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Autore: everlily    25/01/2014    16 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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9.

Because the night


– Come on now, try and understand
The way I feel when I'm in your hands
Take my hand, come undercover
They can't hurt you now
Can't hurt you now, can't hurt you now –

(Because the night, Patti Smith)




Damon


Non c'è niente di meglio di una buona, efficace distrazione nel momento in cui ne hai più bisogno. Tipo quando cerchi di rimandare il più possibile interminabili, inutili, voglio-sbattere-la-testa-contro-il muro, conversazioni di lavoro per tenere a galla una compagnia che se non fosse per tuo fratello avresti già mandato a quel paese.

Il telefono casca inavvertitamente a terra con un piccolo fracasso di plastica e fili intrecciati quando faccio spazio per Andie sulla scrivania. Ancora meglio, una scusa in più per non usarlo.

"Guarda che io devo andare a lavoro," protesta lei poco convinta mentre la sollevo sopra la scrivania. Molto poco convinta.

"Lo hai detto anche dieci minuti fa. Eppure ..." le faccio notare, intanto che la mia mano scivola sotto la nera gonna a tubino e la solleva ben oltre la metà coscia. "... sei ancora qui."

"Il tuo è un punto piuttosto valido," concede ridendo ed afferrandomi per la cintura così da attirarmi ancora di più contro di lei. "Basta che facciamo veloci."

Sorrido anche io mentre riprendo a baciarle il collo, perché le cose sono così facili con lei. Niente complicazioni, niente drammi superflui. Per non parlare di quanto è dannatamente brava a tenermi la mente lontana dai luoghi in cui non dovrebbe andare. Meravigliosa, magnifica distrazione.

"Potrei quasi innamorarmi," scherzo tra un bacio e l'altro.

Le sue mani si fermano, la cintura non lascia mai il suo posto, e Andie - Andie con cui tutto è semplice e poco complicato - alzo lo sguardo su di me. E’ seria e niente affatto divertita.

"Non farlo."

"Perché no?" domando sollevando un sopracciglio.

Ritiro lentamente la mano e la gonna scivola di nuovo verso il basso.

Forse voglio innamorarmi di Andie, dopotutto. Chi lo sa.

"Perché finiresti solo per spezzarmi il cuore."

Non distolgo lo sguardo, ma il silenzio che prende il posto della mia risposta è la conferma, di cui nessuno dei due aveva davvero bisogno, che non ha poi così torto.

La porta alle mie spalle si apre con un colpo secco, facendoci trasalire entrambi.

"Damon! Devo parlarti. Adesso. Non crederai a .... Ew! Dio, prendetevi una stanza, un po’ di decenza!"

Alzo gli occhi al cielo per fare appello a tutto il mio autocontrollo, già scarso di per sé e come sempre messo a dura prova dalla fastidiosa bionda che mio fratello ha avuto la sventurata idea di accollarsi.

"E buongiorno anche a te, Caroline," replico sarcastico, chiedendomi se servirebbe davvero a qualcosa farle notare che la porta era chiusa e che solo la settimana scorsa ho molto galantemente fatto finta di non sapere come stavano passando la pausa pranzo nell'ufficio qua di fianco.

"Buongiorno, Damon." Avanza nella stanza come se le appartenesse, ben dritta sui suoi tacchi, e mette su uno dei suoi migliori sorrisi tirati per rivolgersi alla mia compagnia. "Ciao, Annie."

"Andie," la corregge l’altra con un sorriso altrettanto forzato.

Nel lunghissimo secondo in cui si guardano in silenzio, mi sembra quasi di sentire gli artigli che iniziano ad affilarsi.

"Devo andare," dice Andie. Mi lascia un veloce bacio sull'angolo delle labbra. "Ci sentiamo."

Se ne va senza rivolgere una seconda occhiata alla cognata che sfortuna ha voluto mi toccasse in sorte. Caroline invece ci segue con lo sguardo attento finché non accompagno Andie alla porta, come per assicurarsi che se ne vada per davvero.

"Dobbiamo parlare," ribadisce non appena richiudo la porta alle mie spalle.

"Bene, allora parla," le dico sbrigativo, così che tiri fuori qualsiasi scaramuccia sia in corso tra lei e il mio fratellino e poi se ne vada a portarla da qualche altra parte.

"Si tratta di Elena."

Mi blocco sui miei passi al centro della stanza.

Un milione di cose mi passano per la testa. La maggior parte delle quali non dovrebbe neanche starci, dentro la mia testa.

Quando mi giro verso di lei per lanciarle uno sguardo interrogativo, noto che una linea sottile le solca la fronte, segno di una certa preoccupazione.

"Se ne è andata."

Ho detto un milione? Facciamo anche due.

"Che vuoi dire con ‘se ne è andata’?"

Mi avvicino a lei a passi lunghi, quasi aggressivi. In risposta, Caroline tira fuori il telefono dalla piccola borsa che tiene appesa all'avambraccio e me lo mette davanti al naso.

Ho bisogno di qualche giorno lontano da qui. Sto bene, non preoccuparti.

Il messaggio di Elena, risalente a ieri sera, è seguito da una serie di Cos’è successo? e Dove sei? da parte di Caroline rimasti senza risposta. Non appena sposto di nuovo lo sguardo dal display verso il suo volto, prosegue, "Ho provato a chiamarla, naturalmente, ma è irraggiungibile. Credo che abbia spento il cellulare. Damon ..." pronuncia il mio nome con un’insolita intonazione supplice che non può promettere niente di buono. "Non è da lei. Devi fare qualcosa."

