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Autore: Laylath    27/01/2014    2 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 15. Cose da non dire.

 

“Ieri il pranzo con i miei parenti non finiva più! Ci siamo alzati dal tavolo che era praticamente pomeriggio inoltrato.” sospirò Elisa, stiracchiandosi vistosamente.
“Era il compleanno di tuo nonno, del resto: – sorrise Vato – è ovvio che la famiglia si sia tutta riunita. Quanti eravate?”
“Fra i fratelli di mio padre e cugini vari dodici persone, ma sembravano un esercito per quanto hanno mangiato. Per fortuna la mattina io, mia madre e mia zia ci siamo date da fare.”
“Non ho dubbi che quello che hai cucinato sarà stato buonissimo.”
“Saresti potuto venire anche tu, lo sai benissimo. – lo rimproverò lei, sistemandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli castani – Mio nonno ti conosce da sempre: vede più te in libreria che me, ancora un po’. Proprio non capisco perché non hai accettato il mio invito.”
“Era un pranzo di famiglia.” spiegò lui, arrossendo lievemente.
“E allora? Mio cugino Mickey è venuto con la sua fidanz…” la frase si interruppe a metà.
Vato girò la testa dall’altra parte, fissando con ostinazione il sentiero e sentendo un intenso calore salirgli sul collo e sulle guance. Sì, lo sapeva bene che era stato invitato anche lui e non aveva niente in contrario a festeggiare il nonno di Elisa, ma c’era quel tremendo dettaglio che complicava tutto. Andare a quel pranzo avrebbe significato sbandierare il fatto che loro due stavano insieme, quando invece non era così… per lo meno non ancora.
E’ una cosa naturale! E’ una cosa naturale… è solo un primo dannato bacio!
“Vato, va tutto bene? Hai una faccia…” la voce di lei sembrava provenire da molto lontano.
Scuotendo con decisione la testa bicolore, Vato si girò improvvisamente e le mise le mani sulle spalle, l’espressione tesa e concentrata come raramente succedeva: basta indugi! Era il momento di buttarsi e porre fine a tutta quell’indecisione.
“E…Elisa – iniziò con voce contratta e tesa – v… vuoi… vuoi…”
… tu esserle fedele nella gioia e nei dolori, in ricchezza e povertà, in salute e nella malattia…
Queste parole risuonarono improvvisamente nella sua testa come una campana d’allarme.
“No! Non questo!” esclamò, mollando la presa.
“Che?”
“Cioè, non ancora! E’ troppo presto!”
“Troppo presto per cosa? – chiese lei, fissandolo con preoccupazione – Vato Falman, ti giuro che oggi sei davvero strano. Fai un respiro profondo e riordina le idee: che cosa volevi chiedermi?”
“Se… se volevi che ti  prestassi gli appunti delle lezioni di ieri!” disse lui tutto d’un fiato, recuperando il controllo.
“Sì, ti ringrazio…” rispose lei con perplessità.
“Scusami, sono il solito stupido – sospirò il ragazzo, riprendendo a camminare – non farci caso…”
“Ehi, stupido – lo richiamò Elisa con un sorriso, accostandosi a lui e sollevandosi sulla punta dei piedi per dargli un bacio sulla guancia – lo sai benissimo che mi piaci così.”
Parole che potevano essere intese in diverso modo, ovviamente, ma Vato intuì che, ancora una volta, Elisa gli comunicava che tutto andava bene e che non doveva esserci nessuna fretta per arrivare a quello. Inaspettatamente la ragazza lo prese per mano e lo incitò a camminare: era la prima volta che si esponevano in un gesto così palese, ma per qualche strano motivo, dopo tutto il disastro che era successo nemmeno un minuto prima, a Vato sembrò un qualcosa di estremamente rassicurante e piacevole.
“E’… è ortensia quel profumo che ti stai mettendo da qualche giorno?” chiese all’improvviso.
“Oh! – esclamò lei, sorridendo – Ce ne siamo accorti, allora. Sì, è ortensia.”
“Ti sta molto bene, davvero…”
“Grazie.”
