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Autore: afterhour    08/12/2013    8 recensioni
Sakura Haruno aveva una meta precisa nella vita, diventare ricca, e per questo non intendeva perdere tempo frequentando poveracci e perdenti.
Non che avesse niente di personale contro di loro, o contro Sasuke Uchiha (a parte il fatto che assieme a tutti i ragazzi del quartiere era sospettato di avere messo incinta sua sorella, un crimine orrendo che non avrebbe perdonato mai), era solo che aveva tutto pianificato.
Ma il destino ha uno strano modo di prendersi gioco di noi, dei nostri piani e delle nostre certezze.
AU OOC, triangolo: SasuSakuSaso
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akasuna no Sasori, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Scusate ancora per il pasticcio con la storia vecchia: l'ultimo capitolo mi dava dei problemi (non si riusciva più ad entrare), ed ho dovuto cancellarlo e ripubblicarlo, senza pensare al fatto che sarebbe sembrato del tutto nuovo.

Va bene, tornando a questa storia, spero vi piaccia questo capitolo, che almeno è davvero nuovo!



6.



Mi ero ripresa presto, per l’esattezza quella domenica stessa, la sera, quando mi erano arrivate le mestruazioni e mi erano tornati anche il buon senso e l’autostima.
Doveva essere stata la sindrome premestruale che mi aveva fatto agire così, mi secca ammettere che mi capita spesso di dare di matto per futili motivi per dopo scoprire imbarazzata che doveva venirmi il ciclo, e forse ero anche un po’ sotto shock per quella cosa in metropolitana, chissà.

Purtroppo ormai era tardi, quel che è fatto è fatto, ed era un peccato non poter sopprimere Sasuke Uchiha che ora sapeva davvero troppo, ma sarebbe stato il colmo dopo tutto quello che aveva fatto per me, e poi non avrei proprio saputo come liberarmi del cadavere, per cui non rimaneva che sperare che a causa dei traumi fisici la sua memoria fosse lacunosa, o che non parlasse, mai.
Mi chiedevo quale delle due ipotesi fosse più improbabile.

Non lo avevo più cercato e il venerdì successivo avevo tirato la tenda non appena entrata nella mia postazione, onestamente non volevo vederlo, o più precisamente non volevo affrontarlo, mi vergognavo.
Il colmo era che alla fine ero scappata talmente in fretta da casa sua che non avevo neppure ripreso il cellulare, e dal momento che non osavo tornare da lui per chiederglielo, avevo fatto il duplicato della scheda attingendo al mio prezioso gruzzolo d’emergenza (prezioso non per la modica somma che conteneva, ma per la sicurezza che rappresentava per me), imprecando per la spesa imprevista, ed ora usavo il telefonino antidiluviano di mia madre (era vintage anche quello, puro modernariato).

Certo che dovevo proprio essere impazzita quel giorno: era quasi una settimana che ci pensavo e ancora non capivo come avessi potuto abbassare così tanto la guardia, e più ci pensavo più sentivo che avevo mostrato troppo, davvero troppo, e avevo paura.
Non bisogna mai affidare se stessi a nessuno.
Nessuno.
Non esistevano familiari, o amici, o amori che non fossero disposti a pugnalarti per il loro tornaconto, magari non volevano neppure fare del male, ma la gente neppure ci pensa, e comunque ci si può raccontare uno svariato numero di cose per convincersi di non fare niente di male, lo sapevo, e ci si può convincere così facilmente che pugnalare qualcuno alle spalle è la cosa migliore da fare.
Sapere che qualcuno in questo mondo conosceva i miei errori, le mie debolezze, mi faceva paura, in più c’era di mezzo ma sorella, che già si ficcava nei guai da sola senza che l’aiutassi io raccontando in giro i fatti suoi.

Insomma, magari lo psicologo costava troppo, ma se proprio avevo bisogno di confessare i miei peccati potevo andare da un prete, ecco, non spiattellare tutto ad uno che abitava dalle mie parti, e che per sovrappiù ero costretta a vedere una volta alla settimana.
Il lato positivo era che non mi sentivo più così tanto in colpa nei suoi confronti, o meglio, sapevo di essere ancora in debito e la cosa mi seccava ancora parecchio, ma un pochino mi sentivo anche in credito per avergli mostrato una parte così vulnerabile di me, e comunque per evitare equivoci avevo mezza idea di chiedergli espressamente di non raccontare a nessuno quello che gli avevo detto, non appena avessi osato affrontarlo.
A dire il vero il comportamento migliore e più intelligente sarebbe stato quella di ignorarlo completamente da ora in poi, ma, era strano, il pensiero di non avere mai più a che fare con lui in qualche modo mi rattristava, forse a causa della strana forza sotterranea che sembrava spingermi irresistibilmente verso di lui (probabilmente gli ormoni), o forse perché è bello non sentirsi soli, anche se solo per una microscopica frazione di secondo.
O magari mi ci ero affezionata, ecco, un po’ come ci si affeziona ai randagi che incontriamo spesso per strada, qualcosa di simile.

