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Autore: Mirin    01/02/2014    2 recensioni
«Cosa scende con te dalla Francia, Chantal?»
«Quelque chose che desidevra i tesovri di Essio e che ha valicato i Pivrenei per ottenevrli.»
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«Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.»

Ezio fu spinto nella Confraternita dalla vendetta. Marcello dal nome che gli grava sulle spalle.
Genere: Generale, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claudia Auditore, Marcello Auditore, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza
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I’ll show you why
You won’t survive at the night
Just before you die
Look in my eyes and see the lights


Marcello sorrise alla sua cliente mentre le porgeva una pesca matura.
L’estate di Firenze tinteggiava di verde brillante le foglie degli alberi di melo che costeggiavano la piazza, un sole incredibile splendeva sull’acqua della fontana di marmo che per chissà quale incantesimo divino sgorgava torrenti dalle bocche delle statue di cui era adorna, i bambini in calzoni corti si divertivano rincorrendo i loro coetanei, le donne camminavano in gruppi ciarlieri, alcuni commedianti rileggevano alcune pagine del loro ultimo canovaccio, gli uccelli volteggiavano senza peso nel cielo smaltato di blu.
Il giovane si asciugò il sudore dalla fronte e chiese alla donna anziana di fronte a lui: «Questo è di vostro gradimento, madonna?»
La signora lo guardò con aria acida e corrucciò le labbra, insoddisfatta. «Avanti Marcello, non farmi perdere tempo! Sono appena tornata da Napoli e la frutta era più che perfetta, profumava! Cerchi per caso di rifilarmi quella caduta dal carro?»
Il ragazzo sospirò. «Nossignora! Non mi vedrete mai protagonista di questi atti villani e fallaci, d’altro canto, chi mai potrebbe ingannare il vostro naso?»
La donna sorrise: «Dunque, hai ciò che cerco?»
Marcello meditò per un attimo, poi chiese alla donna di aspettarlo lì. Corse in mezzo alla piazza, dritto verso la fontana che ne era il centro, e passò in mezzo ad un folto ammasso di piccioni che beccavano le molliche lanciate dalle bambine, i quali si sollevarono in volo turbati. Raccolse le gambe e atterrò sul bordo della vasca, dopo la superò con un balzo prima di ricominciare a correre attraverso un vicolo stretto che venne d’improvviso imboccato da due uomini, portavano in spalla una lunga asse. Con una scivolata vi passò sotto e girò a destra, arrivando in un grosso viale gremito di gente. Scusandosi per le varie spinte che rifilava ai passanti, si arrampicò sul cornicione di un palazzo per arrivare ad un ballatoio. Da lì si inerpicò direttamente su un tetto dal quale si spinse fino alla strada parallela. Con un gran schianto toccò terra e si avvicinò alla bancarella del suo migliore amico: Enzo.
Questi si voltò verso di lui con un sorriso furbo e consapevole.
«Auditore.»
«Servo tuo, amico» Marcello si inchinò con il fiatone «se mi fai un favore.»
Enzo alzò un sopracciglio. «Con che coraggio ancora abusi della mia pazienza, Auditore? Ordunque ancora mi credi tuo debitore? Ti ho ripagato con tutti i miei servigi ed ancora ti ostini a ritenerti superiore? Qual inciviltà, qual ombra è caduta sulla nobile famiglia dei banchieri di Firenze!»
«Abbassa la voce, stupido esibizionista! Vuoi che Firenze intera ti senta? Ce l’hai qualcosa da appioppare alla Megera?» gli intimò Marcello, che si guardava nervoso le spalle. Due ragazze ridacchiavano mentre li osservavano.
«La vecchia? È la rovina di noi fruttivendoli! Sì, credo di avere qualcosa… se stavolta mi giuri sui coglioni che divideremo a metà la vendita!» Enzo si fece minaccioso.
Marcello ridacchiò: «Amico mio, credi mai che ti imbroglierei? Il mio onore non me lo permetterebbe!»
«La tua coscienza non è cresciuta assieme ai peli del tuo pube, Marcello» ribatté «mi hai già imbrogliato più volte di quante le dita possano contare.»
«Avanti, Enzo! Sono il figlio di Messer Ezio Auditore da Firenze, un po’ di rispetto!» egli gonfiò il petto e sventolò l’indice contro l’altro.
«Certo, certo» lasciò perdere il secondo «prendi questa. È frutta spagnola» il ragazzo alzò le sopracciglia e Marcello rise, cogliendo l’antifona. Prese il cestino offerto dall’amico e fece un cenno sbarazzino verso le due donne che lo guardarono con occhi languidi.
«Figlio d’un banchiere» borbottò Enzo.



Non era l’unico a chiamarlo così, bensì tutta Firenze.
Era un bravo ragazzo, di sicuro, ma non era di gran lunga simile al padre Ezio. Colui che a trent’anni era stato l’Assassino più famoso della penisola non aveva vissuto abbastanza a lungo da insegnare al figlio maschio i dogmi del vivere secondo giudizio: onestà, sprezzo del pericolo e astensione dal vizio.
Il banchiere è la figura che più si avvicinava a lui: oculato, donnaiolo e senza spina dorsale. Non si faceva scrupoli a ricattare le persone che chissà come gli dovevano un favore, Enzo per primo, e per lui le donne esistevano soltanto per togliere loro la dote.
