Videogiochi > Assassin's Creed
Segui la storia  |       
Autore: RobynODriscoll    31/01/2014    6 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Ero furiosa – eppure, anche in quello stato emotivo completamente alterato ebbi l'onestà di riconoscere che non c'era nessuno con cui ce l'avessi davvero, se non me stessa. Mi ero lasciata accecare dall'odio, avevo perso lucidità in un momento critico. Se non fosse stato per Martino, probabilmente non avremmo portato la Mela con noi. Mentre cavalcavamo attraverso la nebbiolina sempre più rada, io con Ermes e Martino con Margherita in sella dietro di lui, continuavo a risentire nella testa il suo tono appassionato, eppure calmo, mentre contrattava con la Borgia. Il dolore, e l'immensa dignità, con cui aveva parlato di Mirandola...perché io non riuscivo a trasformare la mia rabbia in quel genere di forza? Ero indegna degli insegnamenti di mio padre fino a quel punto?

Persino Vanni era sembrato qualcosa di più di un bambino sperduto, quel giorno, accanto alla sua Maestra per cui aveva dichiarato di poter dare la vita senza rimpianto. Ed io non riuscivo ancora a liberarmi dell'impulsività. Non riuscivo ad essere ciò che tutti si aspettavano da me.

Ora che Nicola non c'era più, quell'eventualità che Vanni aveva millantato più di una volta iniziava a prendere corpo nella mia mente, pesante come un macigno. Ezio non me ne aveva mai parlato apertamente, ma c'era la seria possibilità che un giorno avrei preso in mano le redini della confraternita al suo posto. Avevo solo ventidue anni, e mio padre era ancora nel pieno delle forze; era presto per pensarci, mi ripetevo, avrei avuto tempo di apprendere e migliorare. Ma poi il pensiero correva a Odette, che a venticinque anni aveva radunato intorno a sé tutti gli Assassini di Francia, e un brivido freddo mi percorreva la schiena. Non sapevo quando il fato mi avrebbe posto tra le mani quel fardello. Il tempo del mio apprendistato poteva finire in qualsiasi momento.

Il mio compagno ed io non parlammo se non quella notte, mentre eravamo accampati lungo la strada che ci avrebbe portato a breve a Firenze. Jacopo e due reclute si erano accollati il primo turno di guardia. Ermes si era già coricato, dopo essersi curato che la sua giovane signora fosse al sicuro e dormisse tranquilla. Avevamo tolto loro tutte le armi, ma il templare bolognese sembrava comunque pronto ad affrontarci tutti quanti da solo, a mani nude se fosse stato necessario, per difendere quella ragazzina che tanto somigliava a Lucrezia.

Mi stesi accanto a Martino, e d'istinto rimboccai il mantello sulle sue spalle. In quelle zone faceva ancora fresco, la sera, nonostante fossimo in piena estate. Poi, mi stesi con la schiena contro il suo petto, e la testa poggiata sul mio braccio ripiegato, cercando di invocare un sonno che, lo sapevo, non sarebbe arrivato in fretta.

Sentii il suo braccio cingermi la vita.

«Te va de palla'?»

Il suo sussurro mi raggiunse appena le orecchie. Sospirai.

«Di cosa?»

«E' tutto 'r giorno che nun me guardi.»

«Non è per te.»

«Dovevo fallo, Bià. 'a situazione era...»

«Lo so. Tu hai fatto quello che dovevi.» Intrecciai le dita alle sue, e finalmente ammisi: «Ho perso la testa. Non avrei dovuto provocarli così. Ma ho ricordato lo sparo, e il sangue, e il funerale...e Diamante che bacia il suo anello, e...»

«'O so.»

«Mi ha scritto, sai? Oreste ancora non si è ripreso. Non parla più, da quando gli ha dato la notizia. Un ragazzo di sedici anni, che non parla per mesi...»

«'O so, Bià.» Il suo bacio sulla spalla. «Ma dovemo guardà avanti. Pe' noi, e anche pe' quelli che ancora nun ce riescono. E pe' li regazzini. Oreste. Lisabetta. Emilia. Senza li omini de Lucrezia nun ce la faremo mai a da' loro 'n futuro.»

Restammo in silenzio per qualche istante. Poi, torsi un po' il busto, e voltai il viso verso di lui. «Sono orgogliosa di te, lo sai?» dissi soltanto, lasciando un breve bacio sulle sue labbra. Non ebbi il coraggio di aggiungere che era stato più Assassino lui, che voleva ritirarsi dall'Ordine, di quanto non lo fossi io, la figlia del Mentore. Non dissi che Ezio sarebbe stato fiero del suo comportamento, e che avevamo bisogno di uomini come lui nelle nostre fila, uomini che conoscono il valore dell'onore e dei giuramenti. Martino non rispose, ma sono certa che sentì tutte quelle parole, anche se non volevo porre il loro peso sulle sue spalle.

«Mo dormi, core mio. E' stata 'na giornata difficile. Domani manneremo 'n messaggero a tu' padre.»

Fu esattamente ciò che facemmo. Il piccione viaggiatore ci avrebbe preceduto, invitando mio padre a raggiungerci a Monteriggioni; noi vi arrivammo con i cappucci calati sul viso per ripararci dal sole, in un mezzogiorno che inondava i campi toscani di luce.

La vigna sul fianco della collina prosperava, con i suoi viticci gloriosamente verdi e rigogliosi. Pensai che in ottobre avremmo avuto un'ottima vendemmia, e una fitta di nostalgia mi serrò il cuore. Da quanto tempo non vedevo casa mia. Quattro anni. Potevo ancora chiamarla casa mia? Avrei trovato ancora le botteghe al loro posto, e avrei provato di nuovo quel senso di pace nel vedere Villa Auditore emergere lentamente tra i vicoli del borgo?

«Ricordo, adesso.»

Era la voce di Ermes che mi gravava sulla spalla.

«Il giorno in cui ho ucciso Charles d'Amboise, e tu volevi ficcarmi una lama celata in gola...dicesti che non avresti avuto pace fino a che io fossi vissuto. Mi sono chiesto perché mi odiassi a tal punto, giovane Auditore.» Il suo sguardo rosso si perse sui merli delle nostre mura. «Ora lo so. E' stato qui che ci siamo incontrati per la prima volta. Ricordo quella ragazzina vestita da maschio, che mi ha fatto quasi ammazzare.»

«Hai lasciato il tuo uomo indietro, quel giorno. E' morto come un animale rabbioso.»

«Era un servo. Aveva giurato di morire per la casa dei Bentivoglio, e l'ha fatto, come suo dovere.»

La freddezza nelle sue parole mi disgustò.

«Così come Lucrezia chiederà a te di morire per la sua causa, un giorno.»

«Esattamente, sì. Vedo che inizi a comprendere il pensiero templare.» Non c'era ironia nella sua voce. «Nasciamo nelle gerarchie, respiriamo nelle gerarchie, e versiamo sudore e sangue per chi è più in alto di noi. Le gerarchie ci dicono chi siamo, e tutti vogliono morire sapendo chi sono.»

«Hai davvero bisogno che sia qualcun altro a dirti chi sei?»

«Sì. Altrimenti potrebbe essere solo una bugia che racconto a me stesso.»

«E se fosse una bugia che raccontano a te?»

«Ci sono menti superiori alla nostra, ragazza, è questo che tu non comprendi. Sei chiusa nella tua arroganza, e non riesci a compiere un semplice atto di sottomissione. Se una mente illuminata come quella di Lucrezia Borgia mi dice che io devo dare la mia vita per lei, allora sì, significa che è davvero necessario per raggiungere un bene superiore. Questo è il significato dell'umiltà.»

Presi negli occhi quella visione della mia casa che non riabbracciavo da anni, fissai ogni dettaglio nella mente. Chiusi le palpebre per un attimo, prima di riaprirle e voltarmi per guardarlo. «Una volta credevo che il mondo non fosse abbastanza grande per noi due, per questo pensavo che ti avrei ucciso. Ma oggi ho capito una cosa.»

Lui inarcò il sopracciglio. Riconobbi in quell'espressione la stessa che avevo visto in Vanni. Ecco, pensai, da chi il mio fratello traditore aveva appreso l'ironia. «Ti prego, illuminami con la tua saggezza.»

Mi umettai le labbra. «Crediamo in qualcosa di così diverso che la vita non può dare ragione a entrambi, Bentivoglio. O me, o te. In questo senso, non possiamo sopravvivere se l'altro non muore.»

«Ed è proprio necessario che uno dei due muoia, per provare chi è nel giusto?»

Lo fissai in silenzio per qualche istante. «Non per ora.»

I nostri ostaggi avevano i polsi legati per precauzione, e restarono a cavallo dietro di noi, mentre attraversavamo la cinta muraria che conoscevo così bene. Oltrepassando il portone sfiorai distrattamente i suoi cardini, lascia scivolare i polpastrelli sulla superficie del torrione, che si ergeva sulle nostre teste come una sentinella. Non saprei spiegare la scarica che si trasmise dalla pietra a me. Fu come se le mura stesse respirassero, e inoculassero il loro bentornata attraverso la mia pelle. Sì, quella era ancora casa mia.

Eppure, c'era un rituale che non poteva essere espletato, quella volta. Di tutti i miei ritorni a Monteriggioni, quello fu senz'altro uno dei più tristi; perché sulle scale che conducevano alla Villa, questa volta, non c'era nessuno ad attendermi. Non la figura snella di nonna Maria, con gli occhi acuti come quelli di un'aquila che scruta l'orizzonte; né la silenziosa e rigida vedetta di zia Claudia, il nostro faro nella tempesta, sempre pronta a guidarci verso casa con la sua solida presenza. Lisabetta non mi sarebbe corsa incontro; non ci sarebbe stato l'abbraccio di Agamennone, né le battute pungenti di Veronica; non ci sarebbe stato il sorriso calmo di Nicola...quello non l'avrei rivisto in nessun luogo. Mia madre, zio Ugo...lontani, tutti impegnati nella loro battaglia. Questa volta sarebbe toccato a me attendere, e accendere il fuoco di sentinella per mio padre.

Fu strano. Per la prima volta mi mossi come se fossi la padrona di quella casa. Convocai gli attendenti e i domestici, assegnai stanze ai miei ospiti – quelli graditi e quelli un po' meno -, presi decisioni sulla sorveglianza degli illustri ostaggi che avevamo portato con noi e diedi disposizioni per la cena, precisando che a giorni ci avrebbe raggiunto anche il Signore della Villa, e che desideravo la trovasse al meglio. Avevo trovato una leggera patina di incuria: no, non sporcizia, in questo i domestici erano stati solerti. Forse saranno state le aree chiuse, come il Laboratorio (dopo tutto a chi serviva quella stanza? L'architetto aveva cambiato committente da anni) a darmi quell'idea di spoglio, di freddo. Volevo fiori freschi, ante aperte per lasciare entrare luce e calura estiva. Volevo tutti quei piccoli dettagli che avrebbero trasformato di nuovo la Villa nel nido accogliente dei miei ricordi.