Rimasero in silenzio a camminare, lui di nuovo a corto di argomenti: una cosa assai rara per chi ha tantissime letture, ma, per la solita questione antropologica, molto spesso la memoria vasta veniva annullata dall’imbarazzo e della timidezza.
“Io e Roy Mustang siamo amici.” disse all’improvviso.
“Tu e Roy Mustang?” questa volta fu Elisa a fermarsi e a guardarlo con incredulità
“Proprio ieri che non sei venuta è successo un mezzo disastro con Roy e gli altri.”
Per lo meno raccontare di quella particolare giornata non fu difficile, anzi, permise a Vato di tornare a questioni più terrene come il fatto che tra poco avrebbe incontrato il suo nuovo amico a scuola. Se doveva essere sincero, quella notte aveva riflettuto su quello che implicava essere amico di Roy Mustang: sicuramente a Kain avrebbe fatto molto piacere e anche a Riza… e fin qui, niente di male, anzi, magari Elisa sarebbe stata felice che quella ragazza bionda si avvicinasse maggiormente a lei. Ma dall’altra non poteva dimenticare che c’erano dei conti in sospeso tra Roy e Jean e questo voleva dire che adesso, in qualche modo, anche lui ne era coinvolto.
Poi c’era anche il piccolo dettaglio del posto dove viveva Roy e dove lui stesso era entrato senza preavviso. Forse era un qualcosa che avrebbe creato qualche disagio a suo padre, dato che quel locale non era proprio il massimo della rispettabilità…
Ma io sono stato in camera di Roy e ho semplicemente giocato a scacchi con lui… non ho fatto nulla di compromettente.
Solo che non aveva detto niente ai suoi genitori.
“L’hai detto ai tuoi?” gli chiese Elisa, quasi giungendo alle sue stesse conclusioni.
“No, non ancora; –ammise – a dire il vero con mio padre avevo già avuto una chiacchierata particolare e non mi andava di mettere altra carne al fuoco.”
“Dovresti farlo, non tanto per Roy in sé, quanto per il fatto che potresti tornare di nuovo in quel posto; ed è meglio che tuo padre non lo scopra da solo.”
“Già…” sospirò lui, sentendosi improvvisamente colpevole.
“Comunque, a proposito del tuo nuovo amico, eccolo là, assieme a Riza. Ehi! Buongiorno, Riza!”
“Ciao Elisa!” sorrise la bionda, mentre le due coppie si raggiungevano a vicenda.
“Ciao Vato.” salutò Roy.
“Ciao Roy… uh, ecco, lei è la mia amica Elisa.”
Con suo sommo sollievo, i due si strinsero la mano senza alcuna problematica: sembrava che Elisa avesse accettato la situazione meglio del previsto.
Ma sì, sicuramente sono io che mi sto facendo i soliti voli pindarici… solo che non pensavo di stringere così tante amicizie nell’arco di poco tempo.
 
“Avanti, tirale fuori: sto morendo di fame!” esclamò Jean, durante l’intervallo.
“Va bene, fratellone – sorrise Janet, armeggiando col piccolo paniere che si era portata dietro da casa – Heymans spero che ti piacciano! Le ha fatte la mia mamma, ma l’ho aiutata tanto pure io.”
“Sono sicuro che saranno buonissime.” annuì il rosso, mentre si sedeva a gambe incrociate a terra.
Finalmente la bambina tirò fuori una prima tovaglietta e la svolse nel prato, mostrando numerose pastine con glassa bianca sopra.
“Dio benedica le pastine alla marmellata di mia madre – sospirò Jean, prendendone una e annusandola – ieri stavo impazzendo con quell’odore di pastafrolla per tutta la casa.”
“Ti ho mai detto che devo fare un monumento a quella santa donna? – gli fece eco Heymans, con la faccia in estasi dopo il primo morso – La sua marmellata è la cosa più buona del mondo…”
“Oh, guarda, c’è Kain! – esclamò Janet, alzandosi in piedi – Ehi Kain, vieni! Vieni qui!”
