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Autore: JennyWren    25/01/2014    7 recensioni
Mi porse una foto indicando i volti sorridenti dei ragazzi con la pettinatura a caschetto - Lui è George, poi c'è Paul, Ringo e quello dietro più in alto è..
- John - conclusi la presentazione fissando il volto del ragazzo dai capelli chiari e lo sguardo magnetico che sfoggiava un sorriso divertito.
Serrai la mascella stringendo la foto stretta tra le mani, il mio sguardo si indurì all'istante, avrei bruciato quella maledetta foto se solo l’avessi guardata ancora.
- Puoi ridarmi la foto? - la ragazza chiese titubante notando il cambiamento della mia espressione.
- Tienitela - Risposi con un tono glaciale
Dal cap. 21
Mi si bloccò il respiro per un attimo e un brivido mi salì sulla schiena, lasciandomi a bocca aperta. - Cosa? - Chiesi quasi senza fiato.
Patti mi guardò perplessa - Beh, Paul ha lasciato Jane appena dopo il tour scorso.
Il cuore batteva in petto come un martello pneumatico e sentivo la gola terribilmente secca. - Vado a bere - Mi diressi al tavolo con le bibite ma il mio sguardo si posò su l’ultimo arrivato, il ragazzo dai capelli neri in giacca e cravatta
Paul.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, George Harrison, John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Death of an Hero.


 

- Oggi si fa l'albero! Oggi si fa l'albero! - Canticchiava il piccolo George di appena 8 anni nel salotto della casa londinese, pronto per uscire a comprare l'albero di Natale.
Raccomandai Elizabeth di tenere d'occhio Annie, ultima figlia con Steve prima del definitivo divorzio, per quelle poche ore che avremmo trascorso al negozio.

Sono circa le 15, quindi dovrebbe fare merenda, se ha fame dalle soltanto la purea di mele, nella dispensa. 
- Al secondo scaffale a sinistra – Concluse lamentandosi – Lo so mamma, lo so, sta tranquilla.

Stavo per replicare ricordandole che le raccomandazioni non sono mai troppe quando lo squillo del telefono mi interruppe.
 

- Sì? - Risposi indicando con gli occhi alla maggiore che la discussione prevedeva ancora qualche punto.
- Judy! - La voce mi fece spuntare un sorriso sulle labbra senza paragoni.
- Johnny! - Esclamai.
- È tanto che non ti sento, come stai, mia cara sorellina? - Chiese con quell'inconfondibile accento inglese che non accennava a sminuire nemmeno dopo tutto quel tempo in America.
- Sto bene, oggi pomeriggio ho in programma di comprare un albero per Natale. Georgie ne vuole uno vero a tutti i costi.

- È zio Johnny? - Chiese George cercando di tirarmi via il telefono.

- Sì è lui, dai che dopo te lo passo - Mi rivolsi al piccolo che ora correva dalla sorella per dirgli che al telefono c'era il loro zio preferito.

- Io credo di farlo in ritardo, anche se Sean ha tirato fuori tutti gli addobbi da una settimana. - Sentii il piccolo ridacchiare – Ehm, tu hai programmi per Natale?

Pensai al fatto che negli ultimi due anni il padre dei ragazzi non si era fatto sentire e dunque risposi – No, niente, anche perché Steve non credo si presenterà- Abbassai il tono di voce, sicura che non mi sentissero.

- Che stronzo – Commentò John –Beh allora che ne dite di venire qui?
Spalancai gli occhi – A New York.
- Beh, sì. È da tanto che non passiamo le feste insieme e mi andrebbe quest'anno.
Sorrisi un po' malinconica, rendendomi conto di quanto mi mancasse - Okay, ma non lo dire a George, gli facciamo una sorpresa.
- Giuro che non dico niente. Passami la pulce.

Ero così contenta di passare le feste in famiglia che ero prossima al pianto - Johnny? - Provai a tenere un tono fermo ma la voce era spezzata.