Si portava sulle spalle vent’anni di mediocrità, e Claudia si chiedeva cosa Ezio avrebbe detto -se fosse stato vivo- di un figlio educatamente degenere come Marcello. Non avrebbe di certo desiderato che intraprendesse la carriera distruttiva di Assassino, ma nemmeno che perdesse i cardini del gentiluomo, dei quali Messer Ezio Auditore da Firenze era stato il convinto propagandista.
«Oh Signore, aiutalo tu» la zia lo rimetteva sempre alle cure di Dio poiché soltanto l’Onnipotente avrebbe potuto educare quel dirittone. In fin dei conti quasi sorrideva mentre osservava i vispi occhi azzurri del nipote: così diversi da quelli di suo fratello, eppure così simili; vivi, allerta, scherzosi. Sembrava quasi di vedere l’Ezio Auditore innamorato di Cristina, il ragazzo spensierato che se ne andava smargiasso per le vie di Firenze esibendo il suo cognome quasi fosse un blasone reale. Certo, se da un lato Ezio era più valoroso, Marcello era senza dubbio più cauto, Claudia doveva concederglielo, e un migliore giocatore di scacchi. Marcello era uno stratega, un comandante, un manovratore, ed invero avrebbe avuto successo in politica se non avesse dovuto portarsi dietro l’appellativo di “figlio dell’Assassino”.
La donna, d’altronde, sapeva che la morte di Ezio attirava sulla sua casa sventure invisibili e minacce remote. Ormai morto da vent’anni, i suoi tesori facevano ancora gola -e non si parla delle sue ricchezze materiali, ma della documentazione dettagliata sulla Gilda ancora nascosta nella Villa. Lei faceva quanto poteva, ma non aveva il potere di custodire ancora a lungo l’Ordine degli Assassini, e le scelte per un nuovo Mentore erano diventate ormai ristrette ed oscurate da varie ambizioni dai parti dei candidati. Voleva tanto che il potere continuasse a scorrere nella Famiglia Auditore, ma non se la sentiva di affidare a nessuno dei figli di Ezio un tale peso, soprattutto perché il padre sarebbe stato di certo poco contento di ciò.
Morto ormai da un anno il caro Ludovico, Claudia conservava -per discendenza- il titolo spettato prima allo zio e poi al fratello, ma in cuor suo sapeva che entro poco il suo tempo limite sarebbe scaduto e nell’Ordine sarebbe scoppiato il caos; dunque, qual’era la persona giusta a cui affidare questo incarico?
«Signora Auditore?» una guardia bussò alla porta del suo studio.
«Avanti» rispose Claudia, un sospiro rassegnato nella voce roca d’anziana.
Egli entrò con un gran sferragliare e si inchinò alla donna. Dopo la morte del marito si era trasferita in via definitiva a Firenze, per stare vicina alla cognata e consolarsi a vicenda della perdita dei rispettivi consorti. Dopo aver capito di essersi stabilita sulle ceneri di una polveriera, aveva deciso di munirsi di un manipolo di fidati soldati che proteggessero la sua incolumità; uno di questi era Saverio, il capo della guardia.
«Buongiorno, signora» esordì con voce limpida Saverio, rimettendosi dritto. «C’è una donna che desidera vederla.»
Claudia sbuffò, irritata. La sua ricchezza, la sua vecchiaia e la sua mancanza di eredi le portavano sotto al portone decine e decine di mendicanti -tra i quali la maggior parte parlava un eccellente fiorentino- in cerca di danaro facile. Non aveva mai sopportato gli avvoltoi e la sua amata Firenze, per quanto traboccasse di pregi -dal vino all’arte-, ne era piena.
«E chi dunque stavolta desidera servirsi delle mie monete d’oro? Un onesto mendicante, un volgare straccione o un morto di fame? Quanti di loro ogni giorno bussano alla mia dimora chiedendo denaro, quando questa vecchia signora sa da che ambienti essi provengano! Usurai, nobili, titolati, avvocati, magistrati! Questa storia debba un giorno aver punto di fine, lo giuro sulla testa dei miei nipoti!» sbottò inviperita, ma il giovane con un rossore d’imbarazzo frenò la sua invettiva: «oh madonna, vi prego, aspettate! C’è un imbroglio! La donna si è appellata come La Fransese.»
«La Français?» Claudia subito corresse il tiro. Se avesse saputo la verità, avrebbe preferito illudersi fosse davvero un ruffiano, l’avrebbe accolto con un sorriso ed invitato lieta ad entrare.
Perché lei? Perché adesso? Da Nord giungevano sempre cattive notizie, Claudia lo sapeva per esperienza, e La Francese era una cattiva notizia già di per sé senza un messaggio funesto.
Si morse il labbro. Se il Mentore francese si scomodava a mandare un Maestro in Italia, di certo quello che portava non era un semplice resoconto delle attività europee, Claudia ne era consapevole, ma non riusciva a scacciare il cattivo presentimento annidatosi nella sua mente.
«Falla entrare, Saverio» si arrese Claudia per poi sprofondare in una poltrona rossa di velluto. Le tende cremisi erano spalancate come le ante del grande finestrone che riparavano, e la luce dorata del meriggio si infilava prepotente nella stanza lussuosa, adorna di tanti tipi di legno pregiatissimi.
Un dolce profumo di margherite si innalzava dall’aiuola del giardino proprio sotto l’apertura e Claudia sentì alcune bambine ridere, intente a coglierle.
«La roscia, la roscia!»
«No, Maria, la bianca!»
«Guardate quella, che insolita tinta!»
«Si dice che Madonna Auditore l’abbia presa da Costantinopoli durante uno dei viaggi del fratello!»