A Jean quasi andò di traverso la pastina che stava mangiando quando sentì quel nome e vide che il bambino si stava avvicinando.
Non avrà intenzione di…
“Kain, ne vuoi una? Le abbiamo fatte io e la mia mamma!” disse Janet con entusiasmo.
“Pastine? – indovinò lui, deliziato, dimenticandosi persino della presenza di Jean – Davvero posso? Grazie mille!”
A Jean non rimase che guardare con malinconia quella pastina che veniva data a quel piccolo secchione, senza che lui potesse in qualche modo recuperarla. Una gomitata ben assestata da parte di Heymans gli ricordò come sempre di fare buon viso a cattivo gioco, per via della presenza di Janet.
Ma dopo un iniziale ritorno dell’antica ostilità, si accorse che tutto sommato la presenza di Kain gli riusciva più accettabile del previsto. Probabilmente dipendeva anche da quanto era successo con Riza il giorno prima: del resto l’aveva considerata una bella persona proprio perché aveva sempre difeso quel nano… e Jean riconosceva che anche Kain era disposto a fare di tutto per Riza.
Cavolo… ora che ci penso, adesso abbiamo un’amica in comune. E come se non bastasse sta facendo comunella con mia sorella.
Infatti Janet era particolarmente felice della presenza di Kain, tanto che gli stava offrendo anche una seconda pastina. Ed il ragazzino aveva finalmente smesso l’aria da cucciolo impaurito e sorrideva felice alle attenzioni della bambina.
Fra la torta di Riza e le pastine gli sta andando proprio di lusso…
A proposito di torta…
“Kain, - chiese, alzandosi in piedi, con ancora una pastina in bocca – hai visto…”
“Non si parla con la bocca piena, fratellone.” disse Janet.
“Certo! – sospirò lui, dopo aver ingoiato il boccone – Dicevo, hai visto Riza?”
“Mh, – annuì il bambino, leggermente intimorito, ma reggendo il suo sguardo – è nel retro della scuola con la sua amica dai capelli neri.”
“Molto bene – sorrise il biondo, prendendo in mano un’altra pastina – io torno tra poco!”
“Ma che gli è preso?” chiese Kain, mentre lo osservava allontanarsi con foga verso la direzione che gli aveva detto.
“Proprio non te lo so dire. –  ammise Heymans. Ma poi notò il dettaglio della pastina ancora tenuta in mano e ridacchiò: forse aveva intuito – Oh, pazienza. Dai, Kain, siediti e mangia ancora con noi!”   
Il bambino accettò di buon grado quell’invito e si sedette accanto a Janet che, finalmente, gustava pure lei una delle pastine. Aveva iniziato ad apprezzare la compagnia di Heymans: l’aveva sempre visto come spalla del suo aguzzino e di conseguenza era spontaneo associarlo a faccende non proprio piacevoli. Ma sembrava che quell’anno scolastico i rapporti iniziassero a subire un brusco cambiamento di rotta: Heymans senza Jean si dimostrava un ragazzo maturo e gentile, una persona completamente diversa da quella che sogghignava con indulgenza mentre lui subiva le angherie del biondo.
Sarebbe meraviglioso se anche suo fratello si rivelasse una persona migliore…
Il pensiero gli venne quasi spontaneo: ora che Jean era in una fase relativamente tranquilla nei suoi confronti, il suo problema principale era l’attenzione che gli dedicava Henry con la sua banda. Niente di grave: spintoni, libri che sparivano, prese in giro… ma la frequenza con cui questo accadeva era aumentata in maniera preoccupante.
“Heymans – chiese all’improvviso, per iniziare a sondare il terreno – sai… sai come mai oggi tuo fratello non è venuto a scuola?”
“Non è venuto?” chiese il rosso, alzando gli occhi su di lui e fissandolo con attenzione.
“No – scosse il capo il bambino – non c’è dalla prima ora…”
La mente di Heymans iniziò a lavorare con frenesia, cercando di ricordare gli spezzoni di discorsi che aveva sentito a casa tra il fratello ed il padre. Se non ricordava male, Henry negli ultimi giorni si era mostrato particolarmente compiaciuto per un tiro giocato ad alcuni ragazzi di una banda rivale.
