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Autore: Val_Ser    24/01/2014    1 recensioni
Non avevo saputo resistergli.
Allora, come adesso, aveva una maglietta attillata e i capelli scombinati, il viso liscio e gli occhi sornioni.
Sembrava uscito da un videoclip di qualche artista emergente americano, troppo bello per trovarsi in mezzo a tanti ventenni italiani.
Sembrava essere stato messo lì per ricordare a tutti come le eccezioni esistono, e le bellezze rare vivono e basta uno sconosciuto per accendere le tue fantasie, anche quelle che non pensavi di poter avere.
[...]
Scopare a destra e a manca non riempirà il tuo vuoto, che io so che c’è e tu nemmeno riesci a concepirlo.
Sarebbe già una vittoria se ammettessi che, effettivamente, non sei perfetto così come il Signore ti ha fatto, insensibile, bellissimo e indipendente da ogni affettività possibile.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Dedicata a Toto, che un anno fa mi faceva conoscere questa canzone.
Non sempre le cose accadono per un motivo,
però quando succede, succede e basta.
 
1. È duro il modo in cui mi osservi stare, solo sai che poi non te lo puoi permettere.
           
«Alfio? E che razza di nome è Alfio
            «Vuoi chiudere la bocca?»
            Gabriele mi fa quasi cadere la birra nel darmi un colpo sulla nuca. Sono tentato di dargliene uno di reciproca affettività virile, quelle cose che fanno i ragazzini per strada, ma in questo momento devo solo essere grato che la mia 5 gradi sia intatta.
            «Comunque è un nome del cavolo, Gabriè.»
            «Vabbè, continua pure così. Non ti racconto più un cazzo.»
            Sorrido e lo abbraccio n tanta, troppa foga. «Non fare l’adolescente turbata, cucciolino!»
            Gabriele mi spinge via, tentato di darmi un altro colpo, lo vedo nel fremito delle sue spalle. Sorride, alla fine. «Fai ancora così e giuro che ti lascio al pronto soccorso.»
            «Capirai.» Bevo un sorso ghiacciato e mando giù a fatica. L’open bar è una benedizione ma sarebbe stato lo stesso se mi avessero dato un ghiacciolo alcolico. «Mi chiedo se ci sia qualche eterosessuale qui dentro.»
            «Dio mio, Claudio. È una serata di musica indie, musica, musica. Non un Gay Pride non autorizzato.»
            «Che differenza c’è con una serata di musica indie?» Lo guardo, un ampio sorriso in faccia, che mi dà l’aria ebete. Lo so per certo. «E poi siamo i primi a portare omosessualità dovunque.»
            «Tu che hai ex ad ogni angolo. Io stavo cercando di parlarti di questo tizio e tu fai l’isterica.»
            Getto un urlo trattenuto, con un gesto scandalizzato della mano. Ridiamo. Siamo le persone meno omosessualmente convincenti, qui dentro. Sia chiaro, quei pantaloni alla caviglia (così in voga qui dentro) e gli occhiali vintage due–euro–dai–cinesi, quelli che sembrano essere il tratto distintivo del ragazzino standard sessualmente confuso qui presente… ma preferirei piuttosto che mi cadesse, davvero, piuttosto che indossarli.
            Sembra una serata tranquilla, al di là degli stereotipi ambulanti che infettano il posto. È stato recuperato da un vecchio cantiere operaio e riempito di luci dai colori improbabili e di quadri (quadri? Siamo sicuri? Il mio gatto vomita palle di pelo più belle) alle pareti di mattoni rossi. Siamo sommersi da tredicenni dai lobi dilatati, ventenni dai capelli rasati e trentenni stempiati che tentano di abbellire la pelata con cappelli ridicoli.
            Io e Gabriele ci guardiamo attorno, aspettando i nostri amici. Sono in ritardo. La serata comincerà in ritardo. La fine della mia sopportazione, scommetto, sarà puntualissima. Soprattutto se questi bassisti continuano a provare dissonanze simili. Va bene, io di musica non capisco nulla, ma se vanno avanti così avrò bisogno di un impianto cocleare ancor prima che le band comincino a salire sul palco.
            «Sigaretta?» chiede Gabriele.
            E come rifiutare. «Di corsa.»
            È più una fuga che una tranquilla pausa sigaretta. Non ce ne frega niente. Separiamo un gruppo di under 21 dalla parlata strascicata e dal sentore vagamente radical–chic, ci tuffiamo nell’aria fresca del tardo pomeriggio e tiriamo entrambi un sospiro di sollievo. E io che pensavo che, essendo gay, avrei evitato sessioni di shopping animalesco con qualche ragazzina troppo cresciuta e ne sarei stato felice. Quando mai. Questo è peggio.
            Ci sediamo sul muretto di mattoni gialli, adornato a dovere di scritte trasgressive di vernice spray: una goduria per la pulizia della città. Gabriele mi allunga una Winston prima ancora che possa mettere mano al mio pacchetto. Gli porgo il mio accendino con un sorriso complice.
            Sappiamo prenderci cura l’uno dell’altro, questo lo dobbiamo riconoscere, e ormai ci conosciamo da così tanto tempo da sapere in anticipo quello che l’altro farà. Senza contare l’andare ad eventi del genere ben sapendo che no, non ci piaceranno, e che sì, sentiremo il bisogno di lamentarci da quando usciremo a quando ritorneremo ognuno alle proprie case.            «Sono tutti così giovani» dice Gabriele, un po’ sprezzante, un po’ ironico, un po’ divertito. Insiste sulla parola ‘giovani’, come se avesse ottant’anni invece che venticinque.
