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Autore: Melinda Pressywig    19/01/2014    9 recensioni
Un ragazzo. Un vecchio. Una conversazione illuminante.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa:
Questa storia partecipa al Contest Shopping di Prompt e di Bonus, indetto da AllisonMonster sul forum di EFP.
Io ho scelto, a naso, il pacchetto chiamato Chanel
La richiesta era molto semplice: tre prompt a disposizione, scrivici una storia.
Ora... Indipendentemente dal contest in atto, io sono parecchio soddisfatta del risultato.
La combinazione dei prompt mi ha ispirato così intensamente,
che mentre la scrivevo mi sono quasi dimenticata vi partecipasse.
Dunque vi chiedo di leggerla così com'è, senza aspettarvi niente e di giudicarla e/o valutarla solo alla fine della lettura.
Non è una storia d'amore, non è una tragedia... è una storia particolare che spero sappiate apprezzare. 
Il contesto che ho scelto è vago, ma il succo c'è.
Spero sappiate coglierlo e comprenderlo, soprattutto.
Buona lettura, ci becchiamo in fondo. 





















 
L'Esperienza Insegna












 
Accanto al negozio di fiori c'era l'unico bar del paese. Era frequentato da un buon numero di persone, a tutte le ore. La mattina da chi doveva fermarsi a fare colazione. A pranzo da chi doveva fermarsi a mangiare un panino o bere un caffè. Nel pomeriggio, invece, era popolato maggiormente da pensionati e da uomini disoccupati, o lavoratori che staccavano da una giornata faticosa. Due chiacchiere non sfuggivano a nessuno. 
Tra tutti i clienti abituali di quel luogo assai comune, spiccava un uomo; un signore anziano sull'ottantina che se ne stava spesso e volentieri seduto là fuori, ai tavolini disposti a casaccio lungo l'ampio marciapiede. Che ci fosse vento, neve, o grandine, lo trovavi sempre lì. La sua consumazione tradizionale era la gazzosa - quella da due soldi - e la beveva sempre in compagnia. Non importava chi fossero, per lui era un gran piacere. Gli piaceva molto dar voce alle peripezie che aveva vissuto quand'era giovane. Ci trovava gusto a raccontarle, soprattutto con chi lo ascoltava attentamente. In molti sedevano accanto a lui, dai più giovani ai più adulti. Era una specie di nonno, o un padre. La gente diceva fosse un uomo saggio, dai suoi insegnamenti si traevano ispirazione e vantaggi. Era un uomo dalle mille risorse, ma era altrettanto semplice e curato. Aveva occhi scuri, color ebano. Lo sguardo vivo, che non dimostrava affatto gli anni che portava. Il viso era segnato da rughe profonde, ma allo stesso tempo era riposato e per niente stanco. Non aveva più i lineamenti marcati di una volta, e i capelli grigi si erano ormai diradati. Portava un paio di occhiali da vista e un berretto (quasi sempre) verde scuro in testa. Di solito portava dei pantaloni larghi, beige, e le inseparabili camicie a quadretti o maglioni color fango, a seconda della stagione. Sempre ordinato. 
Parallelamente a quel vecchio, c'era un ragazzo molto più giovane. Abitava proprio a due isolati di distanza dal bar. Era alto, schiena ricurva, capelli bruni, riccioluti e sbarazzini. Un po' trasandato. Camminava a passo spedito, sempre con le mani in tasca. Lo sguardo scuro, puntato verso il basso. Ma quando gli capitava di passare da quelle parti, si voltava sempre a guardare l'anziano signore. Lo vedeva gesticolare e parlare animatamente con chi gli stava attorno, sorridere. Lo ammirava dall'altra parte della strada e si sentiva pervaso da un senso di malinconia. Avrebbe già voluto essere come lui: un uomo che aveva vissuto la sua vita e che ormai era quasi giunto al capolinea, in pace con se stesso. Che fossero pensieri insoliti già lo sapeva, ma poco gli importava. Proseguiva dritto e pensava.
