XI
I
pomeriggi di Maggio stavano andando via rapidi tra la biblioteca ed
il parco per la preparazione agli esami e agli ultimi compiti in
classe.
Mirella, Rachele e i due ragazzi stavano costantemente
insieme, riuscendo ad alternare lo studio e lo svago in modo maturo e
proficuo.
Dopo la discussione con Danilo Bozzi la ragazza di
Torino aveva cercato di dimenticare tutto, la stella cerchiata in
bagno e le occhiate dei compagni stupiti di avere a che fare con la
figlia di una vittima del terrorismo, ma non era una cosa
semplice.
Non aveva raccontato a nessuno, neanche alla sua amica,
dello schiaffo. Anzi, a mala pena le aveva detto del litigio, se
così
lo si poteva definire, mentre ai due ragazzi aveva appena accennato i
sospetti che aveva su Bozzi per quanto riguardava il disegno apparso
a scuola.
In
fondo, tolto a lei, degli autori di quello non interessava niente a
nessuno.
All'inizio il preside dell'istituto e qualche professore
avevano minacciato ritorsioni, alcuni avevano addirittura iniziato a
fare attenzione alle parole che uscivano dalla bocca di quei ragazzi
definiti più facinorosi, ma alla fine non era successo altro
e tutto
era stato sostanzialmente dimenticato.
A casa Mirella aveva
raccontato della stella solo al fratello, ma neanche con lui aveva
fatto parola riguardo a Danilo e tutto il resto.
Bruno continuava
la sua sconclusionata vita nascondendo sempre meglio ciò che
faceva.
Non riusciva a smettere, non era in grado di chiedere
aiuto.
La casa dove vivevano era piena di foto loro e,
soprattutto, del defunto padre.
Era passando davanti a quelle che
Bruno si sentiva più in colpa, quando realizzava che la Dama
Bianca,
così la chiamava con i suoi amici, aveva tradito tutte le
aspettative che Rodolfo aveva potuto avere su di lui, e non solo; a
causa del modo malsano con cui stava conducendo la sua vita si era
lentamente trasformato da vittima del terrorismo, del fato o di chi
fosse, a carnefice di sé stesso e della sua famiglia.
Per quanto
fingesse di credere che tutta quella storia avrebbe danneggiato solo
lui, infatti, sapeva benissimo che prima o poi ci sarebbero andati in
mezzo anche sua madre, sua sorella e il piccolo Guido.
Lo sapeva
e si faceva schifo, se lo ripeteva continuamente, ma non poteva
uscire da una cosa del genere semplicemente desiderandolo.
Magari
fosse stato così facile, si diceva spesso, magari fosse
stato solo
un fatto di volontà.
La dipendenza che aveva sviluppato in quei
mesi non si riduceva ad una semplice necessità fisica della
dose di
cocaina, perché lui paura di morire non ne aveva e se si
fosse
trattato solamente di quello avrebbe provato a dire basta, a costo di
affrontare le crisi di astinenza e, forse, anche l'ora più
grave
della vita.
No, la dipendenza era psicologica e assolutamente
necessaria per andare avanti.
C'era la morte di suo padre dietro
a quel bisogno costante di sporcarsi di bianco il naso e assaporare
il violento distacco con la realtà.
Era per lui ormai un obbligo
dimenticare, spesso, i minuti più tristi della sua vita con
un
semplice respiro profondo che gli apriva i polmoni a qualcosa di
innaturale.
Innaturale come l'omicidio di Rodolfo, innaturale come
suo fratello minore che si svegliava in lacrime sognando la
sparatoria.
Pareva quasi una gara a ciò che era meno naturale
tra il suo drogarsi e l'uccidere dei terroristi.
E per quanto ci
provasse a dire che loro avevano potuto scegliere e lui no,
perché
la droga come sollievo gli era capitata solo a causa del dolore
provato, sapeva benissimo che non era vero.
Lo sapeva perché
spesso ammirava sua sorella.
Mirella era bella, di una bellezza
che andava oltre i lineamenti ancora dolci e a tratti infantili.
Aveva quella bellezza che regalano gli occhi di chi ha sofferto
ma riesce ancora a sorridere, la bellezza di una forza d'animo che
lui in sé non aveva mai trovato.
