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Autore: TuttaColpaDelCielo    29/12/2013    1 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 31 – Tramonto





Si passò una mano tra i capelli, gettando all’indietro le ciocche – non aveva avuto tempo di raccoglierli, risvegliata a fatica dai richiami lontani di Ramiel, strappata ad un sogno che sapeva di freddo e di voci. Le era rimasto incollato un bagliore rosso alle palpebre, mentre la Presenza svaniva lasciando l’aria vuota e le compagne varcavano l’uscita con le sacche annodate ai polsi e le trecce ad ondeggiare sulle spalle; e forse quel rosso erano i capelli di Ramiel che si allontanava in fretta senza aspettarla, forse la Presenza che ancora l’accarezzava, o forse l’eco di un sogno.



Socchiude gli occhi.
Il sole, all’orizzonte, muore per rinascere ancora.
Come me. Come noi.



La pietra non aveva temperatura, sotto il suo corpo nudo. Le fiamme della Presenza erano un tepore rossastro che l’accarezzava, richiamando alla mente ricordi del prima – prima di Leliel. Prima di ali quasi bianche che non le dolevano più per il peso del corpo sopra di esse. Prima di pareti spoglie, isolate, che non si tingevano mai del colore rassicurante della Presenza; prima del silenzio, della solitudine, di tempo infinito a fissare il vuoto senza poter dormire, rincorrendo angosce e pensieri.
Prima del presagio di come sarebbe stato sempre.



C’è l’eco di parole mai udite, nella sua mente, che sanno di promessa – o di minaccia.
Tornerò.
Fenice leggendaria che rinasce dalle ceneri.



C’erano tante presenze, alla Via: un mare di essenze che si serravano in uno schema ordinato, s’intrecciavano, si allacciavano, e a lei sembrava di percepirle tutte su quella pelle nuova. Il Fuoco che ardeva lungo il perimetro: lingue rosse stagliate contro il candore degli edifici, carezza sfuggente e lontana. Fasce nere e azzurre a vigilarvi – i Guardiani come punti fermi, stabili, nella cinta un po’ vacillante dei Custodi. C’era un’essenza più incerta delle altre tra quei Custodi, tremante in quell’immobilità, instabile, afflitta; dava un po’ pena e un po’ inquietudine, nella sua fragilità angosciata, ed era... era Ridwan.
Allontanò le Percezioni da lui, quasi stesse abbassando di scatto lo sguardo, perché il tormento di Ridwan era solo uno dei tanti lasciti di qualcuno a cui, davvero, non voleva pensare.
Tornò a concentrarsi sullo schema che intuiva nella disposizione delle essenze: un circolo che si restringeva sempre di più in linee compatte, sino a lasciare un largo disco vuoto al centro della Via. C’erano essenze di qualsiasi tipo, tutte immobili al proprio posto, perfettamente inserite nell’intreccio ordinato, ed era impossibile stabilire chi avesse un ruolo e chi semplicemente fosse lì per assistere.
C’era chi, poi, aveva il ruolo di assistere: Cherubini dalla quinta classe alla settima, schierati sulla linea più interna dello schema, perché potessero vedere e percepire. Un anello rosso intervallato solo dalle ali candide degli insegnanti e da quelle, ancor più maestose, di un’Autorità e di un Censore – persino le due fasce più influenti rimanevano arretrate, senza sconfinare nel grande circolo libero.
Era l’altare, quello. La sede sacra del rito.
Il punto a cui si rivolgevano tutti gli sguardi e le Percezioni. Erano tanti, tantissimi, Ramiel accanto a lei e Raphael poco lontano e Cassiel che spiccava maestosa anche alla settima classe, e l’Autorità, il Censore, Nelchael, Ridwan, una marea di essenze immobili; tutti concentrati verso quel vuoto che presto si sarebbe colmato, in un rito tanto puro e luminoso che persino ai Cherubini era concesso di assistere. Doveva essere meraviglioso, e lei aveva un disperato bisogno di riempirsi la mente di meraviglia – di una luce che fosse riposante e non le ferisse gli occhi, di serenità, di gioia. Di qualcosa che riuscisse a zittire sogni e ricordi. Lo agognava come un umano avrebbe agognato l’aria tra acque stagnanti, perché altrimenti sarebbe morta, smarrita nella sua stessa mente – cercava un modo per respirare.
Si passò una mano tra i capelli, nervosamente. Sentiva l’aspettativa scorrerle addosso, incresparle la pelle in quella staticità pregna di attesa e di