- Hey, riconosco quel tono e no, niente sentimentalismi adesso perché mi fai commuovere e ho un'intervista, devo essere bello per i miei quarant'anni.
- Sei il solito cretino Winston. 


Passai la chiamata a George che era letteralmente entusiasta di parlare con suo zio. Rideva di continuo ed ero quasi curiosa di sapere cosa si dicessero quei due di tanto divertente.

 La giornata fu allegra, comprammo un bell'albero che caricammo sull'auto e George era talmente di buon umore che si offrì per apparecchiare la tavola e far cenare la sorellina.

Io ed Elizabeth addobbammo l'albero chiacchierando di moda e di scarpe, anche se sapevo che tutto quel discorso celava il desiderio di un completo che aveva visto in un negozio. Glielo avevo già comprato ma mi divertiva un mondo sentire i suoi giri di parole e le lusinghe verso la mia cucina che sapevo essere tutto, tranne che “deliziosa”.

  

°oOoOo°


 

- George, Elizabeth, forza che il bus arriva tra poco! - Esortai i ragazzini che di lì a poco avrebbero fatto capolino in cucina.

Poggiai la piccola Annie nel seggiolone e mi voltai avendo avvertito i passi affannati dei due ragazzini dietro di me.
Ed ecco il copione mattutino: George con la camicia fuori dai pantaloni ed Elizabeth con la gonna messa male e lo zaino su una sola spalla.

- Sembrate due devastati – constatai, osservando il disordine dei primi due figli.

Annodai la cravatta di George concludendo con un buffetto sulle guanciotte tonde del mio bambino. Era in quarta elementare ma per me era ancora il piccolo che gattonava per casa con le manine paffute.

- Mamma! - Si lamentò dopo la raffica di baci sulle irresistibili guance.
- Avanti teddy boy prendi il pranzo sulla cucina e fila dritto a scuola – Ordinai in tono fintamente autoritario.

 - Cos'è adesso un teddy boy?- Chiese la maggiore spazzolando la frangetta.
- È un modo di dire di Liverpool, come “figo” – Le sistemai la divisa della scuola media. - Guarda qui che signorina!
- Si certo, sono piatta come una tavola - Si lamentò coprendosi con il cappotto.

 -Mettici due mele – Suggerì il fratello sulla soglia della porta. – Cosi puoi smetterla di riempire i reggiseni con la carta igienica.
-Stai zitto ritardato! – Cercò di afferrarlo, rossa dalla vergogna.
 

Sbuffai spingendoli letteralmente fuori la porta, calpestando il giornale del mattino ed aspettai fino a che il bus portò via i ragazzi che salutarono con un gesto timido della mano.
Afferrai il giornale calpestato e lo poggiai sul tavolino d'ingresso dove notai il telefono fuori posto.
Preparai la colazione anche per me, mentre Annie giocava con la sua bambolina. Il bollitore del té coprì totalmente i suoni della segreteria telefonica che mi avvisavano delle chiamate perse.

Appuntai mentalmente di ascoltarli dopo la colazione.
 

Era quello il mio momento di pausa: con i ragazzi a scuola, Annie che giocava in silenzio, solo io e il mio giornale.

Spiegai il quotidiano sul tavolo e lessi la testata:

 

Morte di un eroe: John Lennon sparato a morte fuori il suo appartamento di New York

 

Un grido di terrore partì dallo stomaco, fino ad esplodere nei polmoni, facendo cadere la tazza che si frantumò sul pavimento, riversando il liquido in schizzi che macchiarono il tappeto.

Lessi la prima pagina ed osservai le foto. Non era uno stupido scherzo.
Sembrava che tutto si muovesse al rallentatore, gli strilli di panico si susseguirono all'infinito, fino a farmi cadere a terra, fino a lasciarmi senza fiato, senza forza.