Infine, quando tutto sembrò risolto, mi trovai a voltarmi verso il manipolo di assassini che mi seguiva. Jacopo se ne stava a fissarmi con aria sorniona, e pure Martino aveva incrociato le braccia al petto, divertito.

«Che c'è?» dissi, sgranando gli occhi.

«Te diverti affà 'a padrona der maniero, eh?»

Sentii, nonostante tutto, che una risata mi fioriva in gola. «Chi, io?»

«Proprio tu, Madonna Auditore» mi prese in giro Jacopo. «Sappiamo bene che tutto questo un giorno sarà tuo, non c'è bisogno che tu ce lo ricordi così, sai?»

Scherzava, lo sentivo dal suo tono. Per un momento mi tornò in mente una bambina di quattro anni che arriva per la prima volta alla Villa, e dice al padre, a lei ancora semi-sconosciuto: Quando morirete, tutto questo sarà mio! Provai insieme tenerezza, rimpianto, e un brivido di presagio. No, non volevo che Monteriggioni fosse mia, non ancora. Non ero pronta. Avevo bisogno di Ezio, adesso più che mai.

Avevo pensato che quello di Lucrezia potesse essere un trucco per attirare i suoi alleati francesi a Monteriggioni e assediarci, sì. Per questo avevo chiesto alle guardie di raddoppiare la vigilanza, e tenere sempre artiglieri accanto ai cannoni. Tuttavia, cercai di spingere quella possibilità sul fondo della mia coscienza, e rilassarmi. Era stato un lungo, snervante viaggio.

Mi concessi un bagno rilassante, in compagnia di Martino...per amore dell'economia, si intende. Troppi ospiti per sprecare acqua preziosa con due lavacri separati. Quindi, quando fummo entrambi ristorati a sufficienza ci cambiammo con abiti nuovi – invece di scegliere un'altra divisa, mi concessi un abito semplice, ma femminile, dei pochi che mia madre possedeva. Mi metteva a disagio indossare le insegne dell'ordine, quando Martino era in un semplice farsetto e camicia; cercavo di evitarlo ogni volta che l'occasione me lo permetteva.

Tuttavia, un abito femminile non mi spogliava delle mie responsabilità. Chiesi al mio uomo se volesse seguirmi nello studio di mio padre, quello pieno dei quadri dei congiurati. Era lì che avevo dato appuntamento a Jacopo per parlare della missione di salvataggio di Simza. Per un attimo, un bagliore di cupa gelosia gli fece quasi dire di sì; poi, strinse la mascella un momento, mise insieme uno sbadiglio e disse che avrebbe riposato fino all'ora di cena. Capii il suo senso di disagio, e non volli insistere. Per aiutarci, Martino si era già immischiato fin troppo nelle faccende della Confraternita. Mi avrebbe lasciata da sola con il mio ex-amante, e nonostante sapessi che si fidava di me ero anche certa che si trattasse di uno sforzo immenso per il suo carattere possessivo. Questo era l'indice di quanto ancora volesse tenersi lontano dagli affari del Credo.

Jacopo non nascose uno sguardo ammirato e qualche commento galante, quando mi vide arrivare in quella tenuta inaspettata. Liquidai in fretta le sue lusinghe, sedendo nello scranno che apparteneva a mio padre. Poggiai i gomiti sul legno del suo scrittoio, e mi sentii di colpo più forte. Più fiera.

«Adesso parlami di questa storia, e dimmi perché non ne sapevo assolutamente nulla.»

Jacopo vuotò il sacco, con serafica calma. Spiegò che la ragazza gitana non era stata salvata, ma trovata: girovagava per i vicoli in stato confusionale, ed era stato un bene che fossero stati lui e i suoi uomini a incontrarla, invece dei loro nemici.

«Dov'è ora?»

«In una delle mie ville poco fuori Roma.»

«Perché non ne sapevo niente, Jacopo? Hai detto che è stata trovata settimane fa!»

Lui non si scompose per il mio tono irritato. «Perché quando ho suggerito che venisse portata al cospetto di tuo padre mi ha artigliato il braccio fino a farlo sanguinare, e si è quasi buttata ai miei piedi per supplicarmi.» Si battè un indice sulle labbra, un gesto che compiva spesso quando rifletteva. «Credo provi vergogna, sia nei suoi confronti che nei tuoi. O forse è solo panico.»

«Le dobbiamo la vita, sia tu che io. Non le avremmo mai fatto del male.»

«Noi lo sappiamo, ma lei no.» Accennò ad un sorriso. «E' un soggetto interessante, quella ragazza. Non apre mai bocca, ma sa farsi capire perfettamente. Quegli occhi parlano per lei.»

«E' scappata da sola?»

«Non lo so.»

«Andiamo, non mi dirai che non l'hai interrogata!»

«Nel caso non l'avessi notato, è muta.»

«Come hai detto tu, sa farsi capire benissimo. Legge e scrive senza alcun problema.» Mi sporsi di più sullo scrittoio. «Dunque?»

Jacopo prese un sospiro, e si mosse sullo scranno. «Piangeva, Bianca. E tu lo sai, io sono un signore. Non mi piace torchiare la gente in generale, figurarsi le donne che piangono. Preferisco essere più...sottile, diciamo così.»

Non potei impedirmi di inclinare un po' il capo, per studiare il mio ex-amante. «Cosa hai intenzione di fare, con lei?»

«Sarà una mia gradita ospite fino a che non saremo certi che i templari non la stanno più cercando.»

Annuii. «Le organizzeremo una nuova vita lontana da qui, e magari una nuova identità. Voglio che sia libera di decidere per se stessa.»

«Con tutto il rispetto, madamigella Auditore...non è facile nascondere tra la folla una gitana, muta e con gli occhi cangianti come i suoi.»1

«Dunque, qual è il tuo piano per lei?»

«Non lo so. Dovrà essere lei a decidere. Nel frattempo, potrà restare nella mia casa tutto il tempo che vorrà.»

Gli lanciai un'occhiata sospettosa. «Ci sono ottime probabilità che quella ragazza sia mia cugina, Jacopo.»

«E con ciò?»

«Con ciò...attento a come la tratti, o ne risponderai a me in persona. Sono stata chiara?» Accompagnai quella finta minaccia con un sorriso. L'idea mi fiorì in testa rapidamente, e subito provai la voglia di ridere di nuovo. Con Simza, l'impenitente ambasciatore avrebbe trovato pane per i suoi denti.

Per tutta risposta, lui poggiò un gomito sullo scrittoio, avvicinando il viso al mio. «Sei gelosa, Bianca Auditore?»

Non mi scostai, e replicai alla sua evidente voglia di civettare con un sogghigno. «Ti piacerebbe, Jacopo d'Atri.»

Quindi, mi alzai in piedi. Il colloquio era finito, per quel che mi riguardava. Mi ripromisi di far visita a Simza appena fossimo rientrati a Roma. Feci per uscire, quando Jacopo mi fermò con la voce.

«Al passo della Cisa stavi per farci scannare. Lo sai, vero?»

Non aveva un tono di rimprovero. Mi stava soltanto mettendo davanti ad un fatto. Mi fermai, con la mano sullo stipite.

«La diplomazia non è mai stata il mio forte. E' a questo che ci servono gli ambasciatori come te.»

«Le parole di un ambasciatore non sono mai prese per vere, abbiamo questa tediosa tendenza a lavorare per il vantaggio del nostro committente...» Mi guardò, serio. «Se ce la siamo cavata, lo dobbiamo al tuo Martino.»

«Sì.» Abbassai lo sguardo, per un istante. Poi, gli sorrisi. «Capisci adesso, perché ho bisogno di lui al mio fianco?»

Jacopo si battè ancora l'indice sulle labbra. Dopo qualche istante, disse: «La prossima volta potrebbe non esserci. Devi imparare a fare attenzione, se vuoi sederti di nuovo su quello scranno» accennò al posto che avevo appena lasciato «e comandare i tuoi allievi come oggi hai comandato un po' tutti noi.»

Sorrise, bonariamente. Aveva questa abitudine, in parte fastidiosa e in parte interessante, di snocciolarmi le sue piccole perle di saggezza...quella volta, però, mi ero meritata la predica. Jacopo aveva ragione. Potevo aver bisogno di Martino come donna, ma come Assassina dovevo imparare a crescere da sola.

 

Il sentimento con cui mi affacciai alle stanze – sorvegliatissime – che avevo fatto assegnare a Margherita era contrastante. In parte desideravo vedere con i miei occhi che era totalmente sotto il nostro controllo, dall'altra sentivo di dover fare ammenda, almeno in parte, per le mie minacce. C'era anche altro, però, lo riconosco. Il bisogno di capire quella ragazza che una volta avevo rischiato di uccidere; quella ragazza che, ancora bambina, si era infiltrata tra i nemici di sua madre ed era riuscita a colpirci dritti al cuore. Avevo inteso che fosse molto vicina a Vanni, e anche questo era un dettaglio che mi spingeva verso la sua camera. Volevo capire chi avessi di fronte. L'animaletto spaventato che sembrava, o una degna erede di sua madre?

La trovai alla finestra, intenta a guardare fuori. Mi aveva sentita ancora prima di vedere il mio riflesso nel vetro colorato, ma non si voltò. Non aveva nemmeno sussultato.

«Sei venuta qui per farmi quello che hai promesso?»

«Non essere sciocca. Non ti farò nulla.»

Rimasi ferma sulla soglia, per poi ricordare che, dannazione, quella era casa mia. E lei era il mio ostaggio. Si voltò, mi mise gli occhi verdi in viso come due accuse.

«Non sono una stupida. So quanto desideri farmi del male, per farne a Vanni. Per quel tuo amico che lui ha ucciso.»

Non negai. Anzi, rincarai: «E per Martino. Per Nonna Maria. Per i nostri genitori. Per Ilaria. Per me stessa...» Scossi il capo. «Ma non ti toccherò con un dito, perché il mio uomo ha dato la sua parola per te. Il suo onore è più importante della mia vendetta.»

«Anche tu hai dato la tua parola. Il tuo onore non è più importante della vendetta?»

Mi spiazzò, per come lo disse. Senza paura. Senza scherno. Con l'ingenuità di un bambino che porge al genitore una domanda imbarazzante. Non trovai nulla di meglio che replicare con un'altra domanda.

«Vanni è disposto a morire per tua madre. E per te, sarebbe disposto a farlo?»

«Non importa. Quello che conta è che io morirei per lui, senza nemmeno un attimo di rimpianto.»

Lo disse con sicurezza. Come un'adulta.

Strinsi gli occhi a due fessure. Quel senso di rivalsa che mi aveva guidata al Passo della Cisa spinse fuori le mie parole, di nuovo, mentre andavo a sedermi sul letto. «Lo sai che ha un figlio con un'altra donna?»

«Lo so, certo.»

«E ti va bene comunque?»

