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Autore: Acinorev    19/01/2014    8 recensioni
"A quel punto Harry rise. Rise con le fossette accentuate ai lati della bocca e facendo un passo indietro, con una mano tra i capelli e gli occhi praticamente chiusi. «Ragazzina», esclamò affievolendo la risata. «Ragazzina, rallenta», ripeté.
Ed Emma assunse un’espressione un po’ più seria, mentre sentiva l’eco di quelle parole nella sua testa.
Ragazzina.
«Ascolta», ricominciò Harry, frugando nella tasca dei suoi pantaloni stretti e tirandone fuori un contenitore di metallo sottile dal quale estrasse una sigaretta, probabilmente confezionata da lui. Continuò a guardarla, però, senza lasciarla libera nemmeno per un istante. «Apprezzo l’intraprendenza, ma andiamo… Mi sentirei una specie di  pedofilo», aggiunse, scuotendo di nuovo la testa mentre una ciocca di capelli gli ricadeva sulla fronte."
Spin-off di "It feels like I've been waiting for you", da leggere anche separatamente.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Harry Styles
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Little girl'
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Capitolo tre - Let's play
 

 

Era di nuovo lunedì ed Emma era di nuovo davanti al Rumpel, con una mano a stringere la cinghia della borsa larga e l’altra a riscaldarsi nella tasca del giaccone.
Dallas le aveva proposto di studiare insieme quella dannata filosofia che proprio non gli voleva entrare in testa, invitandola a casa sua e di Pete dopo scuola, ma lei aveva rifiutato senza nemmeno accampare una scusa: aveva semplicemente risposto che era impegnata e che un qualche filosofo avrebbe potuto aspettare la sera per essere combattuto e maledetto. Tianna aveva curiosato e aveva insistito, chiedendole cosa avesse da fare e perché avesse quell’espressione furba sul viso, ma Emma aveva continuato a camminare e a non rispondere: non aveva detto a nessuno di avere intenzione di tornare in quel bar per sfidare il destino e, chissà, rivedere Harry Styles.
Il giorno dopo la partita nella sua scuola era sgattaiolata in camera di sua sorella Melanie e aveva preso in prestito i suoi vecchi annuari, poi li aveva sfogliati dall’inizio alla fine e aveva scoperto che Harry aveva diciannove anni, che nelle fotografie gli piaceva sorridere apertamente e che frequentava l’ultimo anno. Probabilmente alcuni avrebbero potuto considerarla una stalker, dato che aveva anche deciso di cercarlo pur non avendo alcuna informazione certa sulle sue abitudini, ma lei preferiva giustificarsi con il suo sfrontato coraggio nel tentare di raggiungere ciò che le si era fastidiosamente fissato in testa: aveva escluso da principio la possibilità di andare alla Lincoln High School, perché era determinata, certo, ma non era così disperata da presentarsi lì senza un motivo, e alla fine aveva semplicemente deciso che il Rumpel avrebbe potuto portarle un po’ di fortuna.
Harry era lì la prima volta che si erano visti e anche intorno alla stessa ora, quindi c’era una minima probabilità di incontrarlo di nuovo.
Non esitò ad aprire la porta laccata in blu scuro e ad immergersi nell’atmosfera molto più accogliente del bar, rabbrividendo per la differenza di temperatura ed iniziando a sfilarsi i guanti di lana, che non avevano risparmiato le sue mani dal freddo. Si guardò velocemente intorno, trovando qualche paio d’occhi posato distrattamente su di lei e forse una quindicina di persone in tutto accomodate intorno ai vari tavolini in metallo scuro, ma Harry non c’era.
Al bancone, lo stesso uomo della prima volta stava asciugando velocemente e con movimenti esperti dei bicchieri: appena alzò lo sguardo per accertarsi di chi fosse appena entrato e la vide, le sorrise caldamente rivolgendole un saluto con un semplice cenno del capo. Emma ricambiò e decise di sedersi ad uno dei pochi tavoli liberi, in un angolo del bar e accanto all’ampia finestra che dava sulla strada.
Si passò la lingua sulle labbra ed incrociò le gambe sotto il tavolo, recuperando dalla sua borsa il libro di fotografia che sua madre le aveva regalato per Natale e che lei doveva ancora iniziare: da ottima osservatrice quale era, le piaceva fotografare i particolari che la circondavano, ancora alle prime armi e con la passione che pian piano cresceva. Le piaceva perdersi nei dettagli, cogliere ciò che ad una prima occhiata passa inosservato: un po’ come gli angoli della bocca della ragazza a pochi metri da lei, che sembravano delineati in modo così preciso da sembrare finti. Le rughe scavate intorno all’occhio destro dell’anziano signore che stava leggendo un giornale al tavolo alla sua sinistra, che chissà quante ne avevano viste e quante ne avevano sopportate. O lo sguardo ammaliato del giovane uomo dall’altra parte del locale, che chissà se la sua interlocutrice riusciva a comprendere e ad apprezzare. Difficilmente Emma ritraeva una figura o un viso intero, un paesaggio dai confini indefiniti o qualcosa in cui l’attenzione faceva più fatica a trovare un punto su cui focalizzarsi: i suoi soggetti erano altri e altrettanto difficilmente li avrebbe svelati a qualcuno.
«Buongiorno, cosa posso portarle?» Chiese una voce cordiale, ma fin troppo servile. Una cameriera che avrà avuto al massimo trent’anni la stava osservando con l’accenno di un sorriso ad aspettare una risposta: i capelli biondo grano erano sistemati in una treccia sfatta sulla spalla sinistra e la frangetta le copriva le sopracciglia chiare. Gli occhi cerulei rendevano il suo viso un po’ più grazioso e forse distraevano dalla corporatura robusta, dovuta anche alla scarsa altezza.
«Un frappè al cioccolato, grazie» rispose Emma gentilmente.
 
