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Autore: morrigan89    07/12/2013    1 recensioni
Era stato un bambino di strada, un rifiuto della società, una vita senza futuro. Gli avevano promesso cose che non avrebbe mai potuto avere. Lui aveva cercato di prendersele lo stesso.
La storia di Xanxus.
{Capitolo VII: Alleanza. "Sì, Squalo era completamente fuori di testa, Xanxus non ne aveva alcun dubbio. E la cosa, doveva ammetterlo, gli piaceva."}
Genere: Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Superbi Squalo, Xanxus
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo V. Erede




Xanxus aveva 15 anni quando scoprì il mondo delle donne. O forse, come sarebbe più corretto dire, fu il mondo delle donne a scoprire lui.
Difficile dire se fosse per il suo aspetto (nell’ultimo anno era cresciuto tantissimo in altezza, aveva  iniziato a mettere su un po' di muscoli con gli allenamenti e i suoi lineamenti si erano fatti più duri, decisi, da uomo più che da ragazzino) per il suo illustre futuro in quanto figlio del Boss o per quel suo sorrisetto da poco di buono che faceva inevitabilmente strage di cuori; fatto sta che le ragazze, che fossero di buona famiglia, dell'ambiente mafioso o ragazze qualsiasi, lo cercavano assai spesso e facevano a gara per attirare la sua attenzione; forse, a dire il vero, lo cercavano più spesso di quanto lui cercasse loro.
Xanxus da parte sua non si faceva certo problemi ad assecondarle e a dar loro quello che volevano, senza soffermarsi troppo a pensare se ciò che le attirava di più era davvero lui o piuttosto la sua ricchezza, la sua posizione di futuro uomo di potere. A lui non importava, perché aveva scoperto il gusto che si prova a sentirsi desiderati e di certo non era il tipo da sputare sopra un po’ di buon sesso senza complicazioni, benché non provasse alcun tipo di stima, figuriamoci affetto, verso quelle ragazze. Per lui erano solo feccia, come tutti gli altri, maschi o femmine che fossero, e il sesso era solo un’ennesima dimostrazione del suo successo.
Fu così che la sua condotta divenne oggetto di animate discussioni fra la cerchia dei guardiani del Nono, che guardavano alle sue numerose conquiste con un certo divertimento e forse anche con un po’ di ammirazione e invidia. Il Consigliere Esterno del Nono, però, pareva non pensarla così.
La sera in cui, con suo sommo sgomento, Sawada Iemitsu vide non una ma ben due ragazze uscire di soppiatto dalle stanze di Xanxus nell'arco di un’ora, si rese conto che forse era giunto il momento di fargli qualche discorsetto, prima che il Nono si rendesse conto che suo figlio aveva già una vita sessuale così impegnativa senza avere neanche un briciolo di educazione sentimentale. Così decise di aspettarlo al varco e parlarci lui.
Riteneva che dopo due meeting così impegnativi sarebbe senz’altro sgattaiolato nelle cucine a rifocillarsi e la sua intuizione si rivelò esatta; dopo alcuni minuti, infatti, Xanxus varcò la porta delle sue stanze con un aspetto decisamente scarmigliato, come era prevedibile, con tanto di capelli spettinati e camicia abbottonata a casaccio.
Quello che però Iemitsu non aveva previsto era l’espressione indifferente che gli vide in viso e che a lui sembrò significare una sola cosa: noia. La noia di una persona perennemente insoddisfatta da tutto e da tutti, come se niente e nessuno potesse bastare per lui e calmare quella fame senza nome che gli era rimasta dal suo umile passato.
Di certo, pensò il Consigliere Esterno, non era l’espressione che ci si sarebbe aspettati da uno che aveva trascorso le ultime ore in così piacevole compagnia. Tuttavia non permise a quella scoperta di scomporlo troppo e, quando Xanxus incontrò il suo sguardo, gli ammiccò in maniera complice e scherzosa.
–Due, eh? –.
Xanxus non nascose minimamente il suo fastidio nel trovarselo davanti alla porta e lo sorpassò rivolgendogli un’occhiata scocciata. Era chiaro che il giapponese avesse qualcosa da dirgli, ma in quel momento lui riusciva solo a pensare alla voragine che gli si era aperta nel suo stomaco e che non aspettava altro che essere colmata.
–Sai contare, Iemitsu– gli rispose.
Il Consigliere non si lasciò scomporre nemmeno da quel freddo saluto sarcastico, ma prese a seguirlo per i corridoi come fosse la sua ombra. –Penso di averle già viste, quelle due. Non sono le figlie del presidente della provincia? Com’è che si chiamano? –.
Xanxus corrugò la fronte, come se la domanda lo avesse preso alla sprovvista, e suo malgrado si ritrovò a rallentare il passo e a riflettere. Come diavolo si chiamavano quelle due? Lui non si era neanche preoccupato di chiederglielo, ma erano state loro a presentarsi, se non ricordava male. Qualcosa come Lucia e Maria, o Livia e Marta, o Laura e Mara o…
–Che importanza ha?– sbottò irritato, lanciando a Iemitsu un’occhiata sospettosa.
Il giapponese sorrise mestamente, come se le parole di Xanxus avessero appena confermato quello che temeva. –Ti sei già scordato i loro nomi, vero?–
Xanxus si fermò di botto e si girò verso di lui, resistendo alla tentazione di roteare gli occhi per quanto quella discussione lo annoiasse.
Ecco, i suoi sospetti erano fondati come al solito: predicozzo in arrivo.
–E allora? Tanto non mi importa niente di loro– scandì, guardando l’altro negli occhi con un atteggiamento di sfida. Del resto chi era quell’uomo per permettersi di dirgli come comportarsi? Era stato suo maestro, certo, l’aveva praticamente visto crescere, ma non era suo padre.
–Dunque è così che tratti le ragazze? Le usi una volta e tanti saluti?–
A quelle parole di biasimo Xanxus si sentì improvvisamente ribollire di rabbia, perché riteneva che non fossero affatto affari di Iemitsu, quelli. Strinse i pugni e puntò i piedi. –Cos’è, mio padre ti ha mandato a farmi la predica?  Se ha qualcosa da dirmi venga a dirmelo di persona! –.
Iemitsu mise le mani avanti. Tentò di assumere un tono affabile e gentile, l’unico modo che conosceva per trattare con il figlio del Nono quando decideva di dare in escandescenze, anche se, a dire il vero, raramente sembrava funzionare.
–No, Xanxus. Non mi ha mandato tuo padre e non sono venuto a farti una predica, solo a fare una chiacchierata. Da uomo a uomo–.
Questa volta Xanxus non poté trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo. Detestava questi patetici tentativi di fare l’amicone con lui, quando era ben chiaro che lui non voleva essere l’amicone di nessuno. Eppure sapeva anche che quel testone di Iemitsu non avrebbe mollato la presa così facilmente, quindi si limitò a incamminarsi di nuovo verso le cucine, pur conscio di essere ancora seguito dall’altro.
–Bla bla bla…– disse il giovane in risposta, imitando il gesto di parlare con la mano.
–È solo che sono un po’… stupito, ecco– insistette l’altro –Sei così giovane e hai già avuto così tante esperienze. Non credi che dovresti provare a darti un freno e…–
Xanxus emise una breve risata, simile a un colpo di tosse.
–Cos’è, sei invidioso per caso? –.
Questa volta fu il turno di Iemitsu di bloccarsi momentaneamente nel suo cammino, ma nel suo caso fu per lo stupore, non per la rabbia. –Invidioso? – chiese, interdetto.
Il ragazzo si girò brevemente per rivolgergli un sorrisetto maligno. –Sì, beh, immagino che ora che ti sei sposato tu non possa più darti alla pazza gioia, no? –.
Nel sentir menzionare il suo matrimonio Iemitsu fu veloce a ricomporsi e rispose a quella insinuazione con un sorriso sognante. –Veramente la mia gioia più grande è proprio essere sposato con Nana–.
Xanxus fece una faccia schifata: da quando il giapponese aveva scoperto le gioie del matrimonio il suo buonumore e la sua vivacità erano cresciuti a un livello a dir poco offensivo per i canoni di un torvo adolescente.
Se non altro, tra un battibecco e l'altro, erano finalmente arrivati alla sua meta, dove avrebbe potuto riempirsi lo stomaco a suo piacimento, sempre che quell’altro non gli avesse fatto prima passare l’appetito con quelle sdolcinatezze.
–Commovente, davvero commovente. Ora, se non ti dispiace…– Senza aggiungere altro si infilò in cucina e si richiuse la doppia porta alle spalle, proprio in faccia all’altro. Il Consigliere, implacabile, lo raggiunse un attimo dopo mentre Xanxus era già intento a perlustrare un gigantesco frigorifero in cerca di qualcosa di commestibile.
–Quello che volevo dire è: sei giovane, è comprensibile che tu voglia divertirti, adesso.  Ma forse una di quelle ragazze potrebbe darti più di una semplice…– Iemitsu arrossì, incerto su quale fosse la parola meno imbarazzante da usare. Insomma, poteva anche essere un eccellente maestro d’armi e strategie, ma l’educazione sentimentale non era proprio il suo campo. Inoltre era piuttosto frustrante affrontare un discorso del genere con qualcuno che invece di ascoltarti tiene la testa dentro un frigo.
–Sì, insomma…–.
Xanxus riemerse dal frigo brandendo una coscia di tacchino, a cui attaccò un grosso morso famelico.
–Scopata? – suggerì distrattamente mentre masticava rumorosamente.
Il consigliere trasalì leggermente. –Non era il termine che avrei usato, ma il senso è quello–.
Xanxus prese a masticare più forte, quasi volesse sfogare la sua irritazione sul povero avanzo di tacchino. Ecco che quello scocciatore attaccava con la solita patetica solfa sui sentimenti, l’amore, la bellezza di una relazione alla pari con una persona speciale e altre simili cose disgustose. Fanculo, pensò, lui non voleva alcuna relazione e comunque non c’era nessuno che fosse alla pari con lui, al mondo, e le ragazze che frequentava non facevano certo eccezione.
Deglutì l'ultimo pezzo di carne. –Già, peccato che a me non interessi ricevere nient’altro– disse sbattendo la porta del frigo –Tanto meno da una di quelle–.
–Perché no? Cosa c’è che non va in loro?–.
–Sono solo feccia– disse con semplicità, scrollando le spalle, come se per lui fosse un dato di fatto che non ammetteva repliche e di cui in fondo non gli importava molto. –E poi a me non interessa avere una relazione seria, il sesso e basta va più che bene.
Iemitsu, invece, di repliche ne aveva parecchie. –Cosa? Perché dici questo?–
Xanxus lanciò al consigliere quel genere di occhiata che un uomo vissuto scoccherebbe a un ragazzino ingenuo e un po' idealista. –E cosa dovrei farmene di una relazione? Sono bravi tutti a farsi amare da qualcuno, sposarsi e farsi una famiglia. Avere tutte le donne che si vogliono, be', quello sì che è una roba degna di rispetto, non credi?–
Iemitsu aprì la bocca per tentare di replicare, inutilmente, perché il ragazzo fu più veloce di lui.
–E comunque chi ti dice che le "uso", quelle tizie?– continuò, lanciando l'osso di tacchino nel cestino più vicino –Sanno benissimo cosa devono aspettarsi o meno, e se invece si mettono in testa che vogliono di più da me sono cazzi loro. È uno scambio: loro mi danno del sesso e io do loro quello che vogliono. Che male c'è?–
Questa volta il consigliere non provò neanche a rispondere. Non ci riusciva: era completamente disarmato. Vedeva quel ragazzo di soli quindici anni che parlava di persone come di cose, di relazioni umane come semplici scambi di favori e non poté che provare una cosa sola per lui. Pietà.
Xanxus non afferrò il vero motivo dello smarrimento nello sguardo del giapponese, non capì che se  non parlava non era perché era stato preso in contropiede, ma perché non riusciva a capire cosa fosse andato storto: perché, con tutto l'affetto che aveva ricevuto, non riusciva a comprendere il valore dell'amore incondizionato? Perché credeva di non volere altro che potere e sesso, di non potere offrire neanche una briciola di affetto?
–Be', è già finita la predica?–. Xanxus gli rivolse un sorrisetto vittorioso mentre lo superava, diretto alla porta. –Ora, se non ti dispiace, ho altro da fare–.
Iemitsu restò impalato. Cosa avrebbe detto al Nono, si chiese. Con che coraggio gli avrebbe riferito la discussione che aveva appena avuto? Solo quando sentì la porta aprirsi si riscosse dal suo stupore e si girò di scatto. Doveva dirgli qualcosa, fargli cambiare idea.
–Xanxus, non...–.
Ma Xanxus se n'era già andato.


