Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Timcampi    07/01/2014    4 recensioni
Era quasi l'alba quando accadde.
Quando si svegliò di colpo, dopo aver visto Marco bruciare ancora una volta dentro la sua mente, non trovò la rassicurante presenza dei poster dei Led Zeppelin e di Blondie, né la sua amata lava lamp. C'era qualcosa, a ostruirgli la vista. Qualcosa che stava a cavalcioni sopra di lui, che lo sovrastava, qualcosa la cui vista lo paralizzò.
L'essere aprì la bocca.
«Chi sono io?»
Genere: Azione, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Christa Lenz, Jean Kirshtein, Marco Bodt, Un po' tutti, Ymir
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Capovolgimento

 

«Quello... non era là, quando c'è stato il sopralluogo»

Armin era pietrificato. Osservava la parete dinanzi a sé come se avesse visto con i propri occhi un cadavere riprendere vita.

E forse, forse descrivere in questi termini ciò che vide non sarebbe del tutto errato.

Oltre lo scheletro metallico della scrivania, oltre i brandelli superstiti che restavano di una florida collezione di libri e il relitto d'una chitarra elettrica, vi era uno specchio: un angolo era irrimediabilmente annerito, ma la fuliggine che vi si era posata era stata sommariamente spazzata via di recente, e questo sarebbe stato sufficiente a metterli in allarme anche ignorando la presenza dell'oggetto posato accanto ad esso.

Lunghi brividi si susseguivano lungo la spina dorsale di Jean, immobile di fronte a quell'orrido, inquietante spettacolo.

Lo sollevò con cautela tra le dita, come se potesse prender fuoco o dissolversi in polvere da un momento all'altro, e l'osservò da vicino: un foglio di carta in parte bruciacchiato, sul quale una mano esperta ma tremante aveva tracciato con una matita la metà destra d'un volto umano, un occhio vacuo, capelli scuri, una fitta picchiettatura sulla guancia, ma aveva scarabocchiato in modo quasi rabbioso sopra tutto il lato sinistro, rendendo impossibile definirne i tratti.

«Jean...» mormorò Armin, una patina di lucida inquietudine negli occhi

«Marco» annuì Jean, stringendo la presa sul foglio fino a spiegazzarlo. Armin glielo sfilò con garbo dalle mani, studiandolo con aria perplessa.

Non vi erano dubbi che molto, di quel volto abbozzato, riportasse alla mente l'immagine di colui che, per ultimo, aveva dimorato in quel luogo divenuto la sua tomba. In quanto alla metà sinistra, però, non riusciva a spiegarsi per quale motivo l'artista avesse tanto infierito su di essa.

«Inizio a pensare che avessi ragione, Jean: abbiamo sempre saputo che qualcosa di sinistro è accaduto all'interno di questa stanza, ma... ora credo che stia continuando ad accadere»

«Non capisco più niente, accidenti» ringhiò tra i denti, ravviandosi la folta chioma castana in un gesto nervoso. Per un attimo, soltanto per un attimo, si domandò se non sarebbe stato più saggio lasciar perdere, dimenticare ogni traccia che facesse pensare a qualcosa di più complesso d'un semplice incidente domestico; non fu il timore d'essere, come in passato, nel mirino di qualcosa di più grande e più forte di lui, bensì il desiderio inalienabile di conoscere la verità riguardo la morte di chi aveva di più caro al mondo, a farlo rinsavire e tornare sui suoi passi.

«Pensi che dovremmo parlarne con gli altri?» domandò. Armin scosse il capo.

«Detesto dirlo, ma... non credo sarebbe saggio parlarne con tutti. Conosco Eren e Mikasa da quando eravamo bambini, ma gli altri...» rispose, lasciando cadere nel vuoto l'ultima parte della frase. Neppure a Jean piaceva granchè l'idea di non poter riporre la propria fiducia nel resto del gruppo. «Berthold e Reiner sono spariti dalla notte dell'incendio, e anche la faccenda di Annie non mi è molto chiara: è parecchio strano che non lascino avvicinare nessuno» aggiunse.