«E' importante, per lui. Dunque, è importante anche per me.» Si umettò le labbra. «Presto sarò sua moglie. Il matrimonio è stato fissato per la metà di settembre. Voglio essere in grado di condividere tutto ciò che gli è caro.»

Aveva parlato quietamente, con un tono più maturo dei suoi quattordici anni. Solo quattordici...e già sposa. Di mio fratello. Ripensai a Ilaria, sola, con un figlio piccolo, la reputazione distrutta e un sogno calpestato. Strinsi i pugni d'istinto, per contenere la rabbia.

«Perché lo ami così ciecamente? Cosa trovi in lui?»

Lei mi guardò come se mi vedesse per la prima volta. «Tu non lo capisci, vero?»

Mi colpì quella precisa scelta di parole. Già...era quello che mi aveva detto Vanni, nelle prigioni di Castel Sant'Angelo: io non lo avevo mai capito. Secondo lui, nemmeno mi ero mai sforzata di farlo.

La osservai, mentre si sedeva dall'altra parte del letto e si disfaceva la treccia di capelli ancora umidi. Fissò un punto indefinito sulla coperta, mentre prendeva a parlare.

«Giovanni ha un'anima grande come il mare. A volte è in tempesta, ed è una marea che distrugge quello che trova sul suo cammino. Altre volte invece culla i miei pensieri senza nemmeno bisogno di parlarmi....nel suo abbraccio mi sento libera, senza confini. Proprio come quando solchi l'orizzonte su una nave. So che in lui c'è un mondo intero da scoprire, se avrò pazienza abbastanza da calarmi nei suoi abissi. Vanni è un mare che voglio conoscere fino in fondo, come nessuno ha mai fatto. Perché a volte è terribile, e a volte è meraviglioso...ma è sempre tutto, e mai niente. Capisci cosa intendo?»

Non risposi. Mentre continuavo a fissarla, provai qualcosa di molto simile alla tenerezza, mista alla compassione della donna più cinica che sente parlare una ragazzina al primo amore, assoluto, incondizionato. Eppure, quanto vibravano quelle parole. Quanta luce c'era negli occhi di Margherita, quando diceva di voler imparare a memoria gli abissi del mare.

«A me ha fatto soltanto del male. Spero che a te riservi un altro lato di sé.»

«C'è qualcosa che non hai considerato, Bianca. Riguardo a Mirandola.»

Quel breve afflato di accondiscendenza si trasformò subito nella mia più familiare posizione guardinga. C'era meno di mezzo metro di coperta a dividerci, il che mi faceva sentire vulnerabile, in qualche assurdo modo. Ero a casa mia, circondata dagli uomini di mio padre. Margherita era solo un ostaggio, disarmata, impotente.

«Non ho bisogno di considerare niente. A Mirandola, io c'ero» replicai tra i denti.

«Ma non sai cosa gli passava per la testa.»

«E tu sì?»

«Con me si confida.»

«Ti avrà mentito. Se c'è qualcosa che ho capito di mio fratello, è che è un bravissimo manipolatore.»

Lei non si scompose. Tracciò un segno invisibile sulla coperta, lo seguì con il dito. «Su questo hai ragione. E' razionale, logico. A volte risulta freddo, ma tutto ciò che fa ha un senso.» Il suo sentiero immaginario finì nell'aria, quando il polpastrello si ritrasse di nuovo nel pugno. «Ti sei fermata a pensare che forse ha ucciso il suo ex compagno, quel tuo amico, per lo stesso motivo per cui lui lo stava provocando a farlo? Entrambi volevano evitare che vostro padre fosse catturato.»

«Perché Vanni avrebbe dovuto agire contro gli interessi templari?»

«Perché ama Ezio Auditore, più di quanto ami qualsiasi altra persona al mondo...più di quanto amerà mai me, mia madre, o quell'altra donna, o perfino suo figlio. E lo odia, anche, è ovvio. Capisco bene cosa prova, perché è lo stesso sentimento che mi lega a mia madre. Viscerale, assoluto. Violento, fragile.» Si fermò - interdetta, forse, per aver ammesso di fronte a un alleato precario che considerava sua madre una rivale. Poi, scosse il capo. I ricci danzarono intorno al suo viso da angelo. «Vanni ha compiuto molti atti stremi, ma sempre per ciò che credeva giusto.»

«Ammazzando persone con cui un tempo ha diviso il pane? Pugnalando sua sorella e lasciandola a dissanguarsi per strada?»

«Ha avuto paura, quella notte, a Bologna. Lui non voleva farti male, è stata la Mela a soggiogarlo. Non sai quante notti l'ho sentito urlare il tuo nome, i primi tempi, fin dalla mia stanza...ti ha lasciato lì perché era terrorizzato da ciò che il Frutto l'aveva spinto a fare. E' stato codardo, sì. Ma non voleva ferirti, ed era sconvolto.»

Perché non riuscivo a muovermi? Volevo andarmene da quella stanza, troncare il monologo di Margherita e smettere di ascoltare. Eppure, i suoi occhi pacifici mi inchiodavano lì, seduta accanto a lei, dividendo a dispetto di tutto un momento di intimità che stonava con ciò che eravamo una per l'altra.

«Per quanto riguarda quel tuo amico, ancora una volta...è stata una crudele necessità, per Vanni. C'ero anche io quel giorno, e credimi: se avessimo avuto tuo padre in mano allora, oggi non vi staremmo offrendo quest'alleanza vantaggiosa per entrambe le parti, perché saremmo stati capaci di schiacciarvi sotto il pollice.»

Abbassai lo sguardo anche io, a quel punto. Volevo scacciare i ricordi che Margherita aveva evocato. Volevo evitare di dare un nuovo senso alle azioni del mio fratello traditore.

«Spero che non arrivi mai il momento in cui la crudele necessità gli chiederà di sacrificare te, perché lo sai...quello sarà il giorno in cui ti accorgerai di chi è l'uomo che hai scelto.»

Lei scrollò le spalle. «Te l'ho detto. Morirei per lui, senza pensarci. Così come tu rinunci alla vendetta per il tuo uomo, io sono disposta a dare la vita per il mio.»

Sì, era una bambina, e queste parole me ne diedero la prova definitiva. Non capiva la differenza tra il rispetto che portavo all'onore di Martino e la danza da burattinaio a cui Vanni l'avrebbe costretta. Ma andava bene così, dopo tutto. Avevo bisogno di sentirla diversa da me, di sapere che c'era una crepa insanabile a tenerci lontane. Se avessi sospettato, anche solo per un momento, che Templari e Assassini potessero essere uomini con simili bisogni e obiettivi sotto bandiere di colore differente, ogni mia risoluzione sarebbe crollata per sempre.

 

***

 

Ezio ci mise due giorni ad arrivare. Il piccione lo precedette di una giornata intera, il che mi diede modo di organizzarmi. Avremmo avuto i suoi cibi preferiti per cena, la stanza sua e di mia madre pronta, il Laboratorio riaperto. Curai molto quell'arrivo, per evitare di pensare all'impatto che quell'incontro avrebbe avuto sul nostro futuro. Avevamo la Mela, e due ostaggi templari. Cosa avrebbe detto Ezio, questa volta? Avrebbe scorto una minaccia dove noi non avevamo visto che vantaggi? Temevo il suo giudizio quando avesse appreso del mio comportamento al Passo della Cisa, lo ammetto. Tuttavia, trepidavo anche, in un certo senso. Volevo vedere come si sarebbe comportato. Volevo apprendere da lui.

Ezio non arrivò con mia madre, come mi ero aspettata. Non mettevo più in discussione la solidità della loro coppia, ma quella scelta di portare proprio zio Ugo, il suo braccio destro, destò un allarme di qualche genere in me. I miei genitori erano tornati inseparabili come un tempo; dunque, se Ezio aveva scelto di lasciare Rosa a Roma e aveva pensato di portare con sé l'uomo che aveva amministrato gli assassini della capitale per così tanto tempo, significava che aveva progetti grandi, e probabilmente pericolosi, per questo incontro.

Quando mi venne incontro, sulla scalinata che portava alla villa, indossavo di nuovo la divisa da adepta. Ezio sorrise all'angolo della bocca, ma mi accorsi che mi scrutava con serietà. «Figlia mia, tu attiri templari come il miele attira le mosche» mi prese in giro, lasciandomi un veloce bacio sulla guancia. «Ti hanno dato problemi?»

«Nessuno, padre. Sono ostaggi modello.»

«E sei certa che la Mela sia vera?»

«Come del mio nome.»

Ezio gettò una rapida occhiata alle mura. «La prudenza non è mai troppa.»

«I cannoni sono armati e gli uomini sono di sentinella giorno e notte.»

«Ben fatto.»

Il mio cuore sussultò di orgoglio, come quello di una bambina che ha ripetuto bene la lezione.

«Se questa proposta di alleanza è sincera, potremmo aver risolto gran parte dei nostri problemi» commentò zio Ugo.

«Fatico ad accostare le parole sincero e Borgia» replicò mio padre, mettendo piede nella Villa senza mostrare nemmeno un istante di quell'emozione che aveva preso me due giorni prima. Lo ammetto, osservare il suo ingresso frettoloso mi lasciò un sapore amaro nella bocca. Forse il ritorno a casa non significava per lui quanto significava per me, ma possibile che non mostrasse nemmeno un vago segno di gioia per l'essere tornato dopo tanto tempo?

D'improvviso, mi sovvenne un pensiero. Doveva essere questo che zia Claudia aveva provato per così tanti anni, curando la Villa e il borgo incessantemente, solo per vedere rientrare Ezio sempre di fretta, sempre immerso in qualche pensiero più importante di lei e di ciò che aveva fatto per l'eredità della loro famiglia. In quel momento mi sembrò di capire qualcosa di più di mia zia, dei suoi umori altalenanti, e delle sue accuse al fratello durante la malattia di nonna Maria. Era la prima volta che ci pensavo, ma è qualcosa di cui oggi sono pienamente consapevole. Noi assassini viviamo centinaia di avventure potenzialmente mortali, ma il compito più difficile è restare ad aspettare il nostro ritorno.

Ezio ci volle nel Laboratorio: Jacopo, gli ostaggi, Martino ed io. A dire il vero, lì per lì aveva richiesto che Martino restasse fuori da quella riunione. Eravamo stati Jacopo ed io a dirgli di quanto importante fosse stato il suo contributo al Passo della Cisa; Margherita aveva aggiunto che non avrebbe mosso un passo senza quell'uomo che era la sua garanzia di salvezza. Infine, seppure con una certa riluttanza, mio padre accettò che il mio compagno presenziasse alla riunione.

Il Mentore sedette allo scranno, pensieroso, portandosi le mani intrecciate davanti alla bocca. Davanti a lui stava, riposta nel suo scrigno aperto, la Mela. Ugo stava in piedi accanto allo scranno, e osservava il Frutto con pacata compostezza. Su un uomo come lui, le tentazioni della Mela dell'Eden non avrebbero mai avuto effetto, ne ero certa.

