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Autore: Jo_March_95    05/01/2014    1 recensioni
-This phone call it’s..it’s my note.
That’s what people do, don’t they? Leave a note.
-Leave a note, when?
La prima sensazione è il vuoto, vuoto che incombe, vuoto che aspetta. E’ stato lì per tutto quel tempo, a torreggiare dal basso e imporsi sul niente. Resta lì spalancato ad attendere un corpo in caduta, corpo che preme, corpo che crolla.
La seconda sensazione è il bruciore, la gola si infiamma, la voce non esce, bolle pesanti si dispongono rispondendo alle leggi dell’entropia, distribuiscono silenzi dove nessuno potrà mai profanarli.
Un urlo si scaglia, è un proiettile di precisione, raggiunge il bersaglio, affoga nel centro. Spacca in due i timpani.
‹‹ SHERLOCK ››
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Sweetheart, what have you done to us?


John non sa esattamente quando le cose abbiano iniziato a peggiorare, tutto il susseguirsi di eventi ha come unico scopo quello di metterlo di fronte all’evidenza di aver avuto un passato accettabile,pensa tra sé e sé in un ridicolo tentativo di conforto, un abbraccio di illusioni bordate di bianco.

Bianco che inghiotte e non demorde, ingloba e non rigetta.
Lascia il pus infetto a ristagnare nel centro delle emozioni.