Quando alzò lo sguardo dal libro aperto sul tavolo, si stupì di aver perso la cognizione del tempo: i clienti erano nettamente diminuiti, le luci di un caldo ocra erano state accese per compensare l’avvicinarsi della notte e dalle vetrine si poteva scorgere il cielo sopra Bradford ormai diventato scuro.
Emma tossicchiò e si stiracchiò debolmente, muovendosi sulla sedia per ravvivare la gamba destra mezza addormentata e dando un’occhiata al suo orologio da polso: senza che se ne accorgesse, si erano già fatte le diciotto e venti.
Sospirò e si rese conto di aver trasformato quel pomeriggio all’insegna della ricerca di uno sconosciuto in un momento per sé, per il suo interesse e le sue passioni: si strinse nelle spalle per niente delusa e voltò lentamente una pagina solo per sbirciare l’argomento successivo, poi raddrizzò la schiena e non ebbe modo di fare altro, perché la sua attenzione fu rapita dalla porta del bar che si apriva.
Un gruppo di quattro o cinque ragazzi stava entrando nel locale proprio in quel momento, sghignazzando probabilmente per qualche battuta appena pronunciata o per qualche aneddoto appena raccontato: quello che interessava ad Emma, però, era la presenza di Harry tra di loro.
Ormai non credeva che l’avrebbe rivisto, almeno non quel giorno, e quella piccola sorpresa non poteva che stupirla ed emozionarla al tempo stesso: strinse un po’ troppo la pagina del libro tra le mani, infatti, mentre osservava quel ragazzo camminare con gli amici fino ad un tavolo a qualche metro di distanza. Aveva i capelli intrappolati da un berretto in lana grigia ed il giaccone nero che lo rendeva ancora più magro, un sorriso largo sul volto mentre parlava a voce alta – quella voce – ed un paio di jeans di un blu scuro che aderivano alle gambe esili.
Emma respirò a fondo, senza riuscire a trattenere un sorriso di soddisfazione ed impazienza, ma non continuò a studiare i suoi movimenti, per quanto avrebbe voluto: abbassò il capo e fece finta di essere concentrata sulla sua lettura, mentre dentro di lei memorizzava la posizione di Harry e dei suoi amici. Sapeva esattamente cosa fare.
Dopo qualche minuto in cui le parole scritte nero su bianco di fronte a lei non rappresentarono altro che un miscuglio di lettere impossibile da riordinare, a causa della distrazione che la voce di Harry rappresentava per lei, Emma alzò lentamente il viso, appoggiando gli avambracci sottili sul tavolo. Dritto di fronte a sé, lui era più o meno nella stessa posizione: il maglioncino nero gli stava leggermente largo ed i suoi occhi si spostavano allegri e attenti da un amico all’altro per seguire la conversazione che li stava intrattenendo.
Emma si inumidì le labbra e «Mi scusi?» domandò, alzando la voce e una mano per richiamare l’attenzione della cameriera che si aggirava indaffarata tra i tavoli. Poi portò di nuovo lo sguardo su Harry e capì di essere riuscita nel suo intento: si era accorto di lei e la stava osservando con un’espressione confusa, stupita e giocosa al tempo stesso. Forse l’aveva riconosciuta.
Lei gli rivolse un sorriso tutt’altro che timido, quanto più consapevole e provocatorio, ma non aspettò una sua reazione: la cameriera era di nuovo al suo tavolo e lei stava ordinando una semplice bottiglietta d’acqua, prima di tornare al suo libro con gli occhi, ma non con la mente.
 