Ascoltai distrattamente la ragazza che mi mostrava l’unghia spezzata e mi chiedeva di rimediare, e tirai fuori gli attrezzi, pronta ad applicare le più brutte e antiestetiche unghie finte che avevo a disposizione, facevano sempre la loro porca figura con le mie clienti.
Lei approvò entusiasta (approvavano sempre) e subito dopo attaccò a raccontarmi dei problemi di letto con il suo ragazzo, nei particolari, davvero, c’era una specie di legge del contrappasso per cui dovevo sorbirmi i particolari intimi della vita di sconosciuti, proprio io che avevo uno smodato amore per la privacy.

Ascoltai con un orecchio solo e mi dissi che andava tutto bene, che questa non era la mia vita, era solo una parentesi fino a quando non me ne andavo via da lì, da unghie finte, miseria e Sasuke Uchiha, perché in fondo questa vita non contava, era provvisoria.
Per fortuna ne avevo già un’altra, a scuola nessuno sapeva niente di me, e anche il lavoro in fioreria era un’altra cosa, grazie al cielo, e nonostante a causa dei bigliettini da allegare ai mazzi di fiori dovessi sorbirmi spesso noiose spiegazioni, lì le persone non erano mai così smaccatamente stupide da raccontarmi tutta la loro vita come tendevano a fare qui. Non tutte almeno.
Una volta cercavo anche di dare qualche dritta alle mie irresponsabili clienti, di metterle sull’avviso, non è bello sentire che la gente si mette nei guai a causa della sua enorme stupidità, soprattutto con persone dell’altro sesso, ma ormai sapevo che era tutto fiato sprecato: la gente è troppo limitata per provare anche solo a vedere al di là del proprio naso, non ce la fanno.
Non ci si poteva fare niente.

E a proposito di guai, neppure io ne ero immune purtroppo, e sbirciai la tenda trattenendo a fatica la tentazione di guardare dall’altra parte.
Non capivo neppure da dove mi venisse tutta questa smania di vederlo, chi se ne fregava di Sasuke, io avevo Sasori, l’uomo dei sogni, con cui avevo iniziato a messaggiarmi sempre più spesso, ed ero parecchio soddisfatta.
 
Con lui non avrei mai commesso l’errore che avevo commesso con Sasuke, ed avevo la netta sensazione che avrebbe apprezzato la mia discrezione, a nessuno frega niente di sciropparsi i problemi degli altri, la gente vuole essere libera di pensare che tu stai bene e non hai bisogno di niente, così non si sente in dovere di fingere interesse e può soffocarti con le sue fesserie.
Amen.

Mi feci forza e non sbirciai mai dietro la tenda, dalla parte del bar (era dura), e ritardai la mia uscita di un quarto d’ora, di proposito, per non incontrarlo.
Immaginate la faccia quando me lo trovai di fronte all’uscita, che mi aspettava.

Lo fissai imbambolata mentre mi porgeva il cellulare.

 - Grazie – gli feci un po’ brusca, non volevo che pensasse che fossimo amici o simili ora – vedi di non dire niente di quello che ti ho raccontato, non so cosa mi è preso –

 - Tieniti per te le tue stronzate, duchessa – aveva risposto subito, e potevo leggere chiaramente il fastidio in quei begli occhi scuri.

Perché non poteva rispondere con un sì o con un no per una buona volta? Perché doveva sempre complicare tutto?

Lo raggiunsi in fretta perché nel frattempo si era voltato e se ne stava andando via, e mi affrettavo pure anche se a rigor di logica avrei dovuto essere contenta di non averlo più tra i piedi.
Forse sotto sotto mi sentivo ancora in debito, o magari quel paragone con il randagio era appropriato: è crudele cacciare via i randagi, poverini, fanno tenerezza.

 - Cosa vuoi dire – chiesi un po’ nervosa mentre tentavo di adeguarmi al suo passo.