silenzio. Sono tantissimi e sono candidi e sono frementi, attorno a lei, ma nessuno parla: hanno voce i gesti e gli sguardi, in quest’attimo sacro, perché già sanno e non c’è nulla da aggiungere.
Chi non sa, ad ogni modo, non può chiedere.



Il Fuoco si dissolse lentamente e lei si rizzò in piedi, spoglia e tremante – si poteva avere freddo in Paradiso?
Le mani della Custode furono gentili, nell’aiutarla a vestirsi; gli occhi di Leliel, due lame di gelo. Nulla di nuovo, pensò amara, seguendo l’insegnante fuori dal tempio; nulla di nuovo, si ripeté nel volare accanto a lei con ali per l’ultima volta macchiate di rosso, nulla di nuovo, nel librarsi sopra lo Specchio, nulla di nuovo, nel discendere verso la Piazza e il nastro bianco del Confine. Nulla di nuovo, ripeté ancora, guardandosi attorno: le espressioni tese di qualche allievo venuto per assistere, la serietà degli adulti, lo sguardo vigile del Censore – capelli rossi e occhi verdi e un viso che non aveva mai dimenticato, mai, da quando le era penetrato a forza nella mente. E Leliel, gelida, quasi non fosse neppure interessata. Nulla di nuovo, il Censore si fece da parte e lei camminò verso il Confine e Leliel restò a fissarla impassibile. Nulla di nuovo, lasciò scivolare le vesti sulla riva e mosse un passo nell’essenza candida, tiepida, tremando per il gelo di quello sguardo. Nulla di nuovo, nulla di nuovo, e pensarlo non faceva neppure troppo male, perché



perché è preparata. È preparata al rischio, al dolore, alla morte del sole – alla propria. Il suo ultimo tramonto è un’esplosione di rosso che riecheggia sangue e piume, e labbra agognate morse baciate: il cielo è lo specchio del peccato, in quel momento.
La terra, rifugio di incubi.



Si passò ancora la mano tra i capelli sciolti. Ramiel, notandolo, estrasse un pettine dalla sacca e glielo porse in silenzio. Aveva dita pallide e sottili, Ramiel, troppo simili a quelle di Anane – e Anane aveva stretto un pettine uguale a quello, un tempo.
Ricordò i denti candidi che scorrevano tra ricci biondi, e poi anche tra le onde nere dei suoi capelli.
Ricordò che anche Sachiel l’aveva pettinata, talvolta, con mani tiepide e attente.
Ricordò altre mani – mani gelide, crudeli, che si erano immerse tra le sue ciocche. Ricordò di come, in un punto, non vi fosse più nulla da toccare: solo cute rovinata e fili secchi, sterili, morti. Il tocco di Sachiel sulla pelle abrasa e nuda della nuca, il suo sguardo terrorizzato nello scoprirlo.
Lo sguardo di Sachiel. Terrorizzato. Azzurro. Vacuo. Non perderti, resta con me – una preghiera che non sapeva più chi dovesse rivolgere a chi, perché entrambe avevano incubi e mostri a portarle via.
Non si accorse di avere gli occhi lucidi e le ali tremanti – come non si accorse neppure che Ramiel aveva ritratto la mano, o che Raphael la fissava da lontano con feroce diffidenza, o che Nelchael si era fatto all’improvviso più vicino e più vigile.
Non c’era più niente attorno a lei, dentro di lei, se non un grumo nero di