“I suoi amici erano in classe?” chiese.
“Sì, mancava solo lui e un altro bambino… ma Jim ha l’influenza e manca da due giorni.”
“Heymans, va tutto bene?” chiese Janet, mentre vedeva il ragazzo alzarsi in piedi.
“Sì, piccola, stai tranquilla – si costrinse a sorridere, accarezzandole i capelli – senti, mi sono ricordato che devo fare una cosa molto urgente. Facciamo così: tu resti qui assieme a Kain e continuate a fare merenda, tanto sono sicuro che Jean torna fra qualche minuto, va bene? La controlli tu, Kain?”
“Certamente.” annuì il ragazzino, fissandolo perplesso.
“Grazie mille; allora fate i bravi, mi raccomando.”
E senza aspettare risposta si avviò verso l’uscita del cortile: si era ricordato anche i nomi dei ragazzi della banda rivale e aveva un tremendo sospetto.
 
“E quindi pare una cosa davvero sicura! – esclamò Rebecca con aria estasiata – mia cugina Molly e Jess si devono sposare l’anno prossimo: che cosa meravigliosa.”
“Rebecca…” mormorò Riza, come sempre sconcertata davanti alla grande capacità di pettegolezzo della sua migliore amica.
“E’ fantastico, come fai a non capirlo! Aaaaah, come vorrei trovare anche io un bel ragazzo e fidanzarmi con lui!”
“Abbiamo tredici anni – le ricordò la bionda – perché vuoi anticipare così i tempi? Tua cugina Molly ne ha ventuno: ben otto più di te!”
“Oh, senti, a me piace fare piani per il futuro! – ridacchiò Rebecca, passandosi con disinvoltura una mano sui bei capelli ricci che cadevano sulla schiena – Non c’è nulla di male in tutto questo.”
“A me sa tanto di ossessione.”
“Dovresti darti una svegliata tu, mia cara. – la prese in giro, l’amica – Diamine, se avessi a disposizione il ragazzo più intrigante della scuola, come te, avrei già…”
“Quante volte te lo devo dire? Io e Roy non siamo…”
“Riza Hawkeye!” esclamò una voce ben nota.
Girandosi, le due amiche videro Jean che si avvicinava a loro ad ampie falcate.
“Oh mio dio… oh mio dio! – sussurrò Rebecca, mettendosi le mani sulle gote – E’ lui! Riza ti prego, presentami!”
“Finiscila! – sibilò Riza, prima che il ragazzo arrivasse a portata d’udito. Poi riprese un tono normale – Che cosa succede Jean? Posso…”
Ma prima che potesse dire altro, il giovane la raggiunse ed immediatamente le spiaccicò una pastina alla marmellata sulla bocca.
“Volevo semplicemente ricambiare il favore di ieri, – sghignazzò Jean, provvedendo a spalmare l’impasto anche sul mento e sul naso – spero che ti piaccia! La marmellata è di more… ed è particolarmente appiccicosa.”
“Ehi! – esclamò Rebecca, mentre Riza cercava in parte di ingoiare ed in parte di sputare quella pastina – Non si tratta così una ragazza!”
“E tu chi saresti?” chiese Jean, per niente intimorito.
“Io sono Rebecca! Rebecca Catalina… e tu hai appena spiaccicato una pastina alla marmellata in faccia alla mia migliore amica.”
“Io sono Jean Havoc – rispose il biondo, assumendo lo stesso tono scontroso – e ieri la tua migliore amica mi ha lanciato un pezzo di torta alla crema in testa. Ho solo ricambiato il suo gesto d’amicizia.”
“E lo chiami gesto d’amicizia?”
“Ascoltami bene, brunetta, quello che faccio con la mia amica Riza, è affar mio!”
“Oh, dai, finitela! – cercò di calmarli Riza che, con l’aiuto di un fazzoletto, era riuscita a migliorare la situazione del suo viso – Rebecca, lascia stare, davvero.”