            «Lo fummo anche noi, buonuomo, lo fummo!» Gli faccio il verso. Ride. Rido anche io. Scuoto la cenere dall’estremità della sigaretta. «E quindi, questo Alfio?»
            «Mah, ci sentiamo, chiacchieriamo, mi chiama ogni tanto. Non sembra male.»
            «Lui che fa?»
            «Ufficio di qualcosa, non chiedere. Davvero, me l’ha spiegato: meglio non sapere.»
            Sbuffo. Quest’avversione può riguardare solo argomenti di matematica, finanza, economia: numeri rapportati alla realtà. Gabriele non ne capisce niente e non ne vuole sentire parlare. Dice sempre che finirà per evadere le tasse solo perché non farà mai e poi mai una dichiarazione dei redditi. Dice che rischierebbe di impazzire. “Rischierebbe”, come se ci fosse ancora qualche neurone salvo.
            «Be’, e quindi ti piace, no?»
            Gabriele alza le spalle. «E non lo so, Cla. Non è che ho più sedici anni e mi sembra tutto nuovo e bello. Certo, non dico che mi sono fatto tutti i maschi di questa città e che quindi non c’è più nulla da scoprire…»
            «Ah no?»
            Un altro colpo. Scoppio a ridere, rischiando di strozzarmi con il fumo. «Stavo scherzando, stavo scherzando!»
            «Ma inizio a diventare esigente!» Finisce con un’esclamazione, aspra, sottolineando come non abbia gradito la battuta. Fa un ultimo tiro e spegne la cicca sotto la scarpa. «Dovrei diventare selettivo anche con la gente che frequento per diletto.»
            «Per diletto, se’.» Spengo anche io la sigaretta. La birra comincia a riscaldarsi, grazie al cielo. Un altro sorso a quella temperatura e avrei perforato lo stomaco. «Ma sentiti. Io non so come fai ad essere così filosofico e astratto, davvero. Guarda che ora ci sono un sacco di ragazzini che vogliono sperimentare e cose del genere…»
            «E tu magari vai con i ragazzini?»
            «Io? Parlavo di te, per placare il tuo animo tormentato.»
            Vedo che sta per rispondermi quando si ferma. Getta un’occhiata alle mie spalle, si acciglia. Mi giro anche io. Arriva un gruppetto di gente, finalmente qualche coetaneo e non più liceali. Cerco di vedere se c’è qualcuno di quelli che aspettiamo –Nadia, Francesco, Valentina– ma no, non c’è nessuno di loro. In compenso, non posso non riconoscere lui.
            Alberto. E ti pareva.
            Alberto è riassumibile in una sola frase: sembrerà che abbia amato solo te fino a quando non avrai due belle corna di cervo, lucide e maestose, sopra la testa. Ormai, però, sono cresciuto: è stato più di tre anni fa. Sono passato oltre, anche se avrei voluto passargli sopra con le ruote della macchina. Lo sapevo sarebbe andata a finire così, Alberto è famoso per la sua infedeltà matematica. No, non credo neanche per un attimo che sia cambiato.
            Occhiali da sole nonostante il sole sia tramontato, il giubbotto di pelle nonostante ci siano più di venti gradi, uno strumento in spalla nonostante lui non sappia neanche fare il do sul pianoforte. È tutta apparenza, tutta presentazione. Cinque minuti e ragazze e ragazzi saranno ai suoi piedi.
            Parla con i suoi amici reflex–dotati e dall’andatura lenta, come a dire “Sì, siamo venuti e non ce ne frega niente”. Parla con loro e sembra non vedermi, forse spero che non lo faccia, eppure solleva gli occhiali e mi fa un cenno col capo.
            Quanto sono cresciuto, eh. Sorrido, faccio un cenno con la mano. Ho anche esagerato, per uno come lui. Aspetto che Alberto entri per poter vedere la faccia basita e disgustata di Gabriele, invece, da maschio alfa che conduce, finisce in coda agli altri. Mentre aspetta di entrare, si gira di nuovo e mi guarda.
            Se quello è davvero un sorriso, sono tentato di tirargli dietro la bottiglia di birra. Ma no, non lo farò. Maturità, Claudio, maturità ed autocontrollo. Ma quello continua a sorridermi come se avessimo fatto il militare insieme. La realtà è anche peggiore, visto che tra altri e bassi siamo stati insieme quasi un anno.
            Entra, alla fine. Scommetto che aspettavano solo il suo gruppo cover–di–vai–a–capire–cosa per iniziare. Mi giro verso Gabriele, che ha lo sguardo da tutt’altra parte. Il suo modo di farmi capire che: “Sì, caro il mio Claudio, guardava proprio te.”
            «Non dirai niente, giusto?» chiedo in un sorriso. Un cane abbaia in lontananza. Vorrei considerarla una risposta valida.
            «E che ti devo dire?» chiede Gabriele, guardandomi con occhi spalancati. «C’avrete pure ventiquattro anni, ma quello se la pensa ancora come un sedicenne.»
            «Sarebbe a dire?»