Tremavo, gli arti erano intorpiditi, rigidi, e urlai ancora strappando il giornale in mille pezzi.

Annie piangeva ma il suono arrivò ovattato alle mie orecchie che percepivano solo il rumore metallico di proiettili, tanto forte da spaccare i timpani.
Sentivo il sangue abbandonare le mie membra fredde. Fredde come la morte che aveva da poco accolto tra le sue braccia mio fratello.

John è morto...


Rovesciai a terra tutto ciò che avevo a tiro, riducendo la cucina un ambiente fumante di polveri e porcellane distrutte dalla mano di una persona pazza di dolore e graffiai il pavimento in legno con le  unghie, fino a spezzarle.

John è morto.

Mi accucciai a terra mentre il sangue pompava nella testa veloce come un treno e strillai il suo nome serrando gli occhi, sicura che se avessi strillato lui mi avrebbe sentito.


Io e John avremmo trascorso le vacanze di Natale insieme, non poteva essere successo, non era vero.

John è morto!

Perché?” Strillai ancora e ancora “John!” gridai come se fosse l'unica parola che avesse senso in quel momento ma nessuno rispose.
Le immagini di un corpo esanime sdraiato su di una barella e di un bastardo grasso con la scritta “assassino”, erano le uniche cose che vedevo e non riuscivo a credere che fosse successo davvero.
Graffiai il viso tanto violentemente da sanguinare e strillai ancora, non riuscendo a fare altro.

Poi un rumore sordo. Qualcuno varcò la soglia di casa, qualcuno trovò il mio corpo tremante e pallido a terra, qualcuno mi sollevò prendendomi la testa in grembo.

Quel qualcuno stava piangendo e riconobbi il mio stesso dolore nei suoi occhi.

Non era John, no, era Paul.

 
 

Mi aggrappai alla camicia umida di pioggia dell'uomo di fronte a me e soffocai parole sconnesse sulla sua spalla. Avvertii le sue lacrime bagnarmi la tempia e solo in quel momento riuscii a piangere.
Piansi fino a quando la forza me lo permise, stretta alla sola persona che poteva capire il mio stato d'animo. Piansi realizzando che era tutto vero e che non avrei potuto far niente per cambiare ciò che era successo.

Piansi fino a che i sensi si offuscarono e svenni.

 

°oOoOo°



Riaprii gli occhi e la prima cosa che avvertii fu un dolore esteso su tutto il corpo.

Non riuscivo a tenere le palpebre aperte, né a stringere un pugno.
Notai la figura di Paul, intenta a raccattare i cocci da terra e spostai lo sguardo a terra, dove vidi Annie raggomitolata a terra, vicino a me.

-Annie – Accarezzai la guancia della bambina di due anni addormentata.

Mi sollevai a sedere e presi la piccola tra le braccia che si svegliò e ispezionò il mio viso graffiato con le manine paffute.
-Mamma- Pronunciò e la strinsi al petto, rassicurandola.
 

Paul si limitò ad osservarmi, attese in disparte mentre lavavo la piccola e le cambiavo i vestiti, mentre la portavo in camera sua promettendole di giocare insieme più tardi.


Ci fu un lungo minuto in silenzio nel quale io e l'ex bassista ci fissammo negli occhi. Seduti in camera da letto, l'uno di fronte all'altro, mentre il vento gelido di Dicembre sembrava ululare il dolore che sentivo distruggermi dall'interno.

Paul abbassò per primo lo sguardo e restammo in silenzio a consumare le lacrime, fino a stringerci di nuovo tra le braccia sussurrando che non era così che doveva andare.

Strinsi il lembo della camicia tra le dita e percorsi a ritroso il segno delle sue lacrime, dal mento fino all'occhio, prima a sinistra, poi a destra, cercando di tenere la mano ferma, di limitare al minimo il tremore.

 
Restammo ancora immobili, gli occhi fissi in quelli dell'altro.