Ezio lasciò che Ermes spiegasse di nuovo ciò che Lucrezia aveva detto a noi. Il templare assicurò, con quel suo tono tranquillo e profondo, che non c'erano doppi fini nella loro richiesta. E quali doppi fini avrebbero mai potuto avere? Che fossero spacciati senza il nostro aiuto, era un dato di fatto. Il Papa aveva il Serpente, di cui si sapeva soltanto che era in grado di esaudire un desiderio. Giulio II avrebbe potuto semplicemente desiderare di sterminarci tutti quanti, ed ecco che i loro eserciti si sarebbero dissolti in poltiglia...avevano bisogno di Ezio per carpire il segreto della Mela e usarla contro il loro nemico comune.

Mio padre ascoltò, serio. Infine, chiuse gli occhi. Io osservai il luccichio dei fili grigi nei suoi capelli bruni, sotto il raggio di luce che cadeva dalla finestra sembravano argento.

«Sono trascorsi quasi dodici anni.» La sua voce era grave, carica di fatica come se quel ricordo gli costasse più fiato. «Dodici, sì, da quando la Mela mi ha condotto a Roma, nel Vaticano. Mi sono scontrato con lo Spagnolo, ho deciso di non ucciderlo. Ho aperto la Cripta segreta, e ho incontrato...»

Ezio si fermò, a quel punto. Mi accorsi di avere il cuore in gola. Oh, ricordavo quel periodo...io avevo sì e no dieci anni, e avevo lasciato partire i miei genitori dopo aver litigato violentemente con mia madre. Avevo iniziato a malapena a intuire chi fosse Ezio Auditore da Firenze e cosa facesse per vivere, e ne ero stata inquietata fin dal principio...ma quando era tornato da quella missione, apparentemente svuotato di ogni voglia di vivere, avevo capito che non mi importava cosa facesse né per quale ragione: io lo amavo, e non avevo bisogno di sapere altro.

«Prima che prosegua, dovete sapere una cosa importante. Ciò che sto per dirvi...no, ciò che sto per mostrarvi può sconvolgere tutto ciò che credete di pensare.» I suoi occhi scuri passarono, mortalmente seri, in quelli di ognuno dei presenti. «Se volete uscire da questa stanza, fatelo ora...perché dopo potrebbe essere troppo tardi.»

«Cosa volete mostrarci?» dissi, con la gola secca. Mio padre mi fissò.

«Quando eri prigioniera a Castel Sant'Angelo, Bianca, mi hai detto che il Serpente ti ha costretta a vedere il passato. Quello che io ho visto usando la Mela, è il futuro. E non il mio, o il tuo, o quello di nessuno qui. Parlo del futuro dell'umanità.»

Un brivido silenzioso passò attraverso la stanza. Ezio si accarezzò la rada barba che gli contornava la mascella. Umanità...un concetto ancora così astratto per noi, che vivevamo di conflitti particolari, di nazioni con i propri re e i propri interessi, di alleanze fragili e ataviche rivalità. Un concetto che era stato il centro della vita di Leonardo e dei suoi studia humanitatis. Un concetto che mio padre ci chiedeva di fare nostro, per capire davvero cosa volesse dirci.

Rivolsi uno sguardo silenzioso a Martino, come a chiedergli senza parole se davvero volesse immergersi fino a tal punto nei segreti del Credo. Per tutta risposta, lui mi prese la mano, la strinse. Dove andavo io, sarebbe andato anche lui.

Nessuno si tirò indietro, nemmeno Margherita. Così, Ezio si alzò in piedi, prese la Mela tra le mani. La toccò. E i suoni esplosero.

 

La luce che fende ogni angolo della stanza, corre verso di me, mi attraversa. Una sensazione che non posso dimenticare. Sono come lame che cercano di squarciarmi la pelle, premono per scorticare il mio involucro, vogliono affondare nella mia essenza. I suoni si sono fatti così acuti, sembrano voci di angeli feriti. Mi distruggono le orecchie. Mi lacerano l'anima.

Dietro le palpebre tremanti, lo vedo. Se chiudo gli occhi, ora...c'è il fuoco che viene dal cielo. La terra si crepa, lasciando uscire il suo sangue incandescente in superficie. Persone...diverse da me, uguali a me...donne, uomini, vecchi, bambini. Corrono, in cerca di salvezza. Gridano, mentre soccombono. Il cielo è illuminato a giorno, il fuoco lo fa risplendere...è come se le stelle fossero diventate letali palle di cannone, piovono sulla terra per devastarla, portano morte...cosa direbbe Agamennone se le vedesse...le sue amate stelle che distruggono ogni cosa, lasciando dietro di sé cenere, ossa carbonizzate, eco di grida. Stringo più forte la mano di Martino, perché il panico mi ha preso. Lui è qui, vero? Non è tra quelle persone che rantolano a terra in involucri di fuoco, deve essere qui, accanto a me...sì, sta rispondendo alla mia stretta. E' con me. È salvo. Ma gli altri...tutti gli altri...

 

Quando i suoni cessarono, e il fuoco svanì, sembrò di sprofondare nella penombra. Non era possibile...era pieno giorno fino a poco fa. La troppa luce doveva averci resi ciechi per qualche istante.

Mi guardai intorno. Ugo aveva la mascella serrata, i suoi occhi sempre un po' malinconici sembravano pulsare dell'orrore appena visto. Margherita teneva le mani sulla bocca: tremava. Ermes la prese per le spalle, e la accompagnò gentilmente verso una sedia. Perfino l'imperturbabile Jacopo appariva terribilmente pallido. Si massaggiò gli occhi sotto le lenti, per riacquistare lucidità. Aveva lo sguardo di un uomo le cui certezze si sono infrante.

La stretta di Martino sulla mia mano mi fece quasi male. Alzai gli occhi su di lui, e le vidi...le lacrime che gli bagnavano il viso, mentre guardava dritto di fronte a sé, forse ancora nello spettro di quelle immagini terribili.

«Quanno?» mormorò piano, rivolto a mio padre. Ezio, l'unico ad essere ancora presente a se stesso in quella stanza, rispose: «Non lo so. Forse un futuro lontano, quando tutti noi saremo morti e sepolti da secoli.»

«Ma li fiji de li nostri fiji...saranno lì.»

«Forse nemmeno loro lo vedranno. Forse sarà così avanti nel tempo che di noi si sarà persa del tutto la memoria, e il nostro sangue sarà così mischiato che non potremo più nemmeno chiamarlo nostro. La domanda che credo dobbiamo porci adesso è: ci riguarda ancora, se è un futuro distante?»

Martino si ammutolì, a quel punto. Gli strinsi il braccio, ma non ottenni risposta da lui. Si era chiuso nei suoi pensieri.

«E' questo che hai appreso nella Cripta del Vaticano, Ezio?» domandò Ugo. «Il modo in cui il mondo finirà?»

«No...non subito, a dire il vero. Ciò che ho scoperto allora è stato che il mio ruolo di Profeta si riduceva ad essere il tramite di un messaggio, il cui destinatario e significato mi sono ignoti. Ma la notte successiva...e quella dopo ancora...e infinite notti, ogni volta che ho toccato la Mela dell'Eden...la visione è venuta da me, sempre più nitida e sempre più crudele.» Rivolse la sua attenzione su Ermes, che ancora cercava di confortare la sua sconvolta, giovane signora. «Io combatto perché quel giorno ci trovi forti, templare. Lotto perché ogni essere umano abbia la possibilità di scegliere per se stesso, e vivere pienamente ogni suo respiro...perché se un giorno il cielo ci cadrà davvero sulla testa, almeno abbiamo potuto vivere da uomini e donne liberi, e perché no...con la speranza che nel frattempo qualcuno abbia trovato un modo di combattere la catastrofe, per ribellarci alla condanna delle stelle.» Si umettò le labbra. «Tu, per cosa combatti? Devo saperlo, prima di allearmi con te.»

Ermes si alzò in piedi, e coprì la distanza che lo separava da Ezio. Tra lui e mio padre, ora, c'era soltanto lo scrittoio. La Mela dell'Eden stava tra loro, priva di luce, l'ago di un equilibrio fragile.

«Io combatto per condurre le sofferenze degli uomini ad una fine. Lotto affinché ognuno trovi il suo posto nell'Armonia Universale, e conduca la sua esistenza in modo da adempiere al destino che gli è stato assegnato...e se il Padre della Comprensione vorrà punirci con il fuoco e le fiamme, sarà perché l'avremo meritato. Tuttavia...» La sua lingua schioccò nel palato secco «So che se non sconfiggiamo Della Rovere ora, il giorno del Giudizio arriverà assai prima che le nostre ossa siano coperte dalla terra, Ezio Auditore. Arriverà quando ancora noi, e le persone che amiamo, respiriamo questa stessa aria. Il prezzo della vittoria del Papa è la sofferenza di tutti coloro a cui teniamo. Per questo, anche se le nostre visioni sono inconciliabili, io sono disposto a mettere da parte il mio orgoglio e a diventare un tuo alleato.» Gli tese la mano, aperta, disarmata. «Sei disposto a fare altrettanto?»

Trattenevo il fiato, in attesa della risposta di mio padre. Ezio ci mise qualche istante prima di raccogliere quell'offerta di pace, come se cercasse una nota discordante nella voce di Ermes. Non ne trovò. Strinse la sua mano.

«Sì, lo sono.»

In quel momento fui grata che Agamennone si trovasse lontano, perché non potevo fare a meno di domandarmi cosa avrebbe pensato sapendo che stavamo stringendo un patto con l'uomo che aveva ordinato la strage della sua famiglia. Eppure, forse il mio stralunato amico sarebbe stato il primo a concordare con le parole del templare. Il Giorno del Giudizio, l'aveva chiamato il Bentivoglio...per me, la visione divenne invece: il Giorno che Voglio Impedire. Con ogni mia azione, con ogni mio gesto, con ogni mio respiro. Tutto quello che ho fatto da quel momento in avanti come Assassina, l'ho fatto per lottare contro un destino imposto dal cielo. Ricordatelo, vi prego, quando il momento verrà. E combattete, miei invisibili amici che leggete queste parole. Combattete, come io e noi tutti abbiamo sempre fatto...per noi stessi, ma anche per voi.