Erano passati circa quindici minuti, o forse venti al massimo, quando Emma si sentì costretta a distogliere lo sguardo dalle fotografie stampate su quei fogli lucidi, per spostarlo su qualcuno che aveva appena preso posto al suo tavolo. Dentro di lei sapeva – sperava – che fosse Harry, ma decise comunque di tenere per sé quel presentimento, limitandosi a sbattere le ciglia lunghe mentre si dava ragione e mentre Harry si schiariva la voce proprio davanti a lei.
Inarcò un sopracciglio e rimase in silenzio, soffermandosi sulle mani grandi di Harry incrociate sul tavolo e sul suo busto leggermente proteso in avanti, del quale si intravedevano di nuovo quei tatuaggi che lei avrebbe voluto osservare per intero. Quegli occhi verdi come poche cose che Emma avesse mai visto la stavano studiando senza alcuna fretta o pudore, mentre le fossette ai lati della bocca rosea e umida si mostravano al posto del sorriso che lui stava cercando di nascondere.
Emma stava soccombendo sotto quello sguardo, sotto l’irrefrenabile voglia di togliergli dalla testa quel cappello solo per passare una mano tra i suoi capelli, ma si impose di non lasciar trasparire nessuna di quelle emozioni. Alla fine, fu proprio Harry a cedere a quel silenzio fatto di parole implicite, ma palesi.
«Di nuovo tu, eh?» Chiese soltanto, inumidendosi le labbra che finalmente si concessero di inclinarsi all’insù. Doveva divertirlo parecchio quella situazione, almeno quanto divertiva lei.
«O di nuovo tu» ribatté lei, senza distogliere lo sguardo dal suo.
Harry abbassò e scosse il capo lentamente, lasciandosi andare ad una piccola risata che la fece sorridere. Quando tornò a guardarla, però, non ebbe modo di essere testimone di quella piccola reazione che lei era stata tanto brava a nascondere e mascherare. «È una coincidenza o mi stai seguendo?» Domandò ancora, imperterrito.
«Perché dovrei seguirti?» Chiese Emma, fingendo un’espressione confusa. Non le importava molto che lui le credesse o meno, ma da quella sua semplice domanda poteva ricavare due informazioni: primo, Harry si ricordava di lei abbastanza bene da poterla riconoscere a due giorni di distanza; secondo, era presuntuoso e vanitoso, perché non molte altre persone avrebbero subito pensato di essere seguite da una ragazza vista una sola volta, per quanto quell’incontro fosse stato pieno di sottintesi. Doveva avere una considerazione abbastanza alta di sé.
«Non so» rispose Harry, stringendosi nelle spalle. «Forse perché non hai intenzione di arrenderti» azzardò, con lo sguardo divertito di chi sa l’effetto che ha e di chi ne aspetta solo una conferma. Altra informazione: aveva un ego smisurato.
Emma sorrise davvero stavolta, lanciando una veloce occhiata al suo libro. «Io credo che tu abbia una fervida immaginazione» rispose, arricciando il naso sottile. Sapeva che in realtà lui aveva fatto centro, ma non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, tanto meno in sua presenza.
«Dici?» Chiese Harry, facendo schioccare la lingua sul palato.
Lei annuì e continuò con lo stomaco piegato su se stesso per la vicinanza di quel ragazzo. «Fino a prova contraria sei stato tu a venire da me» spiegò, indicando con un piccolo cenno del capo il tavolo dei ragazzi alle loro spalle. «Senza nemmeno chiedermi se potevi sederti» aggiunse, continuando a mantenere le labbra inclinate in un sorriso trattenuto.
Stavano entrambi giocando, senza dichiararlo, ma dandolo per scontato: Emma poteva soltanto sperare di riuscire a vincere.
Harry alzò un sopracciglio, giocherellando con l’anello in metallo scuro che portava all’indice destro. «Se te l’avessi chiesto, mi avresti detto di sì» puntualizzò beffardo, in un’affermazione impregnata di consapevolezza. E diamine, aveva piena ragione.
Emma aprì la bocca per rispondere di non esserne troppo certo, ma fu preceduta dalla suoneria proveniente dal suo cellulare, finito da qualche parte nella borsa. Si sporse per raccoglierlo e cercò di ignorare l’attenzione con cui Harry la stava intrappolando con i suoi occhi, poi lesse il nome di Pete sullo schermo ed accettò la chiamata.
«Pete?»
«Kent, hey!» La apostrofò lui, facendole alzare gli occhi al cielo. In sottofondo si poteva riconoscere la voce di Dallas che scherzava con Tianna. «Dove sei?»
«Sono a casa» rispose lei prima di rendersi conto di aver fatto un passo falso. Harry ridacchiò e si passò una mano dietro il collo, mentre lei sospirava ed abbassava lo sguardo sulle rifiniture del tavolo.