 - Che se ti sei pentita di avermene parlato sono cazzi tuoi –

Stronzo.

  - Non vorrei che uscissero altre voci su mia sorella – tentai di giustificarmi.

Si fermò e mi fissò un momento ancora visibilmente adombrato.
 
- Non vado in giro a raccontare i fatti degli altri, puoi dormire in pace – specificò, lo stronzo, e poi si voltò e riprese a camminare un po’ troppo velocemente per me, per la lunghezza delle mie gambe e per l’altezza dei miei tacchi.

Mi misi a seguirlo imperterrita, senza ben sapere perché mi angosciasse così tanto l’idea che non volesse più avere a che fare con me (diciamo che al momento non avevo né il tempo né la voglia di pensarci), e attraversò la strada con la sottoscritta sempre alle calcagna.
Iniziavo a sentirmi un po’ ridicola.

 - Non possiamo fermarci un momento, che so, andare al bar e parlare con calma? – buttai lì – offro io –

Si era fermato ancora e mi aveva guardata perplesso.

 - Offri tu? –

Non capivo a cosa fosse dovuta quell’aria incredula, non ero mica così tirchia, ero solo oculata, e povera.

 - Un misero tentativo di sdebitarmi almeno in parte – specificai.

Lui aveva sorriso appena, e cominciavo ad abituarmi a quel sorriso, lo trovavo persino…erotico.
Tentai di cacciare il pensiero mentre tornavamo indietro ed entravamo in quello schifo di bar.
Ci sedemmo ad un tavolo all’angolo, un po’ nascosto, e il padrone, un tipo strano che si credeva molto spiritoso, era parso contento di avere come cliente un suo dipendente, così contento che ci portò due aperitivi senza aspettare il nostro ordine.

 - Offre la casa – spiegò mentre ce li consegnava.

Ma guarda, sembrava proprio che fossi destinata a non tirare fuori soldi.

 - Il prossimo però lo pago io – replicai.

Il tizio aveva trovato la cosa molto divertente, rideva, chissà perché, mentre per me era una questione di onore, dovevo pur pagare quel debito in qualche modo, e dimostrare contemporaneamente che non ero tirchia.

- Per prima…  – dissi rivolta a Sasuke, riprendendo il discorso – sappi che non è niente di personale – assaggiai scettica quell’intruglio – è che non mi fido di nessuno – tentai di spiegargli poi, anche se di lui mi ero fidata, forse perché non avevo molto da perdere, o più probabilmente perché ero momentaneamente incapace di intendere e di volere.
 
 - Anche questi sono cazzi tuoi –

Non capivo perché si fosse offeso così tanto e rassegnata finii di bere l’intruglio rendendomi conto solo alla fine che era piuttosto alcoolico.
Mi sentivo un po’ strana.
Afferrai anche il secondo che nel frattempo era arrivato, quello che dovevo pagare io, dicendomi che in fondo non era così male.

  - Non è così facile fidarsi, per me – ammisi – mi ci vogliono minimo tre anni di conoscenza per iniziare a fidarmi giusto un minimo, anzi, se ci penso non mi viene in mente nessuno di cui mi fidi fino in fondo, mi sembra troppo rischioso…c’è qualcuno di cui ti fidi, tu? – non era lui quello che viveva solo?

 - I miei amici, Naruto in particolare – si degnò di rispondere.

 - Immagino che non mi resti che fidarmi di te, volente o nolente – commentai, ma al momento non mi pareva così grave, all’improvviso mi sentivo piena di buoni propositi, doveva essere l’alcool.

 - Immagino di sì –

Mi chiesi se questo faceva del nostro rapporto qualcosa che assomigliava anche solo vagamente all’amicizia, e doveva proprio essere l’alcool quello che mi scaldava il petto e mi faceva allargare un sorriso, perché mi misi ad osservarlo consapevole di avere addosso un sorriso un poco idiota.
La ferita sopra l’occhio si era rimarginata abbastanza ma era ancora piuttosto visibile, notai, e probabilmente si vedeva ancora l’ematoma sul corpo data la sua estensione, egoisticamente non ci avevo più pensato.