 

***

 

Avrei dovuto capirlo, quando la lettera di Ilaria arrivò a Monteriggioni. Come poteva sapere che mi trovavo lì? Eppure, ero così felice di ricevere notizie sue e di Leonardo che, lì per lì, quella semplice domanda non mi balenò nemmeno lontanamente in testa. Mi chiedeva di andare a trovarla a Vinci, quando avessi potuto, per vedere il piccolo Leo. Ed io, come sempre cieca quando si tratta dei richiami del cuore, mi misi in viaggio. La scusa ufficiale sarebbe stata scortare i nostri ostaggi, per un tratto di strada. Gli accordi che Ermes e mio padre avevano preso prevedevano che il Mentore tornasse Roma, e iniziasse ad organizzare i suoi uomini: ci saremmo uniti agli eserciti francesi di Gaston de Foix, avremmo combattuto nelle loro retrovie, infiltrandoci per loro dentro le roccaforti, facendo il nostro solito lavoro di invisibili sabotatori. Ezio avrebbe portato con sé la Mela: solo lui, disse, avrebbe potuto usarla. Questo era un monito per gli uomini di Lucrezia, che non sperassero di toccare il frutto: eppure, seppi fin dal primo momento che era anche rivolto a me. Mio padre avrebbe accettato che combattessi al suo fianco, ma non voleva ancora che fossi sottoposta allo sforzo di usare il Frutto. Era passato troppo poco tempo da quando il Serpente mi aveva quasi uccisa. Non mi ribellai a quell'ordine, perché con tutto quello che mi era successo ultimamente sapevo che lottare accanto al Mentore era già un onore molto grande, e non potevo pretendere di più. Per ora.

I nostri gruppi si separarono. Jacopo si diresse a Roma, insieme a mio padre e alle reclute; Ugo volle accompagnare me, Martino e gli ostaggi verso il passo della Cisa. Non mi fece troppe domande, quando, dopo aver affidato Ermes e Margherita ai loro alleati, sulla strada che ci avrebbe condotti a Roma chiesi di fermarmi a Vinci. C'erano alcuni dei suoi allievi a sorvegliare la casa dove Ilaria e il bambino vivevano. Fu felice di incontrarli, parlare con loro. Non sospettavamo nulla.

Ilaria ci accolse con allegria. Era sempre bella: la luce combattiva nei suoi occhi non si era spenta, nemmeno con tutto quello che aveva dovuto passare. Per un attimo, mentre mi abbracciava con calore, guardai i segni di stanchezza sul suo volto, in contrasto con il suo atteggiamento fiero. Pensai per un attimo a mia madre. Sì. Capivo cosa avesse attirato Vanni in lei, lo capivo molto bene.

Disse che Leo stava dormendo, e mentre attendevamo che si svegliasse ci offrì un ottimo pranzo cucinato con le sue mani. Sembrava nervosa, mentre affettava le verdure. Si tagliò un paio di volte.

«Sono sempre così maldestra», si giustificò ridendo.

Le presi la mano per controllare il taglio. «Non c'è bisogno che fai tutta questa fatica per noi. Mi sembri stanca.»

Lei si sottrasse al mio tocco, scusandosi con un sorriso. Disse che avrebbe cercato un panno pulito con cui fasciarsi il graffio, nella stanza da letto. Stefano, uno dei ragazzi di guardia, si offrì di continuare a cucinare al suo posto; tuttavia, mentre gli uomini dividevano una rilassata atmosfera cameratesca, io rimasi ad osservare le scale su cui Ilaria era sparita.

Decisi di seguirla. Avevo uno strano presentimento: ero certa che, una volta aperta la porta della stanza che la donna divideva con Leonardo, avrei trovato qualcosa che non mi sarebbe piaciuto affatto. E così fu.

Ilaria sussultò nel buio flebile, quando aprii la porta. Non c'era nemmeno una candela accesa, solo una lama di luce che a malapena penetrava dagli scuri serrati.

«Posso aiutarti?» La voce della pittrice suonava rotta dall'ansia.

C'era un'ombra accanto a lei. Un'ombra celata da un cappuccio.

D'istinto, feci saettare la lama. Ilaria sussurrò: «Ti prego, non farlo. Non ti farà del male, me lo ha promesso.»

Non potei fare a meno di sentirmi tradita. Conoscevo la sensazione, bruciava in gola.

Riconobbi i versetti di Leonardo. Dov'era? Strinsi un po' gli occhi per abituarli alla penombra...oh, Dio. Eccolo, quel fagottino di...quanti mesi aveva ormai...poco meno di due anni? Ed era in braccio a suo padre. Gli si aggrappava con le mani paffute al cappuccio, e rideva, rilassato come se lo conoscesse. Si fidava di lui. Non era la prima volta che lo incontrava.

Dunque, Vanni non sapeva soltanto dell'esistenza di Leonardo. Conosceva suo figlio. Era ancora in contatto con Ilaria...e i ragazzi di sentinella al piano di sotto non avevano fatto nulla per impedirlo! Dovetti inspirare forte, per controllarmi.

«Bianca» chiamò ancora la ragazza, e fece per avvicinarsi a me. Mi ritrassi d'istinto. Lei si umettò le labbra. «Chiudi quella porta, ti prego. Non tenterà niente di azzardato davanti al bambino.»

«Lascia che parli per se stesso, se è un uomo» sibilai, osservando la sagoma del mio fratello traditore nel semi-buio.

Vanni non si scompose. Mosse qualche passo a sua volta, e sedette sul letto, permettendo a Leonardo di fargli calare il cappuccio sulle spalle e toccargli il viso. Ora, illuminato dal flebile raggio, potevo vederlo meglio. Il suo volto mi parve meno duro dell'ultima volta.

«Non prendertela con lei, le ho chiesto io di farti venire qui. Ho bisogno di parlarti.»

«Potevi cercarmi a Monteriggioni. I miei e i tuoi sono alleati, adesso...la tua Margherita non te l'ha detto?»

Ilaria accusò quel nome come se fosse stato un colpo, ma cercò di non darmelo a vedere. Sapeva, dunque. Come Margherita sapeva di lei e Leo.

Vanni non si scompose, invece. Sorrise a suo figlio, staccando con delicatezza la manina che aveva iniziato a titillargli il pizzetto, e lasciando che gli stringesse il dito. «Volevo che l'incontro avvenisse in un terreno neutrale.»

Balle. Voleva che lo vedessi con il bambino tra le braccia...perché?

La voce di Martino giunse dal piano di sotto, ancora sfumata in una risata. «Bià, tutto bene lassù?»

Deglutii. Gli occhi di Ilaria, quelli di Vanni, e sì, anche quelli di Leo sembravano fissarmi, come a dire: cosa farai adesso?

Forzai un tono tranquillo, quando dissi a voce alta: «Sì! Scendiamo tra un attimo.»

Scivolai nella stanza, chiudendomi la porta alle spalle.

«Hai due minuti» mormorai, cupa. Ilaria strinse le mani nel grembiule, ma non si mosse da in mezzo a noi, come se fosse pronta a impedirmi di saltare alla giugulare del padre di suo figlio. Lui invece era calmo. Serio.

«Ho chiesto a Ilaria questa possibilità di incontrarti, perché volevo capire. L'ultima volta che ci siamo visti hai dimostrato chiaramente cosa pensi di me...ma ora saremo alleati, combatteremo fianco a fianco su un campo di battaglia. Voglio sapere se devo guardarmi le spalle da te, o se possiamo respirare la stessa aria senza che tu tenti di uccidermi o fare del male a chi mi è caro.»

Dominai a stento l'istinto di gridargli addosso, stringendo forte i pugni lungo i miei fianchi. «Pugnalare alle spalle è la tua specialità, non la mia.»

«Mi dispiace, Bianca. Davvero.»

Erano le ultime parole che mi aspettavo di sentire. Quasi la voce non mi uscì, mi grattò il palato mentre dicevo: «Di cosa, esattamente?»

Il suo volto era grave. «Di tutti i capi d'accusa di cui mi ritieni responsabile.»

«Le tue scuse non riporteranno in vita Nicola, cane rognoso.»

«Non capisci, vero? Su quei bastioni non avevamo scelta, né io né lui. Nicola voleva che sparassi. Ed io l'ho fatto. Era l'unico modo che avevamo per impedire che quell'incosciente di nostro padre fosse fatto prigioniero.»

«Non dirmi che volevi evitarlo, non ti credo.»

«Sì, volevo proprio evitarlo invece...perché non si sarebbero limitati a sfruttarlo per usare i Frutti. Forse Lucrezia l'avrebbe risparmiato, ma quella serpe di De Foix avrebbe preteso la sua testa. E, che tu ci creda o no, non è questo che voglio.»

«E cos'è che vuoi, Vanni?» La mia voce suonò carica di un pianto esasperato, che non scendeva sulle mie guance. «Perché lo sai, per essere uno che dice di cercare armonia e ordine, la tua vita e le tue scelte sembrano puro caos.»

Lo vidi alzare gli occhi grigio-verdi nei miei. Sì, ora che mi ero abituata al buio riconoscevo il loro colore.

«Ho fatto quello che potevo per tenere l'esistenza di Leonardo nascosta ai miei compagni. Purtroppo è stato più difficile celarlo ai nemici...il Papa ha scoperto dov'erano, così, di ritorno da Castel Sant'Angelo, ho fatto in modo che si spostassero a Vinci.»

«Margherita sa di loro.»

«Lei manterrà il segreto.»

Non lo contraddissi. Sì, avevo visto in che modo totale e assoluto amasse Vanni...avrebbe mantenuto la parola.

«Non mi fido di Gaston De Foix» disse ancora Vanni «né di questi supposti alleati francesi. Non voglio che conoscano la mia debolezza più grande...ne ho già troppe.» Serrò le labbra, e sembrò prendere un respiro. Guardò Ilaria, e poi il loro bambino di un anno e mezzo, che sembrava ignaro della serietà di quel discorso. «Proteggili, Bianca. Ma non come li sta proteggendo nostro padre, con uomini dai cappucci bianchi sempre appresso a loro...tienili lontani da questa guerra. Templari, Assassini...troppo sangue, troppo dolore. Voglio che tu mi prometta che impedirai a Ezio di fare di Leonardo uno dei suoi.»

«Così potrai fare di lui uno dei tuoi?»

«No. Così potrò fare di lui un uomo libero, e ignaro di questa faida. Così lo terrò lontano da tutto quello che sta distruggendo noi due.»

Non seppi che dire, né che pensare. Se avessi dovuto fidarmi dell'istinto, avrei detto che in quella supplica c'era il suo cuore. Ma di nuovo, sapevo con chi avevo a che fare. Era lo stesso giovane uomo che mi aveva persuasa che nostra madre fosse morta in un assedio a Monteriggioni, e che Nicola fosse un informatore dei Borgia. Sapeva mentire, e sapeva farlo dannatamente bene.

«Ricordi cosa è successo quando nostro padre ha cercato di tenerci lontani dalla sua vita, Vanni? Siamo finiti prigionieri.» Gli occhi mi pulsavano, ma ancora non piansi. «Sapere la verità, ecco cosa rende liberi davvero. Se avessimo ricevuto l'addestramento fin dall'inizio, forse non saremmo arrivati a questo punto, tu ed io.»

Lui scosse il capo corvino, ed io sentii che, anche adesso che per la prima volta riuscivamo a parlare senza rabbia, non ci comprendevamo. Eravamo troppo diversi, mio fratello ed io. Forse sarebbe finita così comunque. Senza spargimento di sangue, magari...ma sempre con un abisso incolmabile tra me e lui.