Un improvviso scattare della serratura la destò. La porta si aprì con lentezza mentre una donna incappucciata scivolava nell’ambiente. Aveva una spessa e robusta toga di tessuto chiusa da una serie di bottoni a pressione in ottone sul davanti, completamente bianca, lunga fino alle caviglie, oltre la quale sbucavano un paio di stivali comodi ed eleganti. Assomigliava ad uno spettrale fantasma, la forma svasata del vestito, la larghezza delle maniche, e il cappuccio creava un forte contrasto: fine, leggero, accompagnava la forma piccola di una testa femminile e sembrava non essere attaccato alla toga stessa, piuttosto a qualcosa al di sotto.
Non sembrava portare armi ma Claudia sapeva che le avrebbe trovato ai polsi le sue famose Lame Celate al Profumo di Artemisia, pugnali a scatto imbevuti di uno speciale veleno floreale dalla soave fragranza ma letale per infusione o assunzione orale.
«Madame Auditore.» Madame Auditovre.
«Chantal» -Claudia abbassò il capo alla riverenza della donna- «cosa fai nell’abitazione di una vecchia signora in un bel giorno d’estate?»
«Sono pavrtita diesci giovrni fa, madame, e a Paris fasceva molto fvreddo» la sua voce sembrava sempre canzonatoria, Claudia se ne ricordava bene, e la sua sfrontatezza era uno dei motivi per il quale non la sopportava. Non faceva altro che pavoneggiarsi con quella sua voce dall’armoniosa melodia, con il suo accento romantico e con la figura esile dalle curve generose, l’antitesi dell’Assassino. Sapeva, però, perché Jean-Paul se la teneva così stretta: niente uccideva con più velocità di Chantal -a parte la buonanima di Ezio. Aveva visto molti Assassini correre sui tetti, ma Chantal ci volava, era come una palla lanciata in discesa, più agile di un gatto e quando scendeva in picchiata era letale. Seduttrice nata, era un’ottima spia, sapeva come raccogliere appoggi ed informazioni tramite coercizione, tortura, minaccia e favori sessuali; parlava di lei il suo cognome, Foncé, oscuro.
«E con quali intenzioni, Chantal?» chiese Claudia con una punta di impazienza.
«Sono venuta a ritirar les affaires di Messer Essio» mormorò infine con una palesemente finta smorfia di contrizione. Claudia scattò subito e, senza potersi trattenere, si alzò in piedi.
«E con quale coraggio ti arroghi questo diritto?» Claudia proruppe minacciosa «gli oggetti di Ezio sono patrimonio unico della sua famiglia ed appartengono ai suoi eredi secondo testamento!»
«Non mi interessa il denavro» ribatté secca «l’Ovrdine desidevra sue mappatuvre, suoi codisci.»
«I suoi più preziosi tesori» chiarì inacidita Claudia senza giri di parole.
«Il  era un Mentovre, e come tale il suo patvrimonio appartiene a-» «A coloro a cui lo ha assegnato! Ezio ha guidato per anni l’Ordine italiano e per tanto quel materiale verrà custodito in Italia! Saremo lieti di ospitare i nostri collaboratori francesi, qualora ne sentissero il bisogno.»
Chantal si sporse sulla scrivania di Claudia con il chiaro intento di intimidirla, ma gli occhi pronti della donna orlati da ciglia grigie non diedero alcun sentore di paura; anzi, sembravano sfidare lo sguardo blu di Chantal sotto il cappuccio.
«L’Ovrdine franscese sente la nescessità di davre a quella pressiosa evredità una protescione più sicuvra» Claudia capì che Chantal stava nascondendo un segreto.
«Perché adesso?» ma non appena fece quella fatidica domanda ad alta voce, tutto le si delineò nella mente con precisione millimetrica e le si accapponò la pelle.
«Cosa scende con te dalla Francia, Chantal?»
«Quelque chose che desidevra i tesovri di Essio e che ha valicato i Pivrenei per ottenevrli.»
«I Borgia e la loro discendenza sono distrutti» mormorò Claudia senza voce.
«Non l’Ovrdine dei Templavri» le ricordò Chantal «e la lovro nuova roccafovrte è in Spagna. Sono guidati da colui che si fa chiamavre Carlo V.»
«L’Asburgico?» bisbigliò Claudia scioccata «Il Re di Sicilia è un Templare?»
Chantal annuì grave ed aprì la bocca per dire qualcosa ma venne interrotta dall’entrata di un ragazzo con i capelli neri ed un sorriso divertito sul volto.
«Zia!» esordì con calore «si sente la vostra mancanza su a Villa Auditore! Quando…»
Marcello si interruppe allo scrutare il viso dell’adorata zia, angoscioso ed afflitto da chissà quali pene.
«Zia!» ripeté allarmato e fece per sporgersi verso di lei, ma solo dopo si accorse di una terza presenza nella stanza, con il cappuccio calato ed una lunga tunica di stoffa ruvida che la ricopriva per intero.
«Tu es qui?» nel suo tono c’era un sorriso di retorica che Marcello non colse, o forse ignorò.
«Marcello Auditore, madamigella, figlio di Ezio Auditore da Firenze e Sofia Sartor» lo disse con quell’odiosa superiorità, tipica di un cane che si pavoneggi tra i suoi pari per l’importanza del proprio collare.
«Vi vontate di natali di cui non conoscete il vevro valovre» rispose la donna, altera e tagliente.
Marcello si sentì tremendamente offeso da quella straniera: come osava prendersi gioco di lui in quel modo? Una donna che osava insultarlo? E con che diritto? Qual onta, qual vilipendio, quello di sporcare il nome dei grandi Auditore!