“Che? Ma non starai parlando sul serio? E’ tuo amico?”
“Sì – ammise Riza, prendendo Jean per un braccio e allontanandolo dalla ragazza – ma è una situazione particolare, per cui non farci caso… vieni con me, genio, dobbiamo parlare!”
E mentre Riza si allontanava trascinando via il biondo, questi si girò per fare una linguaccia a Rebecca che fu rapida a ricambiare il gesto. Ma come si furono allontanati abbastanza, un sorriso malizioso le apparve nel viso.
“Accidenti! Da vicino è anche più carino!”
E cosa aveva appena detto Riza? Che era anche suo amico? La situazione stava diventando davvero interessante: era così felice che era persino disposta a perdonare il fatto che la bionda non le avesse ancora accennato nulla in merito.
Un passo in avanti verso la conquista di Jean Havoc era stato fatto: adesso sapeva anche il suo nome!
 
Tra tutte le cose che Riza si poteva aspettare, l’ultima era quella che Jean le restituisse quello scherzetto in maniera così palese e davanti a metà scuola. E questo voleva dire che c’erano molte possibilità che nell’arco di pochi minuti la notizia sarebbe arrivata anche a Roy.
“Si può sapere dove stiamo andando?” chiese Jean, opponendo lieve resistenza alla sua presa.
“Oh, ti prego stai zitto e seguimi!” replicò lei, trascinandolo fuori dal cortile della scuola, lungo il sentiero che andava verso la campagna. Deviarono per i campi, fino ad arrivare ad una piccola pozza d’acqua, abbastanza distante dall’edificio scolastico.
Solo quando giunsero davanti al bordo dell’acqua si fermò con un sospiro e lasciò il braccio del biondo.
“Che hai?” le chiese ancora lui.
“Ti sembrava il caso di farlo davanti a tutti?” disse lei, fissandolo irata con i grandi occhi castani.
“C’era solo la tua amica! E poi che cos’è questa storia? Tu puoi lanciarmi una fetta di torta quando vuoi, mentre io devo chiederti il permesso?”
“Non è questo!”
“E allora? Diamine, voi femmine siete le creature più complicate del mondo!” sospirò Jean, passandosi una mano tra i capelli biondi, in un gesto di esasperazione.
Riza non rispose alla provocazione; adesso che si erano allontanati abbastanza dai loro compagni le sembrava che il pericolo fosse in qualche modo passato e si sentiva leggermente sciocca per quella fuga rocambolesca: forse aveva fatto più scalpore così che se fossero rimasti nel cortile.
Pettegolezzi…
Sì, era stata davvero una sconsiderata. Con un gemito si accovacciò sui talloni e si mise a fissare lo specchio d’acqua stagnante. Si accorse solo in parte di Jean che si chinava a raccogliere un sassolino e lo lanciava con abilità nella pozza: fece tre rimbalzi prima di sparire nel fondo.
“Avanti, prova.” la invitò con voce calma, porgendole una pietra.
“Mh?”
“Hai buona mira e scommetto che puoi fare dei bei tiri.”
Riza si alzò in piedi e prese in mano quel sassolino piatto, fissandolo con aria perplessa.
“Tienilo così, pollice in alto – le spiegò Jean, sistemandoglielo in mano – deve andare orizzontale: guarda, il movimento è questo e poi lavori di polso. Prova.”
Incuriosita da quelle istruzioni, la ragazza provò ad eseguire un primo lancio, ma il risultato non fu molto felice e il ciottolo fu ingoiato dalle acque.
“Piega di più il braccio… tieni, prendi questo. Devono essere piatti per ottenere il rimbalzo.”
Ci vollero tre tentativi prima che riuscisse ad ottenere un risultato discreto: due rimbalzi.
Riza ne fu così entusiasta che provò ancora e ancora fino a quando non prese una certa confidenza con quella tecnica; anche Jean sembrava abbastanza felice di quel passatempo e si cimentò di nuovo anche lui in quei tiri così particolari.