- Come vanno le costole? –

 - Sopravvivo – e dopo avere visto la mia espressione (non so bene quale fosse), aveva aggiunto – ogni giorno va meglio, non è più così male –

 - Spero che tu non lo dica solo perché devi fare il duro –

 - Non faccio il duro –

 - Sì che lo fai, lo si deduce chiaramente dal fatto che ti metti a difendere donzelle indifese anche se è una battaglia persa –

  - Niente di personale – mi prese visibilmente in giro – Faccio sempre quello che penso sia giusto –

Era una risposta semplice, e non sapevo per quale motivo mi aveva colpita così tanto, ma rimasi a guardarlo un po’ imbambolata, perché in fondo non era così scontata la cosa, almeno non per me, che facevo quello che ritenevo fosse meglio per me, o per mia sorella, non quello che credevo fosse giusto fare.

Sbagliavo?

Cacciai quel ridicolo dubbio e finii di bere anche quel bicchiere, nel frattempo lo guardavo chiedendomi se potevamo davvero essere amici noi due.
Non avevo mai avuto amici, amici veri intendo, non avevo mai avuto persone di cui potevo fidarmi, semplicemente perché pensavo che non fosse possibile, che l’amicizia fosse una sorta di alleanza temporanea, che le persone in fondo pensassero solo a se stesse, qualcosa del genere…e non capivo perché sentivo di potermi fidare proprio di lui, di questo sconosciuto che per qualche motivo mi attraeva così tanto (e non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto affatto).

Continuai a guardarlo pensando che tutto sommato se non altro era un bel vedere, e che non era neanche tanto stupido per essere un maschio, non era così male come interlocutore.
Gli sorrisi, la testa mi girava un poco, e per qualche assurdo e sicuramente insensato collegamento pensai alla tizia dai capelli rossi che avevo visto a casa sua.
Confesso che era un po’ che ci pensavo a quella lì, che mi chiedevo che tipo di donna potesse piacergli, cosa lo interessava di lei, cos’aveva quella di speciale.
Pura e semplice curiosità femminile, ovviamente.

- Carina la tua ragazza – buttai lì resa loquace dall’alcool.

 - Non ho la ragazza –

 - Ah – non so perché ma mi veniva ancora da sorridere – e allora chi… –

 - Perché tutte queste domande? –

Il tizio mi aveva portato un altro bicchiere e lo accettai volentieri, perché no?, mi sentivo sorprendentemente leggera quella sera, decisamente allegra, quasi felice.
Non mi capitava spesso.

 - Tento solo di esserti amica – spiegai – voglio provarci, davvero –

 - Balle –

 - E perché, scusa? –

 - Perché non fai qualcosa senza un tornaconto, me l’hai detto tu stessa –

Che stronzo.
Non gli avevo mai detto una cosa simile, aveva frainteso il mio sacrosanto diritto di non voler essere più povera, o magari aveva anche ragione, magari ero un’egoista, ma non avevo tornaconti quella sera, e faceva comunque male sentirselo dire in faccia così, non era carino, ecco, Sasori non me lo avrebbe mai detto, ne ero sicura.

 - Cerco di sopravvivere – replicai bruscamente, e bevvi un altro sorso – e se non vuoi avere a che fare con me basta dirlo – conclusi, meno sicura di quel che avrei voluto.

 - Non ho detto questo –

Mi resi vagamente conto che il sorriso assomigliava più a un ghigno soddisfatto ora, ma al momento non mi importava niente della mia espressione, mi importava quello che implicava la sua risposta.
Voleva ancora avere a che fare con me.
Ed io avevo bevuto decisamente troppo.

Dopo il terzo bicchiere ci alzammo, dovetti appoggiarmi per un momento alla sedia perché le gambe non mi reggevano bene (non reggo l’alcool e infatti di solito non bevo mai), e dal momento che il tizio aveva detto che offriva la casa, ci avviammo per la strada che ogni tanto mi aggrappavo a lui, ridacchiando senza motivo e pensando che avrei dovuto trovare un altro sistema per ripagare Sasuke.

Raggiungemmo il metrò che mi sentivo ancora piuttosto allegra, ed entrai nel vagone con la sensazione che la mascella mi dolesse, mi sarei resa conto solo più tardi che era perché stavo perennemente sorridendo come un’idiota, un’espressione inusuale per i miei muscoli facciali.

- Da te ho visto la foto di una bambina – buttai lì dopo che mi ero seduta (lui era in piedi di fronte a me, non c’era posto).
Mi stavo facendo un bel po’ di fatti suoi, alla faccia della persona riservata, ma al momento non mi importava affatto, continuavo a sentirmi spudoratamente allegra, e poi ormai avevo rotto talmente tante regole con lui che una più una meno non cambiava molto.
Senza contare che ero curiosa.

