CAPITOLO PRIMO: VENTI DI GUERRA.
Terminata l’assemblea dei delegati dei regni divini, ove tutti erano
stati messi al corrente dagli Angeli della minaccia rappresentata dall’avvento
di Caos, i vari gruppi di Divinità e Cavalieri loro fedeli rimasero a discutere
nell’arena del Grande Tempio, cercando di concordare una comune strategia
difensiva, certi che l’attacco degli Dei Antichi non sarebbe tardato ad
arrivare. Su questo, il consenso era unanime.
Più difficile fu invece giungere ad un accordo riguardo alla
dislocazione delle truppe della nascitura alleanza, ognuno temendo per la sorte
del proprio regno e restio quindi a separarsi da combattenti utili per
proteggerlo. Per quanto, come Avalon ebbe a ricordare più volte, nessun regno
potesse dirsi al sicuro in quel momento, poiché il manto oscuro delle tenebre
sarebbe sceso sulla Terra intera e pretendere di riuscire a difendersi da soli,
contando soltanto sulle proprie forze, era pura utopia.
“Dobbiamo mettere da parte rivalità durate secoli, contese umane o
divine e anche l’orgoglio, se non vogliamo soccombere all’ombra nascente!
Umiltà e fiducia dovranno essere alla base di quest’alleanza!” –Rincarò la dose
Alexer, spiegando di avere un gruppo di guerrieri, da lui personalmente
istruiti alle arti dei ghiacci, pronto a combattere. Anche Andrei snocciolò
numeri sulle forze addestrate presso il Lago Titicaca, i fedeli al culto di Inti che vedevano nel sole la fonte della vita e che
avrebbero lottato con i denti contro chiunque avesse tentato di oscurarne lo splendore.
Nettuno, con voce calma, spiegò di non poter fornire alcun esercito,
avendo perduto tutti i Generali e i Soldati degli Abissi nell’ultima guerra
scatenata contro Atena, ma aggiunse di aver già contribuito a modo suo, per
quanto i suoi impegni non fossero ancora terminati. Avalon annuì alle parole
del Nume Olimpico, criptiche ai più, ben sapendo quel che Zeus stava
progettando, e gli disse che lui stesso li avrebbe accompagnati in Sicilia
entro poche ore.
Quelle parole strapparono un paio di domande incuriosite a Pegasus e ai
Cavalieri dello Zodiaco, che pretesero notizie sul Padre di Tutti gli Dei,
rimasti straniti e un po’ dispiaciuti dalla sua assenza al congresso.
“Il Sommo Zeus è al nostro fianco, non è così, Nikolaos?”
–Chiesero al Luogotenente dell’Olimpo, che si limitò ad assentire, dopo aver
scambiato un fugace sguardo con l’Imperatore dei Mari.
“Sapete bene, Cavalieri di Atena, che le decisioni del mio Signore sono
di sovente imperscrutabili ma più volte egli ha offerto la sua disponibilità
nel lottare insieme contro avversari comuni! Ares, Tifone e Flegias
sono caduti anche grazie alle forze messe in campo dall’Olimpo! Conferirò con
lui quando rientrerò, ma sono certo che, a modo suo, Zeus stia preparandosi
all’ultima guerra! Anzi, da quel che Ganimede mi aveva riferito prima di
scendere ad Atene, da alcuni giorni Efesto è
impegnato in un alacre lavoro per conto del padre, che non è rimasto inoperoso
ad attendere gli eventi!”
“Ne sono convinta anch’io, nobile Eridano!”
–Gli sorrise allora Atena, prima che il Luogotenente accennasse un inchino,
congedandosi dal gruppo e avviandosi verso gli spalti più elevati dell’arena,
dove Euro lo stava attendendo, le variopinte ali della corazza già spalancate,
per rientrare sull’Olimpo e conferire con il Signore degli Dei.
Fu allora che il Signore dell’Isola Sacra notò la Dea della Luna
trattenere a fatica uno sbadiglio, mormorare qualcosa nell’orecchio al
compagno, che si guardò attorno imbarazzato, prima di allontanarsi con lui.