«Signorina, vi prego di rispettare il mos di Firenze!» ringhiò, ma ella scoppiò a ridere con gusto.
«E quindi il seme del gvrande Essio Auditovre ha scenevrato sciò? Sacrebleu! Non valete neanche un’unghia di vostvro padvre!» lo accusò ferina, facendo schioccare la lingua.
«Adesso basta! Voi vi beffate dell’onore mio e di quello dei miei antenati! Con che coraggio entrate in una dimora degli Auditore senza chinare il capo a coloro che la abitano? Siamo stati, anzi siamo, i padroni di Firenze!» Marcello gridò, furioso.
«Voi stesso siete il danno e la beffa del vostvro casato, Mavrscello» pronunciò la donna e sbiadì, almeno così gli parve.
Un secondo più tardi si ritrovò piegato con le braccia sullo stomaco, quando la straniera l’ebbe colpito forte in pancia. Non ebbe modo di pararsi dalla seconda gomitata, tirata forte sulla testa, ma schivò il calcio diretto alla caviglia. Così conciata, ingombrata dalla pesane tunica di stoffa, non si muoveva con molta agilità, ma l’effetto sorpresa aveva ingannato in modo meschino l’Auditore.
Marcello cercò di arretrare ma la donna lo afferrò per un polso e lo trascinò in avanti, facendolo cadere lungo disteso sul pavimento.
«Chantal!» Claudia esclamò, inorridita. La francese la ignorò, quindi appoggiò un piede sulla testa dell’uomo e la tenne ben ancorata al suolo.
«Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.»
In un fruscio di tessuto, si ritrovò sulla soglia della finestra aperta, dando le spalle alla via esterna.
«Riflettete bane su sciò che ho detto, Madame Auditovre. Avete poco tempo» affermò Chantal Foncé, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi cadere a braccia aperte.



La luce aranciata del tramonto colorava le cime dei cipressi del colore dell’oro fuso, alcuni uccelli notturni già stridevano, le mamme sgridavano i bambini per non essere ancora rientrati e gli arrivava lontano l’eco di risate virili.
Virile. Aggettivo derivato dal sostantivo latino “vir” che, a differenza di “mas” significante il generico maschio, indicava l’uomo forte e pieno di convinzioni, deciso a lottare per i propri ideali e incapace di provare paura, l’eroe per eccellenza.
Marcello, in ginocchio davanti alla tomba di suo padre, si chiedeva cosa lui fosse; il vir o il mas?
Molti gli avevano detto di usare i suoi avi come scudo per le sue incapacità, e lui mai aveva capito dove fosse il problema: c’era qualcosa di sbagliato ad avere avuto straordinari parenti? Doveva vergognarsi delle proprie origini? Giammai! Quello che avevano fatto i grandi Auditore riecheggiava nella storia moderna e di certo sarebbe rimasto vivo nelle ere.
Eppure dunque perché era lo zimbello della città? Cosa dettava la compassione negli sguardi della gente? Il fatto che fosse rimasto orfano da bambino turbava le menti dei fiorentini? Eppure erano passati dieci anni dall’accaduto, ormai sapeva badare a sé stesso.
Era una delle cose che più detestava, ad essere onesti. Quel nome, quell’appellativo: figlio di un banchiere. Sapeva cosa significasse ed aveva imparato a convivere con quell’imposizione, ma ora più che mai gli andava stretto, colpa di quella dannata donnaccia. Tutta Firenze lo chiamava così, in quel modo, figlio del banchiere, come se suo padre fosse stato famoso per le sue attività di contabile! Tutti sapevano qual’era stato per secoli il mestiere degli Auditore, e di certo non quello di revisori di conti! Sapeva che suo padre aveva lasciato moltissimi documenti alla Villa, accuratamente nascosti, ma lui non aveva mai avuto il coraggio di dare loro uno sguardo: troppi intrighi, troppi segreti nascondevano quelle carte, e lui non aveva la minima intenzione di dedicare la propria vita all’Ordine come aveva fatto il genitore.
Gli Auditore avevano pagato il loro tributo alla Causa degli Assassini, era ora di voltare pagina.
Però un dubbio lo assaliva in quelle ore: fosse il suo rifiuto per la cappa la vera origine della sua codardia? Perché evitare quell’indumento, se ogni volta vi si nascondeva dietro evocando il nome dell’invincibile padre?
Le tombe spesse di pietra creavano ombre scure sul prato, con il sole all’orizzonte. Marcello fu inghiottito da quella di suo padre, la lapide più alta del cimitero.
Si rese conto che ciò accadeva da vent’anni. Aveva vissuto per vent’anni all’ombra del padre, delle sue gesta, del cognome da lui ereditato: ciò che fino al pomeriggio aveva creduto essere una benedizione, ora si rivelava la sua condanna. Non era possibile per lui vivere con quel peso, con il peso di essere un Auditore e di non essere all’altezza del proprio predecessore, di non essere all’altezza del proprio padre.

 
Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.

E se quindi non poteva campare della vanagloria per gli atti di Ezio, perché continuare a ricordarlo? Era stanco di essere paragonato a lui, di avere lui come esempio, un uomo che aveva passato l’intera vita ad uccidere, a rubare, a mentire.
Lui era il vir. Marcello era il mas.
