarei più dovuta preoccupare.
Era strano pensare di avere Louis, di averlo solo per me. Di essere l’unica a poter avanzare delle pretese su di lui, l’unica a cui lui volesse tornare, l’unica a poterlo accarezzare. Ed era talmente forte il calore al centro del mio petto, talmente intenso e in grado di sopraffarmi, che ero arrivata a chiedermi se non si fosse tramutato in qualcosa di più, in qualcosa simile all’amore.
Mi morsi una guancia a quel pensiero, ancora confusa: non ero mai stata davvero innamorata, e sapevo che il mio spirito romantico era un abile ingannatore. Eppure non riuscivo ad immaginare un sentimento più forte di quello che mi univa a Louis, nulla che avesse potuto frenare la mia consapevolezza e smontare quella mia ipotesi tanto assurda da sembrare reale.
Con ancora una mano appoggiata delicatamente sul suo viso, spostai il pollice per sfiorargli la mascella: lui si mosse debolmente, facendomi credere che si fosse svegliato, ma non aprì gli occhi, né diede segno di essere cosciente. Dopo qualche secondo di immobilità, in cui valutai come muovermi, inspirai profondamente.
«Credo di amarti» sussurrai con un fil di voce, stando attenta a qualsiasi emozione mi attraversasse il corpo in quel momento. E per quanto fossi restia ad ammetterlo, per quanto avessi paura di sbagliarmi o addirittura di confessarlo a Louis, nessun’altra parola mi era mai sembrata così giusta, così vera.
 

 

 
ANGOLO AUTRICE

Indovinate un po’? Questo capitolo mi fa più o meno schifo ahhaahah
Ho sempre delle aspettative troppo alte, e poi rimango delusa da me stessa!
Ma non sto qui a menarvela con i miei complessi: piuttosto, spero che a voi sia piaciuto,
nonostante tutto! Forse, non avendo le mie stesse aspettative, sarete più buone haha
Andiamo in ordine: il tanto famigerato POV Zayn, in realtà non era altro che
un infinito POV Leen, il primo in assoluto! Io ho pianto scrivendolo, ma perché Leen
è il mio personaggio, quello a cui devo anche chiedere scusa magari, quindi
sono diventata un attimo masochista e questo è il risultato! Non in molte vi ricordavate
di questa lettera, quindi sono curiosa di sapere le vostre opinioni a riguardo!
Io preferisco non commentare, perché mi piace leggere cosa voi ne deducete :)
Inoltre, anche chi non ha letto “Unexpected” ora può confrontarsi in modo
più diretto con la nostra Kathleen, che santo cielo come mi manca, ma lasciamo perdere!
So che la reazione di Zayn alla lettera non è stata approfondita come magari
avreste voluto, ma ovviamente ci sarà modo di farlo: per ora, secondo voi cosa pensa?
(Scrivere di nuovo di Zayn è stato a dir poco strano, e straziante, come sempre!)
Poi, poi, poi: Abbie e Zayn come vedete non si sono affatto allontanati, anzi,
a discapito di quello che temevano alcune di voi, Victoria non potrebbe mai sostituire
la nostra Abbie! Il loro rapporto ormai è troppo forte per permettere qualcosa del genere!
E Victoria e Louis: c’è poco da dire, si sapeva che lei fosse cotta e stracotta hahah
Vi avverto: dal prossimo capitolo tra di loro succederà un po’ un casino!
Ormai sapete che con me non si sta mai tranquilli ahahah
(ah, scusate se non ho inserito la scena in cui Louis dice a Vicki di aver parlato con Eleanor,
ma ci sarebbero voluti capitoli in più e ho preferito farlo indirettamente!)


Ah, per chi volesse saperlo: conto di arrivare a 31/32 capitoli al massimo!
Beh, detto questo, fatemi sapere le vostre impressioni! Spero davvero di non avervi
deluse con questo capitolo, perché ci tengo abbastanza! Siate sincere!
Grazie mille per tutto, come sempre! Siete meravigliose :)

Un bacione,
Vero.



  
Leggi le 17 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > One Direction / Vai alla pagina dell'autore: Acinorev