Anche Atena lo notò e si avviò dietro ai due amanti, presto seguita da Avalon,
raggiungendoli all’uscita dell’anfiteatro.
“Divina Selene! Qualcosa vi turba?”
“Nient’affatto, Atena! Sono soltanto stanca!” –Si limitò a rispondere
la Divinità, a braccetto con Endimione.
“Se desiderate riposarvi, le mie stanze sono a vostra disposizione!
Posso farvi preparare un bagno caldo…”
“Ti ringrazio per la premura, ma non è stanchezza fisica ad
infastidirmi! Sono tutti questi discorsi, tutto questo parlare di guerra e
guerrieri, combattenti e armate… Sembrate più degli
strateghi che non Divinità immortali!”
“Forse è proprio questo che ci ha reso deboli e impreparati, l’erronea
certezza di sentirci superiori e destinati a esistere per sempre! In tempi
oscuri come questi, non possiamo fare altro che metterci a disposizione della
causa! Non lo credete?”
“No, non lo credo! E non vedo nessuna causa che possa accomunarmi ad
altre Divinità belliche! Con molte remore accettai la presenza di Sin degli
Accadi nel mio circolo di Seleniti, ben conoscendo la sua indole bellicista, ma
questa alleanza che state cercando di creare va ben oltre quanto io sia
disposta a concedere! Non darò mai il beneplacito a operazioni di guerra
aperta!”
“Un’alleanza che però ben ti è stata utile quando ha impedito ai
Signori della Guerra di radere al suolo il tuo reame beato!” –Precisò Avalon,
fissando la Dea negli occhi e strappandole un moto di disappunto.
“E di ciò vi sono grata! Ve l’ho già detto molte volte, non mi pesa
ripeterlo! Ho apprezzato moltissimo l’aiuto che mi avete concesso, ma quella
contesa ha cambiato tutto, ha segnato la fine del mio progetto per un regno ove
poter vivere in serenità, senza affossare però i miei ideali! Io, in quel sogno
di pace, continuo a credere!”
“Anch’io, Selene! Anch’io!” –Commentò Atena,
avvicinandosi a lei e afferrandole le mani con le proprie. –“Proprio per questo
dobbiamo stare uniti e combattere Caos con tutte le nostre forze!”
“Le mie forze già ve le ho date, credo di aver fatto abbastanza!” –Si
svicolò subito la Dea, dando le spalle alla figlia di Zeus. Quindi, sfiorata
dal lieve tocco della mano di Endimione, si girò di
nuovo, stavolta con gli occhi bagnati di lacrime. –“Cos’altro vuoi da me,
Atena? Cos’altro vuole il gran tessitore dell’isola nebbiosa? Vi ho dato tutto
quel che potevo! I miei Seleniti, gli abitanti del mio regno, e mia figlia!!!
La mia primogenita!!! Me l’hai strappata, facendone un soldato e portandola in
guerra!!!”
“Quello era il suo destino!” –Chiosò Avalon, senza distogliere lo
sguardo.
“O il destino che tu hai scelto per lei?!” –Singhiozzò Selene. –“L’ho persa, ormai! La vedo, la luce nei suoi
occhi, l’eccitazione che precede la battaglia! L’ho vista in tanti guerrieri
che sono caduti nel corso dei secoli, per cosa poi? Per gloria, onore o rendere
grazie a una Divinità che di loro si serviva per espandere la propria sfera di
influenza? Io non voglio dominare su niente e su nessuno, voglio solo un reame
dove tutti possano vivere in serenità! E mi è stato portato via! Non mi è
rimasto niente! Persino le mie figlie preferiscono rimanere qua, sulla Terra,
circondate da Cavalieri che possono difenderle! Soltanto Endimione,
l’amore del mio dolce Endimione mi è rimasto!”
–Aggiunse, carezzando il volto dell’eterno giovane, da lei ammaliato millenni addietro.
“È un amore perverso, il tuo!” –Affermò allora Atena, strappando un
sorriso al Signore dell’Isola Sacra.