*


Xanxus non era ancora maggiorenne quando prese l'abitudine di passare un buon numero delle sue serate in locali in cui in realtà non avrebbe potuto neanche mettere piede. Suo padre probabilmente avrebbe avuto un infarto se avesse saputo che suo figlio aveva cominciato a sgattaiolare fuori di notte, eludendo la rigida sorveglianza di villa Vongola, per andare a bere in compagnia di persone poco raccomandabili, in locali ancora meno raccomandabili, ma a Xanxus ormai non importava granché di come la pensasse suo padre su certe cose.
Lui sapeva bene che il suo mondo aveva molte più facce di quella pulita che Timoteo aveva cercato di costruire per la sua Famiglia e sapeva anche che le alleanze e le amicizie non si stringevano solo davanti a un tavolo per le riunioni, ma più spesso fra qualche bicchierino di vodka, una sigaretta e magari anche una ballerina di lapdance seduta sulle ginocchia.
Certo, Xanxus usciva più per il suo piacere che per annusare che aria tirava nel microcosmo mafioso e raccogliere informazioni per il bene della sua famiglia, ma era riuscito lo stesso a crearsi una rete di contatti, di estimatori, e questo significava molto per un giovane rampollo di una famiglia mafiosa, non ancora giunto alla maggiore età ma già così conosciuto e apprezzato nel suo ambiente. Molte persone erano scontente della piega che aveva preso la Famiglia Vongola da quando Timoteo ne aveva preso le redini: il Padrino aveva posto il veto su certi illeciti che da molti anni erano ormai affar comune nel resto delle cosche, come il traffico di droga e la prostituzione, che a suo parere erano cose sporche in cui persone onorevoli non avrebbero dovuto immischiarsi; inutile dire che molti avevano iniziato a prendere iniziative per conto loro, di nascosto, sottraendo parte delle loro forze alla Famiglia, mentre altri, più fedeli al Don, continuavano comunque a protestare ogni volta che se ne presentava l'occasione, perché era assurdo per loro voltare le spalle a una così grossa fonte di guadagno. Perché poi tanta disapprovazione nei confronti della prostituzione, quando tutti sapevano che lui stesso aveva avuto un figlio da una prostituta? Molto ipocrita da parte sua, ritenevano.
Molte altre persone ancora ritenevano che il Nono si fosse rammollito da quando aveva perso Federico, che non fosse più in grado di difendere la Famiglia dagli attacchi esterni e quindi di offrire quella protezione che gli affiliati avevano sempre pagato offrendo in cambio i loro favori. La sua posizione nei confronti dei Mancuso, poi, era stata accettata malvolentieri da una buona fetta degli alleati, perché non era stato solo il nucleo centrale dei Vongola a subire delle perdite a causa della faida e chi aveva perso i propri cari o i propri picciotti non aveva smesso di desiderare vendetta, nonostante il trattato di pace che Timoteo e Alvaro avevano sottoscritto insieme.
Nemmeno Enrico, che pure era il primogenito ed era stato sempre il favorito per la successione, era più gradito come un tempo: un uomo tutto d'un pezzo, serio e onorevole, ma in fin dei conti pur sempre una creatura di suo padre, a cui era molto attaccato. Era risaputo che Enrico non faceva neanche un passo senza prima essersi prima consultato con Timoteo.
Xanxus, d'altra parte, era una garanzia. Xanxus non faceva mistero di quanto fosse in disaccordo con le politiche di suo padre, non si faceva scrupoli su cosa fosse onorevole fare per guadagnare denaro e potere e, inoltre, in molti avevano ammirato il modo in cui aveva ripagato gli insulti dei Mancuso. Se fosse stato lui il Decimo, al posto del suo fratellastro, Xanxus avrebbe portato ricchezza e protezione alla Famiglia e ai suoi alleati, governando con un pugno di ferro.
Fu proprio durante una di quelle notti di baldoria che venne sancito ciò che da tempo si sentiva nell'aria.


