CAPITOLO
QUATTRO
“Sherlooooock!
Sherlooooock! Sheeeeeeeeerly!”
“Per
favore, smettila di urlare! Stai svegliando
tutta Baker Street!”
“Allora
accontentami”.
Il
detective si voltò verso Connie e la guardò come
se fosse appena caduta dal cielo. Sbatté due volte le
palpebre e aprì la bocca
per dire qualcosa, ma non gli uscì niente. Allora la
richiuse.
“Hai
dimenticato come si parla, fratellino?”
“Stavo
cercando di ricordare per quale inutile
motivo tu mi stessi chiamando a voce così alta”.
La
ragazza sospirò frustrata; possibile che Sherlock
dovesse sempre essere così… così
dannatamente frustrante, ecco.
“Ti
avevo chiesto dei soldi”, gli ricordò lei.
“Soldi?”
“Sì,
soldi. Per fare shopping”.
“Shopping?”
“E’
quando una persona va in giro per negozi a
comprare qualcosa che…”.
“Sì,
sì, so cosa vuol dire fare shopping. Perché
dovresti
fare shopping?”
“Perché
ho bisogno di vestiti”.
“Ma
non ne hai già?”
“Sono
vecchi”.
“Puoi
usare i miei”.
Connie
si buttò sul divano coprendosi il volto con
le mani. A volte sospettava che il fratello facesse apposta ad essere
così
ottuso. Insomma, un uomo intelligente e con tutto quel spirito di
osservazione
non poteva non capire certe cose che persino un fungo avrebbe capito.
“D’accordo,
tieni”, le disse infine il detective,
allungandole alcune banconote da cinquanta. La ragazza le prese in mano
e
rimase sorpresa di fronte a tutti quei soldi.
“Così tanti? Sei sicuro?” gli
chiese.
“Li
vuoi o no?” gridò lui, spazientito.
“Sì,
sì, sì!” rispose la ragazza saltando
dal divano
e afferrando la sua borsetta. “Grazie, fratellino”,
lo salutò, dirigendosi
verso la porta con la giacca infilata a metà.
Proprio
quando lei usciva John, invece, rientrava. “Dove
sta andando?” chiese al coinquilino, in piedi vicino al
caminetto.
“A
fare… shopping”, biasciò il moro
pronunciando l’ultima
parola come fosse una parolaccia.
“Oh,
perché non l’hai accompagnata?”
“Perché
avrei dovuto?” Sherlock si girò verso
l’amico
e rimase a osservarlo come se gli avesse appena chiesto di risolvere
un’equazione
particolarmente difficile.
“Perché
è tua sorella e… niente lascia
perdere”.
John sapeva che era inutile fare certi ragionamenti con il detective,
perciò
era meglio se ci rinunciava fin da subito, avrebbe risparmiato fiato e
un bel
po’ di nervi. “Piuttosto, cosa vuoi
mangiare?”
Connie
stava girando da circa un’ora per il centro
di Londra senza successo. Era stata sia da Harrods sia a Covent Garden,
ma non
aveva trovato niente che le piacesse. Forse a Picadilly avrebbe avuto
più
successo.
Lungo la strada però si era comprata una ciambella e ora la
stava mangiando con
gusto. Ogni volta che sentiva profumo di cibo o vedeva qualcosa di
buono non
riusciva a resistere e il suo stomaco la avvertiva di avere fame,
benché magari
avesse già mangiato mezz’ora prima. Be’,
era normale nel suo stato delle cose,
giusto? Ed era per lo stesso motivo che ora stava cercando dei vestiti
nuovi;
ne aveva già diversi in borsa e non aveva un bisogno urgente
di fare shopping,
però presto le sue camicette attillate e i suoi jeans
stretti non le sarebbero
più andati bene. Doveva comprare qualcosa di più
largo.
A questo pensiero sentì una morsa stringerle lo stomaco. Non
aveva ancora detto
niente a Sherlock e Mycroft e si chiedeva come avrebbe fatto.