“Come osi?!” –Avvampò Selene, alzando il tono
della voce, attirando sguardi persino dal gruppo di Divinità e guerrieri che,
al centro dell’arena, continuavano a discutere.
“Perverso e soffocante. Hai mai lasciato Endimione
libero di scegliere, libero di vivere e morire nel modo che ritenesse giusto?
Lo ami, e ciò è bello e nobile, ma il tuo amore non lo proteggerà, Selene! Quando l’ombra calerà su di voi, affogherete nel
rimpianto di non aver lottato per altro che non fosse la vostra solitudine! E
sarete soli!”
“Proprio tu parli?!” –Gridò Selene, spingendo
indietro Atena con un’onda di cosmo. –“Tu, la Vergine Dea, la Dea che non è mai
stata in grado di amare, che si è rifiutata di amare, per secoli, forse
millenni, nutrendoti solo di sangue e battaglie! Come puoi parlarmi di qualcosa
che non conosci e mai hai provato, perché per scelta te lo sei precluso? No,
Atena, non accetto lezioni sull’amore da te! E ora lasciami tornare al mio
regno lontano! Se lo scopo di Ares e Eris era
prendere il Talismano custodito da Elanor, non ho motivo di temere che tornino,
dal momento che mia figlia ha scelto la sua strada, ha scelto di rimanere qua,
a lottare per gli uomini di questa Terra, una razza troppo infima da
comprendere. Difatti, non la capisco, né capisco perché vi affanniate tanto
contro un nemico che voi stessi avete definito imbattibile.”
“Nessuno vi difenderà, lo sai, vero, Selene?!”
–Intervenne allora Avalon, mentre la Dea prendeva Endimione
per mano e si incamminava fuori dall’arena. Non gli giunse risposta alcuna,
soltanto il leggiadro strascicarsi dei suoi passi sul selciato e il sospiro
sconsolato di Atena, che si chiese se non fosse il caso di farla desistere.
–“Ha già scelto come morire!” –Chiosò il Signore dell’Isola Sacra, scuotendo la
testa.
Poco dopo vennero raggiunti dagli Angeli suoi fratelli, dai Cavalieri
dello Zodiaco e dai Seleniti guidati da Shen Gado
dell’Ippogrifo, che Avalon mise al corrente della situazione. –“Selene se ne è andata! Voi cosa avete intenzione di fare?
Combatterete assieme a noi o tornerete a rinchiudervi in quel pallido recinto
lunare?!”
“Certo che lotteremo! Selene non era la
nostra Dea, soltanto la nostra guida! Con lei abbiamo condiviso un sogno, la
speranza di un mondo migliore!” –Esclamò deciso Mani, il Selenite di Saturno.
–“Ma è in questo che dobbiamo vivere, l’unico rimasto dei nove mondi! Qua
dimorano coloro che un tempo ci adoravano e che abbiamo permesso che ci
dimenticassero, e qua, un giorno, sorgerà un nuovo Yggdrasill,
un nuovo Albero Cosmico!”
“Inoltre anche noi abbiamo persone che amiamo, che vivono in questo
meraviglioso mondo!” –Continuò l’anziana Avatea,
strappando un vagito d’assenso anche a Igaluk e a Hubal.
“Il Selenite di Venere non è di molte parole!” –Mormorò Pegasus ai
compagni, prima che Andromeda lo intimasse di fare silenzio.
“È muto!” –Gli rivelò.
“Una domanda sola, Signore dell’Isola Sacra!” –Intervenne il Custode
del Cerchio di Marte, attirando lo sguardo dei presenti. –“Quell’Anhar di cui hai parlato… devo a
lui la caduta di Nuova Babilonia, non è così? Umpf,
lo sospettavo! Beh, cosa aspettiamo?! Se c’è una guerra da combattere Sin degli
Accadi non si tirerà indietro! Anche perché, mi pare di capire che questa sia
l’ultima, perciò o moriamo combattendo o moriamo aspettando! E la seconda
scelta non l’ho mai contemplata!”