Si rispondeva sempre allo stesso
modo, come si era risposto una sera tornado a casa in macchina; per
lei era stato semplice, aveva guardato negli occhi Guido e aveva
capito di doverlo proteggere, e quando devi proteggere qualcuno il
tempo per guardarti dentro e decidere che il peso che hai sul cuore
deve essere esternato non c'è.
Anche Bruno adorava il
fratellino, come adorava la ragazza e la madre, e per loro ancora
portava a casa lo stipendio e aiutava quanto potevano.
Ma erano
gesti divenuti di routine, gesti necessari alla sopravvivenza di
quattro esseri umani, non a quella di una famiglia.
Si rendeva
sempre più conto di come avesse fatto suo il ruolo del padre
non
come figura piena di affetto e premure ma come semplice mezzo di
sussistenza.
Lui era l'uomo di casa in quanto grazie a lui si
metteva un pasto caldo in tavola, nient'altro.
Quando guardava i
suoi cari sorridere, magari anche a causa sua, si sentiva comunque
combattuto tra un sentimento di gioia e una completa apatia.
Si
chiedeva se non fosse stato semplicemente ingiusto l'obbligo che gli
era calato sulle spalle, forse arrivato proprio come fosse una
punizione.
Un sacco di amici della sua età erano vicini al
metter su famiglia, mentre lui, prima, quando le cose erano diverse e
la vita era ancora bella davvero, preferiva solo divertirsi e non
pensarci, lasciare tempo al tempo.
Aveva vent'anni e si sentiva
ancora un ragazzino, e ogni volta che vedeva suoi coetanei in giro
per il centro di Torino a cercare un abito per il matrimonio aveva
voglia di prenderli in giro.
Poi da un giorno all'altro, senza
mettere in mezzo fidanzate o cerimonie, si era trovato con una
famiglia da portare avanti.
E si era sentito solo, triste, stanco.
Ed era arrivata la Dama Bianca, lei che portava via ogni
tristezza, ogni dolore.
Al posto dell'amore per quel pezzo di
famiglia che gli era rimasto, al posto del desiderio di riscatto dopo
quell'assurdo dramma, al posto della voglia di trovare una donna
tutta per lui con la quale avere una propria famiglia a cui per nulla
al mondo avrebbe fatto passare i suoi dolori.
Al posto di ogni
possibilità di andare avanti aveva preferito dimenticare.
E tra
tanti metodi per farlo aveva scelto il peggiore.
****
Tre settimane prima della
fine della scuola il malato modo in cui Bruno stava vivendo la sua
vita lo aveva portato in galera.
Mirella era tornata a casa dalla
biblioteca come tutti i giorni e aveva trovato nell'appartamento la
madre in lacrime e la polizia.
Il ragazzo era già stato portato
in questura, ma gli agenti dovevano fare una perquisizione.
Guido
era stato mandato da un amichetto e lì sarebbe rimasto fino
al
giorno seguente, non gli era stato detto nulla e nulla gli sarebbe
stato detto successivamente.
Nella camera di Bruno erano state
trovate tre bustine di cocaina, e neanche l'abbraccio stretto della
figlia era riuscita a calmare le lacrime di Maria quando, dopo ore
interminabili, erano rimaste sole nell'intimità della casa.
La
donna si incolpava, si malediceva per come aveva creduto che il
figlio fosse grande e forte abbastanza per andare avanti senza
problemi né dolori dopo la morte del padre.
Mirella, invece,
ancora una volta aveva anteposto il dolore di chi amava al suo, e
aveva fatto il possibile per calmare la madre.
Poi l'aveva fatta
cenare e l'aveva messa a letto, dicendole che sarebbe andato tutto
bene, che avrebbero parlato con Bruno il prima possibile, che si
sarebbero chiariti e che lui sarebbe uscito di galera per dire basta
a quella merda e ricominciare una vita vera.
Maria aveva annuito
con lo sguardo vuoto alle parole della figlia, e la ragazza aveva
capito che in quel momento non aveva senso parlare del futuro.
Lo
shock della madre era stato molto forte, forse il secondo
più forte
della sua vita dopo la morte di Rodolfo, e almeno per quella sera non
si poteva pretendere molto da lei.
Quando la donna si era
addormentata la ragazza aveva sistemato la cucina e poi aveva fatto
per coricarsi.
Ma appena prima di raggiungere la sua camera era
passata davanti a quella del fratello e aveva visto il disordine
lasciato dalla perquisizione.