Finì
di mangiare la sua ciambella e si leccò lo
zucchero dalle dita. Poi si fermò di fronte alla vetrina di
un negozio un po’
vintage. Forse faceva al caso suo, sembrava avere vestiti parecchio
colorati.
La ragazza entrò dentro, seguita dallo squillante trillo del
campanello alla
porta. La commessa, una ragazza bassa e minuta ma dal viso molto dolce,
le
sorrise cordiale e le chiese se poteva aiutarla. Connie
declinò l’offerta, dicendo
che prima avrebbe guardato un po’ quello che c’era.
Trovò
una maglietta rosa primaverile con qualche
volant e le sembrò abbastanza larga. Era molto bella, giusto
il genere di cose
che indossava lei. Chissà, magari sarebbe piaciuta anche a
Sherlock; gli erano
sempre piaciute le sue magliette strampalate, soprattutto quelle con
delle
scritte significative.
Ma Sherlock era cambiato, non era più lo stesso, non era
più il suo Sherlock. Quel
Sherlock era… era un Sherlock freddo, indifferente. Forse
aveva chiuso il suo
cuore dentro una scatola, come il personaggio di una fiaba che avevano
letto da
piccoli.
Ce l’avrebbe fatta a farlo tornare come prima? Sperava di
sì perché se no…
Sherlock,
John e Connie scesero dal taxi che li
aveva accompagnati fino a un edificio abbandonato che probabilmente
prima era
stato una fabbrica.
Appena aveva ricevuto la telefonata da Lestrad che gli diceva di venire
subito
lì, il consulente detective non aveva esitato un attimo,
trascinandosi dietro
John, come sempre. Purtroppo per lui in quel momento stava rincasando
pure
Connie che non lo aveva affatto ascoltato quando le diceva di restare a
casa e
li aveva seguiti.
“Che
cosa succede?” chiese John quando si trovò di
fronte al detective investigativo.
“Abbiamo
trovato il cadavere di un ragazzo…”,
iniziò
questi, ma fu subito distratto dalla visione di Connie che gli si
avvicinava e
si accostava accanto al medico completamente a suo agio.
“Oh,
lei è Connie, la sorella di Sherlock”,
presentò
John, indicando la ragazza. “Connie, lui è Greg
Lestrade”.
“Piacere”,
disse la ragazza sorridendo.
“La
sorella di Sherlock?”
John
rimase sorpreso dello sbigottimento di
Lestrade, ma al tempo stesso anche sollevato perché
ciò significava che non era
l’unico a non saperne niente.
“Oh,
dobbiamo ricominciare con questa pantomima?”
chiese lei alzando gli occhi al cielo.
“Dov’è
questo corpo?” fece Sherlock, sbucato al loro
fianco senza farsi sentire.
Il
detective si voltò verso di lui e sembrò
fulminarlo con lo sguardo. “Tu hai una sorella?!”
Sherlock
inclinò il capo e inarcò le sopracciglia.
“Sì,
è lei. Ora, dov’è questo
corpo”.
Lestrade
rimase a boccheggiare spostando lo sguardo
da John a Sherlock, ma alla fine decise di accontentare il moro.
“Di qua”. Lo accompagnò
dentro l’edificio, su per delle scale di ferro fino a un
corridoio col soffitto
retto da delle colonne quadrate. Verso il fondo giaceva scomposto il
cadavere di
un giovane di quasi trent’anni, fisico magro e capelli corti.
Il
consulente gli si chinò affianco e lo guardò
senza toccarlo. Poco dopo venne raggiunto da John e Connie.
L’uomo si affiancò
all’amico e prese ad analizzare il corpo. In quel momento
sopraggiunse anche
Sally col solto cipiglio accigliato.
“A
prima vista sembra essere andato in overdose”, li
informò Lestrade. “Ma quelli della scientifica
dicono che è…”.
“Stato
strangolato”, concluse John per lui indicando
i segni sul collo che indicavano una strangolatura.