Erano quasi le due quando Xanxus scavalcò l'alto muro di cinta del giardino e si lasciò cadere sul prato, atterrando senza fare quasi rumore e con una grazia che non ci si aspetterebbe da uno ormai alto più di un metro e ottanta.
Se proprio doveva dirla tutta, la parte che preferiva nelle sue uscite di nascosto era proprio questa: entrare e uscire senza che nessuno se ne accorgesse, sgusciando silenziosamente tra le ombre, non visto dalle guardie e non sentito dai cani. Gli dava un senso di potenza farla in barba a suo padre e alla sua sorveglianza, ma la cosa più divertente era che, se aveva acquistato tanta abilità nel muoversi come un assassino, era dovuto agli insegnamenti di Tyr, insegnamenti che era stato proprio Timoteo a chiedere sotto insistenza di Iemitsu. Riteneva che ci fosse una deliziosa ironia nel fatto che, anche se indirettamente e a malincuore, era stato suo padre a fornirgli quell'arma.
Silenzioso come un felino attraversò velocemente il cortile, con l'accortezza di camminare sul prato anziché sul vialetto selciato, che avrebbe scricchiolato troppo sotto i suoi passi, e si nascose dietro un cespuglio per controllare se ci fosse via libera. Ai piani alti le luci erano stranamente accese nonostante l'ora, ma nei paraggi della porta di servizio era tutto buio, il che significava che avrebbe potuto sgattaiolare dentro senza essere visto. Dopodiché, durante il passaggio al piano superiore, se qualcuno lo avesse colto in fallo avrebbe pur sempre potuto dire di essere andato a fare una capatina in cucina, cosa per niente insolita per lui.
Lasciò il rifugio del cespuglio e percorse gli ultimi metri che lo separavano dal traguardo. Ecco, era arrivato. Salì i gradini, sogghignando fra sé e sé per essere ancora una volta riuscito a farla franca, infilò la sua copia delle chiavi nella serratura, aprì la porta e... trasalì rumorosamente.
Di fronte a lui, il volto pallido e cadaverico che risaltava nel buio del corridoio, c'era Tyr.
Severo e glaciale come sempre, il Boss dei Varia rivolse al ragazzo stupito uno sguardo inespressivo. –Lupus in fabula– proferì con la sua cadenza marziale e, benché come al solito niente sul suo volto tradisse cosa pensava, Xanxus ebbe la netta impressione che il Varia fosse compiaciuto di averlo colto a disubbidire gli ordini di Timoteo, a tentare di sgattaiolare in casa a quell'ora della notte.
Xanxus, da parte sua, era sorpreso che Tyr fosse lì. Sapeva benissimo che il vecchio arcigno odiava scomodarsi per venire a parlare con suo padre, cosa che di certo il ragazzo non riusciva a biasimare, e che era solito non abbandonare mai il Quartier Generale dei Varia a meno che non fosse richiesta espressamente la sua presenza. Nel corso degli anni le sue rimostranze erano state tali che, alla fine, Timoteo aveva suo malgrado concesso che, qualora avesse avuto bisogno dei suoi servigi, sarebbe andato lui a far visita all'altro nella sua sede; dunque se Tyr era venuto fino lì a quell'ora della notte poteva significare solo una cosa: qualcosa di grosso bolliva in pentola.
Xanxus si schiarì la gola per darsi un tono, leggermente imbarazzato per il suono inarticolato che quell'attimo di spavento gli aveva strappato di bocca. Il peggio era che, a causa del volto impassibile del suo istruttore, non era mai in grado di capire cosa pensasse di lui. Era una cosa che detestava. –E tu cosa ci fai fuori dal tuo antro?– gli chiese con arroganza.
–Potrei farti la stessa domanda, moccioso– rispose Tyr. In bocca ad un altro quelle parole avrebbero suonato come un rimprovero, ma pronunciate da lui avevano solo il tono piano della constatazione. –Ma non dirò niente a tuo padre, rilassati. Se non sa farsi temere neanche dalla sua progenie è un problema suo, non mio.–
–È successo qualcosa?–
–Niente per cui valesse davvero la pena farmi venire fino a qui. A quest'ora della notte, per giunta–
Xanxus piegò le labbra in un sorrisetto perché, senza volerlo, Tyr gli aveva dato un'occasione per punzecchiarlo. Nel corso degli anni era diventato un loro costume scambiarsi battute taglienti, una schermaglia che ricalcava curiosamente i loro pericolosi allenamenti. Un tempo forse avrebbe avuto paura di insultare il Varia, perché per quanto non l'avesse mai visto arrabbiato questo non lo rendeva affatto meno letale, ma ormai Xanxus aveva le abilità sufficienti per tenergli testa.
–Sempre a lamentarti. L'età avanza, eh?–
Tyr piegò lentamente l'angolo del labbro. Non era un vero sorriso spontaneo, perché Tyr non sorrideva, e infatti i suoi occhi rimasero vitrei, quanto piuttosto una consapevole e calibrata dimostrazione di aver apprezzato la mossa dell'altro. Ancora una volta, però, il colpo non era andato davvero a fondo.
–Se un assassino raggiunge un'età avanzata è perché è molto bravo a fare il suo lavoro, quindi attento a come parli, moccioso.– Raddrizzò le labbra –Ora vai da tuo padre, prima che si accorga della tua assenza. Non voglio rogne–
Xanxus inarcò le sopracciglia. A quanto pare ci aveva visto giusto –È alzato a quest'ora? Allora è successo davvero qualcosa!–
–Vai e ascolta tu stesso. Per oggi ho già esaurito la mia pazienza–.
Il Boss dei Varia si tolse dall'arco della porta e, lanciando a Xanxus un'ultima occhiata indecifrabile, lo superò e se lo lasciò alle spalle. Il ragazzo lo seguì con lo sguardo per qualche istante, chiedendosi solo ora che cosa avesse voluto significare con quel "lupus in fabula" iniziale, prima di scrollare le spalle e entrare in casa. 


Quando vide l'Arcobaleno del Sole in persona venire verso di lui nel corridoio che portava alla sala delle riunioni, Xanxus ebbe la certezza che fosse successo qualcosa di importante, perché era rarissimo che il leggendario cecchino si facesse vedere in pubblico.
In realtà Xanxus l'aveva già visto altre volte, la prima quando era appena stato accolto tra i Vongola, la seconda quando era morto Federico, e poi alcune altre volte, quando la Famiglia si era ritrovata in difficoltà o davanti a una scelta difficile e che andava presa con molta cautela. Ricordava molto vividamente quelle fugaci apparizioni perché c'era un'aura particolare, di pericolo e mistero, che circondava quella figura minuta, bambino, di cui solo gli occhi neri e profondi come la notte tradivano la verità che, di infante, Reborn aveva solo l'aspetto.
Quando gli arrivò vicino Xanxus si fermò sui suoi passi e pronunciò il suo nome, in segno di saluto e di rispetto. Non erano molte le persone per cui Xanxus avesse rispetto, ma l'Arcobaleno era senz'altro uno di quelli.
–Reborn–.
Il bambino si scostò il cappello che gli adombrava parzialmente il viso, il suo famoso fedora bordato di arancione, e alzò il capo per poter guardare il giovane Vongola, che era quasi un gigante in confronto a lui.
–Xanxus– lo salutò Reborn, fermo e distaccato come suo solito. Era difficile leggere qualcosa in quei grandi occhi neri, ma al giovane parve che lo studiassero indagatori, che cercassero di scrutare nella profondità del suo animo per capire chi fosse sul serio la persona che aveva davanti, le sue capacità, le sue debolezze. Se lo sguardo inespressivo del Boss dei Varia lo faceva innervosire, questo lo mise ancora più a disagio. Si impose di assumere un tono neutro, professionale, per nascondere quella strana sensazione di sentirsi messo alla prova da un solo semplice sguardo. –Se un Arcobaleno si è scomodato a venire fin qua significa che è successo qualcosa di grosso–.
Il bambino annuì e riabbassò il capo.
–Tuo padre ha richiesto la mia presenza per partecipare a un meeting straordinario–.
Xanxus non spalancò gli occhi, perché Tyr gli aveva insegnato a dissimulare le proprie emozioni di fronte agli altri, ma ne fu lo stesso sorpreso. Cosa poteva essere così importante da richiedere un meeting straordinario e la presenza di un Arcobaleno? Per un attimo fu assalito dal sospetto di un'avvenuta tragedia. "Un omicidio, un attacco" pensò, "un arresto". Era per questo che non avevano voluto dirgli niente?
–Non mi aveva detto niente– disse, la gola chiusa. Tyr era sembrato tranquillo, ma Tyr sembrava sempre gelidamente tranquillo.
–Con buona ragione, vedrai. Ma non è stato lui a richiedere il meeting, sono stati i capofamiglia alleati insieme ad alcuni membri dei Vongola–.
–Cosa? Perché?–
–Xanxus!– esclamò in quel momento una voce gioviale. Un uomo basso e con una pancia prominente che metteva a dura prova i bottoni della sua camicia gli stava venendo incontro nel corridoio, sfoggiando un sorriso caloroso. Era don Pietro, un impresario edile affiliato alla famiglia, con cui Xanxus aveva già avuto a che fare l'anno precedente. Suo padre l'aveva mandato da lui per un paio di mesi perché, aveva detto, era l'ora che vedesse con i propri occhi come funzionavano certi "business" (o "bisinisse", come diceva don Pietro) e imparasse qualche nozione preziosa per quando fosse più grande, quando avrebbe dovuto lavorare anche lui per il bene della Famiglia. Xanxus all'inizio aveva pestato i piedi e rotto qualche mobile, perché non aveva nessuna voglia di passare il suo tempo con quel ciccione borioso andando a noiosissime riunioni e leggendo scartoffie: Xanxus voleva azione, brivido, voleva colpi in banca e azioni dimostrative; ma dopo un po', quando si era reso conto coi propri occhi del fiume di soldi che gli affari dell'edilizia portavano, ci aveva preso gusto. Alla fine col suo intuito era anche riuscito ad aiutare Pietro a stringere un ghiottissimo accordo, tanto che per giorni l'impresario non aveva fatto altro che ripetere a Timoteo quanto fosse in gamba suo figlio, che occhio avesse per gli affari.
–Ecco il mio giovane socio!– esclamò di nuovo don Pietro quando gli fu vicino, raggiante. Xanxus lo guardò confuso, perché era vero che Pietro aveva sempre avuto quella giovialità a suo parere insopportabile, ma al momento, dopo la serietà dei precedenti incontri, gli sembrava ancora più fuori luogo.
Incurante della confusione del ragazzo, l'impresario gli assestò una potente pacca sulla spalla –E bravo, bravo! Eh eh eh!–
In altri frangenti Xanxus avrebbe reagito male a quell'invasione di spazio personale, ma al momento la sua perplessità era più forte del fastidio fisico che quell'uomo gli provocava –Ma che...–
–Ci aspettiamo grandi cose da te, sappilo!– lo interruppe l'altro nella foga di congratularsi con lui –Ora però mi scuserai ma debbo congedarmi: torno a casa prima che mia moglie si metta a pensare chissà cosa! Fuori casa a un'ora così tarda... eh eh eh!– Gli rivolse una strizzatina d'occhio significativa e, dopo un ultima risatina, si allontanò.
Xanxus rimase a guardare il corridoio, senza in realtà vedere niente, scosso da un turbinio di pensieri. Il cuore aveva cominciato a battergli forte nel petto, insieme alla speranza di non aver frainteso tutto.
–Possibile che...– disse fra sé e sé, ma stentava a crederci. C'era Enrico prima di lui e poi Massimo, anche se lui non si era mai dimostrato interessato, c'erano delle tradizioni ben precise... Si girò di scatto verso l'Arcobaleno, il cuore in gola.
–Reborn!–
Ma l'Arcobaleno non c'era più. Era sparito nel nulla, probabilmente approfittando del suo attimo di distrazione per defilarsi tranquillamente.
Fu allora che Xanxus cominciò a correre.
La distanza che lo separava dall'ufficio del Nono non era grande, ma lui non poteva aspettare un attimo di più. Doveva sapere, doveva capire subito se le sue speranze fossero vere. Si fermò a pochi passi dalla porta, ma solo perché aveva sentito delle voci concitate al di là, grida di una voce familiare.
–No, NO! Non è giusto! Non possono farlo! NON POSSONO!–
Enrico spalancò la porta con veemenza e irruppe nel corridoio, ritrovandosi faccia a faccia con Xanxus. Lo sguardo che gli rivolse non appena mise a fuoco i suoi occhi iniettati di sangue gli fece capire che lui era proprio l'ultima persona che avrebbe voluto ritrovarsi di fronte in quel momento. O forse la prima, in un certo senso, ma decisamente non per felicitarsi con lui come aveva fatto don Calogero. Respirava pesantemente, aveva il volto paonazzo di chi ha urlato troppo e la sua fronte era madida di sudore, ma nonostante l'aspetto stravolto Enrico cercò comunque di riassumere una fredda compostezza.
–Sarai contento adesso, non è così?– gli sibilò con una voce gelida, velenosa.
Xanxus lo guardò senza dire niente, impassibile. Non poteva dire di essere contento, non ancora, ma non riusciva affatto a dispiacersi per lui. Enrico lo aveva sempre disprezzato, dal momento in cui aveva messo piede in quella casa, e Xanxus ne era sempre stato consapevole. E lo aveva disprezzato a sua volta.
–Non ti è bastato insinuarti in questa famiglia, eh? Hai dovuto anche complottare per togliermi quello che mi spettava di diritto!–
–Non so di che cazzo stai parlando– rispose il ragazzo, ed era vero. Molte accuse gli potevano essere rivolte, ma non quella di aver tramato alle spalle del fratello. L'odio nei suoi confronti glielo aveva sempre sputato in faccia.
–Oh, ma non finisce qui, sai? Tu non ne hai il diritto! Non lascerò che i Vongola cadano così in basso!– Enrico gli piantò l'indice contro il petto, con la forza di una pugnalata. Ma la sua mano tremava per la rabbia e per la consapevolezza di essere impotente, di non avere scelta, e Xanxus lo sapeva.
–Non è ancora detta l'ultima parola, non hai ancora vinto. Papà non accetterà mai di rovinare tutto quello che ha fatto per ingraziarsi gli alleati, puoi starne certo!–
Si aspettava una risposta alla sua provocazione, Xanxus lo capì subito, e per questo non gliene diede nessuna. Restò a fissarlo immobile, con aria annoiata. Non aveva mai imparato davvero a frenare la rabbia come gli aveva consigliato suo padre, ma aveva almeno imparato a controllare il suo viso come gli aveva insegnato Tyr, perché di fronte agli avversari è sempre meglio nascondere il proprio tumulto interiore.
Quando Enrico si rese conto che il fratellastro non avrebbe reagito ulteriormente, un guizzo di rabbia folle passò nei suoi occhi. Lo spintonò via e si allontanò a grandi passi, quasi di corsa, senza aspettare una risposta che tanto non sarebbe venuta.
Xanxus non lo degnò neanche di un ultimo sguardo. Davanti a sé c'era una porta aperta e, al di là di essa, una speranza in cui non aveva pensato di poter credere davvero.