«Io sono finito sulla strada a cui appartengo» disse, con orgoglio. «Indottrinare un bambino al Credo della tua stirpe è renderlo libero? Farne carne da macello per la guerra del tuo Mentore è renderlo libero? Rispondimi sinceramente. Se Leonardo fosse tuo figlio, ne faresti davvero un Assassino?»

Pensai. Davvero. Pensai a questa domanda con serietà. Rividi nella mente i passaggi che mi avevano portata a camminare la via del Credo. Rividi le angosce di Martino, le sofferenze di chi amavo, i sacrifici altissimi degli adepti e la morte degli amici. Era davvero questo che volevo, per...?

«Io non ho figli» mormorai. «Non posso rispondere.»

Vanni si alzò in piedi, con Leo ancora tra le braccia. Coprì la distanza che ci separava, fino a che non fu soltanto un passo; Leonardo era l'unica barriera tra di noi, o forse il nostro unico legame. Il bambino si aggrappava a lui; iniziò a piagnucolare. Vanni gli baciò la tempia.

«Vai da zia Bianca.»

Feci fatica a respirare. Leo scosse il capo, e disse quella parola. Papà. La disse quasi in un singhiozzo. Non voleva lasciarlo andare via.

«Tornerò, non preoccuparti. Ma nel frattempo, Leo, fidati di lei. Non permetterà che ti accada nulla di male, proprio come il tuo papà.»

Repressi un brivido, e cercai gli occhi di mio fratello. «Come fai ad esserne certo?»

Lui accennò ad un ghigno amaro. «Sei tu quella che fa le scelte giuste, tra noi due. No?»

Non capii se volesse schernirmi, lo giuro. Sentii riecheggiare in quelle parole la promessa di Martino, sulla strada per gli Appennini. Noi non siamo come voi. Sì, Vanni sapeva che, nonostante tutto, avrei cercato di fare ciò che mi aveva chiesto. Per Ilaria, e per il bambino. Perché, per quanto noi fratelli Auditore potessimo odiarci, quelle due esistenze avevano creato tra di noi un anello di acciaio che non poteva spezzarsi. Per questo, presi Leonardo tra le braccia, e guardai Vanni dirigersi verso Ilaria, darle un breve bacio, e aprire una botola sul soffitto. Ne scese una scala a pioli, che lo inghiottì in breve tempo. Rimasi sola, con la pittrice che mi fissava, in attesa che mi esprimessi. Leonardo aveva iniziato a scalciare e dimenarsi: lo prese dalle mie braccia.

«Scusami, Bianca» mormorò Ilaria, e mentre cercava di cullare il bambino capii che non era dispiaciuta dei capricci del figlio. L'inganno non era nella sua natura. Pensai a quanto dovesse amare ancora mio fratello, nonostante l'avesse costretta ad una vita di infamia.

In questo, Vanni era proprio come me. Stimato oltre i suoi pregi. Amato molto più di quanto meritasse.

«Avrebbe potuto volermi vedere per uccidermi, lo sai?» sussurrai, svuotata, distrutta. Provavo ancora quella voglia di piangere, e quella snervante incapacità di riuscirvi.

Lei scosse il capo con energia. «L'ho fatto giurare sulla testa di suo figlio che non ti avrebbe fatto del male. E ho giurato sulla stessa cosa che se stava mentendo l'avrei ammazzato con le mie mani.»

La fissai, mentre cullava Leo con gesti pratici, sbrigativamente dolci.

«E' quello che vuoi anche tu? Che il bambino non diventi...uno di noi?»

La pittrice non alzò lo sguardo su di me. «Io voglio solo che Leonardo cresca sano...e, se possibile, felice.»

Annuii, in silenzio. Sì, è ciò che ogni genitore vuole. Ma se capissimo davvero come fare per realizzare questo desiderio, questa sarebbe una società ideale, colma di gente felice...invece ci scanniamo, ci facciamo la guerra e ci piantiamo coltelli nella schiena. Ognuno ha un'idea tutta propria di quale sia la strada per arrivare alla felicità, e la mia idea e quella di Vanni non avrebbero mai coinciso.

O me, o lui.

Il mondo non ha abbastanza cuore per dare ragione ad entrambi.

 

Confidai a Martino ciò che era accaduto solo quando fummo lontani dalla casa di Ilaria. Prima di rientrare a Roma, avevamo deciso di fermarci per qualche giorno a Capodimonte, presso la sua famiglia: eravamo alle porte di un conflitto epocale, e ci sembrò giusto, importante, ritagliarci un momento di serenità insieme a loro.

Zio Ugo fu felice di conoscere i numerosi Semeraro, e non ci mise molto ad accattivarsi ognuno di loro, con il racconto delle sue avventure. Certo, omise un paio di dettagli, come il fatto che era stato per lungo tempo un ladro. I gemelli lo fissavano con gli occhi sgranati mentre, da grande affabulatore quale era, narrava di infinite corse sui tetti di Venezia e tuffi alla cieca nei canali. Marcello si informò se le veneziane fossero belle come si diceva; zio Ugo arricciò le labbra in un sorriso e disse che preferiva di gran lunga le fiorentine. Giuditta chiese tutto ciò che poteva sulle arrampicate, sotto l'occhio disapprovante di suo padre; Marzia domandò di sete preziose e gemme favolose di cui aveva soltanto sentito parlare. Annina si prefissò di fargli apprezzare la cucina romana, e Ugo riuscì a sorprenderci insegnandole un paio di ricette della sua terra natale. Fabrizio gli chiese se avesse incontrato anche dei pittori durante le sue avventure, e Ugo si dimostrò un fine conoscitore dell'arte contemporanea. Lo ammetto, rimasi sbalordita io stessa da quell'uomo che avevo sempre considerato in vistoso contrasto con la sua raffinatissima moglie. Non so se siano stati gli anni passati accanto a zia Claudia, o se tanta cultura gli appartenesse già da prima: fatto sta che non c'era proprio niente di cui lo zio non avesse la più pallida idea. Conosceva un poco di tutto, e su quel poco aveva sempre un'opinione spiritosa e intelligente. Sono abbastanza certa che i Semeraro abbiano meditato di adottarlo, durante quella visita. Di certo, lo zio contribuì grandemente a ridurre la loro diffidenza verso gli Assassini.

Godemmo dei piaceri semplici della campagna in estate. Lavorammo, gli uomini nei campi e noi donne a casa. Passammo qualche sera intorno al camino spento, a raccontarci vecchie storie. Martino ed io, alle volte, scappavamo nei campi di notte per fare l'amore sotto le stelle. Quella vita meravigliosa era tanto più splendida perché non poteva durare, lo sapevo. Ci saremmo concessi ancora due giorni al cascinale, e poi...cosa? Ci saremmo separati? Avevo paura di chiederglielo.

Quella notte, con ancora addosso il languore del sesso, parlai a Martino dell'incontro con Vanni. Lui mi ascoltò in silenzio, accarezzandomi i capelli per tranquillizzarmi. Fissava le stelle, pensieroso. Era sempre stato assorto, in quei giorni, preda di un mutismo insolito.

«E' come ha detto mi' madre, alla fine.» Sì, gli avevo raccontato del mio incontro con Flaminia. Come l'aveva presa? Male. Non aveva voluto parlarne più...fino a quel momento. «Templari. Assassini. Semo tutti esseri umani. Quanno 'r fuoco verrà giù dar cielo nun farà distinzioni.»

Mi spaventò quella frase. Mi sollevai sulle braccia per guardarlo, sfiorando il contorno del suo viso. «Hai sentito cos'ha detto mio padre. Quel tempo è lontano.»

I suoi occhi neri si misero nei miei. «Fa differenza?»

Sentii ogni vaga speranza morire, quando lo guardai. Risentii le parole di Flaminia nella mente...cosa avevamo fatto, con i nostri segreti cosmici e le nostre verità troppo scomode, al mio Martino?

Non trovai modo migliore per chiamarlo via da quel senso di vuoto, se non baciarlo, e baciarlo, e baciarlo ancora. Sperai che annullasse in me le sue paure, che trovasse in me la forza di andare avanti nonostante ciò che Ezio ci aveva rivelato. O forse, in silenzio, gli stavo chiedendo scusa per averlo costretto a condividere quel fardello così pesante, e nel contempo mi stavo preparando a dirgli addio.

Quel mio umore tetro non sfuggì a Ugo. Il giorno dopo, ero andata a portare il pranzo agli uomini Semeraro e allo zio, che avevano deciso di concedersi un po' di riposo dall'aratura. Sdraiati nei campi fragranti, con i cappellacci di paglia sulla testa, Martino e i suoi fratelli ronfavano della grossa, e il padre non era da meno. Zio Ugo osservò che sembravano una mandria di tori per quanto russavano. Disse qualche altra facezia che non sentii; cercai di dargli ad intendere che lo ascoltavo con un mezzo sorriso, ma la mia testa era altrove.

Poi, mi accorsi del silenzio improvviso, spezzato solo dal russare ritmico dei Semeraro. Lo zio aveva smesso di parlare, stava osservando il mio viso. Mormorò:

«Era più facile, quando eri una bambina. Bastava prenderti sulle ginocchia e farti qualche faccia buffa, per farti sorridere.»

Distolsi lo sguardo dal suo, ma non sarebbe bastato, lo sapevo.

«Molte cose erano più facili, quando ero una bambina.»

«No, non lo erano davvero. E' solo che che gli ostacoli passati sembrano sempre un gioco da ragazzi, perché li guardi da lontano e con addosso il peso della strada percorsa.»

Feci per rispondergli, ma sentii la voce spezzarmisi in gola. Cercai di camuffare quella debolezza dietro un colpo di tosse, invano. Gli occhi erano diventati lucidi di colpo.

Non mi aspettavo di essere capita così bene, e così in fretta. Sì, zio Ugo aveva ragione. Ero stanca, era questo il mio problema. Stanca per la strada percorsa, sfiduciata sul futuro, con il mio obiettivo e i miei ideali confusi in una nebbia indistinta di fronte a me. Avrei voluto poter riposare, almeno un po'. Invece, di fronte a noi si apriva la prospettiva di una guerra terribile, come non ne avevo ancora viste. Dove avrei trovato la forza di combatterla? In cosa avrei riposto le mie speranze?

«Vieni qui, piccola mia.» Lo zio mi chiuse nel suo abbraccio comprensivo. Abbandonai la fronte sulla sua spalla, e subito mi sentii più salda sulle ginocchia. Quella sensazione di potermi rilassare contro qualcuno...non soltanto fisicamente, ma anche con l'anima...da quanto tempo non mi permettevo di provarla. Avevo cercato di essere forte per Martino, di non riversargli addosso la mia paura per il nostro futuro, di trattenere le suppliche e gli egoismi perché scegliesse davvero in libertà. Ero spossata. Avevo bisogno di quell'abbraccio, come avevo avuto bisogno di poche cose nella mia vita fino a quel momento.