Poi venne il giorno in cui i due si incontrarono. Venne il giorno in cui il ragazzo prese iniziativa e decise di andare da lui. Convinto di poter essere aiutato. Desideroso di ricevere uno schiaffo morale. Affidarsi alla sue cure. 
Quel giorno la giornata era grigia. I nuvoloni in cielo preannunciavano pioggia. 
L'uomo anziano era di nuovo seduto al tavolino, intento a leggere il giornale. Erano appena le dieci del mattino, e a quell'ora, stranamente, c'erano poche persone al bar (più dentro che fuori). Il ragazzo attraversò la strada. Fissava la figura in panciolle, iniziando ad agitarsi. Gli passò accanto senza farsi notare ed entrò nel locale. Ordinò in fretta due bibite e tornò all'esterno. 
Appoggiò i bicchieri sul tavolino e si sedette; aspettando che l'uomo si accorgesse della sua presenza. Cercò di assumere un'espressione il più rilassata possibile. Non voleva sembrare inopportuno, né tanto meno invadente.
Il giornale si chiuse con un sonoro fruscio e il volto del vecchio apparve. Guardò prima i bicchieri e poi il ragazzo, con espressione sconcertata e disse: «A cosa devo tale onore?».
Il ragazzo sorrise, e per giustificare la sua improvvisata rispose:
«Ho pensato di farle compagnia. Sa, il tempo non è dei migliori, oggi. Così ho chiesto al barista di dirmi quale fosse la sua ordinazione abituale ed eccomi qua. Per lei una gazzosa e per me un'aranciata».
«Ma che ragazzo gentile e premuroso. Bravo figliolo, ti ringrazio» rispose. 
Bevve un sorso della sua bevanda poi aggiunse: «Mi piace la gazzosa, hai fatto bene a comprarla».
Il ragazzo si accomodò meglio sulla sedia, sollevato di aver fatto la cosa giusta. Bevve un sorso anche lui e si rilassò un poco. Poi fu l'altro a proferir parola: 
«Quanti anni hai, ragazzo?»
«Ha ragione, non mi sono presentato... Sono Stefano, ed ho ventun anni...»
«Cristo santo! Ventun anni!» esclamò lui. «Sembra passata un'eternità da quando avevo io la tua età! Ed ero già pieno di ragazze che mi facevano la corte. Ero bello, sai? Ah! Se ero un bel giovine!» concluse.
Stefano sorrise. Quel vecchio gli stava già simpatico, però non sapeva esattamente cosa dire. 
«Immagino signore...» si limitò a rispondere.
«E non chiamarmi signore... chiamami Gianni, dammi del tu!»
«Va bene...» 
Improvvisamente si sentì in imbarazzo. Che cosa voleva ottenere da quell'uomo? Non sarebbe stato di certo lui a risolvere i suoi problemi esistenziali... Si perse per due minuti nei suoi pensieri, poi la voce lo distrasse.
«Sei di poche parole, eh?»
Stefano si riscosse e lo guardò. Gianni aveva un'espressione spiritosa in viso. Un sorriso che voleva significare: io so cosa ti succede
«Vedi...» esordì, «Alla tua età ero anche io un po' come te: guardavo la vita scorrere inerte, nonostante fossi già impegnato attivamente nell'accademia militare. Le persone o i luoghi, non mi toccavano. Col tempo, con l'esperienza, imparai a trovare la forza di alzare la testa e affrontare il mondo per quello che era...»
Quelle parole lo colpirono nel profondo. Era così evidente fosse un ragazzo disastrato? Gli si leggeva in faccia? 
Una sensazione di calore freddo lo pervase. 
«Eri un militare?» la domanda gli uscì spontanea.
«Mi fa piacere che tu me l'abbia chiesto. Sì, lo ero. Avevo solo diciassette anni quando mi sono arruolato. Fu un desiderio di mio padre ed io non potevo rifiutare. Era un obbligo all'epoca...»
Stefano annuì, semplicemente. 
«Ancora non lo sapevo a cosa andassi incontro, ma era mio dovere onorare mio padre. Feci quello che andava fatto: obbedire agli ordini dei miei superiori e lavorare duro. Arrivai all'età di diciannove anni che non sapevo ancora il vero motivo per cui avessi scelto quella strada, e nemmeno negli anni avvenire».