"Cosa diavolo c'entro adesso io in tutto questo?"

Caroline riprende in mano il suo smartphone, inizia a digitarci velocemente sopra con le dita e me lo rimette davanti.

“Ho rintracciato la sua carta di credito," continua. "E' stata usata in un negozio 24 ore su 24 fuori Atlanta e poi ad un distributore sull’interstatale 59. Significa che è diretta a sud, e se parti adesso-"

"Aspetta," la interrompo e le rimetto il telefono in mano, mentre la mia mente viaggia veloce per afferrare il senso di ciò che la bionda sta suggerendo. "Elena ti dice di lasciarla in pace per qualche giorno, non sai cosa stia facendo, ma vuoi che mi metta ad inseguirla da qualche parte imprecisata nel sud degli Stati Uniti?" Bene, detto ad alta voce suona ancora più assurdo. "E le hai … tracciato la carta di credito? Non è neanche legale!"

Scrolla le spalle ed emette uno sbuffo contrariato.

"Sono la figlia di uno sceriffo. Mi sono concesse ... eccezioni," il tono titubante con cui lo dice mi conferma che non ci crede davvero neanche lei. "In ogni caso, la stai facendo sembrare più complicata di quello che è. Quando sarai per strada, cercherò di trovare altre informazioni e ..."

"Sei pazza," sentenzio, alzando le mani in segno di resa. "Ti ha detto che sta bene! Non è stata rapita. Ed io non ho intenzione di darti corda. Anzi, sai cosa? Chiama il suo fidanzato, perché non ci mandi lui nel tuo pedinamento destinazione Ignota?" finisco con una smorfia.

"Non essere ridicolo," replica spazientita, come una maestrina davanti ad alunno che non riesce proprio a dare la risposta giusta. "Qualsiasi cosa le sia preso per comportarsi così, se c'è qualcosa che non va … A te parlerà. Hai sempre saputo come saperla prendere.”

Oh cazzo, a giudicare dalla sua espressione risoluta, questa ci crede davvero in quello che dice.

"Una vita fa, forse!" E forse neanche allora, suggerisce un amaro promemoria in fondo alla mia testa. "Ti rendi conto vero che per anni non ci siamo neanche parlati ..."

"Non conta," mi liquida agitando una mano nell'aria. "Perché voi due avete … " Mi guarda come se fossi davvero in grado di seguire il ragionamento contorto del suo cervello. " ... lo sai.”

“No, non lo so.”

“Quella … cosa," insiste, caparbia. "Un'intesa."

Certo, come no. Come ho fatto a non pensarci prima. Questa sì che è la risposta per tutto.

"Ok, Care, penso che il momento per le fesserie mattutine sia finito per oggi," dico posandole una mano sulla spalla e sospingendola verso l'uscita. Oppone resistenza e prova più volte ad aprire bocca per protestare, ma questa volta non le permetto di dare fiato anche solo ad un'altra delle sue farneticazioni. "Sono sicuro che Elena sta benone. Ma, soprattutto, io non ho intenzione di andare proprio da nessuna parte."


***


" ... ed è quanto mai fondamentale che questo delicato passaggio possa avvenire nel solco della continuità e dell'esperienza che vostro padre aveva costruito ..."

"Naturalmente …" … coglione.

Lascio che Peter-Sotuttoio-Cartwright continui a riempirsi la bocca di parole come leadership, management e professionalità, evitando di puntualizzare per l'ennesima volta come la tanto declamata tradizione messa in piedi da nostro padre abbia portato la compagnia sull'orlo del fallimento. Ha già deciso che non sarà tra gli azionisti disposti ad accettare i cambiamenti che abbiamo concordato con Stefan negli ultimi giorni, dunque non ascolterebbe in ogni caso.

Dio, quanto mi manca la California. Accordi sigillati con una stretta di mano e persone che non hanno paura di osare. Mi chiedo ancora cosa mi trattiene davvero da non prendere il primo volo di sola andata domani mattina stessa.

I miei occhi vagano verso la finestra e verso ciò che lascia intravedere.

Il Grill è ancora chiuso.

Ma Elena sta bene, mi ripeto. Insomma, se vuole farsi i fatti propri per qualche giorno, ne ha tutto il sacrosanto diritto. Caroline sta reagendo in modo sproporzionato come al suo solito. Di tutte le idee stupide che le ho sentito tirare fuori nel corso degli anni, questa si guadagna almeno la top 5. Un'intesa, poi. E' il tizio che ha deciso di sposarsi quello con cui semmai avrà un'intesa. Lui lo saprà dove è andata. O ha tenuto all'oscuro anche lui? Se sì, verrebbe da chiedersi perché ...

"... ecco perché sono sicuro che tu e tuo fratello riuscirete a capire come mai è così importante mantenere lo stesso approccio alla gestione ..."

"Capisco la tua posizione, Peter ..." mormoro automaticamente in un punto a caso della conversazione, tanto per far credere che sto ancora ascoltando.

"Stai diventando sempre più bravo a raccontare balle, non è vero?"

Mi volto di scatto in direzione della voce familiare che mi è appena giunta dalla mie spalle ed un ghigno di piacevole sorpresa si apre sulle mie labbra.

