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Autore: Nemainn    22/01/2014    8 recensioni
Una matassa di lana, delle piccole scarpe, il buio.
L'oscurità fuori, il deserto dentro e un ultimo passo, stringendo al cuore ciò che si ha di più caro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il Filo di Lana

 
 
 

Ogni piccolo gesto era colmo di stanchezza, lento e automatico e, mentre la luce fuori dalla finestra scemava, la donna appoggiò il lavoro all’uncinetto in grembo.
Non sapeva perché continuasse quell’inutile, piccolo, paio di scarpe, non sarebbero mai state indossate… lei era morta.
Le mani erano abbandonate in grembo, pallide e inerti, a circondare quelle scarpine da neonato quasi finite. Bianche e lilla, di lana morbida, sembravano quasi brillare come piccole stelle nel buio che, inesorabile, accompagnava il tramonto, dietro le tende della grande finestra della cucina.
Lo sguardo era fisso, vuoto, mentre gli occhi slavati dalle troppe lacrime, arrossati e gonfi si chiudevano, cercando in quell’effimero buio un po’ di riposo.
Erano passate settimane, eppure quella pesantezza che aveva messo radici dentro di lei non si alleggeriva, né assottigliava: non l’abbandonava, continuando a essere bruciante e soffocante. Le toglieva ogni respiro, ogni luce, la privava di ogni barlume di serenità, come quella sera.
La memoria ripercorse un sentiero cosparso di affilati frammenti, tornando al cellulare che squillava e alla voce, dall’altra parte, che cercava di comunicare in tono tranquillizzante qualcosa di troppo grande.

-Signora, c’è stato un incidente, venga subito all’ospedale.- inutile chiedere spiegazioni, delucidazioni, il suo disperato -Mia figlia? Mio marito?- rimaneva senza risposta, l’uomo continuava a ripeterle di affrettarsi all’ospedale, ma lei non capiva, si rifiutava di comprendere quel tono, il significato dietro quelle parole.
Ricordava la corsa in taxi come un incubo fatto di frammenti congelati nel tempo. Il semaforo rosso, che sembrava dover mantenere in eterno quel colore, il sottopassaggio grigio, dove una donna chiedeva l’elemosina, le macchine che sfrecciavano attorno a lei, il suo disperato appello all’autista perché facesse in fretta e lo sguardo addolorato dell’uomo che aveva capito, prima di lei, quello che lei si rifiutava cocciutamente anche solo di pensare.
La porta del Pronto Soccorso che si apriva davanti a lei, con la sala d’aspetto piena per metà, voci indignate al suo passaggio che non aveva altra cura che per l’infermiera e le sue domande, affastellate e incoerenti.
Ricordava il medico, un uomo sulla cinquantina, con uno sguardo professionale, addolorato ma distante, che la faceva sedere su una di quelle poltroncine, in una stanza vuota.
La notizia.
Le sue grida acute e strazianti: aveva urlato con tutta la sua voce, a pieni polmoni, ripetendo all’infinito un no, una negazione che le strappava l’anima, il cuore e la vita, fino a diventare afona.