“E’ che non ho detto a nessuno che abbiamo fatto amicizia.” disse infine lei, prendendo in mano un altro sasso e rigirandolo con un gesto distratto.
“Con quel nessuno intendi Roy, vero?” chiese Jean, girandosi a guardarla.
“Sì e nemmeno Kain lo sa – ammise lei – mi ero ripromessa di…”
“Scusa, Riza, ma perché ti poni questi problemi?”
“Come?”
“Non è che devi chiedere il permesso a Roy se vuoi stringere amicizia con qualcuno, eh! Si presume che tu sia abbastanza grande da prendere determinate decisioni da sola.”
“Ma non è come fare amicizia con Kain – scosse il capo Riza – tu sei…”
“Il suo rivale?” sorrise sarcasticamente lui.
“Beh, non è proprio bello da dire…”
“Ho detto ad Heymans che siamo amici il pomeriggio stesso che mi hai lanciato quel pezzo di torta addosso.”
“E allora?”
“Gliel’ho detto, – alzò le spalle lui – mica gli ho chiesto se potevo farlo o meno. Non c’è nulla di male nell’essere amici, Riza. E se Roy è intelligente la pensa come me e non ti farà problemi… e nel caso ne facesse, allora se la vede con me.”
“Non un altro duello, – sospirò la ragazza – ti prego, Jean.”
“Niente duello, – promise lui – ma se tu ti senti di essere mia amica, non devi rinunciare per lui. E se poi un giorno ti dicesse di non frequentare più il nano? Gli dirai di sì anche in quell’occasione.”
“Ma che dici! Roy non farebbe mai una cosa simile! E poi Kain è anche suo amico!”
“Allora ti crea problemi che venga a sapere di me e te?”
“No! – disse lei con decisione, ma poi abbassò le spalle – Solo che… gliel’avrei dovuto dire, tutto qui. Lui mi ha detto che ieri ha stretto amicizia con Vato.”
“E allora vai e diglielo, non vedo dove stia il problema.”
Riza fissò il sorriso di Jean e non poté far a meno di ricambiarlo: riusciva a rendere le cose più facili e semplici. Era come se avesse la capacità di sbrogliare tutti i problemi della realtà che li circondava: non sembrava mai un enigma da risolvere come invece a volte poteva essere Roy.
“Dici di non capire le ragazze, – ammise Riza – ma ti sbagli…”
“Mh, no. Con te è facile.”
“Ah sì? Perché?”
“Perché mi sembra di avere a che fare con mia sorellina quando si complica l’esistenza con qualcosa che invece è molto semplice. A risolvere questo tipo di problemi ci arrivo anche io… ecco, invece la tua amica penso sia davvero complicata!”
“Oh, Rebecca! Poverina, l’abbiamo lasciata da sola!”
“Rebecca? Un bel caratterino, eh.”
“Oh tu non ne hai idea!” sorrise enigmatica Riza, pensando che in fondo un primo approccio tra quei due era stato fatto in maniera del tutto inaspettata.
“Ecco vedi, – disse Jean, mentre si riavviavano – il sorriso che hai appena fatto è tipicamente femminile e dunque completamente al di fuori della mia comprensione.”
Fu una confessione così sincera e desolata che Riza non poté far a meno di scoppiare a ridere.
Sì, c’erano molti sottintesi in quel sorriso, ma lei non aveva alcuna intenzione di svelarli.
 
Henry si era trovato altre volte in situazioni pericolose per via delle rivalità con altre bande: sapeva benissimo che i rischi erano sempre dietro l’angolo ed era disposto ad accettarli. Del resto, in genere, i conti si regolavano in gruppo e dunque si aveva la certezza che in qualche modo le proprie spalle erano coperte.
Ma era anche vero che a volte si usciva fuori dagli schemi, anche la sua banda l’aveva fatto ogni tanto.
Solo che… non immaginavo di trovarmi in una simile situazione.
 Terza e prima superiore, quindici e tredici anni… in balia di due ragazzi a cui qualche giorno prima aveva giocato un brutto tiro non era molto bello.