Bruno e Guido dormivano assieme, e
Mirella non poteva permettere che il piccolo trovasse la stanza in
quelle condizioni una volta tornato a casa.
Anche perché a quel
punto avrebbe dovuto inventare altre bugie oltre tutte quelle che
aveva promesso alla madre di dire al fratellino per nascondere
l'arresto del ragazzo.
Si era così messa a risistemare un minimo
le cose, per far finta che nulla fosse accaduto e rendere la camera
ordinata.
Mentre sistemava aveva trovato una foto di famiglia a
terra, sotto la scrivania del fratello più grande.
Era la foto
del giorno dei suoi diciotto anni, appena dieci giorni prima che
uccidessero suo padre.
A quella vista gli occhi le si erano
riempiti di lacrime, e si era addormentata sul letto di Bruno con la
fotografia tra le braccia.
La mattina dopo le imposte rimaste
aperte della camera l'avevano svegliata molto presto, e il
caffè che
aveva bevuto assieme alla madre, la quale si trovava in condizioni
lievemente migliori rispetto alla sera prima, le aveva fatto pensare
che inutile era rimuginare sull'accaduto, bisognava andare avanti e
attendere di poter parlare con Bruno e con chi lo aveva arrestato.
La
scuola era ormai agli sgoccioli e lei aveva davanti a sé un
esame da
affrontare per chiudere definitivamente il capitolo liceo.
Non
sarebbe stato semplice da quel giorno andare a scuola sapendo che il
fratello era in carcere, né sarebbe stato semplice non
poterne
parlare con nessuno, perché seppur Maria non le aveva detto
nulla a
riguardo lei non era intenzionata a raccontare dell'accaduto neanche
agli amici più cari, ma ce l'avrebbe fatta.
L'anno precedente
aveva affrontato gli esami con le immagini terribili della sparatoria
ancora fresche nella mente, quell'anno sarebbe riuscita a fare lo
stesso pur tenendo nel cuore quel pesante segreto.
Alla fine era
rimasta a casa, per quella mattina, ed era stata grata al Cielo del
fatto che fosse sabato, così che avrebbe avuto anche il
giorno
successivo per riprendersi e stare con la madre.
Guido era
tornato a casa nel pomeriggio e subito aveva domandato dove fosse il
fratello maggiore, credendo senza problemi a ciò che gli era
stato
raccontato, ovvero che il ragazzo era via per motivi di lavoro.
La
domenica mattina era arrivata una telefonata dalla questura che
chiedeva alla madre di presentarsi lì la mattina seguente.
Maria
aveva a lungo domandato alla figlia di accompagnarla, come se per un
attimo i ruoli tra le due si fossero scambiati, ma alla fine aveva
accettato di andare da sola.
Non le avevano fatto vedere il
figlio, le avevano solamente detto che era imputato per la detenzione
della cocaina e che sarebbe stato processato subito quella settimana.
Tornata a casa Maria aveva parlato con la ragazza e lei aveva
deciso che, se la loro presenza fosse stata consentita, sarebbe
andata con lei all'udienza.
Il giovedì successivo, a nemmeno una
settimana dall'arresto, Bruno era stato condannato a tre mesi, una
specie di grazia dovuta alla quasi totale impurità della
sostanza.
Durante il processo Bruno non aveva guardato neanche per un
momento nella direzione delle due, ma poi, prima di lasciare la
gabbia per tornare in carcere, aveva alzato gli occhi e incrociato lo
sguardo triste e addolorato di Mirella.
Lei lo aveva fissato un
attimo, poi aveva scosso la testa e a sua volta aveva abbassato gli
occhi.
Avrebbe voluto far scendere calde lacrime lungo le sue
gote, ma alla fine si era finta forte per sua madre.
Ancora una
volta aveva poi pianto di notte, nel silenzio del suo letto.
Ed
era andata avanti, fino all'esame.
Si era nascosta per bene il
peso dell'incarcerazione del fratello dentro al cuore, aveva detto a
sua madre di farsi forza, aveva convinto Guido che presto Bruno
sarebbe tornato.
E aveva concluso il suo periodo da liceale su una
spiaggia, con Rachele, Carlo e Simone.
Davanti ad un tramonto
spettacolare, ad Ostia.