Non ne era sorpreso: era troppo prudente e coscienzioso per poter mai essere un vir. Aveva accettato il fatto di non avere abbastanza fegato per sfidare a mani nude masnade di nemici armati fino ai denti, ma aveva sale in zucca, tanto quanto bastava per non farsi uccidere da innumerevoli rivali. Come? Non facendoseli.
Il suo eroismo era dettato da puri interessi personali, e se davvero esiste il confine tra meschinità e proprio tornaconto, Marcello non ne aveva mai compreso l’importanza. Perché limitarsi a stare bene, se si può stare meglio adottando semplici stratagemmi?
L’uomo si rialzò e guardò con uno strano sentimento di mancanza il nome inciso sulla lastra. Era la seconda volta che perdeva suo padre, eppure solo in quel momento capiva quale era il distacco definitivo, proprio mentre gli voltava le spalle.
Ezio Auditore da Firenze era stato un grande Assassino.
Marcello Auditore sarebbe stato un onesto Fiorentino.
“La strada verso casa è lunga” ricordò con un sorriso, mentre si caricava in spalla il sacco pieno di frutta.
La scelta di fare il fruttivendolo era dettata da una necessità caratteriale e uno sfruttamento di materie prime: poiché abitavano in campagna e possedevano un grande podere, si producevano da soli la maggior parte dei viveri e ciò che rimaneva in più lo vendevano al mercato. Marcello era un ottimo diplomatico, e grazie al suo bell’aspetto riusciva in più di un affare. Era un ammaliatore, un dirittone, un furbastro, e sua madre sospirava spesso che il figlio non aveva nulla da invidiare a suo padre.
Sofia amava coltivare le piantagioni di meli, aranci, peschi, albicocchi, diceva che il loro buon profumo le ricordava suo marito, e spesso Flavia le dava ragione, che l’essenza dalle note dolci del melograno assomigliava a quella di Ezio.
Marcello non riusciva a capire come la sorella se ne ricordasse così vividamente: avevano soltanto un anno di differenza, eppure Flavia parlava di Ezio quasi ci avesse vissuto un’intera vita assieme. Riusciva a descrivere le abitudini dell’uomo come se ce l’avesse davanti, cosa gli piaceva mangiare, il tono roco della sua voce, le sensazioni che la sua mano ruvida le dava tra i capelli, come la chiamava, cosa gli piaceva che lei indossasse, il colore della sua risata, il taglio degli occhi, la robustezza del mento. Lui non ricordava nulla del padre, se non che fosse sempre chiuso nello studio e che avesse un’onnipresente tosse da cani.
Riflettendoci bene, lui non aveva mai conciliato la figura del padre sessantacinquenne con quella dell’Assassino d’Italia. Ezio Auditore e suo padre non erano la stessa persona, nella sua mente.
Come poteva, d’altronde, il vecchio che camminava con la schiena curva aver sterminato i Templari di Italia? No, non era possibile.
Aveva sempre visto Ezio come un’entità astratta. Certo, lo identificava come padre, eppure pensava a lui soltanto come grandezza, e non come umanità. A dirla tutta, stimava più le azioni gloriose che la sua quotidianità: capiva la grandiosità che stava nell’aver sgominato i Borgia, ma non quella dell’aver messo al mondo due figli. Non aveva ricordi di suo padre, se non quello dell’averlo disprezzato già da un anno a partire dalla sua morte, né di Ezio, al quale aveva appena dichiarato un divorzio di rispetto.
Mentre risaliva la collina, si accorse di non sentirsi in pace.
Qualche secondo dopo, capì di non essere solo.
Si aggiustò meglio il sacco sulla spalla sinistra, nel frattempo gettava un’occhiata nella direzione opposta. Le foglie di un cespuglio nella macchia frusciavano in maniera innaturale, quindi Marcello decise di tenersi contro gli alberi più lontani a quella parte di vegetazione. Si sentiva spiato, assalito, sotto la lente di ingrandimento di invisibili nemici, nervoso ed al contempo eccitato a causa dell’adrenalina che gli scorreva nelle vene.
Se qualcuno gli era davvero alle calcagna non poteva permettersi di portarlo a Villa Auditore, da sua madre, da Flavia e Fiorella, doveva cercare di seminarlo prima di ritirarsi a casa in tutta fretta.
Si diresse verso est, in una villa di campagna appartenente al padre di suo cognato, Davide Beccaccia, fuori per un viaggio a Napoli. Oltre ad essere vuota, era anche provvista di una stalla che ospitava i cavalli più veloci dell’intera Firenze.
Passo dopo passo, risalì il pendio e a sorpresa si inerpicò attraverso una fitta sterpaglia, piena di rovi spinosi e zone paludose, ostica anche per i più esperti. Conosceva il sentiero, incastrato tra alberi frondosi e caterve di acquitrini infestati, già per lui era difficile arrivarci, figurarsi per gli eventuali assalitori.
Il buio lo inghiottì da ogni direzione, lui silenzioso come una volpe iniziò a muoversi attraverso le foglie sfilacciate che creavano il tappeto interno della foresta. Attorno a lui sentiva lo sciaguattare nel fango stagnante degli uccelli marini venuti in cerca di pesci e rane, i grilli che frinivano sui rami più alti delle querce, passi umani che si muovevano impacciati su un territorio sconosciuto. Sorrise: sprovveduti.
Si permise di accelerare, silenzioso come un’ombra nel sottobosco, si arrampicò sul busto sottile di un pino marittimo, nascosto dai castagni limitrofi, e studiò la zona circostante. Pur non vedendoli, percepiva la posizione dei nemici rispetto alla propria, ed anche la distanza dal sentiero, di circa una ventina di metri più a sud.