Paul strinse le punte delle dita sulla mia schiena e poggiò la sua fronte sulla mia, respirando lentamente, con le labbra schiuse ancora scosse dai tremiti del pianto.
Poggiai lentamente le mani sulle sue spalle e le feci risalire, fino ad intrecciarle dietro il collo.
Sollevò di poco il capo e sfregò in modo incerto le sue labbrao sulla mia tempia, fu un contatto talmente leggero che sembrò un soffio. Io risposi, lasciando un minuscolo bacio sulla linea della mascella.

Paul scese, soffiando un bacio un po' più sicuro sullo zigomo e quasi smisi di respirare, prima di rispondere baciandogli la guancia.

Unimmo le labbra solo dopo qualche minuto.

Il primo bacio fu quasi uno sfregamento di labbra, il secondo fu più deciso, il terzo fu un vero e proprio bacio, poi smisi di contarli e nessuno riuscì più a capire chi stava baciando l'altro.
Scivolammo sul letto senza staccare le labbra e prima di rendercene conto stavamo facendo l'amore.
Conoscevamo l'uno il corpo dell'altro, era come se quell'atto fosse consequenziale, il giusto rimedio per entrambi.
Ripetei il suo nome più volte, sorprendendomi di quanto fosse naturale e lui ripeté che mi amava e ci stringemmo e ci cullammo anche dopo ore, fino a quando non fummo sazi di affetto.

 
- Devo dirti una cosa, Paul. – Mormorai mentre mi accarezzava dolcemente le spalle. Mi strinsi ancora un po’ contro di lui e sollevai il viso per guardarlo. – Io ti ho mentito. – Pronunciai lentamente, intrecciando le mie dita con le sue.- Mi… Mi hai mentito? – Chiese accigliandosi.
- Sì. – Respirai profondamente - Quando ci siamo incontrati anni fa, ti ho detto che non volevo piùù vederti. Non è vero. Ho sempre voluto che fossi tu il padre dei miei figli. 
Paul mi guardò a lungo ma non lasciai che parlasse. - Il motivo per cui io e Steve abbiamo divorziato è perché non l'ho mai amato, nemmeno quando ne ero sicura, io non l'ho mai amato. Credevo che con il tempo lo avrei fatto ma non è mai successo. - Abbassai lo sguardo fino a posarlo sulle nostre mani intrecciate. - Ho sempre amato te, Paul, sempre. - Riuscii a confessare prima che Paul mi stringesse ancora verso di sé.

 

°oOoOo°

Riaprii gli occhi e la prima cosa che notai fu il temporale che si abbatteva sulla finestra.
Spostai lo sguardo sul posto in cui fino a poco prima si trovava Paul e notai che era vuoto, tranne che per un biglietto.

La calligrafia pulita recitava: Sono giù in cucina, Annie ha fame.

 Già sulle scale riuscivo a sentire la voce squillante della bambina intenta a presentare tutti i suoi giocattoli a Paul.
- Jojo – Sventolò il pupazzetto malconcio con i campanellini.

 

“- Juju ha la bici brutta, io ce l'ho più bella! - Cantilenava John in sella alla bicicletta che zio George aveva appena comprato a lui per il suo sesto compleanno.
- Non è vero! - Piagnucolai -E non mi chiamare Juju sennò io ti chiamo Jojo!
- Chiamami pure Jojo,tanto non mi arrabbio perché ho la bici nuova!”

 

Sentii il pianto ritornare in gola e mi accasciai sui gradini delle scale, cercando di reprimere i singhiozzi mordendo il palmo della mia stessa mano.
Annie corse verso di me e tentai in tutti i modi di mascherare il pianto, non volevo che la piccola capisse cosa stava succedendo, non volevo spaventarla.

- Mamma! - Corse allargando le braccia.
- Papà  - Indicò Paul ancora accovacciato a terra, immerso nei giocattoli
- No, lui è Paul, un amico della mamma - Le sistemai il maglioncino, accarezzandole i capelli.
 