Era accaduto tutto così in fretta che nemmeno lui se ne era reso conto: era quasi arrivato a scuola quando delle mani l’avevano afferrato per le spalle e l’avevano trascinato via, fino ad una macchia di alberi poco lontana. Nella piccola radura l’avevano spintonato a terra e solo allora si era potuto girare e riconoscere i suoi aggressori.
Punizioni esemplari, in genere era così che venivano denominati questi pestaggi singoli. Un avvertimento o, come in questo caso, un conto personale con una determinata persona.
Henry lo capiva benissimo: si era esposto troppo nel momento in cui aveva rubato i quaderni di quei ragazzi. Ma era una prova di coraggio e gli serviva per salire di grado nella banda… e quando fai simili prove, i tuoi compagni ti lasciano solo quando subisci eventuali rappresaglie.
Vigliacchi!
Anche se lui era stato il primo a lasciare solo dei suoi amici quando era capitata loro la medesima sorte.
Ma faceva davvero paura subire le angherie quei due ragazzi più grandi… non era mai stato picchiato così forte e senza possibilità di reazione: quando uno molto più grande di te ti tiene fermo, chi ti picchia ha gioco molto facile… ed i suoi aguzzini si erano scambiato il turno già diverse volte.
“Ma guardalo – lo prese in giro il più grande, mentre lo spintonava contro un albero – singhiozza il moccioso! Senza gli altri a pararti il culo è difficile fare il gradasso, eh?”
Henry avrebbe voluto smettere di piangere, ci aveva provato in tutti i modi: le lacrime lo facevano sentire maledettamente debole, come quel dannato Kain Fury. Ma era impossibile fermarle, assieme ai singhiozzi: dolore, paura, ansia... troppi fattori ad alimentarle.
Smettetela, vi prego! Ma per quanto avete intenzione di continuare? Fa così male… fa male!
Una forte sberla lo fece cadere a terra e sentì il sapore del sangue invadergli la bocca. Il suo lamento sembrò provenire da lontano, ma per intuizione capì di essere stato proprio lui ad emetterlo. Così infantile, manco stesse cercando la mamma.
“Pensi che abbiamo finito, Henry? – chiese l’altro prendendolo per i capelli e incitandolo a rialzarsi – Dato che abbiamo saltato la scuola per te ce la godiamo fino alla campana finale, non credi?”
“No, io credo che invece la finiate qui!”
Heymans?
“Che cosa vuoi, Heymans?” chiese uno dei giovani, le loro voci ormai si confondevano nella mente annebbiata di Henry.
“Avete fatto abbastanza, Denny, – disse la voce, mentre dei passi si avvicinavano – direi che la vostra vigliaccata può terminare.”
“Sono questioni tra bande… tu non ti intromettere, indipendente!”
“Tra bande? Qui vedo sono un due contro uno veramente sleale… facile picchiarlo, vero? Adesso fatemi il favore di smammare e lasciare in pace mio fratello, va bene?”
“Cosa?”
“Hai capito bene, Ron, oppure volete mettervi contro di me? Forza, provate: non c’è nemmeno Jean, è un due contro uno, no?”
Nessuna risposta.
Henry teneva lo sguardo basso a terra, ancora nella posizione rannicchiata: sentiva il cuore gonfio di vergogna ma anche di sollievo.
Niente più botte…
“Va bene – disse infine uno dei suoi tormentatori – direi che può bastare. Ma che tuo fratello non osi più tirare la corda in questo modo…”
“Vai al diavolo con le tue minacce, Ron.” si limitò a dire Heymans.
Rumore di passi che si allontanavano da quel posto… solo allora Henry sentì la presenza di suo fratello accanto a lui.
“Ehi, Hen – lo chiamò con calma, accarezzandogli i capelli – va tutto bene?”
Perché!? Perché sei intervenuto!? Mi hai umiliato davanti a tutti!
Nessuna di queste accuse uscì dalla sua bocca, mentre si metteva seduto, aiutato dal fratello.
Finalmente si decise a guardarlo in faccia e vide che la sua espressione era carica di preoccupazione, ma anche di rimprovero.