"Ma dovrò richiamarti. Devo andare," chiudo sbrigativamente la conversazione, mentre Ric accosta la porta e inizia a squadrare pensieroso il resto dell'ufficio.

"Cosa diamine ci fai qui?" gli domando andandogli incontro per un veloce abbraccio di saluto.

"Noia, soprattutto. Le cose sono meno divertenti quando non sei in paraggi. E poi ero a curioso di vedere cosa ti ha assorbito così tanto al punto da mollarmi per quasi un mese. Devo dire, non ne vedo il fascino," commenta infilandosi le mani in tasca e sporgendosi appena in avanti per gettare uno sguardo sulla piazza che si apre oltre la finestra. "Insomma, per Vegas avrei potuto capirlo, ma questo ...”

"Ric, conosci i patti," lo ammonisco, niente affatto in vena di scherzare sull'argomento. "Non menzionare mai Vegas."

Ric sogghigna mentre si butta di peso sulla sedia dietro la scrivania e la fa roteare fino a compiere un giro completo su se stesso.

"E’ solo troppo bello vedere la tua faccia ogni volta che viene nominata."

Mi lascio cadere a sedere su una delle due poltroncine davanti a lui e alzo gli occhi al cielo, chiedendomi quando la smetterà di tormentarmi con questa storia. Probabilmente mai, ma del resto probabilmente me lo merito.

"Non posso credere che tu sia davvero venuto fin qua."

"Neanche io. Sai quanto odi volare."

Lo so. Secondo lui, simulare qualcosa di grande come un incidente aereo è il modo più insospettabile per il governo per liberarsi di una persona scomoda. Ecco perché, la notte in cui avevamo brindato all'inizio della nostra compagnia, mi aveva fatto giurare che semmai fosse morto in simili circostanze sarebbe stato mio compito svelare il complotto.

"E, a proposito, i sistemi di sicurezza in questo posto sono pessimi. La signora all'entrata non mi ha neanche chiesto un documento, avrei potuto essere chiunque ..." Mentre contemplo se valga la pena oppure no di stare a spiegargli che Janine, che è qui da quarant'anni, non ha mai avuto motivo di dubitare delle intenzioni dei visitatori delle Salvatore's & Associates, Ric si protende in avanti e squadra il computer vecchio di quasi due anni con una smorfia diffidente. "Scommetto che potrei craccare l'intero sistema in meno di cinque minuti."

Ci scommetterei anche io.

"Dunque ... cos'è che ti sta trattenendo così a lungo, si può sapere? Oh, bene. Whiskey."

Si alza per dirigersi spedito verso il mobiletto con gli alcolici e si versa una generosa dose di whiskey da uno dei decanter allineati in perfetto ordine.

"Mio padre ha tirato le cuoia lasciandomi in dono una compagnia piena di debiti, un consiglio di azionisti incompetente e una spina nel fianco di direttore finanziario," riassumo con un sospiro prendendo in mano il bicchiere che mi sta porgendo.

"Simpatico."

Ric continua a frugare tra i cassetti, chiaramente non frenato dalle stesse remore che ho avuto io che, invece, della roba di mio padre ho preferito toccare il meno possibile. Tira fuori una scatola di sigari e si passa un cubano sotto il naso per annusarlo beato mentre torna a sedersi incrociando i piedi sopra la scrivania. Se non lo avesse già avuto, a mio padre verrebbe un infarto in questo momento solo a vedere la scena.

"E cosa mai gli hai fatto di male per meritarti tutto questo?"

Lo chiede scherzando, ma non sa che quella è una domanda su cui io ho riflettuto fin troppo negli ultimi tempi. Sull'idea che tutto questo non sia altro che la sua personale legge del contrappasso, il suo modo per farmi scontare il grave torto che gli avevo fatto. Inevitabilmente, torno con la mente al giorno in cui, in questa stessa stanza, avevamo avuto la nostra ultima discussione. Il sua rabbia, il modo di guardarmi come se avessi appena confermato di essere la più grande delusione della sua vita, le sue parole … tutte cose che fanno ancora male come se fosse solo ieri.

Ci sono momenti, come questo, in cui penso che non mi farebbe male scaricarmi un po' di quel peso. E so che Alaric, che non giudica mai o tantomeno compatisce, è il tipo giusto per questo genere di cose.

Ma quando mi volto di nuovo verso di lui e sto per iniziare a raccontargli come sono andate veramente le cose, vedo che la sua ricerca tra i cassetti ha prodotto anche qualcos’altro. Sorseggiando tranquillamente il whiskey che si era versato, con il sigaro dietro l’orecchio e i piedi sempre incrociati sulla scrivania, sta adesso leggendo la famigerata lettera che Stefan si premura ogni giorno di farmi comparire nel cassetto.

"Cazzo, Ric."

Mi alzo di scatto e mi allungo oltre la scrivania per strappargliela dalle dita. Lui alza le mani in segno di scuse, ma non sembra davvero dispiaciuto.

"Non voglio sapere cosa c’è scritto, chiaro?" gli faccio sapere mentre la piego alla bell'e meglio e me la infilo nella tasca posteriore dei jeans, "Quindi vedi di tenere la bocca chiusa.”

Mentre Ric si fa il segno di cucirsi la bocca, un timido bussare contro la porta attira la mia attenzione.