Non sapeva come, ma riusciva sempre a trovare la strada: era un dono naturale, un suo personale fiuto speciale; anche quando la sorella da piccola gli nascondeva le scarpe, i vestiti, i giochi, lui ritrovava il perduto in meno di dieci minuti. Flavia si arrabbiava tanto da picchiarlo e si lamentava con Sofia che il figlio maschio imbrogliasse.
Scese dall’albero fino a terra con rapidità, sfruttando le scanalature dell’arbusto, e sfrecciò verso la via maestra, sottile come un ramo di salice fra le erbacce che la dominavano da entrambi i lati. Sentiva le lamentele sommesse e lontane degli assalitori -“lo hemos perdido!”- ma cercava di non dare loro peso, con il cuore che gli batteva a mille per la fatica e la paura cieca che gli era salita dopo aver sentito il rumore di ferro di spade sguainate.
Quasi mancò di girare a destra al bivio, ma dopo un’imprecazione imboccò la strada giusta. Più avanzava, più la luce scemava, e ben presto si sentì soffocare dal nauseante colore verde scuro dei pochi raggi che trapelavano dalle foglie spesse ed umide. I piedi faticavano a mantenere il ritmo della sua corsa, infatti inciampò in molte radici e rischiò di cadere così tante volte da dover prestare attenzione unicamente al suolo ed isolarsi dalle voci esterne che si avvicinavano leste.
Era scuro il cielo sopra la sua testa, prima che riuscisse a distinguere in lontananza un’abitazione al limitare degli alberi, e poté fare ciò soltanto perché il bianco della casa brillava nel buio. Si sforzò per compiere l’ultimo scatto, ma una pietra infame gli tranciò la corsa, mandandolo a sbattere sull’erba incolta; l’impatto fu talmente duro da fargli sanguinare il naso e provocare un rumore sordo che si propagò nell’aria a distanza di metri. D’improvviso tutto tacque, mentre Marcello capiva di essere morto, morto stecchito.
«¿Auditor Marcelo?» una voce austera si alzò dalla macchia, un tono di imperioso comando verso il quale provava un disgusto ed un rifiuto radicato nel proprio essere.
“Auditore”.
«¿Tu eres Auditor Marcelo?» si avvicinava, Marcello avvertiva il sangue scorrergli nella bocca che aveva spalancato a metà respiro, confuso e spaventato.
“Io sono Marcello.”
«¡Auditor Marcelo!» altre persone si unirono alla prima, forse due, oppure tre. Sembravano tutti avere lo stesso tono freddo e tagliente, roco e forte.
“Non Auditore. Solo Marcello. Marcello. Marcello.”
«¿Dónde eres tu, hijo de puta ?» quasi urlavano. Marcello sentiva il nervosismo e la brama di autoconservazione scavare nel suo spirito, dilaniato a sua volta da due lame.
Scappa. Scappa e non voltarti indietro diceva il mas.
Uccidi. Uccidi e difendi il tuo onore diceva il vir.
“Marcello. Io sono Marcello. Un onesto fruttivendolo. Figlio di Ezio Auditore e Sofia Sartor, appartenente alla stirpe degli assassini di Firenze, figlio del più grande Mentore esistito nella storia corrente. Io non so uccidere. Io non so rubare. Io non sono capace di mantenere la calma. Ma posso imparare. Non riuscirò mai ad avere la meglio su dei mercenari. Ce l’ho nel sangue. Io sono questo. Non so giocare a fare l’eroe. Non è più un gioco. Adesso non posso più nascondermi.
Qualcosa lo prese per i capelli neri raccolti, rivelando alle luce della stelle pallide il suo volto coperto di una vischiosa sostanza rossa. Aprì di qualche centimetro gli occhi azzurri brillanti di una luce particolare, e ci vide riflessa la faccia rotonda, floscia e sdentata di un uomo calvo con una croce al collo. La persona che lo aveva afferrato per la coda, in quel momento spostò l’attenzione sulle sue mani che vennero torte dietro la sua schiena. All’uomo che gli stava di fronte, se ne aggiunse un altro.
«¡Un guapo, igual que su padre!» disse il calvo al suo compagno, dandogli di gomito. Al loro fianco, penzolavano spade leggere, ma fuori dalla portata di Marcello.
«Pero toda esta sangre lo desfigura» rispose l’uomo che gli tratteneva le mani, le quali perdevano rapidamente di sensibilità.
Doveva agire in fretta. Il corpo dei tre bravi era coperto da un’armatura pesante, l’unico punto scoperto era la testa. L’agilità era l’unico punto a favore per quel combattimento. E pensare che le scuderie erano così dannatamente vicine! L’uomo lo spinse in avanti con uno strattone, cosicché Marcello per inerzia abbassò il capo.
«¡Dónde están los documentos de tu padre!» non conosceva lo spagnolo, ma non c’era bisogno di parlarlo per capire cosa l’uomo desiderasse.
“La documentazione sull’Ordine. Vogliono i segreti della mia famiglia.”
«Guadagnateli» sibilò Marcello.
«¿Qué?» affannò uno dei mercenari.
Marcello alzò la testa di scatto con un movimento così repentino e furioso da far schizzare il sangue dalla bocca dell’uomo che lo teneva fermo. Questi lo lasciò così di scatto da farlo parere incandescente e Marcello, senza neanche voltarsi, gli rubò la spada corta dal fodero.
Prima che il calvo comprendesse di essere in pericolo, venne trafitto allo stomaco.