            «Sarebbe a dire tienitela nei pantaloni e non ubriacarti, che ti guardava in modo strano.»
            Si alza. Lo guardo per un secondo, indeciso se ridere o protestare. Mi crede davvero così ingenuo? Dopo avergli fatto scoppiare la testa di Albertodiquà e Albertodillà per l’anno seguente alla nostra rottura? Come no. Non farei patire la stessa solfa a Gabriele nemmeno per un giorno soltanto. Figuriamoci essere così cretino da considerare, ancora, i modi di Alberto, costruiti meticolosamente e studiati per metterti con le spalle al muro.
            Ma quando mai. Entro con Gabriele e afferro più saldamente la bottiglia. No, non mi ubriacherò, logggiuroh, ma ci vuole molto, e ripeto molto sostegno alcolico quando la band di Alberto si dispone in fretta sul palco, illuminati da luci rosse e viola.
            Perché Alberto è lì, al centro, che sta togliendosi strati di vestiti davanti al microfono, lasciando cadere il giubbotto e la maglia sulle assi di legno. Rimane in una maglietta aderente dai colori indefiniti sotto quelli sgargianti dei riflettori.
            Accarezza il microfono come fosse un… oddio, ma costa sto pensando.
            «Ciao ragazzi, sentite che caldo qui dentro?»
            Alcool.
            Alcool.
            Non ce la posso fare.

 
2. E non soffro se mi sento solo, soffro solo se mi fai sentire dispari.
 
            «E questo sarebbe suonare?» mi urla Nadia in un orecchio, per sovrastare gli amplificatori al massimo. Sarà un concerto di musica indie ma neanche nelle mie serate metal di adolescente sono rimasto così assordato. Non le rispondo. Non riesco a staccare gli occhi dal palco.
            La sento sbuffare sonoramente –chissà perché queste reazioni le sento benissimo, sempre e comunque–. Probabilmente starà maledicendo Valentina e Francesco che non sono venuti. Hanno detto che dovevano studiare per gli esami della sessione di settembre e Nadia è venuta da sola, riuscendo a strappare il motorino a suo padre.
            «Nadia, te lo ricordi quello?» chiede Gabriele.
            Mi giro verso di lui. Non oserà.
            «Ma chi, il cantante?»
            «Eh, l’ex di questo stoccafisso qua.»
            Ha osato. Se non fosse per la luminosità alterata, avrebbero già visto come sono arrossito. Invece mi limito ad alzare le spalle e a mandarli a quel paese in silenzio, come se fossi troppo superiore per quel genere di discorsi infantili.
            Ma dov’è la mia superiorità ora che siamo a pochi metri dal palco? Fortunatamente rimaniamo in disparte dalla massa di persone che ballano (“ballano”, un concetto relativo) praticamente addosso ad Alberto. Sarei tentato di andare lì, prendere ogni ragazzina per mano e spiegare loro come quel bel ragazzo dai bicipiti definiti e dai riccioli scuri non condivide le fantasie che stanno elaborando nella loro testa.
            Sono un invidioso del cazzo. Che cosa invidio, poi, dovrei saperlo. Invidio un tipo che ha assecondato le mie paroline dolci e le mie proposte di andiamo–da–me–no–andiamo–da–te–basta–che–concludiamo, almeno fino a che gli sarebbe convenuto. Appena cominciava a diventare veramente reale, l’avevo trovato abbarbicato ad uno, contro un lampione.
            Proprio dopo una serata del genere.
            Complimenti vivissimi, Claudio. Sono caduto così in basso da avere nostalgia o gelosia nei confronti di una persona tale? Ma per favore.
            Ma non riesco a fare finta di niente proprio perché lui mi ignora tranquillamente. Dopo quell’accenno di saluto, fa vagare la sua voce e il suo sguardo in tutte le direzioni, si ferma a pochi metri da me, mi oltrepassa, mi trapassa ma non mi guarda mai davvero. Questa cosa sarebbe bastata a farmi uscire di testa, qualche anno fa. Ora, devo ammettere, non riesco ad essere indifferente, ma non mi sto ancora strappando i capelli.
            La mia forza, ora, sta nel conoscerlo perfettamente. Dovevo sorbirmi gli abbracci a tutti, le congratulazioni con chiunque, gli sguardi languidi con i primi sbarbatelli che lo venivano ad adorare dopo i concerti mentre rimanevo in disparte a far da tappezzeria ai locali più improbabili.
            Eppure, eppure… Andiamo, sono il solo di noi tre a vederlo? E Gabriele penserà pure ad Alfio, Nadia –figuriamoci– lei ha in testa solo ed esclusivamente Silvio. Va bene, stanno insieme da anni ormai, ma chi oserebbe negare tutta la bellezza di Alberto, in questo momento?
            Facciamo finta per un momento che non siamo mai stati insieme e che non provo sentimenti contrastanti per lui. Mai.
            In un momento sgombero la mente. Non era poi così difficile, tutto sommato. Faccio finta di guardare uno sconosciuto e, paradossalmente, mi riesce bene. E mi sento esattamente come tre anni fa. Non ho mai avuto grande simpatia per i gay bar e le serate a tema, ma la musica live mi è sempre piaciuta. Alberto era lì che cercava di accordare la chitarra, senza successo, seduto sul bordo del rialzo che doveva fungere da palcoscenico. Scherzava con i suoi amici, flirtava con qualche ragazza ma rimase a fissare me, per tutta l’esibizione.