-No.-
Alla fine l’avevano sedata, lasciandola in una stanza, il mondo reso ovattato e distante dal calmante che le avevano iniettato.
La sua bambina.
Suo marito.
Tutta la sua vita andata, in un solo momento, in un incidente.
Era arrivato suo cognato, l’aveva abbracciata, aveva pianto. Avevano pianto, assieme, per un’eternità, abbracciati disperatamente, con forza. Ma le sue lacrime erano così fredde, così vuote, come il gelido deserto oscuro che stava dilagando dentro di lei.
La sua anima frantumata e calpestata, da un fato orribile e crudele, sfregiava tutto di lei con quegli affilati brandelli di una felicità passata e perduta: era rimasta sola.
Seduta su quella sedia a dondolo, in cucina, le sue dita sfiorarono, al buio, il piccolo lavoro a maglia, quelle scarpine morbide.
Le stava facendo per la sua bambina e, quando era arrivata la telefonata, stava sferruzzando... non vedeva l’ora di metterle a quei piccoli piedini perfetti, di riabbracciarla, anche se era stata lontana, dalla nonna, solo poche ore.
Piccole, morbide e perfette, come lo era la sua piccina.
La sua vita.
Guardando oltre la finestra, ora, solo il buio si distingueva al di là del vetro.
Aveva cercato, in tutti i modi, di non pensarci ma ogni sera, al tramonto, riprendeva tra le mani quel lavoro: voleva finirlo ma, inevitabilmente, rimaneva nel suo grembo, incompiuto.
Per le prime settimane aveva sempre avuto qualcuno, in casa con lei: temevano che, la solitudine, la spingesse ad un atto che non volevano neppure nominare.
Erano sempre stati con lei, sua suocera e suo cognato, a volte insieme, a volte dandosi il cambio.
Dormivano in quella che era la stanza della bambina, vicino alla culla fredda e vuota, tra quei muri bianchi dove lei aveva dipinto stelle e alberi, cavalli e cervi, rondini e nuvole, per la sua piccola Eleonor.
Con il tempo, però, scambiando la sua quiete per una guarigione dal dolore, e pensando che desiderasse un po’ di pace e tranquillità, la lasciarono sola più spesso.
Ora venivano solamente a pranzo e a cena, cucinavano per lei, le parlavano.
Lei rispondeva loro, guardandoli con un’attenzione che pareva convincente e, a volte, perfino sorrideva.
Ma ogni sera si sedeva lì, ogni tramonto, quando la luce veniva inghiottita dalle tenebre, il suo buio tornava a divorarla, vivo e pulsante, freddo come la morte, attanagliandole il cuore e divorandole l’anima.
“Bambina mia, ti manco?”
La voce della donna, poco più di un sottile fremito nell’aria, era talmente sommessa da essere a stento udibile da chi aveva pronunciato quelle parole. A lei mancava terribilmente la sua Eleonor, le mancava il piccolo viso paffuto e quegli occhi ridenti... le era stata strappata solo dopo poche settimane di vita.
Le mancava anche Robert, solido, alto, sempre sorridente.
Non le era rimasto più nulla, solo quelle piccole scarpe che aveva iniziato il giorno che l’aveva vista per la prima volta.
Aveva deciso di vederla, prima di farle.
Perché, le aveva chiesto Robert.
Solo vendendola avrebbe davvero saputo di che colore prendere la lana, aveva risposto. Lui aveva riso, l’aveva abbracciata, l’aveva chiamata la sua adorabile matta, tenendola stretta a sé, al suo cuore.
Aveva sentito il ritmo regolare di quel battito, sentendosi piena di gioia: quanto l’amava!
Ma ora lui era solo un corpo dentro una bara, vuoto, abbandonato, nulla dell’amore, della gioia e della vitalità che lo animavano erano rimaste.
Non si accorse di piangere finché le silenziose e umide stille non caddero sulle sue dita, poggiate delicatamente sulla lana. Amare, piene di parole che mai più avrebbe detto a nessuno dei due, continuavano a scendere, implacabili nel buio sempre più fitto, impregnando le piccole scarpe di acqua, sale e dolore.
Lei si alzò e, stringendo al cuore le piccole scarpe, aprì la finestra della cucina, respirando il buio che c’era fuori, alimentando il deserto oscuro e gelido che aveva dentro, guardando la strada, sotto di lei, distante.

Fece un piccolo passo, poi un altro, poi non ci fu più nulla su cui camminare. Mentre un sorriso si disegnava sulle sue labbra, il suo ultimo pensiero fu per chi amava: li avrebbe rivisti presto, andava da loro.



NdA:
Racconto partecipante al concorso: -Il buio... e le scarpe-
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Grazie di leggere e, se vipiace, ricordate che i commenti fanno bene all'autostima dell'autrice! XD

 

   
 
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