"Posso?"

Senza davvero attendere risposta, Bonnie Bennet entra nell’ufficio.

La squadro accigliato domandandomi cosa diamine ci faccia qui colei per cui potrei tranquillamente essere il diavolo in persona. Di rimando, lei lancia guardi sospettosi prima nella mia direzione, poi in quella di Ric. Poi di nuovo nella mia.

"Cosa vi è preso a tutti oggi?" sbuffo roteando gli occhi. "Non sapevo che fosse la giornata dedicata a molestiamo Damon sul lavoro."

"Te l'ho detto che la sicurezza fa schifo," ribadisce Ric, senza soffermarsi a pensare che magari il mio commento include anche lui.

"Ehi!" Bonnie mi rivolge un'occhiataccia fulminante. Ma il modo in cui sposta il peso da una gamba all'altra, a disagio, mi suggerisce che non è esattamente qui di sua spontanea volontà. "E' stata un'idea di Caroline e, per la cronaca, io ero decisamente contraria a rivolgermi a te," mi conferma.

"Ti prego dimmi che non si tratta di viaggi improbabili alla ricerca di una barista dispersa nel profondo sud."

"Sapevo che era una pessima idea chiederti qualsiasi cosa. Andrò da Elena da sola," ribatte secca, girandosi per andarsene senza neanche aspettare risposta.

"Chi è Elena?…" sento Ric chiedere in un sussurro cospiratorio.

Avanzo verso di lei e le richiudo la porta in faccia non appena la sua mano tocca la maniglia.

"Cosa ti fa anche solo pensare di riuscire a trovarla?" replico deciso, irritato dal modo in cui ha insinuato che di Elena non me ne freghi niente. E' stato sempre così con Bonnie Bennet ed è ciò che me l'ha sempre resa insopportabile: nessuno è mai bravo abbastanza per la sua preziosa migliore amica. A parte lei, ovviamente. "Un altro dei dubbi mezzi di pedinamento usciti dall'iphone di Barbie, per caso?"

Bonnie alza gli occhi al cielo. In questo momento, sta probabilmente ricacciando indietro tutti gli insulti che vorrebbe rovesciarmi addosso.

"No," risponde guardandomi dritto negli occhi con aria di sfida. “Si dà il caso che io sappia esattamente dov'è andata."

Alzo un sopracciglio perplesso e faccio per chiederle spiegazioni, ma lei mi interrompe alzando un dito prima che io possa proferire parola.

"Ma ho bisogno di qualcuno con una macchina e Caroline è bloccata in una conferenza almeno fino a tardo pomeriggio. Quindi …" Un'espressione riluttante le si dipinge sul viso. "… Vuoi essere il mio passaggio, sì o no?"


***


Tornare a Mystic Falls fu strano quella volta.

Non era inusuale per me e mio fratello andare a passare le intere vacanze di Natale in qualsiasi posto la nostra adorabile madre Charlotte avesse deciso di stabilirsi per il momento. E poiché era lei ad insistere ogni volta , immagino che le feste avessero la singolare capacità di farle ricordare di avere anche lei, da qualche parte, un tutto suo peculiare istinto materno.

Stefan lo odiava. Diceva sempre che sarebbe stato meglio restare con un padre che, al di là di tutto, almeno non ci aveva abbandonati in favore dei "sapori del mondo". Ma veniva sempre. Dal mio canto, la cosa mi lasciava del tutto impassibile. Mystic Falls o Timbuktu non faceva alcuna differenza. E Charlotte poteva non essere la madre più tradizionale e presente del mondo, ma almeno era divertente.

Questa volta, però, stare lontano per quei miseri dieci giorni aveva fatto un po' la differenza. Non capii in cosa finché non tornai e parcheggiai la Camaro nei pressi della piazza principale, ancora addobbata con quelle stupide lucine che una volta passato Capodanno hanno il solo effetto di dare a tutto un'aria più penosa e decadente, come una vecchia signora che si è dimenticata di togliersi tutti i gioielli anche dopo che la festa è finita da un pezzo.

Questa volta era diverso perché, abbastanza stranamente, avevo sentito la mancanza di questo posto.

La calda ed affollata atmosfera che mi accolse quando entrai al Grill mi confermò quel pensiero.

Elena era di spalle, i gomiti posati in avanti sul bancone, probabilmente ad aspettare un'ordinazione. I capelli raccolti in una coda alta, il fiocco verde del grembiule perfettamente annodato appena al di sopra del fondoschiena, il piede incrociato all'indietro che tamburellava sul pavimento al ritmo della canzoncina pop di sottofondo nel locale.

Già, avevo decisamente sentito la mancanza di questo posto.

Non mi vide quando presi posto ad un tavolino ad angolo.

"Posso ordinare qualcosa?" le dissi non appena mi passò davanti in tutta fretta, diretta così spedita verso un tavolo oltre il mio che non mi gettò neanche una mezza occhiata.

"Arrivo, solo un momento e ..." cominciò con l'automatismo di chi ripete spesso una frase del genere, ma poi si bloccò di colpo e si voltò nella mia direzione. "Damon!"

L'attimo dopo mi aveva gettato le braccia al collo ed io mi ero ritrovato schiacciato contro lo schienale imbottito della panca sulla quale mi ero seduto. Preso alla sprovvista da una tale reazione, avevo allungato le braccia attorno alla sua schiena per reciprocare con una certa esitazione.