«E poi? Quando cambiò prospettiva?». La domanda era diretta. 
«Ottimo quesito, ragazzo. Accadde alla fine della terza missione. Fu la più difficile che avessi mai affrontato. Ci furono fin troppe perdite: morirono molti dei miei compagni, a causa dei bombardamenti frequenti e violenti. Tra di essi, c'era il mio migliore amico: Luciano. Non morì tra le mie braccia, ma lo trovai ridotto in pezzi. Aveva perso una gamba e metà braccio, in più aveva una parte del volto sfigurata. L'unico occhio sano e insanguinato era vuoto, il corpo senz'anima. Un'immagine che non dimenticherò... Tu pensa che quel giorno eravamo stati divisi. Io in una zona, lui in un'altra. Quando si dice il destino. Io ebbi fortuna, lui no. Capisci?»
Stefano aveva ascoltato in silenzio, rapito. Annuì ancora una volta, ma con sguardo triste. 
Gianni sospirò. «Eh... figliolo. È dura perdere un amico a quell'età. A ventun anni, come te. E fu dopo due settimane dall'accaduto che decisi di congedarmi a mio rischio e pericolo. Capisci anche tu che ai miei tempi avere un posto nell'esercito militare era gran cosa, altrimenti rimanevi povero in canna. Ma a me non importava. Ne avevo già abbastanza di quella vita e mi sentivo ancora troppo giovane per darmi via così, per una causa persa... a costo di disonorare mio padre. Ovviamente, i miei superiori tentarono in tutti i modi di persuadermi, ma io avevo deciso; era la prima decisione che prendevo da solo, per la prima volta. Così decisero a malincuore di concedermi il congedo e mi avvertirono che non avrei potuto più tornare indietro. Per me andò benissimo, era come se mi fossi liberato di un peso...». Gianni fece una lunga pausa. Si era perso nei ricordi.
Stefano rimase zitto, e assimilò tutto ciò che gli aveva raccontato. Però era curioso di sapere cosa fosse successo in seguito, così azzardò chiedendo:
«E poi che accadde?»
Gianni sbatté le palpebre ripetutamente, poi spostò l'attenzione su Stefano. 
«Sei un tipo curioso, vedo. Molto bene». Sorrise. «Che cosa accadde dopo? Be', sono accadute tante cose. Ma se ti stai chiedendo cosa è successo dopo il congedo, è semplicissimo: sono tornato a casa dalla mia famiglia. Da mia madre che stava in pena per me. Da mio padre che mi guardava storto, contrariato dalla mia scelta. Dalle mie due sorelle ancora piccole per comprendere la situazione. Ma ero felice di ritrovare quelle facce conosciute che non vedevo da anni...». Gianni finì di bere la sua gazzosa, poi proseguì:  
«La felicità, ahimè, durò ben poco. Non passarono nemmeno tre giorni che mio padre decise di buttarmi fuori di casa. Non riusciva ad accettare il mio rifiuto, e mi disse sbraitando, che ero solo un debole. Puoi ben immaginare quelle parole come mi fecero sentire. Però lasciai presto perdere: rispettai ancora una volta il suo volere e me ne andai. Mia madre e le mie sorelle piansero, perché sapevano di non potersi opporre. Ahhh... figliolo, ne ho passate anche io... di cotte e di crude». Gianni sorrise. 
Stefano si era ormai rilassato da tempo, ascoltare quei racconti lo faceva sentire meno inutile di quanto si sentisse. Pensò a quanto aveva passato Gianni, e che lui al suo posto era fortunato a vivere nei giorni presenti. Lo osservò e lui se ne accorse.
«Figliolo... non hai detto una parola da quando sei arrivato. Non sei qui solo per ascoltare i miei racconti, non è 
vero?». Quella considerazione lo spiazzò. Lo aveva scoperto. Così mentì spudoratamente e tentò di sviare l'argomento: «Ma sì invece. Mi interessa molto... Ho sentito tanto parlare di lei. Continui la prego... »
«Mi stai dando del lei, ragazzo. Non va bene. Cosa vuoi sapere ancora?» 