Un respiro profondo e i pensieri riprendono a defluire incuranti dell’interruzione, trovano una strada tutta nuova, asfaltata con materiali impermeabili alle lacrime e indistruttibili dagli uragani esplosivi, quella rabbia che è come detonatore in attesa della scintilla conclusiva.
Chiuso in una gabbia di pulsioni impossibili da soddisfare, solo adesso John si rende conto di aver avuto mille spiragli d’aria a sferzargli il viso dal calore di una passione che non era mai riuscito a riscaldarlo, solo torturarlo tra le fiamme di un sentimento innominabile.
Quei rari momenti di contemplazione in cui lo stand-bye celebrale non era argomento di vergogna e ingenua derisione, solo puro assopimento della razionalità, erano come acqua medica su ferite infette, un’oasi di illusione nel deserto di certezze che Sherlock era riuscito a polverizzare con una sola occhiata e poche parole mirate.
Quel primo incontro, ripensarci blocca l’aria in gola, John non l’avrebbe mai dimenticato e mai fatto riaffiorare. Tra le palpebre socchiuse a godere della luce diffusa e polverosa di una lampadina a risparmio energetico, unica sopravvissuta dell’antico lampadario torreggiante sull’entropia deduttiva del soggiorno di un appartamento comune al 221B di Baker Street ad opera di un ingegnoso Sherlock Holmes, sono molte le memorie con il divieto d’accesso.
Dal divanetto di finta pelle rivestito con stoffa asimmetrica di provenienza indiana, John Watson prende in mano un taccuino spiegazzato e mal gestito, perdendo tempo a cercare una penna tra gli spazi dei guanciali.
Se girasse la testa noterebbe con la coda dell’occhio le pupille vacue e spente di uno Sherlock perso in sé stesso, inseguito da mille fantasmi, vittima della propria ragione.
Non ha più il coraggio di avvicinarsi, fissare il suo sguardo e riconoscere nell’agglomerato di sintomi da sindrome post-traumatica, conosciuta con il nome più amichevole di idrocefalo, i connotati fisici del suo eroe, del suo dio, della sua persona.
Il filo rosso, allegoria poetica che simboleggia un legame impossibile da ridimensionare, è ancora intatto, parte da un polo e arriva all’altro senza interferenze e senza nodi. Rispondendo alla legge fisica della conservazione dell’energia il carico dell’uno non è né inferiore né superiore a quello dell’altro, ma un difetto empatico fa sì che nessuno dei due se ne sia reso conto prima che fosse troppo tardi.
E proprio quel filo lo incatena, lo avvicina, lo fa sprofondare ancorato ai riccioli ribelli di Sherlock e le sue mani tremanti e piene di ematomi bluastri.
Quel primo risveglio era sembrato emblematico e significativo, la mente danneggiata di John non riusciva ancora ad abbracciare l’entità del guasto irreversibile, l’errore nel sistema. Ogni parola del moro rimbalzava contro le pareti fragili dei ventricoli celebrali del biondo, l’eco generato aveva come unico scopo destabilizzarlo, John fremeva di rabbia incontrollabile mentre tedio e disperazione scavavano un tunnel intercostale sedimentandosi e ostacolando la respirazione.
Espandi e comprimi, dice la vita. Espandi e distruggi, urla la morte.
 E Sherlock, in sospeso tra le due, aveva compresso le radici del proprio essere, tirandosi dietro macerie e frammenti di esistenza spezzata. Ognuna più appuntita di un tornio, movimenti pesanti e lascivi non riuscivano a gestirne l’impatto.
Il medico,dichiarando a gran voce la sentenza definitiva,aveva ritorto le falangi nel modo infantile con cui i bambini scongiurano un misfatto di lieve entità, sperava di non rivedere mai più nessuno dei due nel proprio reparto ad inquinare l’aria con parole marce e speranze riciclate.
La degenza era stata impegnativa per tutti.
Uno Sherlock incapace di collaborare, con la vita stretta da un pannolone invalidante e sempre sporco;
un John con la bocca strizzata e mille spine a sfondarne la barriera di indulgenza;
i medici a rimbalzare dal dolore dell’uno a quello dell’altro,con difese di ricette mediche e siringhe spezzate, intermediari di una pena che non avevano chiesto di portare;
le infermiere col rossetto rosso e l’ennesima parola di circostanza, sapevano la formula ma non il momento adatto.
Ognuno appesantito da un fardello dai mille volti e le mille conseguenze, un solo salto e una caduta.
Le giornate passavano veloci, tra discorsi insensati, arginati da denti serrati e unghie frementi, Sherlock e John comunicavano arpionandosi al passato e ai ricordi.
Nessuno era autorizzato ad entrare nella stanza, Sherlock allargava la faringe in urla senza espiazione, non riconoscendo alcun volto ad eccezione di quello di John -plagiato dalle sue dita veloci quando era ancora in grado di dar forma alle cose- ,chiunque varcasse la soglia della camera 221 veniva allontanato in maniera subitanea e irreversibile da strilli acuti e lacrimoni esagerati.
Gli stati di coscienza alternata facevano oscillare la sua personalità, a tratti rassomigliando ad un pargolo sperduto nel labirinto mentale di un palazzo senza fondamenta, a tratti ritornando lucida concentrazione, contenuti conoscitivi senza alcuna forma a tracciarne un contorno seppur evanescente.
Poteva piangere spaventato dal flop di una flebo oppure librarsi dal letto, senza peso, portandosi dietro sentenze e deduzioni ingegnose ricavate dalle fibre lacerate di un’esistenza a stento rattoppata.
Sherlock non conosceva più sé stesso, con un baricentro scheggiato e mal posizionato, l’intero apparato mentale risultava squilibrato e lui, un Minosse spezzato e legato dal filo di Arianna, non conosceva altra via se non un eterno vagare.
La prima crisi aveva riscosso John dal proprio torpore, la favole umida che cascava sulle gote come pioggia chimica sul deserto era evaporata e al suo posto una grande nube di impenetrabile nebbia aveva sovvertito il torpore elevandolo a condizione assoluta di indistinguibile niente.
Le urla incorporee di Sherlock erano state un richiamo lontano, un ritorno allo stato consapevolezza temporale, un presente imminente e incerto.