Marcello spinse il cadavere gorgogliante dell’uomo e cominciò a correre come mai in tutta la sua vita. Sentiva alle spalle lo sferragliare delle armature, lo sguainare dei ferri, il sangue sulle dita, sul volto, nel cuore, negli occhi, ma ciò non gli impediva di correre. Più correva, più capiva che avrebbe dovuto correre per tutta la vita. Scappare. Con ogni mezzo che gli si presentava.

 
Agiamo nell’ombra per servire la luce.

Suo padre glielo aveva detto, mostrandogli una pergamena dagli strani disegni.
Ora che si era macchiato dell’uccisione di un altro essere umano, come doveva sentirsi?
Non pensarci diceva il mas.
Non dimenticare mai di aver rubato una vita, e rispetta la memoria di colui che hai ucciso diceva il vir.
Marcello spinse la porta della stalla con forza e si diresse verso il primo cavallo che gli si era parato davanti. Sciolse con le unghie sporche il nodo alla staccionata fatto con le redini del destriero, che nitrì di sorpresa. Marcello non ci fece caso e salì immediatamente in groppa alla bestia prima di dargli un colpo con il tacco degli stivaloni. Il cavallo impennò, proprio appena i mercenari fecero il loro ingresso. La furia animale puntò direttamente su di loro, che si tirarono da parte, mentre l’ultimo Auditore solcava la notte intrisa di mistero.
 
Flavia ordinava le messi in fasci chiusi da nastri robusti, mentre Sofia spazzava il pavimento con la scopa di frassino.
Fiorella, seduta sul prato candido di margherite con il suo vestito azzurro dall’ampia gonna, intrecciava fiori per fare una ghirlanda. Aveva i capelli della madre e gli occhi verdi del padre, ma la nonna diceva che il suo sorriso era sempre stato quello di Ezio. Sapeva che Ezio era stato un grande uomo, e che era il papà di sua mamma Flavia. Era morto tanto tempo prima, non l’aveva mai visto, quindi spesso saliva su una sedia e si metteva davanti alla finestra per osservare il suo bel sorriso.
Quella sera, aspettava il caro zio che ritornava dalla città. Quando alla mattina si era svegliata con i primi raggi di sole, Marcello era già fuori e sua madre dormiva ancora. Odiava alzarsi quando lui usciva, perché voleva che lui la svegliasse, in quel modo tutto speciale; si avvicinava a Fiorella, le mordeva le guance, poi le sussurrava nell’orecchio “la luna se n’è andata, la mamma si è svegliata, la luce si è alzata, inizia la mattinata”.
Non vedeva suo zio dal pomeriggio precedente, perché era uscito a fare spese dal calzolaio, e quando si era ritirato Fiorella dormiva di sasso.
«Fiorella!» la chiamò la nonna, ma la bambina fece orecchie di mercante nel frattempo che teneva gli occhi fissi sui fiori.
“Tio Maccello, dove sei?” si crucciava invece la bimba, scrutando il buio oltre il grano alto che la nascondeva alla vista.
«Fiorella, entra!» alla nonna, si aggiunse anche Flavia con tono minaccioso.
La bambina sospirò: avrebbe spiato il varco tra i cereali dalla finestra in attesa del suo adorato zio.
«Ah, le mani tutte sporche di terra! Come devo fare con te? Non toccarti il vestito, che me lo sporchi! E sul visino, che ti sei fatta? Oh, Fiorella, sei una monellaccia!» l’apostrofò la madre. Le tolse senza garbo il vestito azzurro e prese una vecchia camicia di cotone che apparteneva allo zio, che la nonna le abbottonò.
«Stai calma, Flavia. Tra poco Giacomo sarà qui» Giacomo era il padre di Fiorella. Ubriacone, lestofante e con una palese attinenza verso il gioco d’azzardo e il bere, l’unico pregio che aveva era l’adorazione che provava verso la bella Flavia e la figlioletta Fiorella. Inutile dire che Sofia lo mal tollerava in casa propria solo perché così aveva la figlia e la nipote sotto il suo tetto.
Ciononostante, Marcello e Giacomo Beccaccia litigavano come due cani: per il denaro, per il cibo, per Fiorella, per il rispettivo casato, per l’affidabilità di entrambi, per la loro capacità di essere “gli uomini di casa”. Marcello non lo sopportava perché lo riteneva una sanguisuga, un vile ed un codardo, Giacomo d’altro canto lo reputava un arrogante doppiogiochista, malizioso e approfittatore.
«Si sarà fatto un altro debito, quel disgraziato!» sbraitò Flavia, immergendo l’abitino della fanciullina in una tinozza d’acqua, «è creditore dell’intera Firenze e dintorni!»
«Sai che Marcello non glielo permetterebbe mai» rispose Sofia, bonaria ed accondiscendente. Al solo sentire il nome di Marcello, Sofia si ricordò degli affari lasciati in sospeso.
«Marcello ne è un altro, che Iddio l’abbia in gloria! Oh, se lo avessi tra le mani… Andare con la figlia del fornaio? Ma gli par questo costume?! Che si trovasse una moglie, ha vent’anni ormai, è ora che metta la testa sulle spalle, là dove deve stare!» Flavia batté con veemenza la racchetta sul vestito di Fiorella.
«Anche suo padre è stato una bella testa calda a suo tempo» Sofia rispose, piegando gli abiti da lavoro.
«Papà a vent’anni combatteva i Templari, mamma! Non usarlo sempre come scudo per le sue carognate! Marcello non è un unghia di-» «TIO!»