Sapeva di fiori a cui non sapevo dare un nome, pane, casa. Con un accenno di carne grigliata.

"Quando sei arrivato?" mi domandò dopo che mi ebbe rilasciato per andare a prendere posto di fronte a me, dall'altra parte del tavolo. "Pensavo che non saresti tornato prima di qualche giorno. Com'erano le Keys?"

"Umide. Com'è stato qui?"

"Orribile," sospirò, intrecciando le mani davanti a sé. Sentii tutto il peso di quel sospiro a fondo nel petto, come se fosse mio. "Voglio dire ... Senza di lei e con tutto il resto, sai ...."

"Lo so."

Sollevò gli occhi verso i miei e piegò appena le labbra in un sorriso triste.

"Ma Bonnie e sua nonna sono passate da noi la sera di Natale, ed abbiamo cucinato e preparato biscotti fino a tardi. Ed abbiamo organizzato qualcosa al locale per Capodanno, Jenna ha cantato con il suo gruppo. E tu?"

Mi guardai dal dire che la vera ragione per cui ero tornato con qualche giorno di anticipo era perché Melvin [1], il fidanzato del mese, mi aveva beccato a letto con sua figlia e poco gentilmente sbattuto fuori dalla sua barca ancora prima che avessi il tempo di rimettermi i pantaloni. Povera Charlotte che, per prendere la mie difese, si era giocata il maliardo di turno con un paio di mesi di anticipo. Aveva detto che tanto, in ogni caso, la Florida le faceva increspare troppo i capelli.

"Tutto piatto e privo di nota," risposi accennando un sorriso.

"Elena," ci interruppe la voce di Jenna che, da dietro il bancone dove stava servendo alcuni clienti, le fece cenno con la testa verso le ordinazioni che si stavano accumulando sul davanzale comunicante con le cucine.

"Devo andare ..." disse in un altro sospiro alzandosi e lisciandosi il grembiule. "A dopo, ok?"

"Ok."

Come Elena tornò a distribuire e prendere ordini, mi appoggiai contro lo schienale e tirai fuori il telefono per leggere il messaggio con cui Stefan mi chiedeva se avessi intenzione di tornare a casa per cena. Ma io non avevo davvero nessuna fretta di tornare a casa e vedere mio padre se potevo evitarlo per almeno un'altra sera, così gli risposi piuttosto di raggiungermi qui.

Quando rialzai lo sguardo, Elena stava portando un piatto di insalata e pollo grigliato ad un ragazzo biondo dall'altro lato del locale.

Mi raddrizzai subito perché avevo riconosciuto all'istante chi fosse quel tipo: quel quarterback che la salutava sempre con quello stupido sorriso impacciato. Il tizio di Francese.

Elena lasciò l'ordine ma non se ne andò.

Iniziarono a parlare. Sorridersi, su qualcosa che non mi era dato afferrare. Lui si tormentava le dita sotto al tavolo e non staccava lo sguardo da lei. Lei faceva dondolare il piede piegato all'indietro e continuava ad appuntarsi ripetutamente i capelli dietro l'orecchio pur non essendocene nessun bisogno.

Vidi la potenziale risposta a tutte le mie domande seduta solo un paio di tavolini più avanti.

"Ehi."

Scivolai nella panca ponendomi di fronte a lui, ma Jeremy non mi calcolò di striscio, gli occhi incollati allo schermo del suo videogioco portatile e tutto il suo impegno investito in un esaltato schiacciamento di pulsanti.

"Ehi," mormorò distrattamente.

"Hai visto quello lì?" gli domandai indicando il giocatore di football con un cenno della testa.

"U-uh."

Allungai un braccio e gli strappai il gioco dalle mani.

"Che cazz ..." protestò agitando le mani per tentare invano di riprenderselo, mentre l'aggeggio, che per buona misura mi infilai nella tasca della giacca, ammetteva la propria sconfitta suonando la triste musichetta di game over.

"Ora, fai il bravo ed io non andrò a riferire a nessuno le brutte parole che hai imparato, intesi?"

Jeremy incrociò le braccia sul petto e tornò ad appoggiarsi all'indietro, mandandomi occhiate torve.

"Cosa vuoi?"

"Quel tipo ..." ricominciai, facendogli segno verso il biondo. "... è venuto qua spesso ultimamente?"

Jeremy si sporse fino all'orlo del tavolo per poterlo osservare meglio. Spostò lo sguardo attento da lui a sua sorella, con cui ancora stava parlando, e quando tornò a guardare me c'era un vago ed irritante sorrisetto stampato sul suo volto.

Protese una mano verso di me con il palmo rivolto verso l'alto.

"20 dollari."

"Cosa?! ..."

Non ero intenzionato a dargli un bel niente. Ma lui rimase lì, con la piccola mano protesa sotto al mio naso e lo stesso sorrisetto sornione di chi, per chissà quale motivo, non ha dubbi che otterrà il suo prezzo.

Bofonchiando, tirai fuori il portafoglio e gli misi in mano la banconota. Se la infilò in tasca con visibile soddisfazione. Maledetto ragazzino.

"E' passato di qua praticamente tutti i giorni nelle ultime due settimane. A volte insieme ad altri, più spesso da solo. Ordina sempre un sacco di roba, ma solo se c'è Elena. Posso riavere il mio game boy adesso?"