<< Voglio giocare a qualcosa >> Aveva strillato mordicchiandosi un pollice, il sangue colava dalle cuticole in maniera abbondante.
<< S-Sherlock? >> La mappa di John si dipanò, lisciando le pieghe lasciate in balia del dubbio. Cosa sei diventato? Fu l’unico pensiero a cui non diede voce. Cosa mi hai reso? Fu l’unica attribuzione irrisoria del proprio io.
<< Voglio qualcosa, mi annoio. >> Il muso increspato, l’attesa di chi non ne conosce il senso.
John aveva allungato la mano a levigare con i propri palmi indolenziti, gli zigomi spigolosi e suturati dell’altro ma quello aveva schiaffato via ogni intenzione futura, iniziando a strillare e strappandosi tubi e macchinari da braccia e petto.

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<< La fisica delle particelle è la branca della fisica che studia i costituenti fondamentali e le interazioni fondamentali della materia; essa rappresenta la fisica dell'infinitamente piccolo.* >>
Uno spiraglio di speranza balenò nello sguardo di John, con cipiglio sorpreso si rese conto della regolare posizione eretta e angolata delle dita dell’altro, strategia di cui era solito usufruire in momenti di geniale deduzione, con tanto di esaustiva critica al restate auditorio.
<< Talvolta viene anche usata l'espressione fisica delle alte energie, quando si vuole far riferimento allo studio delle interazioni tra particelle elementari che si verificano ad altissima energia e che permettono di creare particelle non presenti in natura in condizioni ordinarie, come avviene con gli acceleratori di particelle *.>>
John non avrebbe voluto fare la figura dello stupido, ma la bocca si aprì senza permesso, insozzò l’aria erudita con un alito di ignoranza, ma non fece in tempo a pronunciare la propria blasfemia, il rito di devozione al ridicolo, che quello annaspò, soffocando nelle sue stesse detrazioni fisiche e accurate.
John si gettò a terra, ricadendo sul menisco con un tonfo secco, capì al volo l’handicap del riccioluto, la matassa di pensieri lo inghiottiva come una massa informe senza che potesse opporsi al retaggio, impedendo l’irrigarsi della propria parte emotiva e personale. Uno scheletro di certezze appiccicose come colla, soffocanti come l’ultimo spiraglio di vita alla deriva, ecco cos’era rimasto di Sherlock Holmes.


Uno strano lamento riporta John alla realtà, all’appartamento polveroso e disordinato, ai libri dispersi sul pavimento, al dondolio ritmico della schiena ricurva di Sherlock che preme sul muro ricavando energia cinetica a ricompletare il giro per l’ennesima volta.
<< Ehi, Sherlock, ti va di suonare un po’ per me? >>
John afferra il violino, il quale appare talmente pesante che servirebbero più mani, ma si fa bastare quelle che ha e a stento lo strascina fino al letto sbarrato del coinquilino. Abbassa gli occhi sulle unghie martoriate e i polpastrelli violacei, legge in quei segni parole impronunciabili.
Ogni qual volta Sherlock provi a dar voce a pensieri taboo, a riportare in vita cellule celebrali irrigandole del sangue della razionalità mista ad esperienza sensibile induttiva, un blocco pesante come un macigno interrompe l’intero circuito.
Quell’emisfero, quella porzione di vita gli è stata negata.
Il passato tambura incessante sulle tempie, lo spinge a provare a srotolare la lingua, a chiamare per nome John senza attribuirgli un simbolo della tavola periodica.
Gli sfugge un << ZIRCONIO >> ma sta solo chiedendo dell’acqua, il biondo lo intuisce dal tremolare insano degli incisivi, dalla voce gutturale e la lingua secca.
Nella fase di retrocessione inconscia invece parla di biscotti, quando la vescica è piena e gonfia sotto i calzoni, chiede puzzle dimenticandosi ogni scadenza di pranzo e cena.
I momenti peggiori sono quelli in cui i fantasmi dell’io riemergono come naufraghi, con i polmoni pieni d’acqua e vetri di mare al posto degli occhi.
Le notti, sono quei momenti. Un susseguirsi di ululati di riscatto, un febbricitante agitarsi al di sotto della corteccia celebrale che si tramuta in un entropico contrarsi in curvature innaturali e scatti veloci di articolazioni incontrollabili.
E’ talmente tanta la violenza di quegli spasmi, movimenti di dannazione, che John a stento riesce a impedirgli di staccarsi un orecchio o grattarsi via gli occhi.
Ogni mattina sono sempre di più le macchie di sangue sul lenzuolo, sempre di più i marchi infuocati sulla pelle. Il viso è livido e gonfio, nasconde la magrezza dello sterno incavato e le cosce ritratte.
Ogni cambio d’umore è sofferto, il collo è una molla che scatta e ritorna, scatta e ritorna, alternando frasi senza senso a implicite richieste d’aiuto.
A volte è necessario legarlo, impedirgli di farsi del male mentre chiede un una distrazione, piagnucola di sofferenza, indica un livido chiedendo cosa sia con occhi pieni di meraviglia e un malcelato disgusto in fondo all’animo.
John sopporta tutto, lo carica sulle spalle i giorni buoni, quando Sherlock è di buon umore e decide di dimenticare di voler ricordare. Chiede di fare l’aereo, chiede di mangiare solo cioccolata, chiede di giocare, giocare, giocare. Cubi di Rubick, indovinelli, enigmi. Puzzle.
John sopporta tutto, lo afferra dalle gambe durante le crisi alle tre del mattino, quando Mrs Hudson è ancora avvolta nella vestaglia ad affondarsi i denti tra le ginocchia.
John sopporta tutto, lo sguardo gelido e distante, mentre vomita frammenti di tesi scientifiche e documentazioni a cui è rimasto ancorato.
Mai che riesca a chiamarlo per nome, se non nel delirio della fanciullezza forzata, mai che riesca a sembrare il suo eroe e non un giocattolo rotto.