Flavia e Sofia si girarono entrambe verso la finestra, dove Fiorella batteva eccitata le mani.
Sofia sorrise felice, pronta ad accogliere il figlio, ma Flavia era già corsa fuori per abbracciare il nuovo venuto. Eppure, rimuginava la donna, Marcello era così strano… non era partito a cavallo, la mattina, adesso invece… e perché stava curvo?
«Tio?» sussurrò Fiorella, mentre l’uomo scivolava dalla groppa non sellata del destriero e sbatteva sul terreno.
«MARCELLO!» gridarono le due donne all’unisono, gettandosi all’esterno e correndo verso di lui.
Lo aiutarono a rimettersi in piedi e lo portarono all’interno, con Fiorella che trottava terrorizzata alle loro spalle. Non appena fu sotto la luce della lampada ad olio, a Sofia venne un colpo: era del tutto coperto di sangue sul volto.
«Nel nome del Signore Iddio, Marcello, cos’hai combinato?» mormorò Flavia, portandosi le mani alla bocca. Suo fratello non era un guerrigliero, era un fiorentino onesto, di certo non cercava guai a differenza dei perdigiorno che giravano in piazza. Lui lavorava, si faticava il denaro, non avrebbe fatto del male ad una mosca!
«Cercano… Ezio…» riuscì solo a mormorare.
«Ezio?» ripeté senza parole Sofia. Si scambiò uno sguardo con la figlia maggiore: stava forse delirando?
Al nome Ezio, qualcosa scattò nel cervello del ragazzo. Scattò in piedi e uscì di corsa, si diresse verso il casolare attiguo che un tempo era servito a suo padre come studio. L’antro era completamente buio, se non per la luce della luna che fioca entrava da una fessura sul lato del tetto in legno. Il pavimento era coperto di luridume e sporcizia, ma sapeva che nel lato destro della stanza era addossato un forziere di legno, che conteneva tutti i risparmi degli Auditore negli ultimi trentasette anni e tutti i documenti riguardo all’ordine degli Assassini. Marcello si chinò sul baule, puntò per bene i piedi per terra e diede una poderosa spinta, cosicché esso si muovesse di un’abbondante decina di centimetri.
«Marcello, cosa stai facendo?» gridò sconvolta Sofia.
«Lascialo al suo posto!» fece eco Flavia.
Marcello era sordo ai richiami, continuava a spingere il contenitore fuori dalla porta di legno.
«Fiorella, prendi le chiavi della cantina» ordinò invece alla nipote, che felice di poter aiutare lo zio rientrò in casa.
Non appena ottenne le chiavi dalla bambina, aprì una botola nascosta  tra l’erba, dove erano conservati i vini più pregiati della casa. Marcello cercò di tirare a forza il baule sulle scale strette che portavano al livello inferiore e, dopo essersi quasi azzoppato ed aver gridato di dolore, riuscì a farlo passare. Un po’ zoppicante, trascinò il forziere lungo il corridoio di pietra costruito tempo addietro dal padre fino alla sala circolare con le fiaccole alle pareti.
Lì nascose il baule sotto ad un manto nero trovato per caso e cadde, stremato, sul pavimento.
Non li avrebbero trovati, mai. Quella cantina era stata costruita dal padre anche come rifugio in caso di emergenza, era nascosta troppo bene per poter essere individuata. Nessuno all’infuori di lui, Sofia e Flavia ne conosceva l’esistenza.
I segreti di suo padre erano al sicuro.
Si chiese se anche la famiglia di suo padre lo fosse, prima di svenire.



 
 
 
 
Marcello Auditore si svegliò tre ore dopo, nel proprio letto.
Non seppe se a destarlo era stata la scossa ricevuta sulla spalla, oppure il calore della fiamma che gli aveva scottato la guancia.
 
 
ladie’s a gentleman! (author’s corner):
Un parto.
Non ho mai scritto un primo capitolo COSI’ LUNGO in tutta la mia vita. Sono soddisfatta di me stessa, anche se non mi piace: credo di aver donato quasi tutti gli elementi che potevano intrigare di questa storia -L’Assassina e il Profeta. Manca solo il Templare ma lui entrerà in scena un po’ più tardi.
Chantal Foncé è un mio vecchissimo personaggio di un GDR (il cui background era molto ripreso da AC), del quale nel prossimo capitolo vi accluderò il prestavolto. Non so perché Marcello abbia gli occhi azzurri, ma mi piaceva immaginarlo così, non volevo che fosse troppo simile ad Ezio, ma neanche troppo diverso dal padre.
Adoro fare Flavia nervosa che se la prende con tutti e l’immagine di Marcello che si prende cura della bambina era troppo radicata in me per poterla soffocare, quindi è nata Fiorella. Oh, e Claudia la amo troppo per non inserirla.
Spero che questo primo capitolo possa piacervi e che ai pochi superstiti delle seimilasettecentouno parole faccia piacere lasciarmi un commento, grazie mille!
Lasciatemi fare, però, un paio di ringraziamenti: ringrazio Bianca per l’aiuto con il francese e lo spagnolo, Stefania per l’aiuto con lo spagnolo e Francesca per il GRANDISSIMO AIUTO con il contesto storico (ringraziate lei per aver scelto come cattivone Carlo V! Che fissa!) e lo spagnolo (eggià, lo spagnolo dà tanti grattacapi).
[La canzone da cui è ripresa la frase a fronte è The Hooded Assassin]
Kiss,
la vostra oziosa ed eziosa Ladie.
   
 
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