Dimenticandosi del fratello cocainomane,
dei ricordi della morte di suo padre che le venivano in mente appena
chiudeva gli occhi.
Aveva concluso il suo periodo da liceale come
qualsiasi altra ragazza.
E lì, su quella spiaggia, dopo chissà
quanto tempo si era sentita felice.
****
La vita del carcere era
dura.
Bruno, quando con gli amici si divertiva in modi poco
legali, non ci pensava neanche a cosa gli sarebbe potuto accadere.
Ma
trovandosi lì capiva benissimo la grandezza dei suoi errori.
Forse
morire sarebbe stato anche meglio, ma l'idea di ammazzarsi non lo
sfiorava neanche.
Un conto sarebbe stato morire, per overdose,
ammazzato o in un incidente, un altro era uccidersi, privarsi di
propria spontanea volontà della vita. Da una parte c'era
anche un
sottofondo di orgoglio nell'essere liberi di scegliere se vivere o
morire, ma dall'altra sapeva che non avrebbe avuto il coraggio di
fare una cosa del genere.
No, forse era meglio attendere che quei
tre mesi passassero e poi decidere cosa fare davvero della sua vita.
Intanto però quei tre mesi dovevano passare, e sembravano
non
averne nessuna voglia.
Aveva come compagno di cella un ragazzo
della sua stessa età, un comunista finito in galera
perché prima
aveva frequentato il gruppo sbagliato.
Proprio come lui.
Non
si parlavano molto, ma riuscivano a intendersi quelle poche volte che
scambiavano due parole.
Un pomeriggio di luglio Bruno era stato
chiamato a colloquio con l'avvocato o con la famiglia, non lo
ricordava più, e il compagno di galera aveva sentito il
secondino
fare il suo cognome.
Quando il ragazzo era rientrato nella cella
l'altro lo aveva bloccato.
- Fai di cognome Birgazio?-
- E
anche fosse?
- E sei di Torino?
- Ma mi spieghi perché
domandi? Qui non siamo noi a fare gli interrogatori .- Aveva
sospirato Bruno buttandosi sulla brandina, sperando che il compagno
di cella smettesse istantaneamente di fare domande.
Ma quello non
ci pensava minimamente.
- L'altro anno a Torino è morto un
commissario di polizia che aveva il tuo stesso cognome, mi chiedevo
se foste parenti.-
A quel punto Bruno aveva girato il volto e lo
aveva fissato stranito, con uno sguardo che voleva essere incazzato
ma che non riusciva a essere più di stupito.
Sbuffò guardando in
alto e poi decise che non c'era più niente da nascondere.
- Era
mio padre. L'hanno ammazzato dei comunisti di merda come te. Sotto
casa, sotto i miei occhi. Sotto gli occhi di mia sorella di appena
diciotto anni e mio fratello di neanche otto. Neanche otto anni,
capisci? E si è visto ammazzare il padre nella via di casa.
Ma
ora dimmi a te di tutto questo che cazzo te ne frega!-
Lentamente
la rabbia era montata, il ricordo della sparatoria e del resto, dopo
quasi diciotto mesi, non faceva altro che provocargli quel
sentimento, il dolore era ormai così continuo da non venir
più
fuori per eventi simili.
– Perché sono un comunista di merda,
hai ragione tu. Ma proprio per questo so cose che non sai. So che
chiunque abbia sparato sotto casa tua quel giorno non era un
compagno, so che si sono finti rossi perché neanche loro
avevano
capito cosa fosse accaduto.
So che tuo padre non doveva morire.-
Note
dell'autrice
Bella l'ultima frase? Eeeeh
curiosi vero? :D
LoL.
No, tanto non anticipo nulla ^-^
Mi
scuso solo perché questo e i prossimi capitoli saranno un
po'
rapidi, ma per esigenze narrative ho bisogno di far accadere
parecchie cose in poco tempo :P
Vi ringrazio per le recensioni, le
letture e i seguiti, è bello sapere che una storia
particolare come
questa possa piacere.
Spero di riuscire ad aggiornare in fretta
anche prossimamente, ho stilato un primo piano per la stesura e
parrebbero venir fuori ben cinquanta capitoli esatti (spero di
farcela perché adoro le cifre tonde **)
Niente, io vi saluto, che
magari mi viene anche voglia di fare fisica, e vi mando tanti tanti
baci :**
Ci sentiamo alla prossima!
Ciao :3