            Non avevo saputo resistergli. Allora, come adesso, aveva una maglietta attillata e i capelli scombinati, il viso liscio e gli occhi sornioni. Sembrava uscito da un videoclip di qualche artista emergente americano, troppo bello per trovarsi in mezzo a tanti ventenni italiani. Sembrava essere stato messo lì per ricordare a tutti come le eccezioni esistono, e le bellezze rare vivono e basta uno sconosciuto per accendere le tue fantasie, anche quelle che non pensavi di poter avere.
            Anche se avevo già una certa esperienza in materia sessuale, essere guardato da lui, quella notte, era stato come aver perso la verginità una seconda volta. Muovendosi sul palco con gesti fluidi, lenti, mai ridicoli e cantando con quella voce ancora un po’ acuta ma velatamente roca, conquistava i suoi amanti ad uno ad uno.
            Quella sera aveva conquistato me e io, nell’anno a seguire, pensavo di aver fatto colpo ugualmente. Vane speranze, ovviamente.
            Vado per bere un altro sorso ma ho finito la birra. Gesù. Se vado ora a prenderne un’altra, Gabriele mi lancerà lo sguardo da maestrina saputella e Nadia gli farà la predica. E poi la farà a me, è logico. Mi sa che aspetterò. Solo che se aspetto, continuo a guardarlo fare l’amore con quel microfono, e vorrei evitare di rimanere qui, fermo, con aria trasognata, a sperare di essere io tra le sue mani.
            Mi giro, faccio un cenno a Nadia, che capisce e annuisce. È come se, distogliendo lo sguardo, mi fossi distratto da un concetto necessario e fondamentale alla buona riuscita della serata e della mia vita. Come non guidare quando si è sbronzi e chiedere sempre prima l’età, se si hanno dubbi.
            La verità è che so di fare fatica a lasciarlo stare, mentre lui di fatica non ne ha mai fatta. Lo invidio molto da un punto di vista caratteriale, soprattutto su questo fronte. Lui è capace di scatenare bufere e passarci attraverso, indenne, mentre sono quelli intorno a lui –o forse solo io– a pagarne le conseguenze.
            Mentre mi dirigo verso l’open bar, acquisto una nuova consapevolezza. Se io fossi stato come lui, magari a quest’ora saremmo ancora insieme e non a metri di distanza. Ci ritroveremmo su un letto a fare tutto quello che sappiamo e vogliamo fare, in quella maniera un po’ romantica e un po’ selvaggia che ha lui di fare sesso. Cielo, sentitemi adesso… Meno male che Gabriele non può leggere i miei pensieri.
            Ma perché mi lascio sempre andare a questi pensieri? Voglio sempre quello che non posso ottenere e che magari non voglio proprio. Lo desidero, certo, in un anfratto dei miei pensieri, ma sarebbe lui, con tutta la sua noncuranza e la negligenza, a vincere su di me.
            Non capisco se mi disgusta o meno.
            Chiedo un’altra birra appena finiscono di suonare. Non oso girarmi. Non m’interessa. Avrà già messo gli occhi su qualcuno, e quel qualcuno, per fortuna o per sbaglio, non sono io.

 
3. Chi ti assale, ti uccide sempre lì, in attesa, di un tuo sbaglio, di una fuga o resa.
 
            Com’era prevedibile, va molto meglio appena sale l’altro gruppo di squinternati ad apportare un grande –non richiesto– contributo alla musica di questa città. Nadia mi chiede se si chiamino tutti con titoli di trattati filosofici o nomi di filtri di Instagram. Gabriele rischia il soffocamento, io sento la birra su per il naso e faccio del mio meglio per rimanere in vita.
            Mentre prendiamo in giro l’ennesimo agglomerato di traumi cantati e assassinati agli strumenti, vado per guardare l’orario. Portafoglio, chiavi, biglietto dell’autobus usato e, probabilmente, sopravvissuto a due lavaggi in lavatrice. Nessuna traccia del telefono.
            «Ho scordato il cellulare in macchina» dico a Gabriele, nemmeno a voce tanto alta, non ci vuole molto per sovrastare la lagna melanconica che strugge i ragazzi sul palco. «Sto tornando.»
            Mi annuisce tra le lacrime per un’altra battuta di Nadia che non ho sentito. Sospiro e mi faccio largo tra la folla, ora più corposa, fino ad arrivare all’uscita. Gabriele mi dice di non ubriacarmi ma alla fine è lui che è invaso dall’ebbrezza solo respirando aria.
            Uscire da quella bolgia è rinfrescante. Il sole è definitivamente tramontato e le stelle cominciano a farsi vedere in cielo. Tira un venticello fresco e mi stringo le braccia intorno al corpo. Man mano che mi districo tra gli altri capannoni, la musica va scemando. Un po’ di pace.
Alberto mi attraversa i pensieri per un secondo. Carino è carino, lo ammetto, ma il nervosismo lo lascio da parte.  C’è un motivo per cui ho smesso di frequentare i posti dove andavamo, ed è –quelle surprise– proprio lui. Incontrarlo casualmente era qualcosa che potevo tenere in considerazione ma non voglio che mi faccia male come se fosse passata solo una manciata di giorni, anche perché ho avuto altre relazioni nel mentre e lui non mi è passato per la testa nemmeno per un secondo.