***
Dall’alto
dell’Olimpo Eracle osservava il mondo, consapevole di quanto fosse cambiato in
quei pochi secoli in cui aveva languito in un apparente stato di morte. Un
periodo di tempo molto breve per una Divinità immortale, ma lungo agli occhi
degli uomini. Ed egli, che un Dio non si era mai sentito, ora più che mai
riusciva a vedere tramite gli occhi degli umani, riusciva a percepire la
caducità della vita, il soffio delicato ma incessante dell’autunno che tutto
ricopriva di polvere. Dei sogni e degli ideali che lo avevano mosso secoli
addietro, quando aveva abbandonato l’Olimpo per rifondare Tirinto
e un nuovo ordine di Eroi, non era rimasto niente. L’antica fortezza era stata
abbattuta, le vite di coloro che avevano giurato di morire in suo nome erano
state spezzate e le persone amate… erano state le
prime a morire.
Del
centinaio di Heroes che avevano animato un tempo la
corte di Tirinto, ne erano rimasti soltanto dodici,
tanti quanti quelli che aveva potuto salvare, che adesso riposavano nelle
stanze che Zeus aveva assegnato loro, tornati a nuova temporanea vita solo per
morire di nuovo. Perché era questo che attendeva tutti loro, Dei compresi. La
fine del tempo cosmico.
Questo
Eracle ben lo sapeva, riusciva a leggerlo nel vento, greve e pesante, nelle
stelle, pallide e lontane, e in quell’oscura cappa che pareva opprimere
l’intero pianeta espandendosi a spirale dalle desertiche regioni dell’Asia
centrale. Persino là in alto, nelle beate terre ove un tempo imperava un’eterna
primavera, la foschia era arrivata. Ma egli non la temeva, non l’aveva mai
temuta, né quando, ancora giovane e vigoroso, aveva affrontato le Dodici
Fatiche impostegli da Euristeo, per dimostrarsi degno
del padre che lo aveva generato, né quando, millenni più tardi, aveva detto
addio all’Olimpo per vivere tra gli uomini, e come gli uomini morire.
Già, addio.
Una parola che aveva detto troppe volte, e a troppe persone.
All’amata Deianira, e ai figli da lei avuti, quando, travolto da
venefica pazzia, si era dato fuoco sul Monte Eta. A
suo padre, quando i contrasti tra loro erano divenuti insanabili. Alla cara Ebe, cui aveva spezzato, senza volerlo, il cuore, e ai
figli che ancora gridavano vendetta. Infine agli Heroes,
ai guardiani della pace che aveva condannato a una guerra eterna.
“È strano,
non è vero?!” –La voce placida di Zeus lo raggiunse in quel momento,
costringendolo a voltarsi verso la piana erbosa che si estendeva alle sue
spalle.
Era seduto,
da un paio d’ore ormai, sulla Bianca Torre del Fulmine, limite estremo del
Monte Olimpo, proprio dove Crono e Flegias avevano
imprigionato Atena mesi addietro, dando il via a una cruenta guerra intestina.
Una delle tante che le Divinità greche non avevano imparato ad evitare nel
corso dei secoli, e che anzi parevano smaniosamente cercare a cicli alterni,
quasi fossero incapaci di vivere in pace.
“Essere di
nuovo qua, a casa. Anche se forse tale non l’hai mai considerata.” –Continuò il
Primo dei Dodici, sollevandosi e portandosi in cima alla costruzione, proprio
accanto al figlio con cui non parlava da secoli. –“Temo che in parte sia stata
anche colpa mia, del poco rispetto che ho avuto verso la vita e della mai
confessata paura della fine di tutto, che mi ha portato a rifuggire
quell’eventualità che non volevo accettare, pur sapendo benissimo quanto fosse
reale. È stato questo che mi ha fatto vivere male troppo a lungo, incapace di
comprendere quanto amore mi circondasse, quanto uomini e Dei tenessero a me e
continuassero a farlo nonostante io li spingessi sempre più lontano. Tu,
Eracle, sei tra coloro che ho allontanato. Non ti chiedo di perdonarmi, né
posso adularti con false speranze per un futuro insieme, poiché temo che
nessuno di noi conoscerà mai quel tempo. Posso solo chiederti di aiutarmi a
sorreggere il mio braccio, per scoccare insieme l’ultima folgore sul nostro
nemico! Lo farai, figlio mio?” –Concluse Zeus, posando una mano sulla spalla
del nerboruto guerriero e fissandolo con i suoi profondi occhi blu.