angoscia. Le blocca la gola e non la lascia respirare, e si sente soffocare, soffocare, soffocare.
Ci sono voci che mormorano parole in una lingua sconosciuta, come una cantilena o una preghiera. A lei sembra quasi di comprenderle, quasi fossero i sussurri antichi, atavici, che l’hanno cullata nel ventre di sua madre; è ciò che le hanno ripetuto per tutta la vita, in fondo – due volte.
Leggi.
Obblighi.
Divieti.
È qualcosa che è già preparata a tradire – e la consapevolezza, ancora, le toglie il respiro.
Eppure si lascia cullare da quella cantilena come ha già fatto un tempo, perché è la sua stessa natura che la chiama e la seduce, suoni e parole che non deve imparare ma solo ricordare: è nata per questo e la sua mente vi si modella, docile, finalmente pronta.
È la sua essenza, un futuro già impresso nella memoria, il suo istinto che la spinge verso qualcosa che coglie senza comprendere davvero. È ciò che dev’essere – ciò che è, nonostante le menzogne e il tradimento. Oltre spoglie mortali e una vita troppo breve, la sua natura la chiama a sé e lei non può sottrarvisi.
Il grumo lentamente si scioglie e lei, infine, sente che è



il momento.
L’acqua – essenza – le lambì la pelle, mentre avanzava lungo il greto sabbioso: piedi, caviglie, polpacci. Onde lievi, sottili, che risalivano lente a sfiorarle la carne nuda – cosce. Ventre. Piume.

Il tocco tiepido della corrente era una carezza morbida che sembrava portarla con sé. La stanchezza le strisciava addosso: il desiderio di chiudere gli occhi, di lasciarsi cullare dal mormorio del Confine, abbandonarsi al corso dell’acqua e divenirne parte, forse – parte di quel moto perenne che prometteva pace e silenzio e nessuna cosa incredibile che le risuonasse nella testa.
Sino a sentirti distante, l’aveva istruita Leliel. Sino a sentirti sul punto di smarrirti. Non oltre. Ma sarebbe stato tanto semplice immergersi ancora e perdersi, con le membra intorpidite e il capo greve; perché fermarsi? La sua mente obnubilata annaspava, cercando un motivo, un richiamo che la trattenesse, e–
e lo incontrò.
Siamo legate. Fili sottili a strattonarla. Siamo legate, lo sai. A impedirle di perdersi.
Si fermò, con il liquido candido che le lambiva i fianchi, distendendo le ali perché tutti potessero osservarle: sprazzi rossi, piume lattee, l’attaccatura ch’era ormai pelle integra. Tremavano, nello sforzo di opporsi alla stanchezza e all’acqua, ma anche il dolore delle membra esauste le giungeva attutito.
Forse gli astanti avrebbero interpretato quel fremito come un segno d’agitazione, o forse avrebbero potuto leggerle dentro e giungere a comprendere – comprendere tutto. La stanchezza, lo stordimento, la distanza. La luce che sembrava troppo intensa e accecante, ai suoi occhi affaticati. Forse, pensò distrattamente, le avrebbero letto tanto a fondo da vedere anche