Tirai di nuovo fuori il gioco dalla tasca e glielo porsi.

Jeremy tornò tutto contento a maltrattare pulsanti e ad uccidere alieni invasori.

Io mi alzai e me ne andai, con una bruciante sensazione di fastidio strozzata a metà gola e la strana consapevolezza che io e quel tipo non saremmo mai andati d'accordo.


***


"Dovevi girare a sinistra."

"So dove sto andando."

"Ne dubito. Hai detto lo stesso quando-"

"La prossima volta, allora," la zittisco, "impara a prenderti la patente."

"Voi due mi fate venire voglia di rotolare fuori e finire spiaccicato sull'asfalto."

Ric sottolinea il suo desiderio suicida sbattendo la testa contro il finestrino, mentre Bonnie sbuffa sonoramente tornando ad abbandonarsi contro il sedile posteriore con fare offeso.

Più di dieci ore di viaggio e ha ancora il coraggio di mettersi a ribattere su ogni decisione che prendo, da quale sia la strada più veloce al numero delle soste pipì che le devo concedere.

Di conseguenza, è ormai notte quando arriviamo a New Orleans e riusciamo infine a trovare parcheggio in una stradina laterale non troppo distante dal Quartiere Francese.

Cosa diavolo ci faccia Elena a New Orleans? Bella domanda.

Bonnie si è mantenuta sul vago. Sage, la rossa e piuttosto sexy nuova barista del Grill, l'ha chiamata questa mattina per farle sapere che lei ed Elena erano partite su due piedi su invito di un suo vecchio amico, tale Finn proprietario di un locale del centro, e per esortarla ad unirsi a loro perché "sarebbe così divertente". Per quale motivo al mondo questa Sage abbia sentito la necessità di invitare la tutt'altro che divertente Bonnie Bennet qua presente ad attraversare sette stati per raggiungerla è qualcosa che sfugge alla mia comprensione, ma immagino che non abbia poi molta importanza arrivati a questo punto.

E' passato solo qualche anno dall'ultima volta che ho messo piede nella Big Easy [2], ma potrebbero quasi essere decadi, tanto mi sembra tutto appartenere ad una vita fa. Non avevo ancora vent'anni, era estate, ero particolarmente al verde e la tangibile prospettiva di finire per la strada era stato l'unico motivo a spingermi fin qua, dove, al tempo, Charlotte condivideva un attico con un musicista jazz che si faceva chiamare qualcosa come Jimmy B. Sweetlips. Non fu neanche troppo male come estate: un sacco di erba, un sacco di musica, un sacco di ragazze.

A prima vista, non sembra essere cambiato molto. La stessa atmosfera rilassata da avamposto caraibico, le folle che si riversano nelle strade tra bevute e schiamazzi, i locali aperti a qualsiasi ora del giorno e della notte. Ciò non significa che io non venga colto piuttosto impreparato da ciò che mi trovo davanti quando il nostro improbabile trio varca la soglia del The Originals.

Perché, diciamolo: imbattersi in Elena che balla, disinvolta e spontanea, sul tavolo di un pub affollato non è qualcosa che capita tutti i giorni.

Eppure eccola lì. Le braccia alzate sopra la testa che ondeggiano morbidamente al ritmo della musica, i lunghi capelli lasciati sciolti sulle spalle, occhi chiusi e sulle labbra appena l'accenno di un sorriso di chi non si cura del pubblico o di una folla attorno. Come se non avesse una sola preoccupazione al mondo. Ed è bellissima.

Il respiro mi muore in gola per alcuni, lunghissimi secondi. Ogni genere di pensiero che so bene che non dovrei fare torna prepotentemente in prima linea, occupando anche il più remoto spazio dentro la mia testa. Questa volta, non glielo impedisco.

Senza neanche aspettare per assicurarmi di quali siano le intenzioni dei miei due accompagnatori, inizio a farmi strada fra la calca, dritto verso di lei.

Indossa una maglietta il cui colore è reso indefinito dalle luci soffuse e colorate del locale, che le scopre ritmicamente i fianchi ad ogni sua movenza, sopra l'orlo di corti shorts di jeans sfilacciato che le lasciano scoperte le gambe …. Dio, quelle gambe.

Non stacco lo sguardo un solo secondo nel camminare, come se potesse rivelarsi solo una fugace illusione e svanire nel nulla da un momento all'altro. Il modo in cui i suoi fianchi disegnano un lento otto su se stessi, quella traccia di sorriso che continua a giocare con i riflessi di luce sul suo volto … Sono a pochi centimetri da lei, quando i suoi occhi si aprono. Direttamente nei miei.

I suoi movimenti rallentano, l'espressione distesa scivola via in favore di una più meravigliata, e le sue labbra si muovono mormorando qualcosa di simile al mio nome, appena un secondo prima di sciogliersi in un altro sorriso. Muove un passo verso il bordo come se stesse per scendere dal tavolo per venirmi incontro, quando qualcuno alle sue spalle urta con forza il tavolino e le fa perdere quel già precario equilibrio.

La afferro al volo nell'istante successivo.

Le sua braccia si serrano, strette, attorno alla mia schiena. Istintivamente, faccio lo stesso, tenendola premuta contro il mio corpo. Più di quanto il mio salvataggio improvvisato concederebbe.