La sala riunioni, al cui centro campeggiava un enorme tavolo intarsiato con lo stemma dei Vongola, era ormai quasi vuota. Solo tre persone erano rimaste: suo padre, seduto a capotavola su di una grande sedia più simile a un trono, teneva lo sguardo basso; Massimo, seduto alla sua sinistra, era intento a parlare a bassa voce a suo padre; Sawada Iemitsu era in piedi alla destra del boss, vegliando su di lui come al solito.

Quando videro entrare Xanxus tutti gli sguardi si posarono immediatamente sul nuovo arrivato. In ognuno di essi lesse sorpresa, forse incredulità, certo l'ultima cosa che avrebbe voluto vedere. Non credeva fosse così sorprendente che gli alleati avessero deciso di dare a lui il loro sostegno, ma decise di lasciare alle spalle questo pensiero amaro e di farsi avanti a testa alta.
Come al solito Massimo fu il primo a rompere il silenzio. –Lupus in fabula...–. Curioso, pensò Xanxus, era la stessa frase che gli aveva rivolto Tyr poco prima.
–È vero quello che ho sentito?– disse, guardando a uno a uno negli occhi i presenti nella sala –Vogliono davvero che sia io il...– esitò un istante, perché l'emozione era troppo forte –...Boss?–.
Iemitsu fece un verso di sdegno. –Stai dicendo di esserne all'oscuro, Xanxus?– lo affrontò il giapponese.  –Gli alleati praticamente all'unisono chiedono di vedere il Nono per parlare della successione e tu vuoi farci credere di non saperne niente?–. Il suo sguardo era serio, duro, uno sguardo che Xanxus non era abituato a vedere negli occhi del Consigliere, lui che aveva sempre avuto una parola buona da rivolgergli, nonostante tutti i guai che combinava.
Per questo, per alcuni lunghi istanti, rimase in silenzio. Era abituato a ricevere accuse, a essere trattato come un poco di buono: lo era stato fin da bambino, quando per molti non era altro che un disonore per la Famiglia, il figlio bastardo del Nono e di una prostituta dei bassifondi, e lo era ancor di più ora che era effettivamente diventato un poco di buono. Ma Iemitsu era stato fra quei pochi che avevano sempre provato a trattarlo come una persona normale, non solo come un piantagrane, e vedere quello sguardo accusatore, l'espressione di chi si trova di fronte a un pericoloso estraneo, lo mise a disagio.
–So che me lo meriterei– disse infine, con fare asciutto. Aveva deciso di mettere da parte anche questo problema, questa nota dolente, perché in fondo che gli importava dell'opinione di Iemitsu? Lui era quello che gli affiliati avevano scelto per essere il loro Boss. –So che molti mi stimano e che molti altri ancora si lamentano delle scelte di papà. Ma no, nessuno a quanto pare si è preso la briga di informarmi. È così allora? Che hanno detto?–.
In quel momento fu Timoteo a prendere la parola.
–Chiedono che il giorno del tuo prossimo compleanno, quando compirai 18 anni, io annunci pubblicamente che Enrico non è più il favorito per essere mio successore, e che tu hai preso il suo posto. Hanno detto che tu non ti saresti rifiutato di certo, visto che sei un giovane ambizioso–
Xanxus scrutò a fondo l'espressione di suo padre, perché dalle sue parole, molto pragmatiche e pacate, non era affatto riuscito a capire cosa ne pensasse al riguardo. Il fatto è che non riuscì a capirlo nemmeno dalla sua espressione: il Nono ricambiava apertamente il suo sguardo, senza difese, eppure non riusciva a leggere i suoi occhi. Erano vuoti, senz'anima, quasi come quelli di Tyr.
–E tu cosa hai risposto?– gli chiese. Si rese conto che il cuore gli batteva forte per il nervosismo, e si maledì per questo perché, nonostante si fosse ripetuto molte volte che non gli importava nulla, l'approvazione di suo padre era ancora importante per lui; e non era solo una questione personale, perché lui poteva anche essere stato scelto dagli affiliati, ma non avrebbe avuto nessun significato se il capofamiglia non avesse dato il suo benestare.
–È presto– rispose il Nono, pacatamente –Presto per decidere, presto per dare una risposta. Del resto non mi farò da parte che fra alcuni anni e tu sei ancora giovane...–
–Non credi che gli alleati saranno scontenti?– lo interruppe Xanxus. Non gli piaceva affatto quella non risposta, lo aveva messo in allerta. –A molti non piace la tua cautela–
A rispondere non fu il Boss ma il Consigliere. –Forse, ma non ha importanza: ci sono cose più importanti che ingraziarsi il loro favore. La loro opinione conta, certo, ma l'ultima decisione quando si tratta di successione spetta al Boss e al Consigliere Esterno, insieme–.
–E ho il sospetto che tu non parteggerai per me, Iemitsu. O mi sbaglio?– lo affrontò il ragazzo.
–Mi dispiace, Xanxus– disse il giapponese e in quel momento la sua espressione severa si ammorbidì un po', dimostrando la sua sincerità. Abbassò momentaneamente gli occhi e sospirò, in cerca delle parole adatte, prima di riportare l'attenzione su Xanxus. –Riconosco le tue capacità ma, alla luce del tuo carattere e del tuo comportamento negli ultimi anni, temo che tu non sia la persona adatta per questo incarico. E poi... solo un incosciente desidererebbe spontaneamente l'enorme responsabilità di essere il boss–.
Xanxus strinse i denti, in un tentativo di cercare di controllare l'irritazione che cominciava a salirgli dentro, viscida e traditrice.
–Credi davvero che io sia solo questo, Iemitsu?– scandì lentamente, con una calma forzata che però non era in grado di offuscare la rabbia in fondo ai suoi occhi –Un incosciente?–.
–Lo spero– rispose Iemitsu, con voce grave –Perché se non sei un incosciente, allora devo pensare che ciò che desideri è solamente il potere–
–Stronzate!– ringhiò Xanxus fulminando Iemitsu con lo sguardo. Erano tutte stronzate. Volevano forse fargli credere che Enrico non desiderasse essere Boss? Che Timoteo fosse diventato Nono solo per integerrimo senso del dovere? Be', erano degli ipocriti, nient'altro che ipocriti, tutti loro, perché lui sapeva che quello che volevano veramente, sotto sotto, era il potere. Il potere piace a tutti, era questa l'unica verità, e lui voleva semplicemente la sua fetta.
Non solo, lui voleva davvero, con sincerità, l’onore di guidare la sua Famiglia: era certo che, se solo gli avessero dato l'occasione, avrebbe portato ai Vongola una ricchezza e un potere che neanche Riccardo, il Secondo, avrebbe mai potuto ottenere. E allora tutti lo avrebbero ammirato, osannato, come era giusto che fosse.
Ma le persone che avrebbero dovuto essere dalla sua parte sembravano dubitare di lui, e ciò era forse questo quello che lo feriva e lo faceva infuriare di più: l'orrida sensazione che, nonostante le sue capacità, il suo passato sarebbe stato sempre più forte, e che sarebbe sempre stato feccia, un avanzo dei bassifondi, uno a cui non si affida un incarico prezioso come quello di essere Boss.