Forse un paio di volte, non di più.
            La ghiaia del parcheggio fa un rumorino piacevole. Ascolterei questo scricchiolio per sempre. La macchina, le chiavi, il telefono caduto sotto il sedile. Guardo l’orario: appena le otto. Andranno avanti fino alle dieci e poi ci sarà la proiezione di un film di qualche regista uzbeko o qualcosa del genere.
            Mi getto sul sedile. Ma perché, perché devono ricorrere a tutte queste particolarità? Va bene, scoprire cose nuove è divertente, ma questi ricercano la novità anche a costo della propria credibilità. Sono ridicoli. Come lo siamo stati noi, però, e come lo siamo ancora. Avremo di che vergognarci per sempre, continuando ad andare ad eventi simili.
            Chiudo gli occhi, inclinando il capo sul poggiatesta. Ma chi se ne frega, domani sarà un giorno uguale a tutti gli altri. Lavoro, casa, telefonata a mamma, telefilm del pomeriggio, chiamare Gabriele per uscire, costringere Francesco e Valentina ad uscire a loro volta –bastardi– per non essere venuti stasera.
            Sorrido, pregustando già domani, quando mi arriva un messaggio. Se apro gli occhi ora, sarà arrivato davvero. Potrei anche dimenticarmi di nuovo, casualmente, il telefono sotto il sedile e tornare ai fatti miei.
            Certo, come se fosse possibile. Ormai gli avvisi squillanti della tecnologia fanno più paura dell’orologio biologico di una quarantenne nubile. Sbuffo. Vediamo chi è. Una sequenza di numeri che non ho salvato in memoria. “Entri oppure rimani fuori?”. Ma che? Non è Gabriele e non è Nadia. Chi diavolo è?
            “Ma chi sei?”
            “Allora hai cancellato il mio numero.”
            Sudore freddo. Stiamo scherzando? Scoppio a ridere, e non di felicità. Vedi un po’ quel cretino. Ti ho capito, Alberto. Prima ancora che possa rispondere, mi arriva un altro messaggio. Giuro che farò il bagno a questo telefono, prima o poi. Potrebbe finire il lavatrice al prossimo lavaggio, pensandoci bene. “Guarda a destra.”
            Sono tentato di passare al lato del guidatore, inserire le chiavi e sgommare via come un pilota di F1, e magari realizzare il buon proposito di arrotare qualcuno.
            Alberto fa un fischio da minatore e mi volto a guardarlo. È appoggiato alla sua, di macchina, cinque o sei vetture più in là. Di nuovo quel cenno col capo, come se la sua voce fosse troppo preziosa per sillabare una o due parole.
            Sorrido, un sorriso tirato. E ora, che si fa? Rimaniamo qui a guardarci senza fare niente, lui tranquillo e impassibile come sempre e io lievemente infastidito?
            Sembra leggermi nel pensiero. Il telefono vibra a lungo. Mi sta chiamando. Seriamente, Alberto? Dovrei avere un estintore qua dietro, forse riesco a prendere, se non lui, almeno la sua macchina. Invece, quale il cretino che sono, rispondo.
            «La tua furbizia non è proprio a livelli esponenziali, lo sai?» dico tutto d’un fiato, prima che possa parlare.
            Alberto ride al ricevitore e io lo guardo. Gesù, il suo modo di ridere. Abbassa sempre la testa e poi la rialza, come se fosse stato in apnea. «Ciao, Claudio.»
            «Ciao, Alberto» rispondo io. «Hai soldi da spendere oppure ti pesa il culo?»
            «Vorresti che venissi là?»
            Sto per rispondere in maniera affrettata ma conosco i suoi giochetti. «Resta dove sei, grazie.»
            Alberto sembra interdetto. Lo vedo alzare le spalle e sorridere. «Che succede se vengo?»
            Pff. Innanzitutto, se era un tentativo di ambiguità, vorrei ricordarti che alla mia età, bene o male, le ho già sentite tutte e non mi stupisco più. Te lo spiego io che succede. Succede che i tuoi modi timidini e dolci svaniscono, diventi tronfio come un tacchino a Natale però sarai abbastanza bravo da non darlo a vedere, non tutto e non subito, mescolerai la tua autocelebrazione ad un vago interesse per quello che faccio e quello che sono e ad un certo punto citerai uno scrittore che non conosco, un gruppo che non ascolto, un filosofo che non ho studiato. Farai sfoggio della tua cultura superficiale e del tuo fascino costruito ad arte e io non ti potrò resistere.
            Ma sono cambiato, non succederà comunque. E allora ti sfido, Alberto. Vieni qui e vediamo che cosa vuoi fare. «Senti, fai un po’ come ti pare.» Mi sporgo e apro lo sportello del guidatore. Chiudo la chiamata e attendo. Sento i suoi passi che si avvicinano e in pochi secondi è di fronte a me. Fa il giro da davanti, stringendosi tra la mia macchina e quella davanti, dandomi una visione del suo posteriore nei jeans logorati nei punti migliori.
            Provaci, Alberto, devi solo provarci. Stai per ricevere un’amara delusione.
            Appena si lascia cadere sul sedile, entra una ventata che sa di sudore e dopobarba. L’odore di post–concerto. Sorride come un cretino, illuminato dalla luce interna.