Eracle non
rispose alcunché, accennando un sorriso sentito a parole che troppo a lungo
aveva desiderato udire. Si limitò a poggiare una mano sopra quella del padre e
a stringerla forte, annuendo, prima di alzarsi e scendere a terra con lui.
“I tuoi
compagni ti stanno aspettando!” –Spiegò il Nume dai biondi capelli, camminando
assieme al figlio lungo il prato fiorito, diretto verso la reggia. –“Ermes e
Demetra sono con loro, già sanno qual è il loro compito!”
“Ed io
conosco il mio, padre!” –Assentì con vigore il Protettore degli Uomini.
–“Nessuno vi disturberà fintantoché Efesto non avrà
completato la sua opera!”
“Ciò è di
vitale importanza! Non per noi, la cui esistenza volge ormai al tramonto, ma
per gli uomini che popolano questo mondo che poche volte abbiamo davvero
apprezzato. I Cavalieri dello Zodiaco, i cinque che hanno superato i confini
stessi dell’esistenza, risvegliando lo stadio ultimo della conoscenza, sono il
futuro! Sono tutto ciò che separa la Terra dalla distruzione totale! Noi
possiamo solo aiutarli in questa disperata impresa, sorridendo e gloriandoci se
dovessimo arrivare alla fine!”
“Ho sempre
nutrito grande stima per Atena e i suoi paladini e, da ciò che mi hai
raccontato, questi cinque ragazzi sono ancora più leggendari degli eroi del
Mondo Antico! Sarà un onore assisterli nell’ultima guerra!”
“E noi
saremo con voi, mio Signore! Fino alla morte!” –Esclamò allora un’acuta voce
giovanile, proprio mentre Eracle e Zeus varcavano la soglia della Sala del
Trono, trovando i dodici Heroes in loro fervente
attesa. Tutti rivestiti delle Armature degli Eroi, che Druso di Anteus, fabbro di Tirinto, aveva
creato per loro, servendosi di un frammento di Glory,
la Veste Divina di Eracle, i superstiti delle antiche legioni aspettavano solo
un ordine del Vindice dell’Onestà per scendere in guerra.
“Cos’è in
fondo quel macabro confine? Niente più di un nuovo oblio che già abbiamo saputo
affrontare! Se vivere in un regno di tenebra o morire affinché tale infausta
prospettiva non si realizzi sono le due possibilità che questa rinnovata
esistenza ci offre, noi sappiamo cosa scegliere!” –Disse un altro di loro, alto
ed elegante nelle sue ben lucidate vesti.
“Parli bene,
Marcantonio! Come sempre!” –Sorrise Eracle all’Hero
dello Specchio, mentre anche gli altri fremevano alle sue spalle.
Solo gli
ultimi Olimpi, inginocchiati di fronte alla scalinata che conduceva al trono,
indugiavano, decisi di certo a combattere ma timorosi al tempo stesso nel
doverlo fare. Come Dei, del resto, non avevano mai considerato la prospettiva
della fine.
“Mio vecchio
amico…” –Esclamò Zeus, carezzando la guancia di Ermes
e facendogli cenno di alzarsi. Ugualmente fece Demetra al suo fianco, gli occhi
lucidi per l’emozione ma al tempo stesso risoluti ad andare avanti. –“Ti chiedo
un grande sacrificio, non dissimile dai tanti a cui ti ho obbligato in tutto
questo tempo vissuto assieme! Ma non lo richiedo per me, bensì per i giovani
che meritano di vedere un’altra alba!”
“Sono
pronto!” –Commentò semplicemente il fidato Messaggero, prima che il Nume
Supremo desse loro le ultime indicazioni.