Sarò io il Boss, state a vedere. Vi dimostrerò che vi sbagliate.

Massimo, che era rimasto a guardare Xanxus per tutto il tempo e che era ormai allenato a riconoscere le sue scintille di rabbia, dal suo sguardo torvo si rese conto che la situazione stava rischiando di diventare incandescente, quindi si precipitò a prendere la parola. –Ehi ehi ehi, riponi gli artigli, tigre– disse, alzando i palmi delle mani in un gesto pacificatore –È presto per iniziare a scannarsi su questa faccenda, no? O meglio, è tardi: sono le due di notte e a farci venire il mal di testa ci ha già pensato Enrico–.
Xanxus si girò di scatto verso il povero Massimo, facendo sussultare lievemente.
–Tu non hai niente da dire, invece?– gli sibilò contro, squadrandolo nel tentativo di indovinare i suoi pensieri. –Niente minacce come nostro fratello? Non pensi anche tu che io abbia usurpato il tuo posto?–
Massimo alzò le mani un altro po', tanto per essere del tutto sicuro che il fratello capisse che i suoi intenti non erano bellicosi. –Per carità, prenditelo pure! Non ho mai avuto la stoffa del boss, io: troppo stress, troppe nottate insonni, zero tempo per la propria vita. E a me la mia vita piace. No no, i grattacapi preferisco di gran lunga lasciarli a te, o a Enrico, o a qualunque altro povero disgraziato sceglierà nostro padre.–
–Perché, ci sono altri candidati?– chiese Xanxus, stavolta a suo padre.
–Non al momento–.
–Meglio, tanto resterei comunque la scelta migliore–.
Iemitsu emise uno sbuffo. –Modesto–.
–Realista– replicò Xanxus, per niente colpito dal sarcasmo nel tono di voce del giapponese –Se papà sceglierà Enrico nonostante tutto perderà l'appoggio dei suoi, appoggio di cui al momento ha un disperato bisogno. Dico bene?– chiese infine, voltandosi verso Timoteo. Questi ricambiò brevemente il suo sguardo, prima di distoglierlo e posarlo sulle proprie mani nodose, posate sul tavolo.
–Ripeto, non ha senso parlarne adesso. È presto. Gli alleati possono aspettare ancora un po'–.
Xanxus non riuscì a frenare un moto di impazienza. Sbatté una mano sul tavolo e si curvò in avanti, cercando di intercettare di nuovo lo sguardo sfuggente di suo padre. Non gli piaceva affatto che non lo guardasse negli occhi, anzi, lo mandava su tutte le furie: era davvero suo padre quest'uomo che non aveva neanche il coraggio di affrontarlo e di dirgli quello che pensava sul serio? Perché lui conosceva suo padre e credeva di essere in grado di capire quando questi gli nascondeva qualcosa.
–Stai cercando di prendere tempo? Perché?!–
–Sto cercando– scandì Timoteo, con una durezza che su di lui sembrava artificiosa, non sentita, come se stesse raccogliendo tutti i suoi sforzi per apparire così contro il suo desiderio –Di non affrettare una decisione che è della massima importanza–.
Un'altra risposta che non era una risposta, un'altra fuga dalla responsabilità. Xanxus abbatté il pugno sul tavolo con una tale forza da far trasalire e ritrarre i due seduti attorno ad esso. Nonostante la rabbia esteriore, dentro di sé provava paura, una silenziosa e innominabile paura. Avrebbe voluto fuggire anche lui da quel confronto, seppellire i suoi dubbi e le sue paure dove non potessero tornare mai più alla luce, ma era più forte di lui: in fondo alla sua gola c'era una domanda che non poteva più essere trattenuta, benché Xanxus non fosse per niente sicuro di essere in grado di accettare la possibile risposta.
–Non vuoi che sia io il Boss, non è vero?!– sibilò Xanxus a denti stretti, il viso deformato dalla rabbia e, vergognoso da parte sua, che si era ripromesso di fregarsene di tutto e di tutti, dal timore della delusione –Perché non lo dici subito?–
Il Nono alzò nuovamente lo sguardo su suo figlio e Xanxus avrebbe potuto giurare di aver visto un'ombra passare sui suoi occhi, veloce, come una nuvola sospinta da un forte vento. Ma cosa volesse dire Xanxus non poteva ancora saperlo.
–Non ho detto questo– rispose il Nono.
–Allora qual è il problema?– esclamò Xanxus, esasperato ma anche sollevato, mentre si raddrizzava. Era stato veloce, stavolta, ad accettare quella risposta che non era una risposta. Forse perché esattamente quello che voleva sentire –Non vuoi deludere Enrico? Risparmiati, è già tanto che sia stato seriamente preso in considerazione come candidato. Se non fosse il primogenito nessuno scommetterebbe una lira su di lui!–
In quel momento fu Timoteo a sbattere la mano sul tavolo. –Basta così, Xanxus!– gridò con severità, troncando il suo discorso e guadagnandosi un'occhiata esterrefatta sia dai figli che dal Consigliere. Era rarissimo che il Nono alzasse la voce e quando ciò succedeva era segno che il limite era stato superato da un pezzo e che era il caso di correre immediatamente ai ripari.
Durante quel breve silenzio che si era creato Timoteo fece leva sulle sue mani e si alzò dalla poltrona, lentamente. Sembrava stanco, così stanco, come se la fatica di un peso sostenuto per anni gli fosse improvvisamente piombata addosso tutta in una volta.
–Non intendo parlare oltre di questa faccenda, non prima che sia passato tutto il tempo che io riterrò necessario: che siano giorni, mesi o anni. Sono stato chiaro?–
Squadrò uno per uno i presenti nella stanza, sfidandoli a sollevare una qualsiasi obiezione, ma una volta tanto nessuno osò replicare.
–Bene. Adesso andiamo tutti a dormire, questa riunione ha già seminato abbastanza zizzania fra di noi. Come se ne avessimo bisogno!–.
Detto ciò raccolse il suo bastone da passeggio con un gesto stizzito e, appoggiandosi ad esso, si incamminò fuori dalla stanza, lasciando alle sue spalle tre persone assorte nei loro pensieri.