«Zio» bisbigliai, roca «Perché noi Assassini non possiamo essere felici?»

«Chi ha detto che non possiamo essere felici?» Avvertii i muscoli del collo di Ugo che si tendevano in un sorriso. «Bianca, ascolta...tu invidi le persone comuni, ora, non è vero? Ma alcuni di loro si distruggono la vita per meschinità. C'è chi si annienta cercando denaro e potere, chi tradisce gli affetti più sacri per codardia. C'è chi ha tutto e lo manda all'aria per cercare la guerra. Gli esseri umani non sono fatti per avere l'anima in pace, sai? Scoprono di avere sempre bisogno di qualcosa che non hanno...e dobbiamo ringraziare di questo, perché è ciò che ci spinge al movimento. Senza movimento non ci sarebbe miglioramento, non credi? Ma c'è qualcosa che differenzia noi assassini da tutti gli altri. Noi abbiamo qualcosa in cui credere, un ideale. Questo, bambina mia, è molto più di quanto tante persone che tu reputi più fortunate possano dire.»

Feci schioccare la lingua nel palato. D'improvviso, la domanda che davvero mi schiacciava i polmoni uscì fuori tutta in una volta, con un solo fiato, senza nemmeno passare per la rete a maglie larghe della mia mente.

«E a cosa serve un ideale? A che scopo facciamo quello che facciamo, se il mondo finirà comunque?»

«A che scopo facciamo quello che facciamo, se un giorno moriremo? Per cambiare le cose. Per dare il nostro contributo finché abbiamo una scintilla di vita nelle vene. Siamo nati lottando, Bianca...e se il cielo ci cadrà sulla testa, non soccomberemo senza aver prima combattuto.»

A volte mi chiedo come sarebbe stato, se mia madre avesse accettato la dichiarazione di Ugo, tanti anni prima che io nascessi. Forse l'avrei avuto come padre...ma no, se così fosse stato io non sarei nata. Non avrei conosciuto Ezio...un fatto, questo, che fatico perfino a concepire. Non importa. Ciò che volevo dire, è che ringrazio ogni giorno che zia Claudia abbia scelto un uomo del genere al suo fianco, e, riconoscendo il suo valore sotto un'apparenza ingannevole, gli abbia permesso essere un pilastro incrollabile per le nostre vite. Non sono certa di averglielo mai detto. Un giorno, lo farò.

 

La sera successiva sarebbe stata anche l'ultima che avremmo passato a casa Semeraro. Sapevo che Martino aveva intenzione di accompagnarci a Roma, ma avevo avuto paura di chiedergli per quanto sarebbe rimasto. Da una parte, non volevo strapparlo alla famiglia che amava tanto. Dall'altra, mi chiedevo quanto tempo avremmo avuto per stare insieme, prima che il conflitto scoppiasse su larga scala. L'avrei allontanato da me, a quel punto...lo avrei supplicato di restare al sicuro, mentre io combattevo accanto a dei precari alleati contro il re della Cristianità. Avrei lottato per poterlo rivedere ancora, naturalmente, con tutta me stessa...ma, come diceva sempre Agamennone: a volte si perde anche quando si lotta con tutte le proprie forze. Ogni mio momento con Martino da allora in poi avrebbe potuto essere l'ultimo, me ne rendevo conto.

Cercai di ignorare quelle consapevolezze, e di trascorrere un'ultima serata spensierata con i Semeraro. Avevo aiutato Marzia ed Annina in cucina, tutti si stavano rumorosamente radunando intorno al tavolo. Andai a chiamare Martino, che si era ritirato in una delle camere. Lo trovai seduto sul letto, i gomiti sulle ginocchia. Guardava qualcosa che teneva tra le mani.

«Il banchetto è pronto, messere!» sorrisi. Un sorriso che mi si bloccò in volto, quando mi resi conto che ciò che teneva tra le mani era la sua cappa da assassino, dell'inconfondibile color vinaccia.

Martino rivolse su di me lo sguardo un po' assente di chi è stato strappato da pensieri pressanti. Tentò un sorriso. «Mo arivo, Biancarè. Damme solo 'n minuto.»

Restai interdetta sulla soglia. Voleva che me ne andassi. Stava prendendo una decisione in cui non voleva includermi? Non meritavo nemmeno di essere messa a parte delle sue riflessioni?

«D'accordo.»

«Ah, Bià...ce stanno tutti dellà, sì?»

«Sì. Siamo tutti pronti per cenare.»

«Bene. Dije ad Annina che aspetti 'n attimo a mette 'a zuppa ner piatto, va bene?»

«Sì.»

Richiusi la porta. Il cuore mi batteva all'impazzata. Martino stava scegliendo, proprio in quell'istante, cosa fare del Credo. Forse aveva già preso la sua decisione. L'avrebbe annunciata davanti a tutti? No...me l'avrebbe detto, prima. Se non avesse voluto continuare il suo cammino al nostro fianco, ne avrebbe parlato prima con Ugo, con me...vero?

Riferii ad Annina ciò che Martino mi aveva detto, e lei notò il mio sguardo cupo. Capì. Lasciò il mestolo e mi strinse la mano.

«Viè qua, sedemose 'n momento.» Mi portò vicino al focolare, e restammo in silenzio, mentre i ragazzini continuavano a baruffare ad alta voce e Pietro discuteva con Ugo del lavoro della giornata.

Finché la porta non si aprì, cigolando.

E Martino entrò.

Indossando la cappa da Assassino.

Aveva stretto la cinta rossa in vita, allacciato le fibbie delle cinghie, messo a tracolla il porta-pugnali. Una spada dall'elsa semplice riposava nel fodero, probabilmente intoccata dal giorno in cui aveva riposto la divisa e congelato la sua vita da adepto. Le fiamme del fuoco danzavano sul suo viso, serio, dignitoso, deciso. Non era mai stato tanto bello, ai miei occhi, come quel giorno...e non soltanto perché con quel passo aveva cancellato i miei terrori, no. Era perché potevo vedere nel suo sguardo la consapevolezza di un uomo che ha scelto quale strada percorrere, e ha davanti a sé un obiettivo.

I fratelli più piccoli si ammutolirono. I gemelli spalancarono la bocca, affascinati; Giuditta si illuminò di adorazione. Fabrizio sembrò trattenere a stento una domanda e Marcello fischiò, ammirato. Ugo non disse nulla; sul volto gli aleggiava un vago sorriso di approvazione. Annina era impallidita. Gli occhi di Marzia corsero al padre, e anche i miei lo fecero.

Pietro Semeraro aveva in volto un'espressione indecifrabile. Dura, certo: era il modo in cui appariva sempre. Abbassò un po' il mento, tenendo le braccia possenti incrociate al petto, come a voler studiare suo figlio.

«Hai preso 'na decisione, allora.»

«Sì. Domani parto co' Bianca e Ugo. Nun so divve quanno tornerò, 'sta vorta.»

Pietro non rispose. Martino lo guardò, ed io lessi con facilità il lampo che gli passò negli occhi. Era una supplica. Cerca di capirmi. Per una volta, ascoltami.

«So' settimane che ce penso, pa'. Ma mo nun posso più fa' finta de gnente...ho visto quarcosa che nun riesco a dimenticà. Quarcosa che nun ve posso dì, ma che...m'ha fatto capì tutto quer che dovevo capì, ancora.»

Compresi che si riferiva alla visione che la Mela dell'Eden ci aveva mostrato, riguardo alla fine del mondo. Credevo che quell'idea l'avesse scoraggiato riguardo il Credo. Avevo capito che ne era rimasto profondamente scosso, ma avevo pensato...avevo creduto...

Martino cercò il mio sguardo, e si umettò le labbra, prima di dire: «Nun ve posso pallà de morte cose, 'o sapete. Ma quer che posso divve è che c'è 'na guerra che sta pe' scoppià, più grande de quarsiasi guerra abbiate mai sentito pallà. Ed io c'ho delle cose che vojo protegge, troppe.»

«E 'a famija tua, chi la protegge?» disse Pietro, ruvido.

«Io. Ma nun posso fallo se nun riprenno 'e armi.»

Prese una sedia, e la portò di fronte a quella su cui sedeva suo padre.

L'uomo lo osservò in silenzio.

Martino si passò la mano sui capelli ancora corti. Li tagliava ogni due settimane, per essere certo che non crescessero troppo.

«Ascortame, pa', te prego. Quanno so' entrato n'a confraternita, l'ho fatto pe' imparamme a combatte. Pensavo che, se diventavo forte, avrei potuto ritrovà mamma e riportalla a casa. So' cambiate tante cose...ho perso 'n ber po' de 'nnocenza...me so' imparato quanto è cattivo 'r monno, e quanto posso esse cattivo io. Me so' imparato quanto tragico può esse 'n errore.» Gli costò fatica deglutire, a quel punto. I suoi occhi pulsavano di dolore, e foga a stento repressa, e voglia di farsi comprendere. «Ma ho trovato pure tante cose belle...delli amici veri, de li Maestri che m'hanno mostrato ogni giorno cosa sono rispetto e dignità, proprio com'hai fatto te...ho trovato 'na donna meravijosa, che nun me lascerò scappà finché campo.» Mi sorrise, e il mio cuore tremò. Quindi, rimise gli occhi in quelli del padre. «Quer che vojo fatte capì, è che li Assassini nun hanno fatto de me 'n sicario. Hanno fatto de me 'n omo.»

«E se resti qua, sei meno omo?» disse Pietro. Lentamente. Quietamente.

Martino scosse il capo. «No. Ma sarei meno me stesso.»

Quindi, si rivolse a quei fratelli che tanto amava. Li guardò ad uno ad uno, con serietà, con tenerezza. «E' pe' questo che vojo combatte ancora. Perché so che l'unico modo pe' fa' quarcosa, a 'sto monno, è farlo co' 'e mani proprie. Me so' nascosto pure troppo, mo basta fa' 'a pecora spaventata...nun vivrò più ne' la paura. Se posso fa' anche solo 'na cosa piccola così pe' 'mpedì che 'a distruzione arrivi, state sicuri che 'a farò. Nessuno ve farà der male, finché ce sto io.»

«Finché ci siamo noi» dissi, e mi alzai in piedi. Non sapevo se stessi facendo la cosa giusta, ma ero stata in silenzio così a lungo ad attendere la decisione del mio uomo che ora mi sentivo scoppiare per la voglia di gridare al mondo quanto fossi fiera di lui. Mi portai alle spalle di Martino, poggiai una mano sul suo braccio. La sua mano strinse la mia. «E questa, mastro Pietro, è una promessa in cui potete credere.»

Martino mi guardò, con riconoscenza. Poi insieme, in silenzio, fissammo suo padre. Nessuno degli altri Semeraro proferì un solo sussurro. Tutta la stanza sembrava in attesa della sua ultima parola sulla questione.