“Potevo fare da solo…” mormorò, accorgendosi che il labbro inferiore faceva davvero male.
“Contro quei due? Certo, come no: ti sei andato a mettere contro due dei più bastardi… posso sapere che hai combinato per farli arrabbiare così?”
Nel frattempo aveva recuperato la tracolla del bambino, abbandonata di lato, e aveva tirato fuori la borraccia d’acqua. Prese un fazzoletto e lo bagnò per poi pulire il labbro spaccato.
“Smettila!”
“Smettila tu di fare l’idiota, Hen! Pensi che la mamma sarà felice di vederti tornare in questo stato?”
“Era… era una prova di coraggio – si difese lui, cercando di non pensare a quello che avrebbe detto sua madre – dovevo sbrigarmela da solo.”
“Fai vedere l’occhio… ti si sta gonfiando parecchio.”
“Non è niente.”
“Risparmia simili cavolate con me, – sospirò Heymans dopo qualche secondo – ho provato anche io simili colpi e so che fa parecchio male.”
Persino le lacrime sembravano dar retta a suo fratello: iniziarono a scorrere più veloci, segno di debolezza e umiliazione.
Quanto si odiava…
“Sto bene!” singhiozzò.
“Allora facciamo che queste lacrime le sfoghi adesso, va bene? – la mano di Heymans gli accarezzò la chioma rossa in gesto di conforto – Così come torniamo a casa sei più tranquillo, mh? Fidati, se le trattieni poi escono tutte in una volta appena vedi la mamma.”
“Non sono un debole!” pianse lui.
“Cacchio, Henry, ho pianto anche io alla tua età!”
“Bugiardo! Solo i deboli piangono… lo dice sempre papà.”
“Ma perché lo devi sempre ascoltare!?”
Henry non rispose e fissò con ostinazione il terreno. A quella chiusura a riccio il fratello sospirò e riprese a pulirgli il viso: almeno in questo non opponeva resistenza.
“Ora sarò bollato come debole…” mormorò dopo qualche secondo.
“Se io e Jean pestavamo quei due ti assicuro che piangevano come fontane, fidati! E di certo non li consideri deboli.”
“Diranno tutti che mi sono fatto difendere da mio fratello! – si sfogò lui – E quando lo saprà papà…”
Già… e quando l’avrebbe saputo suo padre? Che avrebbe detto? Si sarebbe arrabbiato nel constatare la sua debolezza? E quando si arrabbiava sua madre finiva spesso in lacrime…
Heymans lo fissò con quella che si poteva definire comprensione e una piccola parte della mente di Henry iniziò a sperare che il fratello in qualche modo lo aiutasse a risolvere questo problema.
“A papà non diciamo nulla di quanto è successo, va bene? – disse infine – E credimi che quei due idioti non diranno niente in merito perché sanno che se la dovranno vedere con me se aprono bocca.”
“E come… come giustifico tutto questo?” chiese Henry, mostrando le braccia piene di sporco e lividi.
“Ti sei azzuffato con loro, ma io non sono mai stato presente… tanto a quest’ora papà dorme e quindi non dovrebbe vederci tornare a casa assieme. Raccontiamo le cose alla mamma e poi…”
E poi riniziava la solita recita: lo pensarono entrambi, sicuramente, anche se nessuno completò la frase.
“Funzionerà?” chiese Henry con disperazione.
“Fidati di me.” annuì, l’altro con un sorriso.
Quell’ultima affermazione fu detta con tale sicurezza che Henry si sentì sollevato di un grandissimo peso: ora che l’angoscia spariva, restava posto solo per il dolore fisico e per lo spavento che aveva provato in quelle tremende ore. Si appoggiò al petto del fratello maggiore, stringendogli le braccia al collo e sfogò tutte le sue lacrime residue.
“Va tutto bene, fratellino – continuava a ripetere Heymans, accarezzandogli i capelli – va tutto bene…”





Aggiunti i disegni al capitolo 8 "Vittima e carnefice"
andate a vederli perché sono troppo belli *__*
  
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