“Dopo una
breve sosta ad Atene, andrete in Sicilia, dove Efesto
vi sta aspettando! Credo che Nettuno già sia in viaggio per l’isola italica ed
io presto vi raggiungerò!”
“Non venite
con noi, mio Signore?” –Mormorò Ermes stranito.
“Non
adesso.” –Chiosò Zeus, per poi voltarsi verso il figlio. –“Eracle vi
proteggerà! Non abbiate timore! Andate, adesso!”
A quelle
parole, gli Heroes ruppero le fila, incamminandosi a
passo fermo verso l’uscita della reggia, tutti tranne uno, i cui servigi erano
stati richiesti direttamente dal Signore del Fulmine.
“Mio Re…” –Commentò Ermes, prima di allontanarsi, la voce
incrinata dal dubbio per una conversazione che non sapeva come sostenere.
“Va tutto bene, amico mio. Non dolerti. Era ha fatto la sua scelta! Era ci ha
ricordato quanto umani siamo in realtà, vittime di emozioni che solo in animi
così profondi e dediti all’amore possono turbinare. Il suo sacrificio non è
stato vano né un gesto folle, ma nato dal perdono che ha saputo palesare.
Quello stesso perdono che adesso, infine, anch’io mostrerò.”
***
Una frenesia
insolita aveva invaso il Santuario delle Origini, il luogo ove gli Dei ancestrali
erano tornati a nuova vita. Una frenesia scaturita dall’inebriante e al tempo
stesso terribile sensazione provocata dalla loro vicinanza, in particolare
dalla Sua. Non vi era guerriero, Dio o creatura che non ne percepisse
l’infinita potenza, così vasta al punto da saturare ogni cosa. Spazio, tempo e
anima, tutto pareva perdersi, tutto pareva scomparire all’interno di
quell’immenso vuoto cosmico celato nel tempio da lui stesso edificato millenni
addietro, all’epoca della creazione del mondo. Tempio che, come Chimera ebbe
modo di osservare in quel momento, entrando nel salone principale da uno degli
innumerevoli corridoi laterali, andava ampliandosi sempre di più, con
l’espandersi del cosmo di Caos. Nuove mura, torri e bastioni di roccia nera
sorgevano ad ogni ora laddove prima vi era solo un’arida superficie. Scosse
continue dilaniavano il deserto del Gobi, aprendo faglie che subito venivano
colmate dal sollevarsi di imperiosi contrafforti, mentre una nube scura ne
solleticava i confini, scivolando silente attorno all’enorme fortezza e
fagocitando ogni forma di vita che ardisse anche solo avvicinarsi ad osservare.
Umpf! Un magro bottino! Osservò il guerriero della bestia dalle triplici fattezze, tirando
un’occhiata, dal portone aperto sul cortile interno, alle carcasse di uccelli e
artropodi che giacevano prosciugate di linfa vitale. Pochi uomini si aggirano in questa landa desolata! Pochi guerrieri! Per
ora! Sogghignò, sbattendo un pugno dentro il palmo dell’altra mano e
incamminandosi verso l’uomo che lo aveva cresciuto e addestrato per quel
momento.
“Lord
Comandante!” –Esclamò, inchinandosi di fronte a Polemos,
che stava urlando le ultime istruzioni ai vari reparti dell’Armata delle
Tenebre. –“Il mio veleno, le mie corna e le mie zanne voraci sono al tuo
servizio! Prendili e usali per uccidere!”
“Di tanta
solerzia non posso che compiacermi!” –Commentò il Demone della Guerra,
spostandosi dietro le spalle i lunghi capelli rosacei. –“Dovresti meritare tu
l’epiteto che mi fu assegnato nel Mondo Antico, Chimera, tu che più di ogni
altro aneli scendere in battaglia! Del resto, come la bestia di cui riprendi le
fattezze, triplice motivazione sostiene la tua furia, non è così?”
“Precisamente.”
–Si limitò a commentare il guerriero dai capelli biondi, memore
dell’umiliazione subita anni addietro, in un altro santuario. Molto meno
oscuro.