Tutta la stanza, tranne zio Ugo. Lui poggiò diede un buffetto al braccio di Pietro, senza cerimoniosità. «Il tuo ragazzo è eccezionale, sai. Devi essere orgoglioso di lui.»

«No...quello che m'ha pallato oggi nun è 'r mio ragazzo.» Strinsi forte le labbra nel sentire quella frase, e mi preparai a combattere verbalmente per difendere il coraggio del mio compagno...inutilmente. Perché quello che stese il volto di suo padre, un attimo dopo, fu un sorriso. «Quello che m'ha pallato oggi è 'n omo vero.»

Martino era incredulo quanto me. Sgranò gli occhi neri, così simili a quelli di Pietro. L'uomo si alzò in piedi, gli tese una mano. Martino afferrò le dita tozze nelle proprie, e mentre si sollevava dalla sedia lo avvolse in un abbraccio.

La prima a gettarsi contro di loro, con tutta la forza del suo cuore irruente, fu Giuditta. Seguirono Antonio e Lucio; Marzia trascinò due riluttanti Fabrizio e Marcello in quella stretta di famiglia. Guardai Annina. Lei mi sorrise, avvicinandosi. Poi, mentre una delle sue braccia tornite si avvolgeva intorno alla vita della sorella, l'altra costrinse anche me all'abbraccio collettivo.

Ricambiai, con calore, sorridendo come da settimane non facevo più. Era un onore per me...no, di più, era una benedizione, essere considerata parte di quella famiglia straordinaria. Avrei fatto qualsiasi cosa per loro, e non soltanto perché da questo dipendeva la felicità di Martino. Amavo ognuno di quei Semeraro come se fosse un mio fratello, e avrei lottato per dare loro un futuro.

Quando aprii gli occhi, attraverso un velo di lacrime di commozione sorrisi a zio Ugo. Sì, aveva ragione, come sempre. Chi ha detto che noi assassini non possiamo essere felici? Cosa ci manca? Come tutti, combattiamo la nostra incessante battaglia; ma abbiamo degli affetti sinceri, e abbiamo un ideale che ci trascina in avanti. E finché quella luce risplenderà al nostro orizzonte, troveremo sempre al forza di lottare.

 

Martino venne innalzato al rango di Assassino nel settembre 1511. Gli anni di servizio nel Drappo Rosso, la missione di salvataggio a Castel Sant'Angelo e, soprattutto, il suo gesto al Passo della Cisa erano state le imprese che gli erano valse quell'onore, o almeno quelli furono i meriti ufficiali che elencò mio padre. Ciò che non disse, ma che io sospetto, è che aveva premiato la sua scelta di rientrare nel Credo, e i motivi che la spingevano. Con quell'enorme Salto della Fede, Martino era diventato finalmente pronto a vestire la divisa da iniziato.

Il rito si svolse al Covo sull'Isola Tiberina. A officiare, c'era il Mentore mio padre; accanto a lui, Ugo e Rosa stavano ai due lati del braciere, splendidi nelle loro divise formali. Agamennone e Veronica non erano presenti, e nemmeno altre persone importanti per Martino, come Odette, oppure i Semeraro – che, in quanto persone comuni, non avrebbero potuto partecipare. Eppure, a vegliare su di lui c'erano lo spirito di Briac e quello di Nicola, lo so, lo sento. Loro, insieme a mio padre, erano stati i suoi maestri più importanti, e continuavano a guidarlo. So, perché Martino me l'aveva confessato, che erano presenti in ogni sua pianificazione di battaglia, in ogni suo gesto. Le sue azioni di Assassino, da quel giorno in avanti, avrebbero cercato di riverberare le loro parole.

Io stavo in piedi, dritta e quieta come i miei compagni, almeno all'esterno. Dentro, mi sentivo come se stessi toccando il soffitto con la testa. Il pugno sul cuore a malapena conteneva i battiti orgogliosi, perché quello che percorreva l'ampia sala, vestito in bianco e rosso e con il cappuccio d'aquila calato sugli occhi neri, era il mio uomo, il mio migliore amico, il mio compagno di vita e di battaglia.

Le parole arabe pronunciate dal Mentore riverberarono nella sala. Non ne afferrai nemmeno una, ma sapevo cosa significavano. Profonda e solenne, la voce di Ezio scandì:

«La saggezza del nostro credo è espressa in queste parole. Agiamo nell'ombra per servire la luce. Siamo assassini.»

Sussultai, quando la pinza ardente strinse l'anulare sinistro di Martino. Sentii quasi pizzicare la pelle pensando al suo fastidio. Il suo viso non mostrò nessuna espressione, se non un abbagliante sorriso quando si volse verso di noi.

«Nulla è reale, tutto è lecito» pronunciammo, in coro, per salutare il nostro nuovo fratello; seguì un grido esultante, liberatorio. Qualcuno gettò facezie, di cui ridemmo di cuore. Ezio annuì, sopportando benevolmente quell'infrazione al rito. Eravamo i suoi ragazzi, uniti per festeggiare uno di noi prima di scendere in una sanguinosa battaglia. Forse, in cuor suo, stava pensando a quanti sarebbero rientrati a casa dopo la guerra contro il Papa. Non volli indugiare in quell'idea, non quel giorno.

Quando le reclute si radunarono intorno a Martino per congratularsi meno formalmente, non mi curai più di tanto delle cerimonie. Mi feci avanti e lo afferrai per il bavero della camicia, baciandolo con decisione di fronte a tutta la sala. I ragazzi risero, applaudirono, fischiarono. Martino ridacchiò sulle mie labbra.

«'nzubordinazione, Adepta Auditore! Vedi de portà rispetto.»

«Interessante, questo tono di comando» mi sporsi sul suo orecchio, per sussurrare: «Tienilo da parte per stasera.»

Martino ammiccò, malizioso, ma non ebbe tempo di replicare. Dopo un bacio sulla guancia da parte di mia madre, un abbraccio di zio Ugo e una stretta di mano calorosa da parte di mio padre, fu zia Claudia a venirgli incontro a braccia incrociate.

«Avanti, scansafatiche: non è finita. Ti aspetta il Salto.»

Martino si illuminò. «E tutti noi sappiamo che è 'a specialità vostra, madonna Clà!»

Tutti risero, perfino Ugo – il che gli guadagnò un'occhiata di fuoco da parte della sua consorte. «Perdonami, moglie adorata. Ma il ragazzo ha ragione: nessuno può eguagliare il tuo stile!»

«Attento a ciò che dici, marito cafone» replicò la zia con un ghigno sornione «O sconterai i tuoi lazzi uno per uno.»

«Davvero? E' una promessa?»

Lì per lì la zia non rispose alla provocazione, ma il suo sguardo diceva: Puoi contarci.

Ci spostammo sul tetto del Covo, e lì procedemmo all'ultima parte del rito. Si trattava di una sciocchezza, lo riconosco: Martino aveva affrontato Salti della Fede ben più pericolosi, in quegli anni, ed eravamo certi che le acque del Tevere l'avrebbero accolto all'arrivo. Tuttavia, non potei evitare di sentirmi lievemente in ansia. Quel salto aveva un significato simbolico che tutti gli altri non avevano avuto.

Misi insieme il mio migliore sorriso, quando lasciai la sua mano per permettergli di raggiungere la balaustra.

«Pensi di farcela anche se non ci sono io a spingerti di sotto?»

Lui mi diede un ultimo bacio. «Ce provo. Se vedemo dopo 'r bagno, core mio.»

Poi, dopo un profondo respiro preparatorio, vidi Martino gettarsi nell'aria senza paura, dominare il salto come se le sue braccia fossero ali pronte ad attutirgli la caduta.

Ed io pensai: questo è qualcosa in cui credere. Le nostre ali. Le nostre proprie forze, che ci salveranno sempre, per quanto la situazione intorno a noi sembri precipitare. Le nostre scelte, che fanno di noi uomini e donne liberi.

Il 1512 era alle porte, con le sue sfide e le sue profezie: ma, per tutti i diavoli, ci avrebbe trovati pronti ad accoglierlo, e con le armi in pugno.





Note

1In questo momento , scrivendo queste parole, realizzo gli elementi sconvolgenti di Mary-Sueaggine di Simza. Accidenti XD

NdBlackFool

Capitolo lunghissimo per i miei standard! Ma come promesso non l'ho spezzato. Anche se non c'è stata azione, spero che non sia risultato noioso. C'erano dei nodi da risolvere assolutamente, e punti che andavano esplorati ora, nella trama...dopo, sarebbe stato troppo tardi, temo. In ogni caso, abbiamo avuto un assaggio di cosa passa per la testa di Vanni; la sua motivazione non lo giustifica certo ai miei occhi per l'omicidio di Nicola, ma fa capire la gravità della sua scelta. Non è stata la pressione per le parole orrende che Nic gli ha rivolto (e chiarisco in questa sede per chi me l'ha chiesto: Nicola voleva sacrificarsi, per evitare che fosse il Mentore a sacrificarsi per lui. Se lui fosse morto sapeva che la battaglia sarebbe scoppiata, e sì, era consapevole che probabilmente sarebbe morto anche Martino (un giorno pubblicherò la oneshot che mi gira in testa su un loro dialogo, durante la prigionia). Ma per Nicola la confraternita veniva prima di tutto, e se Ezio fosse stato prigioniero dei templari sarebbero stati tutti condannati per davvero. Per questo ha provocato Vanni fino all'ultimo, non perché provasse astio nei suoi confronti...ha spinto con violenza i suoi punti di pressione proprio per farsi uccidere. Vanni ha risposto, ma per tutt'altro motivo rispetto a quello che Nicola pensava. E' un templare nel midollo, fedele ai templari, e su questo non ci sono dubbi...ma cerca di evitare che la sua famiglia si faccia del male. Contraddittorio? Forse, ma fa parte delle contraddizioni di cui Vanni è composto :) Di cui fa parte anche il triangolo con Margherita e Ilaria, tra l'altro. In questo, Bianca forse ha ragione...suo fratello è caotico, arzigogolato, un geroglifico dai molteplici significati. 
Ok, la smetto di bablare XD dico solo che nel prossimo capitolo incontreremo Eleonora, la sorella traditrice di Nicola (sì, ancora lui...sulle motivazioni per cui non lo lascio riposare in pace, e non lo lascerò fondamentalmente mai perdere fino alla fine, vi rimando a un post recente della pagina facebook di BCP ^_^), parteciperemo con Bianca all'assedio di Brescia del febbraio 1512, quindi ci sposteremo a Ravenna, agli inizi di Aprile. Incontreremo il figlio di Lorenzo De Medici, cardinale al seguito del Papa, e avremo una (spero) bella sorpresa, prima di avviarci alla fatidica data: 11 Aprile 1512, giorno di Pasqua, e pietra miliare nella vita di Agamennone Marescotti e di tutti quelli che gli ruotano intorno. Cosa succederà? *musica ansiolitica di sottofondo... ;) *
Un bacione a tutti, grazie di essere passati di qui!

BlackFool

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: RobynODriscoll