«Allora vieni qui. Quella filosofia del cazzo era più lunga del previsto: abbiamo finito solo adesso e vogliamo ordinare le pizze» spiegò Pete, con le parole che lasciavano trasparire il disprezzo per quella materia e la stanchezza per quella giornata.
«Preferisco di no» lo liquidò lei. «Ho intenzione di mangiare qualcosa al volo e poi studiare: se venissi da voi non lo farei e domani non avrei scampo all’interrogazione».
Harry si passò la lingua sulle labbra, attento a quella conversazione che poteva seguire solo per metà ma che stava cercando di rielaborare.
«Avanti, Kent!»
«Ci vediamo domani. E smettila di chiamarmi Kent» puntualizzò – come sempre – prima di premere il pulsante rosso di fine chiamata e riporre il telefono in borsa.
Si schiarì la voce e si sistemò la manica destra del golfino blu notte.
«Kent?» Domandò Harry, incuriosito. «Perché questo Pete ti chiama Kent?»
Doveva essere anche un impiccione. Era impressionante come fosse semplice carpire piccoli dettagli dalle sue innocue parole.
«È un motivo stupido» rispose lei in un borbottio. Notando però che il ragazzo di fronte a sé continuava ad aspettare con insistenza, non poté fare altro che sbuffare e portarsi una ciocca di capelli bruni dietro l’orecchio. «Dice che quando pensa al mio cognome o quando lo pronuncia, gli viene in mente Clark Kent, Superman o quello che è» spiegò, gonfiando le guance come una bambina per poi studiare l’ilare reazione provocata.
Harry sembrava avere la risata facile ed anche una bella risata. Emma capì di non essersi sbagliata la prima volta che si erano visti, che lui poteva davvero farla sentire bene con un semplice particolare – e di particolari da conoscere e persino da fotografare ce n’erano parecchi. L’arco della sue sopracciglia, per esempio. I nei poco accentuati sulla sua mascella. Quelli sul suo collo.
«E perché gli hai mentito dicendo di essere a casa?» Continuò Harry come se fosse avido di informazioni. Era ancora presto per immaginare che potesse essere interessato a lei, anziché a quei piccoli pretesti che stava sfruttando per farla parlare, anche perché il venerdì precedente era stato abbastanza chiaro riguardo una loro eventuale conoscenza più approfondita.
«Hai intenzione di farmi un interrogatorio?» Lo rimbeccò Emma, inclinando leggermente il capo di lato. Non le dispiaceva rispondere a quelle domande, perché non le dispiaceva affatto poter osservare ogni cambiamento di espressione del suo viso o i movimenti delle sue iridi che sembravano più scure a causa delle luci soffuse, ma non era disposta a rivelare le proprie carte.
Harry alzò le mani come in segno di resa, appoggiandosi allo schienale della sedia e arrendendosi a quell’osservazione: probabilmente sapeva di avere insistito leggermente troppo, soprattutto dato il loro pseudo-rapporto che non aveva nemmeno una direzione.
«Perché sei venuto da me?» Insistette lei, diretta, puntellando il gomito destro sul tavolo e posando il mento sul pugno chiuso della mano. Era in uno stato di attesa curiosa e si sentiva quasi padrona della situazione.
«Te l’ho detto, volevo capire se mi stessi seguendo» rispose lui lentamente, tornando ad accostare gli avambracci alla superficie di metallo che li separava.
«Ma ora hai la risposta, quindi cosa fai ancora qui?»
«Come se ti dispiacesse».
«In effetti sì, mi dispiace».
«Ah, davvero?»
«Stavo leggendo, se non l’avessi notato».
«L’ho notato, sì».
«E vorrei continuare a farlo».
«Non sarò di certo io ad impedirtelo».
Harry le rivolse un sorriso sghembo, ricco di divertimento provocatorio, e si morse il labbro inferiore forse sperando di averla messa a tacere, ma non si mosse dalla sedia. Emma, d’altra parte, continuava a sostenere il suo sguardo con un sopracciglio alzato per la competizione che in un attimo aveva preso il sopravvento e per l’indecisione riguardo le proprie aspettative: doveva ammettere che il suo comportamento la stava confondendo, anche se non era di certo uno svantaggio.
Prese un sorso dalla bottiglietta d’acqua solo per occupare quei lunghi secondi di silenzio, anche se non sarebbero mai bastati a metterla in soggezione: doveva semplicemente aspettare e fingere di non sentire il suo sguardo oltrepassarla, di non provare il bisogno di sostenerlo ad oltranza non per una sfida, ma per semplice piacere. Si schiarì la voce e dedicò la propria attenzione al libro davanti a sé, leggendo mentalmente qualche frase in modo distratto.