E' la prima volta che la stringo così da quando … beh, da davvero molto tempo. E' minuscola, ma dalla presa salda, esattamente come la ricordavo. Dannazione, forse è per questo che non sembra così sbagliato come invece dovrebbe. Mi concedo persino di sfiorarle brevemente i capelli con le labbra, prima di costringermi a sciogliermi dalla sua presa.

"Cosa ci fai qui?" mi domanda avvicinandosi al mio orecchio per cercare di sovrastare il resto della confusione.

"Cosa ci fai tu qui?"

La mia domanda la fa curiosamente mettere a ridere.

"Sto …" Si porta un dito sulle labbra con fare pensoso, prima di lasciarsi sfuggire un'altra risatina. "… prendendo una pausa."

Mi verrebbe da chiederle da cosa (… chi?), quando mi rendo conto che c'è qualcosa di insolito nel modo in cui strascica le parole.

“Sei ubriaca?”

Un adorabile lampo malizioso le attraversa lo sguardo, mentre avvicina il pollice e l'indice e strizza l'occhio destro, per farmi sapere che sì, lo è, ma solo un pochino piccino picciò.

Subito dopo piega la testa di lato, la sua attenzione catturata da qualcosa dietro le mie spalle. Si apre in un altro sorriso. Mi volto appena in tempo per vederla andare a stritolare anche la sua amica, qualche passo dietro di me.

Bonnie, sulle punte dei piedi per riuscire a compensare alla propria statura ed arrivarle almeno all'altezza della spalla, la stringe di rimando e nel frattempo mi manda un'occhiata interrogativa, chiedendomi con lo sguardo cosa stia succedendo. Mi stringo nelle spalle e faccio segno di non averne la più pallida idea.

"Sono così felice che siate qui!" esclama Elena ad alta voce, guardando entrambi. "Adoro questo posto. E Finn mi ha insegnato un cocktail di sua invenzione che è la fine del mondo. Venite," afferra Bonnie per una mano e con l'altra invita me a seguirle, "Ve lo preparo. Non ve ne pentirete."


Sotto la lingua sento tutta la ruvidità della pelle d'oca ed il sapore salato delle minuscole goccioline di sudore quando, in unico movimento, lecco via la corta linea di sale posta appena sotto l'ombelico. La tequila segue subito dopo. La butto giù così di fretta da rovesciarne quasi mezzo bicchierino, ma a malapena me ne accorgo. Il liquore mi brucia lo stomaco, mi scioglie il cervello, mi travolge i sensi.

Il numero di bevute finora? Sconosciuto. Perso per strada da qualche parte nel passaggio da cocktail colorati a molto più micidiali liquidi trasparenti.

Chi sia la bionda sdraiata sul tavolo di fronte a me che ha prontamente offerto la sua pancia e la tequila per farmi pagare pegno di una (ignota) scommessa che ho appena perso? Non lo so, né tantomeno mi importa di saperlo.

Quello che so è questo: che questa mattina ero impanato a discutere controvoglia questioni per cui non riesco a vedere una via di uscita; e che questa notte sono a New Orleans, insieme al mio migliore amico, una tappetta saputella che - ho scoperto - quando vuole riesce effettivamente ad essere quasi (quasi) simpatica, ed una ragazza del mio passato che sa ancora farmi impazzire con la stessa maledetta facilità.

Ed anche in mezzo allo scompiglio di musica e sudore che ci circonda, all'annebbiamento che non mi consente di ragionare lucidamente e all'enorme casino che è - che è sempre stato - il nostro rapporto, c'è qualcos'altro che so. So che è lei la ragione per cui sono qui. Poco importa che sia sbagliato sotto diecimila aspetti differenti.

Eccola lì, la ragazza del mio passato. Catturo i suoi occhi appena rialzo lo sguardo dal corpo della ragazza-tequila. Bruciano nei miei per un interminabile secondo con un'intensità che mi sorprende, prima di scomparire, con un un guizzo di capelli scuri, inghiottiti dal resto della folla.

Non ho bisogno di pensarci. La seguo senza esitare, tra luci basse, sagome non identificate tra cui mi faccio spazio e la musica su una principessa che nessuno sa dove sia [3].

Sono quasi sul punto di chiedermi se sia perfino stata reale oppure no, quando la vedo di nuovo.

Afferro la sua mano prima che possa sfuggirmi.

Si volta, incatenandomi ancora con lo stesso sguardo ardente. E adesso lo riconosco, perché l'ho già visto altre volte, una vita fa. E' arrabbiata. Con me.

L'attimo dopo vedo le sue labbra muoversi, avvicinarsi al mio orecchio.

"Odio vederti con le altre."

Qualcosa disperso in uno degli antri remoti nei quali è finita da un pezzo anche la mia parte più razionale mi suggerisce che non dovrebbe dire una cosa del genere. Così come mi suggerisce che io, altrettanto probabilmente, non dovrei risponderle nel modo in cui invece faccio.

L'altra mia mano scivola sull'incavo della sua schiena mentre avvicino il volto al suo, per assicurarmi che possa capire, a fondo, il significato di ciò che le sto dicendo.

"Non mi importa niente di loro."

Alza lo sguardo su di me, come per cercare conferma alle mie parole e, per un attimo, lo vedo per quello che è: quello di una ragazzina insicura, confusa, che cerca disperatamente di dare un senso a ciò che sta facendo.