il peccato. La pece di piume taglienti gliel’ha incollato addosso e la sua pelle ancora ne porta il ricordo – ha brividi gelidi, nella memoria, e tocchi tiepidi nei suoi sogni. Madre è sembrata sempre un po’ strana e guardinga, nelle ultime notti, come se avesse intuito qualcosa.
Nei sogni madre ha capelli di luna e sguardo di pazza, ma ora che è lì viva e reale le ciocche candide sembrano grigie. Gli occhi, invece, restano viola e folli come sono sempre apparsi – colmi di stanchezza angoscia conflitto. E se quegli specchi di delirio la scrutassero tanto a fondo da rivelare il peccato?
Un uomo sconosciuto sta accanto a madre e le sfiora un braccio in silenzio – non mormora la litania ipnotica che accompagna il rito, non la culla con parole cantilenanti. Madre la fissa ancora con i suoi occhi folli e muove le labbra in una domanda muta – sei pronta?
Non preoccuparti, sillaba ancora madre. Andrà bene.
Lei non è certa che il rito permetta certe rassicurazioni – certe menzogne.
Ma non ha tempo di indugiare in quel pensiero, perché giunge



il Fuoco.
La staticità s’increspò in un’irrequietezza trattenuta a fatica, nel silenzio si diffusero vaghi fruscii di piume. Il grumo che Amitiel sentiva in gola divenne ancor più soffocante, o forse fu l’aria stessa a farsi pesante e irrespirabile, condensata in tempo: la poteva sentire addosso, quella dimensione sconosciuta, che scorreva lenta lasciando tracce graffianti sulla pelle. Il Paradiso conosceva il tempo ed era come la stanchezza di un corpo sempre più debole, come l’urgenza di acqua a dissetare membra aride, come l’angoscia di una vita troppo breve che scivolava tra le dita. Nel rito più luminoso, nell’istante più sacro, gli Angeli si scoprivano fragili e umani.
E il Fuoco nacque in lingue candide e vermiglie, mutevoli come il cielo del Mediano.
Prima un semplice sospiro bianco che serpeggiò come nebbia, minuscolo al centro del grande spazio libero; poi un altro e un altro ancora, e lentamente le vampe si elevarono al cielo, solenni, maestose. Mille toni di rosso sfidavano il candore, tingendo le fiamme e poi sciogliendosi nel bianco, in un flusso di colori inarrestabile.
Sembravano piume di adulti e di infanti, materia fatta essenza, un’esistenza intera riassunta in quelle sfumature.
Sembravano fiotti di sangue mortale.
Sembravano



il cielo al tramonto.
Il sole morente richiama parole perdute, vecchie promesse, un destino temuto e agognato – il sole muore. Come me, come noi. È quasi il momento. Non sono sicura di... non ti riconosco più, Ishild. È umano avere paura.
È umano avere paura – non le è più concesso. E guarda il tramonto, allora, per non dover guardare occhi impavidi e folli: nell’agonia di un astro agonizzante, trova lo specchio di un’esistenza e la rassicurazione di non essere sola.
Fiamme tiepide sfiorano il suo corpo nudo, delicate e dolcissime: è madre che allunga dita impalpabili ad accarezzarla – è la prima e unica volta in cui le sarà mai concesso il tocco materno, questa. Una donna sconosciuta è morta tra spasmi e sangue mentre lei le scendeva tra le cosce, e un’altra con capelli di luna e sguardo di pazza è sempre stata un fantasma perso nei suoi sogni; e dopo, lo sa, non ci sarà più neppure uno spettro da chiamare madre.
Assapora quel tocco come un infante assetato d’affetto, unica consolazione mentre gli ultimi raggi del sole scompaiono oltre la collina e la litania si fa più intensa – più intensa, più intensa, più intensa, sente vibrare dentro quella cantilena incomprensibile e conosciuta. All’improvviso l’essenza dell’uomo estraneo si unisce al Fuoco e