«Questa faccenda puzza da qualunque prospettiva la si annusi. Puzza di bruciato quanto questa stanza» asserì Jean, in un chiaro invito a uscirne al più presto, prima che qualcuno facesse caso alla loro assenza e li raggiungesse. Ma Armin sembrava ancora del tutto assorbito dai suoi pensieri: continuava a fissare il foglio di carta come se celasse un qualche arcano.

«Jean?» chiamò. «Magari ti sembrerà sciocco, ma voglio chiedertelo: cosa ricordi di quel che hai visto due notti fa? Riusciresti a riconoscere la sua faccia?»

Jean sentì chiaramente il sangue gelarglisi nelle vene. «Cristo, Armin, era un mostro. Certo che lo riconoscerei»

«Parlo della sua faccia. Hai detto che non era del tutto un mostro, non è così?»

«Era buio, non sono riuscito a vederlo bene»

«Però hai parlato di un occhio del tutto bianco e dei suoi denti sporgenti. È strano che non ricordi nulla della sua metà umana»

Un groppo gl'intasò la gola.

«Cosa vorresti dire, Armin?»

In tutta risposta, Armin gli avvicinò il foglio al viso.

«Dì la verità, Jean: è questo che hai visto?»

«Era buio»

«La verità, Jean»

«Cazzo, Armin, ti ho detto che-!»

«JEAN»

Allontanò lo sguardo dal foglio, come inorridito. Come avrebbe potuto fornire un identikit preciso della creatura che l'aveva aggredito? Era troppo preso dalla metà mostruosa, per far caso a quella umana.

Ma parlare d'un'aggressione, si disse poi, non era neppure appropriato: una voce disperata, distorta, gli aveva posto un semplice quesito, per poi sparire come uno sciame di moscerini nella notte.

Chi sono io?

E Armin non aveva tutti i torti: era sconvolto, logorato dalla morte del suo migliore amico, e se Armin fosse stato a conoscenza del suo passato avrebbe certamente imputato l'accaduto anche ad esso.

Come potevano gli occhi di Jean Kirschstein essere ancora ritenuti affidabili?

«Quel coso era umano nel lato sinistro» silurò la domanda, affibbiando un colpetto al foglio, ancora stretto tra le dita di Armin, e volgendosi per lasciare la stanza: ci aveva trascorso fin troppo tempo, e l'orrenda sensazione che le pareti si stessero stringendo intorno a lui stava diventando sempre più insopportabile.

Era sulla soglia quando Armin lo chiamò ancora.

Sul suo volto troneggiava un'espressione talmente trionfante da far quasi paura.

«È un autoritratto» sibilò, additando la parete alle sue spalle. «Ed è stato fatto dentro questa stanza»

Jean seguì con lo sguardo l'indice dell'amico.

«Sei un genio, Armin. Un fottutissimo genio»

Finalmente ogni cosa cominciava ad avere un briciolo di senso.

Finalmente sentì di poter dare un'identità alla figura che s'era affacciata dal buio, e che l'aveva cercata nel proprio volto, il proprio volto allo specchio.

Con questa consapevolezza, però, ne giunse anche un'altra, forse ancor più inquietante: il suo passato non aveva mai smesso di dargli la caccia.

 

Se avessero voluto farlo fuori, dubitava che il fatto d'essere addormentato o meno potesse fare la differenza; eppure, quella sera s'era coricato con la consapevolezza che, per quanto avesse potuto provarci, non sarebbe riuscito a prender sonno. Scrutava l'oscurità come se si aspettasse che fosse soltanto questione di tempo, prima che qualcosa ne sbucasse di colpo.

Per quante ore si avvicendassero, però, non arrivò nulla d'imprevisto, se non un paio di ampi sbadigli. La luna, oltre i vetri della piccola finestra, era già alta, quando Jean decretò di non avere alcuna voglia di restare ancora sotto le coperte ma soltanto un gran bisogno d'un caffè.

 

In circostanze normali avrebbe supposto di non essere il solo a non riuscire a prender sonno.