            «Piaciuto il concerto?»
            La sua voce è diventata più calda, più matura. Claudio, concentrazione. «La tua esibizione è sinonimo di tutto il concerto?» Cerco di fare il sarcastico, ma con certe persone è come parlare al muro.
            Alberto, prevedibile, ride. Si passa una mano tra i capelli. Ti pare che non lo sappia che vuol dire, nel linguaggio universale del corpo, “Guardamiguardami”? «Ma dai, non fare lo stronzo. Siamo i migliori, c’è poco da fare.»
            «Non sono proprio i migliori a suonare per ultimi, di solito?»
            «Eh, ma io sono abituato ad essere primo.»
            Cosa mi tocca sentire. «Mi devi dire qualcosa o mi dai il permesso tornare dentro? Gabriele mi sta aspettando.»
            «Ti senti ancora con quello?» Alberto si mordicchia il labbro. Non gli è mai andato molto a genio. Ovvio: temeva potesse portargli via il suo giocattolino. Mi sale un senso di nausea nel pensare al vecchio me in quei termini.
            Non gli rispondo. Mi limito ad alzare le sopracciglia come a dirgli: “Secondo te?”
            Spero capisca.
            Pretendo troppo.
            «No, sul serio, mi fa piacere che sei venuto.»
            «Non sono mica venuto per te.»
            «Sì, ma ci siamo incontrati.» Accavalla le gambe per quanto il volante glielo permetta, reclinando appena il sedile. «Allora, come stai?»
            «Bene. Tu?»
            «Bene.»
            Qui finisce la nostra appassionata conversazione. Non è che siamo a corto di parole, potremmo anche essere più amichevoli, ma se aprissi la bocca adesso mi uscirebbero frasi di cui o mi pentirei o mi vergognerei. Meglio tacere.
            Lui sembra non notarlo, il silenzio. Non che sia mai stato un gran chiacchierone ma in una situazione del genere comincerebbe a sviolinare e girare intorno a qualcosa. Qualcosa come fare sesso, probabilmente. Ma che dico, ora sono io che voglio stare al centro dell’attenzione.
            È questo il mio problema: continuo a pensare che Alberto faccia così perché voglia qualcosa, la realtà è ben diversa; lui non vuole e non ha mai voluto niente. Questa, ai miei occhi, è una bella fregatura. Usi e consumi, ma in realtà non c’è niente che ti stuzzichi veramente.
            Eh, Alberto? Non è così? Scopare a destra e a manca non riempirà il tuo vuoto, che io so che c’è e tu nemmeno riesci a concepirlo. Sarebbe già una vittoria se ammettessi che, effettivamente, non sei perfetto così come il Signore ti ha fatto, insensibile, bellissimo e indipendente da ogni affettività possibile.
            Eppure, dev’essere ironicamente la mia serata fortunata. Perché all’improvviso lui si sporge verso di me e a fior di labbra mi dice: «Mi manchi, sai?»
            E io sto per spostarmi, dargli un cazzotto se proprio devo, mettermi a ridere, sto per fare qualcosa di intelligente, lo giuro, ma lui mi bacia.

 
4. Mille modi in cui sorridi ma poi non ridi mai.
 
            Facciamo mente locale.
            Ci sono un evento di musica indie, un parcheggio con la ghiaia, una macchina e due ragazzi che si stanno baciando. Così sembra una barzelletta, o l’inizio di un film a luci rosse. Il dettaglio terribile è che io, nel mentre, sto ricambiando.
            Farò finta di stare prendendo tempo. Va bene. Dunque, Alberto mi bacia, io ricambio. È vero che noi uomini abbiamo le cose facilitate per capire se una cosa del genere piaccia o meno, però con lui non si può mai sapere.
            E ha pure un buon sapore. Passa la lingua al sapore di menta sopra la mia. Devo sapere dannatamente di birra. Non è il miglior aroma per un bacio, eppure lui sembra gradire. Approfitto di un momento in cui il bacio si chiude, si affievolisce, per staccarmi. Resta per un attimo con gli occhi chiusi, prima di riaprirli e sbattere quelle lunghe ciglia che si ritrova.
            Inspiro a fondo. Quanto disagio in una situazione del genere. «Sei impazzito o sei a corto di ragazzini scalpitanti?»
            Alberto mette il broncio. Tie’, colpito. «Sei uno stronzo se fai così, Cla’.»
            Rido. Questo è il colmo. «Sarei io lo stronzo, qui?» Mi scosto e mi metto a sedere. Nonostante gli sportelli siano aperti, comincio a sentire caldo. «Questo cornuto che hai di fronte è l’unico tra i presenti che non si possa definire stronzo.»
            Alberto incrocia le braccia, alza un sopracciglio, fa di tutto per sembrare scettico. Non riesco a credere che non si renda conto di quanto sia ridicolo. E lo dico io, che ho appena partecipato con un certo interesse ad un’effusione non esattamente ‘da amici’ con il tipo che mi ha tradito. «Ce l’hai ancora per quella storia?»
            «Se per “quella storia” intendi tu che limoni il primo che passa dopo un anno che stavamo insieme, no.» Sbuffo. Le parole giuste non si trovano mai nei momenti critici. «Ce l’ho con il tuo atteggiamento, per ora.»      
            Abbassa lo sguardo, colpevole. «Lo sai che non ci posso fare niente.»