«Non so, come hai fatto da solo, senza un posto dove stare? Ma soprattutto senza un lavoro?»
«Be', dopo il mio congedo mi diedero una certa somma, in base al servizio durato solo quattro anni. Non era molto, ma almeno mi permise di tirare avanti uno o due mesi. Sai, al di là della carriera militare, o lavoravi la terra, o imparavi un mestiere. Io scelsi la seconda opzione. Mi parve più dignitoso per un ragazzo come me. Così mi recai in tutti i paesi vicini e non. Chiesi a questo o a quello se cercavano apprendisti... Che tu ci creda o no, dopo quattro settimane ci fu un brav'uomo che cercava un apprendista sarto. Fu l'unico tra tutti che mi accolse volentieri. Io accettai, senza esitare. Qualunque cosa pur di non rimanere uno sbandato che si nutriva di pane e formaggio...»
«Un sarto... non dev'essere male come lavoro, no?»
«A dirtela tutta mi ci volle parecchio per imparare. Non avevo mai preso ago e filo in vita mia, né usato telai. Ero un novellino. Ma il mio maestro, il signor Landolfo, era un tipo paziente e nutriva simpatia nei miei confronti, quindi appresi bene le nozioni e nel giro di quattro mesi sapevo imbastire un paio di maniche e tessere almeno dieci centimetri di tela. Mica male, vero?». Stefano rise, quasi divertito, e annuì convinto.
«Scommetto che nemmeno tu sai riparare un bottone scucito, ah! Non sai quanti ne ho riparati per iniziare!». Gianni rise. Poi proseguì: 
«In quel periodo la prospettiva di un futuro diverso m'investì, e pensai che fare una vita del genere era sempre meglio di ricaricare fucili o dormire in giacigli scomodi. E più lavoravo assieme al signor Landolfo e più non avrei mai voluto smettere. Fare il sarto non mi dispiaceva affatto. Il lavoro era garantito, le risorse non mancavano. Landolfo era soddisfatto di me, non potevo chiedere di meglio... »
«E poi?»
«Ahh, quante cose vuoi sapere! Ma te le dico volentieri, mi sembri un ragazzo in gamba... Poi, come tu sai, la realtà che assomiglia a un sogno non dura a lungo... Successe che il mio maestro si ammalò gravemente e lasciò tutto nelle mie mani. L'attività non poteva smettere, così mi rimboccai le maniche e portai avanti il lavoro da solo. L'unico problema è che il maestro morì dopo una snervante, misera settimana, e solo dopo il suo seppellimento scoprii che aveva lasciato un pezzo di carta scritto, dove intestava a me l'intero negozio. Io non potevo crederci. Ero sconvolto e frustrato, ma non potevo tirarmi indietro. Accettai lo stesso e dedicai anima e corpo all'esercizio. Sia per una questione di orgoglio, sia per commemorare il mio caro maestro...»
«Accidenti, hai avuto una grande responsabilità sulle spalle...» disse Stefano, un po' amareggiato. 
«Già, ma mi aiutò a crescere mentalmente» rispose deciso Gianni. 
«Anche questo è vero...» e lo disse sentendosi angosciato. 
«Vuoi sapere come finisce la storia?» propose il vecchio, troncando sul nascere quello stato.
«Sì...» rispose sincero.
«Riuscii a tenere attivo il negozio. Cucii e intelai per altri quattro, cinque anni, senza sosta. Accumulando più soldi possibili. Rafforzando la mia esperienza; fino a quando non mi sentii in grado di acquistare anche io un'apprendista. Mi capitò una ragazza giovane, aveva sei anni meno di me e si chiamava Filomena. Alta quasi quanto me. Capelli color del mogano, lisci, raccolti in una folta coda. Degli occhi splendidi, di un castano nocciolato a pagliuzze gialle. Sguardo penetrante. Era bellissima ai miei occhi. Timida, certo, ma una gran cucitrice. Imparò in fretta, molto più di quanto feci io a mio tempo. Quella ragazza diventò presto la mia fidanzata e poco dopo, mia moglie. Abbiamo vissuto insieme sessant'anni della nostra vita, ti rendi conto? Purtroppo oggi non c'è più, Filomena mi ha lasciato due anni fa.  Ma è sempre viva nel mio cuore, questo sì».