<< Cosa hai fatto? >> mormora il biondo a labbra strette mentre Sherlock ingoia due pillole perfettamente cilindriche, ma non prima di averne calcolato massa e peso, applicando arcane formule a quel presente così distante.

<< Io non ci credo, non credo tu abbia mentito. Tu non hai inventato nulla, tu sei il mio Sherlock, il mio Sherlock, il mio Sherlock … >>
Per una volta, dopo tanto tempo, sono le labbra secche di John a mormorare la consueta litania serale, parole biascicate con cadenza regolare e intonazione intenzionalmente bassa.
Per una volta, dopo tanto tempo, sono di Sherlock, gli occhi rivolti verso il basso a cercare una via di fuga tra le incanalature della pavimentazione, un tarlo nel legno che lo ospiti così com’è, con quel bagaglio di disagio, sintomi di malessere vivente, che allontani le iridi pungenti di John rese scure dalla cappa di nero che aleggia nell’appartamento, rese scure dall’inquinamento acustico delle proprie urla nel cuore della notte, dalle richieste insensate sotto il sole splendente, dalle formulazioni errate a richieste vitali, dal fetore vergognoso di una dignità da discarica.



                                          Oh please, just come here, don’t fight with me
                                   And I admit, think you may have broken it, yeah I admit


              
                                            Oh Sweetheart what have you done to us?
                                             I turned my back and you turned to dust
                                                        What have you done?

 






NdA: Ok, visto l'insuccesso del primo capitolo non so cosa mi abbia spinto a tormentarmi oltre con il secondo, fatto sta che stasera il computer è stato come un magnete, non sono riuscita ad evitarlo.
E' stata una scrittura sofferta, spero che si noti il grado di disperazione di CIASCUNA sillaba.
Il fatto semplice è che una volta che un'idea mi si materializza in testa è difficile da schiodare, questo scenario di tragica realtà mi si è dipinto addosso come fossi una tela orfana di arte e ora non posso che sottomettermi nonostante ogni decisione e ogni delusione in fin dei conti sia mia e non di quest'impulso irrazionale.
Le parti sulla fisica con tanto di collegamento in blu sono OVVIAMENTE un copia incolla da wkipedia, pfff-- che vi aspettavate? E nulla, grazie ai pochi che hanno letto e a chi si è impegnato per capirci qualcosa, se ci fossero dubbi io sono qui.
  
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