 Squillò il telefono e feci scendere Annie che fu felice di salire sulle ginocchia di Paul.
-Judith, sono io, Sophia, ho provato a chiamarti ieri ma non rispondevi. In redazione siamo tutti preoccupati.
-Ieri George ha riposto male il telefono dopo aver parlato con... Con – Non riuscii a terminare la frase e riagganciai il telefono prima di accasciarmi contro il muro e piangere.
 

Paul mi venne incontro, offrendomi il suo abbraccio come sostegno nel quale sprofondai.
Poggiai il capo sul suo petto e lasciai che mi stringesse ancora a sé.

- Grazie Paul, per essere venuto da me. 

- Non dirlo nemmeno - Mormorò.

- Paul per quello che è successo prima io - ispirai profondamente prima di proseguire - io non me ne pento ma non voglio che tu ti senta in colpa.

Paul non rispose, si limitò a guardarmi negli occhi tenendomi ancora stretta a lui e mi baciò a lungo. Quel bacio risolse tutti i nostri trascorsi, fece riaffiorare i vecchi sentimenti ma significava anche un'altra cosa: fine.

Quel bacio segnava la fine del nostro rapporto.

Fu alla fine di quel bacio che infilò di nuovo il cappotto e si allontanò da casa, tornando dalla sua famiglia promettendo di esserci in qualsiasi occasione, per qualsiasi problema.

 

 

°oOoOo°

 

 - Judith, non puoi restare così, devi reagire, devi andare avanti! - Urlava Sophia verso la mia figura nascosta tra le coperte. - Hai dei figli da mantenere, non puoi mollare!

Ciò che Sophia non capiva era che insieme a John una parte di me era morta, e la restante si stava lentamente consumando, riducendomi ad un essere vuoto, inconsistente, che aveva perso la voglia di andare avanti. Ero di nuovo sola al mondo e non avevo nessuno dalla mia parte.

Il passato schiacciava, annichiliva e distruggeva ogni mio pensiero razionale, ogni mia voglia di vivere, tormentandomi con le sue immagini di una vita che ormai non mi apparteneva più.

Avevo perso tutto.

Udii il suono del pianto dei miei figli ed una piccola fiammella si accese, un minuscolo puntino di luce nell'oscurità che attanagliava la mia anima.

Dovevo farlo per i miei figli.

Accettai gli antidepressivi.

 

°oOoOo°

 

Svenni. Un attimo prima ero seduta alla scrivania dell'ufficio e un attimo dopo ero in ospedale, la mano di Sophia stringeva la mia.
- Sei crollata all'improvviso - Mi disse mentre un medico tornava con la cartella clinica tra le mani.
- Io stavo bene, non capisco – Pronunciai accigliata.
- Salve – Salutò il medico con un sorriso cordiale sulle labbra, porgendomi la mano che strinsi. - Ha idea del motivo per il quale è svenuta?
- Speravo lo dicesse lei. - Intervenne Sophia terribilmente preoccupata.
- Potrebbe essere un effetto collaterale degli antidepressivi?
Il medico scosse la testa aprendo la cartella clinica e mi informò del motivo per il quale avevo perso i sensi; Sophia portò le mani alla bocca, io le strinsi tra i capelli.

 No!




Angolo autrice.
Non so cosa dire, sono certa che una gran parte di voi mi odierà per questo capitolo mentre la restante non si esprimerà nemmeno. Odio e amo questo capitolo, e ci ho messo davvero tutto l'impegno possibile per scriverlo.
Siamo a meno uno dalla fine, il prossimo sarà l'epilogo che pubblicherò la prossima settimana.
Voglio ringraziare tutti coloro che continuano a leggere la mia storia, in particolare Yashi_, TheRollingBeatles, _Sillylovesongs_ e SlowDownLiz che hanno recensito il precedente capitolo.
A presto 

JennyWren

 

   
 
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