«Mi dispiace Gianni, non lo sapevo...» intervenne Stefano.
«Non preoccuparti ragazzo mio, sono cose che succedono. Non è quello il problema...» 
«E la sua famiglia? Recuperò i rapporti?»
«Non esattamente, purtroppo. Solo dopo vent'anni dal mio matrimonio, mi arrivò un telegramma funesto. Appresi che mio padre era morto, anch'esso di malattia: una grave polmonite. Fu un dolore inaspettato... mi stavo quasi dimenticando delle parole di mio padre, e perderlo senza averlo più rivisto, fu peggio di quanto mi aspettassi. Così piansi la sua morte e finalmente rincontrai i miei cari. Presentai loro Filomena e i miei due figli: Sandro e Liana. La piena serenità tornò a sorridermi. Quello sì...». 
Tra Gianni e Stefano cadde un silenzio carico di nostalgia e malinconia. 
Attorno alle due figure sedute, l'ambiente era leggermente cambiato: i passanti camminavano avanti e indietro, e l'aria si era fatta più gelida. Poi, delle timide gocce iniziarono a cadere dal cielo. 
Per fortuna erano al riparo sotto il gazebo che circondava il perimetro, ma Stefano subito si premurò, alzandosi in fretta dalla sedia. 
«Gianni, vuoi che andiamo de...»
«Stefano...» lo interruppe subito «Perché sei venuto da me?»
La domanda lasciò il ragazzo interdetto e spiazzato. Si bloccò a metà dell'azione e lentamente si risedette, prendendo tempo. «Io...»
«Non sei qui per caso. Sei venuto qui perché volevi delle risposte da me. Non è vero?»
Stefano esitò di nuovo.
«Non voglio metterti in difficoltà, non sia mai. Ma rispondi solo a questo: hai imparato la lezione?»
Stefano annuì. Era inutile negarlo. Aveva imparato molto da lui in quella mezz'ora.
«Benissimo. Non voglio sapere altro. Però ricorda, figliolo: qualunque siano le difficoltà che incontri, devi sempre affrontarle a testa alta e non lasciarti andare. Non importa chi sei, o quanti soldi hai in tasca... hai il tuo destino e la tua vita davanti. Chiaro?»
«Sì, molto chiaro...»
«Non devi avere paura. Hai capito?» insistette.
«No... nessuna paura». Ripeterlo lo fece sentire più carico e meno timoroso. 
«Molto bene... Ora va' dentro dal barista e ordina altre due gazzose. Digli che offro io».
Stefano non se lo fece ripetere due volte. Si alzò con un sorriso riconoscente e si avviò. 
E mentre il ragazzo si allontanava, Gianni si alzò un po' a fatica dalla sedia e si sgranchì le gambe. Piegò il giornale e se lo mise sotto braccio. Si voltò a guardare l'uscita del bar, pensando al ragazzo intento a ordinare le bibite. Sorrise, soddisfatto di quella gran bella conversazione, dove ancora una volta era tornato indietro  nel tempo; dove si era immerso nei ricordi rimasti così intensi, nonostante fossero passati molti anni. Pensò a quel ragazzo così in ansia di affrontare il mondo, ed era felice di averlo smosso dal suo torpore solo con un semplice racconto di vita vissuta. Era sicuro avesse appreso la complessità della sua esperienza e che ne avrebbe fatto tesoro. Presto avrebbe trovato la sua strada. Magari quel pomeriggio stesso. Chi poteva dirlo? Il destino era dalla sua parte. 
Gianni se ne andò. Stefano avrebbe capito.  








































 
Spazio autrice
Ed eccoci qua... Vi ringrazio per averla letta. 
Evviva l'introspezione drammatica! Evviva le questioni interiori! 
Ci faccio il bagno ogni volta che posso.
Se avete voglia lasciate una recensione. E sennò, tanti abbracci a tutti, a priori.
Un saluto - Melinda Pressywig


E mi sono guadagnata il Quarto Posto! Ye!
 


 
  
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