dolore. Dolore, dolore, un’agonia che la risvegliò all’improvviso dal torpore e le scavò dentro. Avvertì le fiamme invaderle il corpo e bruciare e... e c’era qualcosa che affondava artigli nel suo ventre, il torace scosso da convulsioni violente, i muscoli contratti, vene squarciate che vomitavano sangue, sentiva... sentiva... dolore dolore dolore il Fuoco la stava mangiando, divorava ogni cosa e lei lo sentiva, lo sentiva che straziava le sue carni e lasciava vuoto dietro di sé, pelle tesa su qualcosa che ormai non esisteva più, sarebbe collassata su sé stessa senza più ossa a sostenerla e muscoli a farla muovere e organi a gestire l’essenza e-
e-
e-
e la schiena, le ali, era possibile che in quel tormento qualcosa facesse ancor più male? Sì, sì, era possibile, le ali tremavano e si ripiegavano su sé stesse e c’erano membrane tese allo spasimo, sangue che colava tra le piume, male male male male male male neppure il sangue di demone era stato tanto atroce e lei urlava, urlava, le doleva la gola per la violenza delle sue grida, ma poi... poi il sangue le invase la bocca e lei non ebbe più nulla, nel petto, che potesse raccogliere l’aria, il Fuoco si era mangiato anche i polmoni, erano urla mute che le risuonavano nella testa e... e si ritrovò in ginocchio a pregare che quell’agonia terminasse, con l’acqua che le invadeva gli occhi la gola il corpo straziato, ed era acqua rossa, acqua rossa per quegli ultimi brandelli d’infanzia che le venivano strappati a forza, faceva male ma mancava poco, mancava poco vero? A vederlo da fuori non era mai stato tanto lungo né tanto agghiacciante, nessuno l’aveva avvertita che sarebbe stata un’agonia, voleva solo che finisse, vi prego, doveva finire subito o sarebbe impazzita. Ormai non era rimasto più niente, si sentiva un fantoccio d’ossa e pelle e le ali, le ali, le ali continuavano a ingrossarsi e lacerare le membrane e poi qualcosa dilaniò ancora la sua schiena e- e lo sentì, lo scheletro che cresceva e le vene la carne la pelle, sentì ogni cosa che si formava, serafino pensò, serafino, sei ali candide enormi gloriose che sarebbero state un onore, ma ancora ricordava cose... cose incredibili, c’era stato un tempo in cui non era stato necessaria quell’agonia per divenire adulti, cose incredibili, le sarebbero rimaste sei cicatrici bianche a ricordarle quel momento, cose incredibili, un Censore con capelli di fiamma e ghiaccio verde negli occhi e le sue dita di ragazza che gli sfioravano la schiena, cose incredibili, le aveva sentite quelle sei cicatrici, ma... cose incredibili, sulla schiena di Leliel non le aveva mai viste ed era



terrorizzante.
Si sente lacerare dentro – lì tra l’anima e il corpo, confine sottilissimo che non si può toccare eppure esiste. In qualche modo, in qualche mondo, lei sanguina d’un sangue immateriale. Il tormento accresce, l’agonia si fa infinita, il corpo... il corpo è puro dolore che inizia a non essere, ma non importa, le hanno detto, non importa, sta solo rinascendo.
Lentamente il mondo svanisce – madre e l’uomo estraneo e quella litania dolce. Il mondo rinasce bianco e accecante e la schiena, la schiena, la schiena...



Le ali si estesero.
Ali bianche, alle spalle di un serafino. Sotto lo sguardo di un’Autorità orgogliosa e un Censore all’improvviso sorridente.
Ali rosse, alle spalle di un nuovo nato. Sotto lo sguardo di Cherubini troppo immaturi e adulti inquieti – e sotto il velo del ricordo. In memorie che riaffioravano incerte.
Ed era lì, erano lì, con il sangue che scorreva rosso e bianco lungo le scapole. Cicatrici; cose incredibili. Il passato.
«È ferita.»
Era ferita, ferita, ferita. Lo sarebbe sempre stata, forse – lo sarebbero state entrambe, insieme, per motivi differenti ma nell’identica maniera. Con il passato davanti agli occhi.
Ed era lì, erano lì, mentre il Paradiso rifuggiva quell’aberrazione. Entrambe perse, entrambe folli.
E il serafino cadeva; e il cherubino tradiva.
Insieme.
Ricordando.

   
 
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