Polemos sogghignò, prima di fargli cenno di
alzarsi e seguirlo, per mostrargli come intendeva procedere. –“Con azioni
rapide e mirate! Colpiremo subito, senza aspettare nemmeno un’ora! I nostri
avversari languono e curano le loro ferite dopo la battaglia sul Reame della
Luna Splendente, una battaglia che non posso che definire una completa disfatta
per il glorioso esercito che sono stato chiamato a guidare! Se Ares avesse avuto
anche solo un briciolo della mia strategia bellica, non ci saremmo esposti così
tanto, perdendo in un solo colpo tutte le Makhai!”
“Compiangete
vostra figlia, mio Lord?”
“Ah ah ah!
Non sapevo tu fossi anche ironico, Vaughn! Oh, cos’è
quell’espressione imbronciata? Non era il nome con cui venisti al mondo? Con
cui tuo fratello ti chiamava da bambino? So bene che l’hai abbandonato da
tempo, ma mi piace ricordarti così, come il giorno in cui ci incontrammo!”
“Il giorno
in cui mi salvaste, decidendo di tenermi con voi e addestrarmi, maestro!”
–Abbassò il capo Chimera, con voce per la prima volta incrinata da un doloroso
ricordo. –“Non ve ne sarò mai grato abbastanza!”
“Già…” –Rifletté Polemos per
qualche istante, prima di sfiorare il mento del ragazzo, senza togliergli gli
occhi di dosso. –“Abbiamo condiviso molte cose, Vaughn,
ma ormai sono retaggi di un passato che non tornerà più! Adesso esiste solo il
presente, un presente dove guiderò le vittoriose Armate delle Tenebre e dove tu
sarai il mio Luogotenente! Perciò devo essere sicuro che obbedirai a ogni mio
ordine, ponendo la missione al primo posto, sempre e comunque! Qualunque cosa
accada, servire Lord Caos sarà sempre il nostro obiettivo! Il resto non conta
più niente ormai, né rispetto, né gratitudine, né vendette personali! Tutto si
perde ai cancelli delle tenebre!”
“Io… Sì, Lord Comandante!” –Esclamò il guerriero, ergendosi
fiero e battendo una mano sul cuore, mentre una goccia di sudore gli scivolava
tra gli occhi, umettandogli le labbra. –“Per la guerra, suprema madre del
mondo, e per il Caos, principio e fine!”
Polemos annuì compiaciuto, prima di illustrare al
giovane come si sarebbero mossi, attaccando i principali centri di potere delle
Divinità che ancora resistevano alla grande ombra. –“Non che ve ne siano molti,
in verità! E sono tutte concentrate in soli quattro luoghi!” –Esclamò,
indicando una mappa affissa al muro, che comprendeva oltre al continente
europeo anche ampie porzioni del deserto nordafricano. –“Due in particolare
potranno opporre resistenza, mentre una terza, da poco travolta dagli eventi di
Ragnarök, sarà facile preda della nostra ambizione!
Una volta conquistate le ultime roccaforti in grado di opporsi all’avvento dei
Progenitori, caleremo sulle ignari popolazioni del mondo, avvolgendo le loro
caduche esistenze in una notte senza fine. Cosa potranno fare, a quel punto,
gli impauriti esseri umani, le cui materialistiche società li hanno infiacchiti
al punto da non saper neppure riconoscere il cosmo dentro di sé? Strisceranno come
vermi di fronte all’Armata delle Tenebre, invocheranno persino la nostra
protezione pur di aver salva la vita!”
“E noi non
gliela concederemo!” –Esclamò all’improvviso una voce profonda, che suonò quasi
metallica ai due guerrieri. Si voltarono verso il corridoio che conduceva ai
laboratori sotterranei e nell’oscurità che lo avvolgeva parvero notare due
occhi rossi, simili a tizzoni ardenti, fissarli famelici.
“Voi?!”
–Mormorò Polemos, senza nascondere un certo stupore.