Le veniva da ridere e quasi cedette alla tentazione quando sentì Harry fare lo stesso, sommessamente e probabilmente scuotendo la testa. «Che c’è?» Gli chiese tranquillamente, mostrando un’innocenza che non era di certo una sua prerogativa.
«Sei divertente, ragazzina» rispose lui, indicandola con l’indice sinistro e socchiudendo gli occhi.
Emma sbuffò: «Lo so» ammise piccata. «Tu invece lo saresti di più, se smettessi di chiamarmi in quel modo», aggiunse. Perché la maggior parte delle persone intorno a lei doveva ostinarsi ad usare diminutivi e soprannomi, quando si trattava di lei? Persino sua sorella Fanny aveva iniziato a chiamarla “Mema”, qualche anno addietro: ma almeno lei non era in grado di pronunciare a dovere il suo nome, all’epoca. Gli altri che scusa avevano?
«Già, è che… Non penso di ricordarmi il tuo nome» spiegò Harry, assumendo un’espressione che sarebbe dovuta essere dispiaciuta per quella gaffe, ma che sembrava più beffarda del solito. Lei incassò il colpo inaspettato e per un attimo ci rimuginò su: forse il fatto che l’avesse riconosciuta l’aveva portata a sperare in qualcosa di troppo, dato che l’aspetto fisico era sicuramente più facile da memorizzare, rispetto ad un nome pronunciato una sola volta ed in mezzo alla musica e al vociare di una festa.
«Mi chiamo Emma» sospirò, chiudendo con delicatezza il libro e riponendolo senza fretta nella sua borsa. Non che si fosse sentita punta nell’orgoglio per quell’inconveniente – forse – ma doveva proprio tornare a casa, o sua madre l’avrebbe rimproverata per il ritardo, e un’ulteriore discussione non era proprio nei suoi programmi per la serata.
Mentre indossava di nuovo la sciarpa, Harry continuò a guardarla con i pensieri nella sua testa fin troppo difficili da svelare. «Non te la sarai presa» ghignò, rimanendo seduto quando lei si alzò in piedi per infilarsi la giacca.
Emma sorrise senza guardarlo. «Ci vuole ben altro, credimi» rispose soltanto.
Lui si passò la lingua sulle labbra ed inclinò la testa da un lato, continuando ad osservare i suoi movimenti come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Buona serata» gli disse lei in segno di saluto e quello sorrise ancora una volta – chissà se in qualche occasione riusciva a farne a meno – rivolgendole un cenno del capo.
«Anche a te, ragazzina» esclamò per infastidirla.
Emma alzò gli occhi al cielo sbuffando un sorriso, gli voltò le spalle e si diresse al bancone per pagare: il barista aveva dei lineamenti ancora più armoniosi di quanto non sembrassero da lontano. La mascella spessa era ricoperta da un folto strato di barba nera, anche se sottile, e gli occhi piccoli e di un castano chiaro spiccavano ai lati del naso dritto. Aveva i capelli corti e scuri, che scoprivano la fronte ampia, ma non per questo di sgradevole aspetto. La sua voce, inoltre, era addirittura più roca di quella di Harry mentre la ringraziava per i soldi.
«Posso chiederle una cosa?» Domandò Emma, moderando il tono di voce quasi qualcuno avesse potuto sentirla.
L’uomo corrugò la fronte. «Certo» disse gentilmente.
«Conosce Harry?» Osò, senza indicarlo o voltarsi a guardarlo.
Il suo interlocutore ridacchiò bonariamente prima di rispondere. «Ti ha per caso importunata?»
Lei scosse il capo con un sorriso per quella curiosità. «No, volevo solo sapere se viene qui spesso» spiegò.
«Mi tocca vedere la sua faccia quasi ogni giorno, sì» fu la risposta evidentemente affettuosa. «Posso sapere perché ti interessa?»
«Nel caso mi venisse voglia di farmi importunare» scherzò, facendolo ridere sonoramente.
«Allora immagino che ci rivedremo» esclamò l’uomo, assottigliando gli occhi per assecondare il sorriso allegro che le stava rivolgendo.
Lei annuì. «A presto» confermò, prima di voltarsi e ripercorrere i propri passi fino alla porta del bar.
Non provò nemmeno a cercare Harry o il suo sguardo, perché non si sarebbe abbassata a tanto. Nonostante scalpitasse per sapere se la stava ancora osservando, non voleva dargli quella soddisfazione. Semplicemente camminò a testa alta e si infilò i guanti quando il venticello di quel lunedì la colpì meschinamente, mentre la porta si richiudeva dietro di lei con un tonfo acuto e fastidioso: immersa nell’aria fredda e nel buio precoce, oltrepassò il bar lentamente e sorrise a qualcuno che non poteva più vederla.