*

Gli anni passavano, ma Xanxus continuava a conservare il suo posto speciale nella villa dei Vongola: quell’angolo appartato della biblioteca, un luogo che apparentemente usava solo lui e che dunque era stato eletto a rifugio segreto, in cui era solito nascondersi quando voleva essere sicuro di starsene un po' da solo, in tranquillità; negli ultimi tempi questo luogo era diventato anche un modo per svignarsela da doveri e responsabilità che non aveva nessuna voglia di svolgere.
Tali doveri avevano preso l'abitudine di presentarsi spesso da quando, quella notte di 4 anni prima, gli affiliati si erano riuniti chiedendo a gran voce che Xanxus diventasse il candidato preferito per il ruolo di Decimo boss. Da allora Xanxus aveva iniziato ad occuparsi con una certa stabilità degli affari della Famiglia, senza più nascondersi da suo padre, e anche Timoteo dovette rendersi conto che, per quanto il suo carattere feroce e impulsivo lo rendesse ben poco adatto per compiti diplomatici, il giovane era proprio tagliato per gli affari, come se il mondo della malavita fosse il suo habitat naturale.
Fu così che il Nono, che per anni aveva cercato di proteggerlo dai lati più oscuri di quel mondo, si vide costretto a malincuore ad assegnare anche a lui il ruolo che i suoi fratelli svolgevano da anni, quello di capodecina; al comando di una decina di uomini d'onore Xanxus riuscì finalmente a concretizzare una parte delle sue capacità e delle sue ambizioni, benché non tutte, giacché non era mai completamente padrone di fare quello che voleva: il Nono era il Boss e il Nono non voleva che Xanxus si lordasse le mani in affari sanguinosi, né si fidava del suo carattere violento e facile all'ira e delle sue idee ambiziose.
Pur avendo questo freno, però, Xanxus riuscì a compiere lo stesso azioni degne di nota: riuscì a troncare sul nascere la ribellione della famiglia Scuderi, una delle alleate dei Vongola, semplicemente avendo un tête–à–tête col loro boss, che si dice uscì da quell'incontro con molti più capelli bianchi in testa di quando vi era entrato; organizzò un colpo a un furgone portavalori, che fruttò alla famiglia un bel po' di liquidi; andò negli Stati Uniti a prestare il proprio aiuto alla sezione italoamericana della Famiglia, che in quel periodo lavorava all'apertura di tre nuovi casinò in Nevada.
Certo, Xanxus amava il suo lavoro, adorava la sensazione di potere che gli dava operare al di sopra della legge, al di sopra di tutto, comandare uomini con un semplice cenno del capo, manovrare ricchezze ingenti con la nonchalance con cui si manovrano degli spiccioli. Però Xanxus sapeva anche essere pigro e scostante: spesso riteneva che i compiti che gli assegnava suo padre non fossero alla sua altezza e allora, in quei casi, tornava comodo il suo vecchio nascondiglio, dove andava a dormicchiare in attesa che il Nono mangiasse la foglia e affidasse la missione a Enrico.
Si trovava proprio lì, spaparanzato su un divanetto che aveva fatto piazzare di nascosto, quando una voce di uomo lo strappò d'improvviso dal suo sonnecchiare.
–Dunque è per questo–.
Xanxus avrebbe riconosciuto la pronuncia insolita di quella r anche in mezzo a una folla di persone: era il Consigliere Esterno. Alzò gli occhi al cielo e formò con le labbra, senza parlare, le parole "ma porca puttana": se il giapponese lo avesse beccato lì sarebbe stata la fine per lui, non sarebbe più stato al sicuro nel suo nascondiglio segreto. Prima che potesse cominciare a pensare a un piano d'azione, però, un'altra voce si unì a quella del Consigliere.
–Sei sorpreso, Iemitsu?–
Di male in peggio: questo era suo padre in persona. Xanxus scivolò silenziosamente dal divanetto e raggiunse lo scaffale davanti a lui, cercando uno spiraglio tra i libri che gli permettesse di scorgere dove erano esattamente quei due. Sfortunatamente c'erano troppi scaffali fra lui e l'origine delle voci per vedere qualcosa, ma questo significava che, a meno che non si spostassero, anche lui era al riparo dai loro sguardi. Si sedette con le spalle contro lo scaffale, dunque, e restò in attesa, con le orecchie ben aperte, sperando che gli capitasse un'occasione di fuga o che i due levassero il disturbo.
–Sì, e onestamente non so come rispondere– sentì dire a Iemitsu –È un grande onore quello che chiedi, ma...–
–...ma è anche una terribile responsabilità, lo so. Non credere che non ci abbia pensato e che non abbia tenuto conto di quello che potrebbe significare per lui, nel caso alla fine fosse lui il prescelto–.
Quell'ultima parola svegliò istantaneamente la curiosità di Xanxus. Lui? Lui chi? Un istante prima se la sarebbe svignata alla prima occasione, ma improvvisamente era diventato dell'idea che sarebbe stato costruttivo restare a origliare un altro po’ quella riunione segreta, tenuta in un posto così poco frequentato.
–Non sono sicuro che sia una buona idea–.
–Ti ripeto, è ancora presto per decidere– Disse Timoteo –Però... già quando l'ho visto la prima volta qualcosa mi ha colpito, l'Iper Intuito dei Vongola mi ha rivelato che ci sono grandi potenzialità in lui, potenzialità che ho continuato a vedere nel corso degli anni. Potrebbe essere una buona scelta, se tu lo volessi–.
Xanxus sgranò gli occhi e per un momento credette che il suo udito lo avesse tradito. Stavano parlando di lui? Stentava a crederci, perché era da anni che suo padre non trovava una parola di lode del genere per lui, da quando si era reso conto che il figlio che aveva cresciuto e creduto di conoscere era diventato uno spaventoso estraneo, feroce, senza scrupoli. Eppure gli pareva che le parole combaciassero con la sua storia, con l'orgoglio che Timoteo aveva mostrato quando aveva visto la Fiamma dell'Ira per la prima volta, con le capacità che Xanxus aveva dimostrato nel combattimento e negli affari. Tutto ciò doveva pur valere qualcosa, giusto? No, non poteva sbagliarsi. Non voleva sbagliarsi.
Poi Iemitsu sollevò un'obiezione.
–Ma ancora non sappiamo neanche se ha la Fiamma del Cielo!–
Xanxus sentì distintamente il suo cuore saltare un battito, per poi riprendere incessante. No, non era di lui che parlavano. Le potenzialità di cui parlava suo padre erano di un'altra persona. Poteva solo sperare di aver intuito male, che la candidatura di cui parlavano non fosse per quello che pensava lui, per il titolo che doveva essere suo.
Restò a fissare il vuoto davanti a lui, ad ascoltare il cuore che gli pulsava nelle orecchie, mentre i due uomini continuavano a parlare fra di loro, ignari di tutto.
–È vero– disse il Nono –ma in fondo non ha ancora compiuto 6 anni, ha ancora tempo. Sai che io l'ho manifestata significativamente solo a 10 anni? E ce ne sono voluti altri prima che imparassi a usarla a dovere.–
–Così tardi? Non ne avevo idea–.
–Già. Anche...– Qui la voce del più anziano vacillò, costringendolo a una breve pausa –...anche Federico non l'ha sviluppata prima degli 8 anni. Come vedi non è questo che conta per essere un Boss–.
Xanxus non riusciva a capire. Niente di quello che diceva suo padre aveva un senso. Chi era questo bambino di cui parlavano, questa nullità che a 6 anni non sapeva neanche far scoccare la più misera scintilla? Lui, a quella stessa età, possedeva già una Fiamma che era stata in grado di suscitare l'ammirazione e l'invidia degli adulti, e la cui padronanza era prova inconfutabile della sua forza di volontà, del suo valore e del suo potere. Suo padre stesso l'aveva ammirata, eppure ora si permetteva di dire che non significava nulla. No, non aveva senso, nessun senso. Eppure rimase ad ascoltare, aggrappato a quelle parole da cui sentiva dipendere la sua stessa vita.
–Ma io continuo a non capire– sentì dire a Iemitsu, il quale sembrava confuso quasi quanto lui –Abbiamo già tre possibili candidati, per quale motivo cercarne un altro?–
–Perché mi rendo sempre più conto che potrebbero non essere sufficienti. Enrico ha ormai perso gran parte della stima di cui godeva prima, da quando gli alleati hanno deciso di manovrare contro di lui in favore del fratellastro. Massimo è un gran bravo ragazzo, ma io so che non è tagliato per fare il Boss e del resto non ha mai fatto mistero di non volere questo posto. Credo sia anche per questo che ha deciso di trasferirsi al nord, contrariamente ai miei consigli. No, se proporremo Enrico o Massimo i nostri alleati ci volteranno le spalle definitivamente. Meglio essere previdenti, allora, e considerare tutti i possibili candidati; e Tsunayoshi è l'unico altro a possedere il sangue dei Vongola–.
–E Xanxus?
Silenzio.
Xanxus trattenne il fiato, cercò di imporre al suo cuore di smettere di fare quel frastuono nelle sue orecchie, perché voleva essere certo di non perdersi neanche una sillaba di quanto avrebbe risposto Timoteo.

E io, papà? Finalmente siamo arrivati al momento della verità, non è così?