Dati gli eventi degli ultimi giorni, però, la presenza dell'ombra che, nel momento in cui fece capolino dallo scantinato, attraversò silenziosamente il salotto, assunse un significato ben diverso.

La figura sgusciò rapida giù dalle scale e schizzò verso la porta, che aprì senza il minimo rumore e che si richiuse alle spalle, avventurandosi nella notte.

«E adesso che cazzo faccio?» sussurrò tra sé. Qualcuno s'era infiltrato in casa di soppiatto e ne era uscito altrettanto silenziosamente, certo di non essere visto né udito: ma perchè?

Per quanto ne sapeva, tutti i suoi compagni potevano essere stati soffocati nel sonno. L'aria poteva essere stata avvelenata, e a quel punto a poco sarebbe valso il suo tentativo di accertarsi che tutti fossero ancora vivi e vegeti, perchè non avrebbe fatto altro che subire la stessa fine.

O forse avevano mandato qualcuno per scoprire quale stanza egli occupasse, per colpire senza rischiare di fallire, come in precedenza.

Soppesò le alternative: andare al piano di sopra e controllare di persona, mandando al diavolo quel poco di buonsenso che possedeva, oppure pedinare l'ombra, scelta certamente ancor più rischiosa.

Doveva scegliere in fretta, tenendo conto che sarebbe stato sufficiente che girasse l'angolo, perchè la perdesse di vista per sempre.

«Devo essere pazzo» borbottò, prima di infilare la porta, maledicendosi per avere indosso null'altro che pigiama e pantofole.

Non si stupì nel constatare che l'ombra aveva già messo una considerevole distanza tra sé e la casa, e che procedeva a passo spedito verso ovest. Non era sicuro bazzicare la periferia di Sina nel cuore della notte: non una luce illuminava le strade, se non quelle sparute e fugaci delle rare auto in corsa; non una voce infrangeva la notte, a parte lo sbraitamento concitato di qualche vagabondo ubriaco.

Il freddo e la paura gli facevano martellare i denti, ma gli spessi calzini attutivano il rumore dei suoi passi.

Esitò un istante, quando l'ombra varcò la soglia cigolante d'un vecchio edificio in rovina. Doveva essere stato la sede d'una piccola testata giornalistica, se la memoria non lo ingannava.

Inspirò a fondo, poi entrò.

Ad accoglierlo trovò il malinconico e ritmico ticchettio di gocce sul pavimento, e la più totale oscurità.

Aveva appena preso ad imprecare mentalmente, sforzandosi di trovare un modo per recuperare l'orientamento, quando la luce d'un accendino scattò a pochi centimetri dal suo volto, facendolo sobbalzare.

«Sei proprio rumoroso, sai, ragazzino?»

Riconobbe quella voce ancor prima di abituarsi alla luce, che rischiarò un volto rigato di cicatrici e un ghigno sbilenco.

Arretrò fino a premere la schiena contro il muro gelido. Si sentiva come un animale braccato, un topo nella cui tana avessero versato del veleno, ma si sforzò di non darlo a vedere.

«Non è un po' tardi per una passeggiata, Ymir









Grazie. Grazie, dal più profondo del cuore, a quanti continuano a seguire questa mia storia nella quale sto mettendo davvero tutta me stessa, le mie forze, la mia anima e il mio cuore; grazie a quanti mi hanno contattata qui e su Facebook, grazie a coloro che hanno scelto di comunicarmi il loro parere tramite una recensione: non so proprio come ringraziarvi, siete fantastici, non avrei mai sperato d'avere dei lettori tanto splendidi, dolci e affezionati. 
E soprattutto, non c'è gioia più grande, per una scrittrice, dell'attirare i malumori dei propri seguaci: vi ringrazio anche per questo.
Se ora credete che la nebbia stia iniziando a dissiparvi, è con orgoglio e malvagità che v'informo che no, siete ben lontani dalla soluzione finale di questo racconto. Tuttavia, spero continuiate a farmi compagnia in questa esperienza: non ce la farei, senza il vostro supporto.
Un abbraccio, un abbraccio per ognuno di voi.

Timcampi

 

   
 
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