 


Buongiorno!
Come state fanciulle? Io sono sommersa dallo studio e sono quasi costretta a saltare i pasti per avere tempo di fare tutto ahhaha Quindi apprezzate i miei sforzi, nonostante il piccolo ritardo (Y)
Detto questo.... Capitolo esclusivamente su Emma ed Harry (che spero non abbia fatto schifo insomma hahah): di nuovo si può vedere quanto Emma sia intraprendente e per niente insicura o timorosa. Sa esattamente quello che vuole, conosce le proprie potenzialità e non si dà per vinta facilmente (il fatto che rovisti tra gli annuari e che torni al bar non è diverso da quello che fanno la gran parte delle ragazze, diciamocelo ahah). Comunque ha un modo tutto suo di agire, tant'è che lascia che sia Harry ad avvicinarsi, quasi facendo la finta tonta: ora, i loro piccoli battibecchi, sempre se così si possono chiamare, non sono affatto dettati da un'antipatia o menate varie. Ci tengo a precisarlo perché non è quel tipo di storia: semplicemente, entrambi si divertono a provocarsi, anche se con intenzioni diverse. Harry non ha ancora cambiato idea su di lei (non si ricorda nemmeno il suo nome il deficiente hahah), ma è un impiccione sfrontato (chi ha letto "It feels..." lo sa bene) ed Emma lo incuriosisce!
Sto parlando troppo, come sempre...Basta, mi ritiro ahahah Vi anticipo soltanto che nel prossimo capitolo ci sarà un altro piccolo aspetto di Harry, qualcosa che chissà se riuscirà ad intaccare la determinazione di Emma :)

PS. non che ve ne possa interessare qualcosa, ma il giorno in cui è ambientato questo capitolo è lo stesso in cui Melanie conosce Louis al supermercato :))))

Spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, o vi abbia almeno incuriosito! Aspetto i vostri pareri e vi ringrazio infinitamente per tutto <333

Vi lascio tutti i miei contatti:
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Un bacione,
Vero.
  
  
  
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