–È vero– prese ancora la parola Iemitsu, con un tono concitato, speranzoso –ricorda sempre più Riccardo ogni giorno che passa. Però è un leader nato e ha un vasto appoggio, forse sarebbe in grado di tenere la famiglia unita, cosa in cui al momento non stiamo affatto riuscendo, forse...–
–Pensavo che tu fossi contrario alla sua candidatura– lo interruppe il Nono, sorpreso dal tentativo del Consigliere di intercedere per Xanxus.
–Lo sono ancora, in realtà. Ma...–
–Ma? Pur di risparmiare questo onere a tuo figlio, saresti davvero disposto a dare il potere a una persona di cui non ti fidi più?–
Suo figlio! Il bamboccio di cui il Nono aveva parlato come di una specie di prodigio era il figlio di Iemitsu! Poco ci mancò che Xanxus tradisse la sua presenza con un'esclamazione di rabbia e sgomento. Suo padre aveva osato cercare un altro candidato oltre a lui, e per far ciò era andato addirittura a scomodare una persona esterna alla Famiglia, un bambino che abitava all'altro capo del mondo e che ancora non sapeva neanche cosa fosse la mafia!
Un turbinio di pensieri lo attraversò, mentre a fatica si tratteneva dall'alzarsi e piombare addosso a quei due a chiedere il conto delle loro parole. Pensò che suo padre fosse impazzito, pensò anche che i suoi costanti dubbi e insicurezze lo avessero portato come al solito ad eccedere con le precauzioni, a scovare tutti i possibili candidati per essere sicuro di non rimanere senza scelte. Ma un singolo, orribile presentimento aveva cominciato ad affiorare in lui e benché facesse di tutto per trattenerlo a fondo, la sua sola idea ora bastava a farlo tremare dal livore. E dalla disperazione.
Nel frattempo non si era reso conto che il silenzio era calato di nuovo sulla biblioteca, silenzio che a un certo momento fu rotto di nuovo da Iemitsu. Ma la sua voce non era più ostentatamente speranzosa: era spezzata, come se stesse trattenendo le lacrime.
–Sono egoista, vero?– riuscì a dire, con uno stampo ironico che non riusciva affatto a mascherare il suo turbamento. –A voler tenere Tsuna lontano da tutto questo?–
–No, Iemitsu– rispose Timoteo con una voce che si era fatta più dolce, la sua solita voce, e che ora riecheggiava della tristezza dell'altro –Sei semplicemente un padre che vuole proteggere suo figlio, ti capisco bene. Purtroppo però il bene della Famiglia ci chiama a fare scelte che mai avremmo voluto compiere, come ho imparato io stesso a caro prezzo–.
–C'è un'altra cosa che mi turba, a essere sincero. Tsuna sarà anche discendente di Giotto, ma Xanxus è tuo figlio. Vuoi davvero che mio figlio passi avanti al tuo? Al sangue del tuo sangue?–
Sangue del tuo sangue.
Quelle parole gli si stamparono in mente, le ripeté dentro di sé come un mantra ossessivo. Iemitsu non le aveva dette per caso, perché sapeva bene che nel loro mondo, dopo il legame d'onore che legava una persona alla sua Famiglia, non c'era legame più importante che il legame di sangue. Sapeva che era l'ultimo appello che poteva fare per far cambiare idea a Timoteo, e che se Timoteo non avesse esitato nemmeno di fronte a questo, significava che la sua decisione era irremovibile. Lo sapeva anche Xanxus, e per questa ragione si ritrovò a chiudere gli occhi e trattenere nuovamente il fiato, come in attesa di un pugno che si teme stia per arrivare, mentre all'altro capo della stanza suo padre, ignaro, esitava a rispondere e a scagliare quel colpo che avrebbe fatto male a entrambi. 
–Iemitsu...– mormorò tristemente –Xanxus non può essere il Boss–.
A quelle parole Xanxus scattò nervosamente in piedi, salvo poi appoggiarsi con una mano allo scaffale della libreria, scosso e nauseato. Doveva andarsene da lì, subito. Non poteva restare fra quelle quattro mura un solo secondo, un solo istante in più; temeva che, se avesse indugiato ancora dentro, la sua Ira avrebbe preso il controllo di lui e distrutto tutto, proprio come ora sentiva sgretolarsi tutto ciò che sapeva e che era stato il fondamento della sua vita. Non poteva essere il Boss. Ma soprattutto, non poteva perché suo padre non lo voleva.
Non riusciva a capire, ma al momento si rifiutò di pensarci, perché non credeva di essere in grado di ricevere un altro colpo del genere.
Nel frattempo, all'altro capo della stanza, i due continuavano a discutere.
–Perché no?– insistette Iemitsu.
–Perché...– esordì Timoteo, mentre Xanxus raggiungeva la finestra più vicina in punta di piedi, per paura di tradirsi all'ultimo minuto e di essere costretto ad affrontare suo padre proprio in quel momento.
–Perché l'hai detto tu, Xanxus è un nuovo Riccardo.  E noi invece avremmo bisogno di un nuovo Giotto, se vogliamo continuare questo programma di pace. Io non sono riuscito a portarlo a termine, lo sai bene. Ho dovuto fare scelte di cui non vado per niente fiero, perché erano l'unico modo per portare avanti la Famiglia. Ma non ho ancora penso le speranze. Se non ci sono riuscito io, forse ci riuscirà il mio discendente, a riportare la mafia all'onore dei suoi inizi. Ma Xanxus non può essere il mio discendente.–
Xanxus raggiunse la finestra. Era una grande finestra di vetro, antica, dai cardini cigolanti. Per aprirla fu costretto a farne ruotare la maniglia con lentezza agonizzante, nonostante le mani che gli fremevano, maledicendo ogni singolo istante che era costretto a passare lì dentro, ad ascoltare senza volere quelle parole insopportabili.
–È solo per questo? Non c'è altro?– inquisì il giapponese, con un tono per niente convinto.
–Sì... sì... è solo per questo.–
Bugiardo, pensò Xanxus. Ipocrita. Per quanto conoscesse la fissazione di suo padre per quel suo ingenuo sogno di riportare l'intera mafia all'età dell'oro, non poteva e non voleva credere che quello fosse l'unico motivo. Non sacrifichi l'avvenire di tuo figlio per un'utopia, né affidi a una persona esterna il futuro della Famiglia, a meno che non sia l'ultima possibilità di sopravvivenza.  No, doveva esserci sotto qualcos'altro, qualcosa che lui non sapeva, e qualsiasi cosa fosse l'avrebbe scoperto e gliene avrebbe chiesto conto.
La finestra era ormai aperta quel tanto che bastava per farlo passare. Ci si issò sopra, facendo leva sulle sue mani, e la scavalcò con le gambe.
–E quando pensi che gli darai la notizia?– chiese Iemitsu nel frattempo –Andrà su tutte le furie quando saprà che qualcuno potrebbe anche prendere il suo posto. Mio figlio, per di più! Sai che non ha più molta simpatia per me, adesso...–
–Lo so, lo so... per questo credo che aspetterò a dirglielo, quando sarà il momento adatto–.
Xanxus si lasciò scivolare giù dalla finestra, verso la libertà, proprio mentre Timoteo pronunciava queste parole e, non appena il suo piede toccò il suolo, si lanciò in corsa, ansioso di lasciarsi alle spalle tutto ciò che aveva sentito. Allora non sapeva che avrebbe fatto meglio a rimanere, ad ascoltare tutta la discussione, e che se fosse rimasto forse il loro futuro sarebbe stato diverso.


Ancora dentro la biblioteca, il Consigliere Esterno guardava il Nono con estrema preoccupazione. –Ma quando sarà il momento adatto?– gli chiese –Aspettare ancora non gli gioverà per niente, è da anni che aspetta il giorno in cui lo nominerai ufficialmente successore. Perché non glielo dici subito?–
Timoteo, che fino ad allora aveva lo sguardo perso nel vuoto, a quelle parole si voltò e rivolse a Iemitsu uno sguardo pieno di tristezza. Tristezza sincera, che le rughe sul suo viso  di sessantenne sembravano accentuare.
–Perché... perché sono un codardo, Iemitsu. Xanxus è cambiato così tanto, ma è pur sempre mio figlio e io non ho mai smesso di volergli bene con tutto il cuore. Per questo non ho il coraggio di dirgli la verità. Come faccio a dargli questa delusione, a togliergli il sogno suo e di sua madre? Lo distruggerà. Eppure anche stavolta non ho scelta, non è vero? Non ho scelta...–

*

Xanxus correva e correva attraverso la notte, veloce come il vento, senza badare agli sterpi e alle fronde degli arbusti che lo sferzavano al suo passaggio. Correva perché voleva lasciarsi alle spalle tutto ciò che sapeva, tutto ciò che aveva scoperto in quel giorno. Perché sapere che Timoteo non lo voleva come suo successore non era stata l'unica sferzata ricevuta, no. Anzi, quel dolore era impallidito di fronte a ciò che aveva scoperto dopo; e lui sentiva che, se si fosse fermato, quell'orribile verità lo avrebbe raggiunto, avrebbe messo radici nella sua mente e sarebbe rimasta con lui, diventando realtà.