            Questo è il colmo. Rido, e so di schernirlo e di ferirlo, ma non mi interessa. «Questa è una cazzata delle tue, Albe’.»
            «Che vuoi che ti dica?» Si sporge verso di me. «Non te l’ho mai nascosto, Claudio. Ti pare che scherzavo quando dicevo che per me eri importante? Be’, se lo pensi non importa, perché non è così.»
            Ci guardiamo a lungo. «No, questa me la devi spiegare.» Prendo una sigaretta e me l’accendo. Non si affrontano certe cose senza nicotina. Alberto fa un cenno con la testa al pacchetto che ho in mano. Al solito, no? È tutto deja–vu e revival, con lui. Gli do quella che ho acceso per me e ne prendo un’altra. Lui sorride.
            Potrò essere un cretino, uno stronzo, tutto quello che vuole, ma è pur vero che quel gesto era nostro. Non è stata la mia azione più furba della serata, lo ammetto. Tutto questo non è particolarmente intelligente. Dovrei essere dentro, senza dare speranze a me e incoraggiamenti a lui.
            Alberto aspira a lungo, trattiene il fumo, poi lo lascia uscire da sé, senza soffiarlo. È impossibile dire se sia un altro modo di fare misurato, perché è intento a pensare. Nonostante non lo dia a vedere, è quella piccola ruga in mezzo alle sopracciglia che lo tradisce, il modo in cui arriccia appena le labbra, come se dovesse criticare qualcosa da un momento all’altro.
            «E che c’è da spiegare? Sei stato quello che è riuscito a sopportarmi più a lungo.»
            «Sii serio.»
            «Lo sono» continua lui. «Noiosamente serio come non lo sono mai stato. Forse non c’è una spiegazione. Forse mi piace solo saltare di palo in frasca, e che c’è di male? Non tutti sono come te, Claudio, solo che a te non interessa saperlo.»
            «Ma che stai dicendo?» Madonna mia, questo ragazzo mi fa uscire di testa dopo così tanto tempo. Ha una capacità innata nel farmi innervosire appena apre la bocca. «Che me ne frega se non fai la suora? Puoi farlo quando ti pare, ma io –nelle mie relazioni– voglio qualcosa.»
            «Qualcosa che io non potevo darti.»
            «Qualcosa che non potevo darti» Gli faccio il verso. Lui mi guarda male. Chissene. «E sticazzi non ce li metti? Dio, sei così cretino, Alberto.»
            «Eh, spiegami perché!» fa lui. Un po’ di cenere cade sul sedile, ma non ho la forza per farglielo notare. Mi prosciuga. Alberto mi prosciuga ogni volta.
            «Alberto, siamo stati insieme un anno. E ti pare che io in un anno mi sia lamentato? È stata quella volta che ti ha fottuto, perché non te ne è fregato niente di fare qualcosa!»
            «Ma che cazzo dovevo fare, Claudio!» Alberto tira via la sigaretta in un gesto arrabbiato. «Con che faccia potevo venire da te e dirti: “Oh, guarda, è tutto come sembra ma, giuro, non volevo!”?»
            «Con la faccia dell’onestà» dico io. «Perché se ti fosse dispiaciuto, me lo saresti venuto a dire.»
            «Eh, sembra semplice così…»
            «Lo è.» Butto anche io la sigaretta, ormai arrivata al filtro. Il telefono squilla. Sarà Gabriele, ma lo lascio stare. Non riesco a credere a quello che mi sta dicendo. «Dio mio, ma non lo vedi? Scegli sempre la strada sbagliata, ti basta fare il figo, quello che non ha bisogno di nessuno e poi tie’, ti salgono su i rimorsi. E non so nemmeno quanto possa fidarmi.»
            Alberto rimane in silenzio.
            Io li ho sempre odiati i suoi silenzi. Forse perché non è mai stato particolarmente comunicativo. Di poche parole, lui. Con le persone del genere, ogni singola frase è un regalo, una benedizione. Mi sono sempre sentito messo da parte, non considerato, alle volte ignorato, tutte quelle volte che decideva di chiudermi fuori in quella maniera.
            «Hai detto che ti manco.» Perché devo tirare fuori il discorso adesso? Proprio adesso?!
            «Un po’» ammette Alberto. «Non ti so dire nemmeno io in che termini.»
            «Nel senso che non sai se ti manco io o le nostre serate?»
            «Guarda che non penso solo a quello.»
            «Non è che dimostri altro.» E non lo dico per accusarlo, ma perché è vero. Nemmeno lui sa quanto vale in potenza. Lo vedo da come mi annuisce, adesso, perché forse, per una volta, Alberto sembra capire. Non penso di averlo giudicato male in tutti questi anni, ma è un uomo, e lo sono anche io. Non posso perdere tempo in relazioni distruttive, serate buttate e baci–che–non–capisco–se–ti–voglio.
            Era divertente, prima, con la freschezza del non sapere come sarebbe andata. Adesso è ridondante, e noioso, e fastidioso. «E a te va bene così?» chiedo.
            Alberto alza le spalle. «Forse sì, ancora un altro po’.»
            Rido. Rido perché mi ricorda qualcosa di nostro, solo nostro, di nuovo. «Era quello che mi dicevi prima di buttarti fuori, quando temevo che mia madre sarebbe tornata da un momento all’altro. “Ancora un altro po’”, e ci mancava poco che lo scoprisse.»