“Checché ne
pensino i nostri nemici, la mia ora non è ancora giunta! Il nostro signore e
padrone, creatore e disfacitore di mondi, dall’alto della sua infinita bontà,
ha accettato di disporre ancora dei miei servigi ed io sono stato ben lieto di
mettere le mie arti e la mia oscura sapienza a sua disposizione!” –Parlò la
voce, invitando i due guerrieri ad avvicinarsi e a seguirlo nei tetri antri del
Primo Santuario, privi di una qualsiasi forma di luce. –“Non ho dimenticato gli
insegnamenti del mio maestro, Athanor della Regina
Nera! Così, per onorare la rinnovata fiducia dell’Unico verso di me, ho pensato
di fargli un gradito dono, e di farlo anche a te, Lord Comandante, al qual
tempo! Cosa ne pensi? Mira la potenza di antiche alchimie, ai più sconosciute,
irrobustite dal sangue divino a Caos offerto in dono!”
Polemos e Chimera si fermarono sulla soglia di
un’ampia sala, al centro della quale riposavano dodici corazze dalle
abominevoli forme, che di primo acchito non riuscirono ad identificare, salvo
poi, accostandosi e studiandole con maggior attenzione, abbinarle ai migliori
guerrieri del loro esercito.
“I Nefari…” –Mormorò il biondo guerriero.
“Dodici
armature per dodici segni mostruosi, il nuovo Zodiaco Nero che sorgerà in
cielo! Che i popoli della Terra lo sappiano, che i popoli tremino di fronte
all’Unico Dio! E quale modo migliore di toglier loro la speranza in un futuro
che privarli di qualcosa che ha infuso sicurezza alle loro misere vite per
millenni? La fissità di un cielo lontano in cui popoli e culture diverse hanno
visto qualcosa, icona o simbolo della loro civiltà! Orbene quei simboli li
distruggeremo, sostituendoli con questi e quando gli uomini avranno l’ardire di
sollevare il capo al cielo non vedranno più l’impavido leone dal crine d’oro o
i pesci in cui Afrodite ed Eros si mutarono per fuggire a Tifone! Oh no, loro
vedranno il terrore! Ah ah ah!”
“Diabolico
piano il vostro, Maestro di Ombre…” –Parlò Polemos, ma l’altro lo fermò, sollevando una mano.
“Non lo sono
più, ormai! Adesso sono oltre!” –Ghignò, avvicinandosi e permettendo al Lord
Comandante di osservarlo meglio, di osservare quel che rimaneva di lui.
Un’oscura corazza integrale, dotata di un elmo a casco, che rendeva impossibile
capire cosa fosse celato al suo interno. Ben sapendo quel che gli era accaduto
mesi addietro, sull’Isola delle Ombre, Polemos
rabbrividì, non desiderando conoscere gli oscuri artifizi che gli avevano
permesso di essere ancora vivo.
Se una vita quella si può considerare! Commentò, staccandosi e avviandosi verso l’uscita, assieme a Chimera,
prima che la voce dell’araldo dell’ombra li raggiungesse.
“Sono il
Gran Maestro del Caos adesso, la Bocca di Caos! E come tale dovrete
considerarmi! Ah ah ah!” –Sghignazzò, la voce
filtrata dalla maschera metallica che portava sul volto e che la faceva
rimbombare per i corridoi sotterranei. Quindi si voltò verso la parte profonda
del suo laboratorio, ove un uomo attendeva in silenzio, celato nell’ombra di
cui aveva nutrito il cuore per molti anni. –“Sei ancora qui?”
“Sto
andando!” –Commentò il suo interlocutore, passandogli accanto. –“Avrei voluto
anch’io un’armatura da voi forgiata! Di certo mi avrebbe dato maggiori
soddisfazioni di questa, di cui non apprezzo il colore chiaro!”
“Oh, non
puoi neanche immaginare quali!” –Ghignò il Maestro del Caos, sfregandosi i
palmi soddisfatto.
“Posso intuirle…” –Fu quel che ottenne in risposta, prima che uno
scintillio azzurro segnalasse la sua dipartita da quel santuario. Anche per
l’allievo di Anhar era tempo di scendere in guerra.