Ore dopo quella terribile discussione, dopo essersi assicurato che nessuno potesse scoprirlo, era tornato in biblioteca con un obbiettivo ben preciso. Aveva raggiunto l'archivio personale di Timoteo, una stanza chiusa da un gigantesco lucchetto, aveva posato la mano sul marchingegno e richiamato la Fiamma, finché sotto il suo palmo non era rimasta che una lamiera fusa e contorta.
All'inizio si era messo a setacciare alla rinfusa i diari di suo padre, che era solito annotare in annali gli eventi più importanti, alla ricerca di non sapeva ancora cosa. Ovviamente non aveva trovato niente.
Allora aveva cercato di calmarsi, di placare la rabbia ansiosa che gli scorreva nel sangue, dicendosi che se non avesse agito con metodo non avrebbe risolto nulla. Si era dunque messo a cercare annotazioni degli eventi più salienti in ordine cronologico, dal più recente al più lontano: trovò annotazioni di quando aveva cominciato a lavorare sul serio per la Famiglia, di quando c'era stata la famosa riunione in cui gli alleati avevano scelto lui, di quando aveva bruciato la faccia di Salvatore e di molti altri eventi importanti; niente gli era però saltato allo sguardo.
Stava cominciando a pensare di essersi sbagliato, che non ci fosse nessun altro motivo dietro la decisione di suo padre, quando vide una piccola nota sbiadita, scritta quasi venti anni prima.

"Oggi ho incontrato la donna che reclama di essere la madre di mio figlio. Ovviamente sapevo già che ciò che sostiene è impossibile, ma ho voluto lo stesso vederla per verificare le sue condizioni economiche e di vita, che si sono rivelate disperate proprio come avevano riferito i miei uomini. Quello che non immaginavo è che suo figlio possedesse davvero l'inconfondibile Fiamma della Volontà dei Vongola. Non solo, non tratta della semplice Fiamma della Volontà, ma di quella dell'Ira, che fino ad ora era stata il tratto distintivo di Riccardo.  Non so come sia possibile, ma è così. Per questa ragione, ma soprattutto perché voglio permettere a entrambi di avere una vita migliore, ho deciso di riconoscere quel bambino come mio figlio. Il suo nome, scelto dalla madre, è Xanxus."

Xanxus aveva stretto convulsamente quel quadernetto, accartocciandone le pagine con le dita tremanti. Aveva fissato quelle poche righe scritte dalla mano di suo padre, no, di quello sconosciuto, come avrebbe guardato una condanna a morte. E lo era, in fin dei conti: tutto ciò che aveva creduto nella sua vita, tutto ciò in cui aveva sperato era falso, irraggiungibile. Tutte le cose di cui si era fatto vanto, il suo nome, la sua discendenza, non erano sue e non lo erano mai state. E se non era Xanxus il figlio del Boss, se non era colui che era destinato a diventare Decimo, allora cos'era se non ancora feccia dei bassifondi, cresciuta tra povertà e stenti?
–Sono niente, NIENTE!– aveva gridato, rovesciando con uno scatto iroso la scrivania dell'archivio e con essa tutti gli oggetti che vi erano posati: penne, calamai, fogli che caddero rovinosamente a terra. –Sono peggio di quei rifiuti che ho sempre disprezzato!–
Ma Xanxus non poteva sopportare a lungo quel sentimento di inferiorità, né di indugiare ancora nell'autocommiserazione, perché ciò non era proprio di una persona forte, e lui aveva idee ben precise di cosa dovesse fare una persona forte, un vero leader. Allora aveva preso la sua rabbia, la sua preziosa rabbia, e l'aveva diretta alla ricerca di un capro espiatorio, un colpevole con cui prendersela per il dolore sentiva. E il colpevole c'era: era quell'uomo che si era detto suo padre e che per anni gli aveva celato la verità sulle sue origini, che lo aveva ingannato lasciando che quella falsa speranza attecchisse in lui e sbocciasse.
–Quel vecchio bastardo mi ha mentito!– aveva ringhiato a denti stretti, livido in volto. Le sue mani, serrate in un pugno, brillarono momentaneamente della luce feroce della Fiamma dell'Ira  –Non ha mai avuto intenzione di farmi Boss! Me lo ha lasciato credere per tutto questo tempo solo per tenermi buono!–
Dopodiché aveva sbattuto il quaderno per terra ed era uscito dall'archivio, di corsa. E poi non era riuscito più a fermarsi: aveva abbandonato la villa e si era inoltrato nella gigantesca tenuta dei Vongola, attraverso il bosco che ne ricopriva gran parte, incurante del buio che gli rendeva impossibile orientarsi. Ma lui non aveva nessuna meta, voleva solo andarsene via da tutto, sfiancarsi così tanto nel fisico da non riuscire più a pensare a nulla.
A un certo punto però il suo corpo traditore lo costrinse a fermarsi, perché i polmoni gli bruciavano come se stessero per prendere fuoco, il cuore minacciava di scoppiargli e le gambe di cedergli al passo successivo. Non aveva idea di dove fosse finito, ma davanti a sé distinse nel buio il muro di pietra di un piccolo casolare, e allora gli si lasciò andare contro, scivolando lentamente a sedere.
Restò lì a lungo, con la testa fra le mani, prestando attenzione solamente al suo corpo, al respiro affannato che lentamente tornava normale e ai graffi che si era fatto correndo nel bosco, che adesso cominciavano a bruciare: c'era una strana pace, in questa sensazione.
Si riscosse solo quando un lieve chiarore sorse all'orizzonte, tingendo il cielo di viola. Fu allora, alla fioca luce dell'aurora, che si rese conto che il muro di pietra contro cui si era accasciato non era affatto di una casupola qualsiasi: era del mausoleo in cui Timoteo, che non aveva voluto separarsi da suo figlio nemmeno nella morte, aveva fatto seppellire i resti di Federico.
Il ragazzo senti la necessità di alzarsi da lì, nonostante i muscoli doloranti, e aggirò il sepolcro, un edificio in stile classico con lo stemma dei Vongola scolpito sul frontone e una grata di ferro che ne chiudeva l'accesso. Non appena ne ebbe raggiunto la facciata si lasciò scappare una mezza esclamazione di sorpresa: sui gradini era adagiata una corona di fiori bianchi ancora freschi. Xanxus sapeva benissimo cosa voleva dire, come sapeva cosa voleva dire l'assenza di erbacce e rampicanti su una tomba esposta alle intemperie e alla selvaticità del bosco: Timoteo veniva spesso lì, nonostante l'impervietà del sentiero che metteva a dura prova le sue gambe un po' malandate, per rendere omaggio a suo figlio.
L'ingiustizia della situazione, di tutta la situazione, lo colpì in pieno e lo ferì come non credeva fosse possibile.
–Dovevi proprio farti ammazzare?– mormorò alla tomba, con un sorriso amaro in volto –Hai combinato un bel casino, Federico. Se tu non fossi morto, forse tutto sarebbe stato diverso. Forse avrei anche potuto sopportare che fossi tu il Decimo al posto mio: eri un buonista come quel vecchio, ma almeno eri sveglio, sapevi fare il leader. E invece no, tu sei morto, e io mi sono messo in testa che fosse il mio destino, che un figlio di puttana come me potesse essere il Boss dei Vongola!–
Mentre pronunciava quelle parole amare sentì la gola che gli si stringeva, come in una morsa, e un improvviso bruciore gli salì agli occhi. Allora, pieno di rabbia verso se stesso e la propria debolezza, sferrò un pugno al muro del sepolcro, sfregiandosi le nocche.
Quel dolore bruciante lo calmò anche stavolta, lo aiutò a frenare di nuovo quelle pericolose emozioni. Poteva non essere il figlio del Nono, ma era pur sempre Xanxus, e Xanxus nel corso degli anni si era dato delle regole ben precise: una di queste era il non arrendersi mai.
–Ma sai che ti dico?– chiese con arroganza, mentre guardava distrattamente il sangue che gli imperlava il dorso della mano –Possono andare a farsi fottere tutti quanti! Le leggi della Famiglia dicono che solo un Vongola può diventare il boss? E io brucerò quelle leggi. Brucerò chiunque si metterà sulla mia strada. Li brucerò tutti!–.
Detto questo Xanxus voltò le spalle alla tomba e si incamminò verso la villa, mentre il sole saliva all'orizzonte rischiarando il suo cammino fra gli alberi. Quando arrivò si infilò silenziosamente in biblioteca, approfittando del sonno in cui era ancora immerso il resto dell'abitazione, e rimise a posto il caos in cui aveva lasciato l'archivio, riponendo le carte con immensa cura. Nessuno doveva sapere che lui conosceva la verità, solo lui doveva sapere il segreto delle sue origini e del tradimento di suo padre. Avrebbe fissato quel pensiero nella sua mente e avrebbe covato silenziosamente il suo dolore, finché il suo dolore non si fosse trasformato in rabbia, e la rabbia in forza.









 
Nota

capodecina:
"è un componente di una famiglia di "cosa nostra" in genere a capo di 10 uomini d'onore.
Il capodecina in genere rapporta il suo operato ai suoi superiori, che possono essere i consiglieri del capofamiglia o addirittura il capofamiglia stesso.
In genere i capidecina vengono definiti anche "colonne" o "fondamenta", poiché sono considerati i burocrati che sorreggono tutto il sistema criminale della famiglia mafiosa. Ad ogni capodecina in genere vengono affidati compiti particolari, possiamo dire che egli è una specie di "ministro" che ricopre una certa carica e che deve rendere conto solo al capo o ai suoi vice" (wikipedia)

   
 
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