 - E’ mia sorella, mia madre si è risposata –

Ah!
Il sorriso mi si allargò ulteriormente, se era possibile.

 - E non sei andato a stare con loro? –

 - Non vado d’accordo con il mio patrigno –

 - Ed è vero che tuo padre è in prigione? – continuai mentre con la mano, non so perché, gli tiravo la maglietta che spuntava dalla giacca in pelle aperta.

  Mi aveva guardata seccato.

 - Fai un sacco di domande –

 - Cerco di mettermi in pari con tutto quello che sai su di me –

 - Te lo dirò un’altra volta, se fai la brava – mormorò staccandomi la mano dalla maglietta.

Stronzo.

Ma niente poteva scalfire il mio buonumore, per cui tirai fuori il cellulare di mia madre, l’altro era scarico, avrei fatto il cambio scheda a casa, e gli chiesi il numero.

 - In caso di emergenza – spiegai.

Me lo diede, ed ero proprio soddisfatta di avere il numero di qualcuno da chiamare in caso di emergenza.

La fermata successiva si era liberato un posto accanto a me e si era seduto lì.
Continuavo ancora a sorridere come un’idiota, una cosa imbarazzante, ma non riuscivo a trattenermi, e per lo stesso motivo, perché non riuscivo a trattenermi, mi misi a studiare il suo profilo, un profilo bellissimo, non si poteva negare, fino a quando non si voltò a fissarmi a sua volta: i suoi occhi non erano completamente neri visti così da vicino, avevano delle pagliuzze più chiare, grigio blu, come gli feci notare ad alta voce mentre mi ci perdevo un poco, ed erano davvero bellissimi, anche quelli.
Dopo mi concentrai sulla cicatrice e la sfiorai appena con le dita, per niente impressionata, anzi, era piacevole toccarlo, e quando mi staccò le dita scesi a guardargli il naso, che era ancora dritto per fortuna, non glielo avevano spaccato (non ero sicura di non avere commentato ad alta voce), e infine scesi più giù, a guardare quelle labbra ben disegnate, così invitanti.

Allungai una mano, l’avvolsi attorno al suo collo e lo attirai a me, perché ero felice, e perché avevo un disperato bisogno di baciarle.

Sfiorai appena le sue labbra con le mie, saggiandone la morbidezza, e con il cuore che batteva all’impazzata feci scivolare la lingua nella sua bocca, lentamente, perché volevo assaporarlo con calma.

Poco dopo eravamo lì che ci baciavamo con tutti noi stessi, le lingue che si muovevano l’una sull’altra con avidità, e c’era un formicolio che mi attraversava il corpo ed arrivava fino in mezzo alle gambe.
Ci staccammo respirando a fatica, ed ancora non connettevo bene, tanto che al momento l’idea di saltargli in braccio e farmelo lì sul metrò, davanti a tutti, non suonava così sbagliata com’era in realtà.
Lui guardò la fermata di sottecchi e si sollevò.

 - Scendo qui, abbiamo le prove, ce la fai a tornare a casa sana e salva? –

 - Certo! Non sono ubriaca, solo un po’ allegra, e poi è ancora presto! –

 - Chiamami se c’è qualche problema –

Mi fissò un momento prima di uscire, ed io rimasi lì, con un sorriso idiota tra le labbra, il cuore in tumulto e l’eccitazione che ancora non mi abbandonava, come il suo sapore in bocca.
Non provavo neppure la sensazione sgradevole che mi dava quella fermata, in quel momento era la fermata in cui scendeva Sasuke per fare le prove con il gruppo, non quella in cui lo avevo vigliaccamente abbandonato.
Solo dopo mi resi conto che ero sola, che se ne era sceso e mi aveva abbandonata lì.
Bastardo.
Mi mancava già.

Scesi alla fermata giusta, la testa che girava un po’, ma non appena fuori, all’aria aperta, ritrovai di colpo la ragione, e nel tragitto fino a casa mi resi conto dell’enormità di ciò che avevo fatto.
Mi affrettai a scrivergli un sms:

 ‘Scusa, ho sbagliato, dimentichiamocene, vorrei davvero provare ad essere tua amica’

Non avevo specificato a cosa mi riferivo, ma ero sicura che avrebbe capito, così dopo aver firmato inviai e non ci pensai più (più che altro tentai di non pensarci più) fino a quando non trovai la sua risposta, il mattino dopo.

‘Va bene’

Ne rimasi inspiegabilmente delusa.
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