            Sorride, ricerca nella memoria quei momenti. «Una volta mi hai tenuto sul balcone per un quarto d’ora, prima che riuscissi a svignarmela.»
            «Dài, poi ce l’hai fatta ad uscire!»
            «Peccato che fosse gennaio ed ero praticamente nudo.»
            Una piccola sensazione di calore mi si forma nel petto. Sono quelli che chiamo ‘discorsi per vecchi’: nulla da raccontare, tanto da ricordare. Ti giostri tra quello che è successo, tra i ‘ti ricordi quella volta?’ e i ‘e poi, quando abbiamo fatto’, senza apportare nulla di nuovo. Va bene così, insomma. È più di quanto pensassi, dato che non pensavo a niente.
            «Quindi» dice Alberto. «Quindi questo, più o meno, è essere amici?»
            «Perché, non hai metodi di paragone?» scherzo io.
            «Be’, tra gli ex no.»
            Giusta osservazione. «Non lo so» ammetto. Il calore va scemando pian piano, insieme ai nostri sorrisi. «Non so cosa vuoi, cosa voglio io, cosa siamo. Non so neanche se ti rivoglio, nella mia vita.»
            «Nessuno ha parlato di questo.»
            «Già, appunto. Non so. Tu cosa vuoi?»
            Alberto gioca un po’ con le pellicine delle dita. Sembra quasi un bambino, in questi momenti. «Parlare con te non è stato male. Mi sono sentito… sollevato, anche se non è che abbiamo discusso di chissà cosa.»
            «Sì, lo stesso per me» dico.
            «E anche baciarti non è stato male.»
            «Non è mai stato male baciare te
            Mi giro a guardarlo. Sorrido. Lo sai bene, Alberto. Sei sempre stato la mia debolezza, dal momento in cui ti ho visto ad ora. Non me ne vergogno. Io ci faccio la figura dello stupido, ma almeno sono onesto: baciare te è sempre stato superiore. E questo tu lo sai, sennò non l’avresti fatto.
            «Mi dispiace per il bacio, comunque» dice lui. «Davvero, colpi di testa.»
            «Uno dei tanti.»
            «Lo so, sono un idiota a volte…»
            «A volte?»
            Alberto ride. Si lancia su di me, è un aggredirsi per gioco, per definire i limiti. Io non mi sposto, lo spazio è poco, mi difendo dalla sua stretta. Il cuore batte forte, mi fa il solletico, mi viene da ridere. C’è un intreccio di mani e di corpi, e lo spazio tra i sedili, il cambio e lo sterzo non facilitano i movimenti.
            Ad un certo punto, mi ritrovo con la testa fuori dalla macchina, completamente disteso sui sedili (come ci sono finito?) e Alberto sopra di me, un po’ di lato, scivolato per metà.
            Ci guardiamo.
            È troppo presto per qualcosa del genere.
            Oppure è troppo tardi.
            Sto per protestare, dire che così non va, che non si faccia prendere la mano, che non deve pensare che tutto gli sia dovuto, come sempre, quando Alberto ride. Lo vedo ridere in  quella maniera per la prima volta. Sincero, con gli occhi brillanti, i denti che si vedono e il petto che si alza.
            Lo guardo ridere e non capisco perché lo stia facendo, ma non importa. Non mi sta prendendo in giro, non mi sta facendo il verso, non sta cercando di ammaliarmi, non mi provoca. Ride e basta. Questo è l’Alberto che ho conosciuto, amato, per il quale mi sono dannato.
            Inclino un po’ la testa, per quanto ci riesca. Mentre lo tiro giù, verso di me, so che è il momento sbagliato, sbagliatissimo, il peggiore di sempre, eppure giusto. In ritardo di qualche anno e di qualche fegato roso, ma giusto. 
















A/N: Buonasera miei prodi. 
Mi sembra sempre di stilare relazioni ogni volta che devo scrivere le note. Vorrei andarci onestamente con più spensieratezza, inserire tutti i 'cioè' e i 'capito, no, ovvio, logico' di interiezione ma mi sforzerò, ancora una volta, per sembrare una personcina a modo.
Questa storia è una storia assolutamente leggera e senza pretese. Scritta più come tributo alla bellissima canzone dei Marta sui Tubi -link sopra- ma non è in alcun modo una song-fic. Giusto per precisare. Mi rendo conto che non ha lo stesso valore 'stilistico' delle altre (sento la voce di Regina George nella mia testa, intenta a vittimizzarmi personalmente mentre azzardo una considerazione sul mio medesimo operato) però è stato uno stacco carino. Spero vi piaccia, giusto per passare un quarto d'ora a leggere qualcosina soft.
Poi, certo, se non gradite sono qui per darvi un caloroso abbraccio di comprensione. Sempre disponibile a piangermi addosso quando si parla di quello che so e che non so fare. 
La solita tiritera: GRAZIE a chi recensisce/mette tra i preferiti e quant'altro e lo fa di sua spontanea volontà, grazie a chi legge e pensa di flammarmi con amore, grazie a chi arriva fino in fondo. Mi sembra quasi scontato dirlo, grazie in generale insomma.
E un cuoroh alle mie amiche di dysaggioh, che sopportano tanto e molto.
A presto <3
   
 
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