Ma poi, esitanti, le sue dita si posano sul mio petto. Lo percorrono lentamente, tracciando ogni linea fino a salire verso il mio collo, che sfiorano seguendo il contorno della maglietta. Mi mandano fuori di testa. Socchiudo gli occhi quando i suoi fianchi si fanno più vicini ai miei e vi aderiscono con un movimento così assurdamente, dolorosamente lento.

La assecondo, ma voglio dirle di smetterla. Sbagliato sotto diecimila aspetti differenti suona da qualche parte troppo lontana perché io la possa udire. Non voglio lasciarla andare. Mai.

La mia mano si muove sulla sua schiena, che accarezza leggera lungo il percorso della spina dorsale. Il momento in cui immergo il volto nell'incavo del suo collo e l'odore di fiori, calore e sudore mi penetra nelle narici, so di volerla così tanto che fa male.

Sento la sua bocca, di nuovo contro il mio lobo, sussurrarmi qualcosa. Non avrei neanche bisogno di sentirlo, lo avevo già capito ancora prima che pronunciasse le parole, nell'attimo in cui mi ha preso la mano tra la sua.

“Andiamocene di qui.”

Ed io non ho davvero più possibilità di scelta. In questo momento, la seguirei anche all'inferno.


Mi conduce sul retro e su per una stretta scalinata il cui legno scricchiola ad ogni passo traballante che accompagna la nostra salita. La sua mano non mi lascia un istante, non lungo i gradini, non quando mi guida all'interno del loculo abitabile che si apre quando raggiungiamo il primo piano.

Nella penombra rischiarata dalle illuminazioni provenienti dall'esterno, intravedo gli sprazzi di vita di uno spazio che non ci appartiene. Una chitarra ed un violino posati malfermi contro il muro, una traccia di hascisc nell'aria, divani stropicciati abituati ad un via vai di visitatori temporanei, i tremolanti riflessi delle luci sul Mississippi River al di là della finestra.

Per un istante ho la fugace percezione di quanto siamo estranei a questo posto, e forse anche a questo momento, che in qualsiasi altra situazione non starebbe neanche accadendo.

Ma non ho il tempo di approfondire il pensiero perché realizzo che Elena si è fermata, ed io con lei.

Lascia andare le mie dita e trova il mio sguardo, mentre si appoggia contro la soglia di una camera da letto anch'essa immersa nella semioscurità, le mani incrociate dietro la schiena.

Nessuno ha ancora detto una sola parola, ma non c'è ne è davvero bisogno. E' tutto lì, nelle sue labbra socchiuse, nel desiderio che le ombreggia gli occhi,nel lieve sospiro che le sfugge quando mi avvicino e poso le mie mani sui suoi fianchi. Sento il calore della sua pelle sotto le dita, nel punto in cui la maglietta è rimasta leggermente sollevata, e la accarezzo appena solo per poterla sentire fremere un'altra volta.

E' tutto così dannatamente giusto sotto così tanti aspetti che non so come abbia mai potuto dubitarne.

Poso la fronte contro la sua. Respiro arancia e vodka.

Lo sguardo da ragazzina confusa che ho intravisto prima riemerge dalla nebbia e mi lampeggia davanti agli occhi come se ce lo avessi davanti in questo stesso momento.

“Cosa stai facendo, Elena?” mi costringo a domandarle sottovoce.

Per un lungo momento, l'unica risposta è il baccano ovattato che dal piano di sotto e dalle strade si riversa dentro le finestre aperte in un unico insieme di musica, schiamazzi e brezza afosa.

Poi la sua mano sinistra si alza per sfiorarmi la guancia, mi impedisce di allontanarmi.

“Non ho mai fatto niente di avventato. Sempre fatto la scelta sensata.” Sussurra anche lei, inciampando un po’ nelle parole. Non so chi abbiamo paura di disturbare a parlare a voce più alta. Le sue dita mi sfiorano lentamente il contorno della mascella. Vorrei inclinare il viso e baciarle. “Ti sei mai chiesto come sarebbe stato ...? Anche solo una volta …”

Chiudo gli occhi e inspiro a fondo, perché conosce la risposta, ma mi tortura lo stesso.

“Elena …” tento.

Non so neanche io cosa ho intenzione di dirle o perché stia continuando a temporeggiare.

Vai fino in fondo o vattene via adesso, Damon. Falla finita, in un modo o nell’altro.

“Io sì,” mi fa sapere in un bisbiglio.

E, fanculo, è abbastanza da far pendere la bilancia e segnare in modo irrimediabile la mia decisione.

La stringo di più e sono solo a pochi millimetri dall'ultimo passo, quando un tonfo e risatine soffocate alle nostre spalle ci fanno allontanare in uno scatto più colpevole che sorpreso.

Mi rendo conto che qualcun altro ha evidentemente avuto la nostra stessa idea quando mi volto e vedo le due figure baciarsi appassionatamente contro il muro. Una ha brillanti riflessi rossi tra i capelli, l'altra ancora si perde nel buio.

E' solo quando Elena avanza incerta di un paio di passi per poter vedere cosa sta succedendo che lo capisco anche io. Soprattutto quando la sento domandare perplessa, "Bonnie?"

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Note:

[1] Nominato già nel cap. 7

[2] Soprannome per New Orleans

[3] The Princess, Parov Stelar



   
 
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