“C’è della sporcizia sotto
le unghie perciò deve aver lottato”.
“Lo
mandiamo da Molly”, disse Greg. “Comunque
abbiamo trovato questo nelle sue tasche”.
Sherlock
allungò una mano verso il sacchetto che gli
stava porgendo il detective contenente delle piccole pillole color
rosa.
“E’
droga”.
“Grazie,
Sally, ci arrivavo anche da solo”.
Connie,
che per tutto quel tempo se n’era rimasta in
disparte appoggiata ad una colonna, lanciò una strana
occhiata di sottecchi al
fratello ma nessuno parve accorgersene. Be’, eccetto Sherlock
che solo per
qualche istante ricambiò il suo sguardo, reggendo la droga
tra le mani.
“Conclusioni,
Sherlock?” chiese Lestrade, le mani
sui fianchi, in attesa che l’altro lo illuminasse con le sue
brillanti
deduzioni.
“Oh,
ma possibile che debba
sempre dirtelo io?”
E
anche delle sue offese gratuite.
“Di
certo non è stata una rissa provocata dalla
droga, l’omicidio era volontario. L’aggressore
doveva essere più forte di lui
altrimenti tutta quella sostanza nel corpo avrebbe permesso alla
vittima di
difendersi. Ha lottato, il che ci fa dedurre che non è morto
sul colpo. Be’, è
stato soffocato, probabilmente con una corda, visti i segni sul
collo”.
Sherlock bloccò la sua arringa durante la quale aveva
continuato a camminare su
e giù per il corridoio. “A prima vista sembra un
classico caso di omicidio,
forse per qualche vendetta o…”. Il detective
improvvisamente smise di camminare
e, con lo sguardo fisso di fronte a sé, esalò
quasi impercettibilmente. “O
forse sapeva qualcosa che non doveva sapere”. Si
voltò di scatto verso gli
altri presenti e puntò l’indice contro il corpo.
“Portatelo da Molly”.
Sherlock
si precipitò fuori dall’edificio e gli
altri furono costretti a seguirlo quasi di corsa.
“Ti
serve altro, Greg?” chiese John, più per cortesia
che altro.
“No,
è tutto”. Lestrade si voltò verso
Connie,
intenta a guardare gli altri poliziotti che si aggiravano sulla scena
del
crimine. “E’ stato un piacere conoscerti,
Connie”.
“Oh!”
esclamò lei con una certa sorpresa negli
occhi. “Anche per me…”.
“Greg”.
“Greg”.
Sherlock
in quel momento fece fermare un taxi e i
suoi accompagnatori capirono che era il momento di andarsene. Quando
Connie si
allontanò dietro a John e il fratello, Lestrade rimase per
un po’ a guardarla
con una strana espressione sulle labbra.
“Ehi!”
lo riscosse Sally poggiandogli una mano sulla
spalla.
Dentro
il taxi, invece, i tre occupanti erano
piombati in silenzio: John non sapeva che dire, Sherlock era immerso
nei suoi pensieri
e Connie digitava qualcosa al cellulare.
All’improvviso il silenzio venne interrotto dal telefono di
Sherlock che aveva
emesso due squilli prolungati. Il consulente lo estrasse dalla tasca e
lesse il
messaggio.
Da
Connie: quindi mi hai completamente bannata dalla
tua vita?”
Molly
Hooper, impegnata a esaminare il corpo che le
era stato spedito quel giorno, quello del ragazzo trovato morto nella
fabbrica
abbandonata, lanciava ogni tanto occhiate alla sorella di Sherlock.
Sorella di
Sherlock. Non aveva idea che ne avesse una, non l’aveva mai
nemmeno nominata.
Perché? Be’, le stranezze del moro erano tante, ma
di solito non nascondeva di
avere un parente, specialmente se era così vicino.
Connie,
invece, si era accorta che quella dottoressa
la stava puntando e resistere alla tentazione di urlarle di smetterla
era
piuttosto difficile.
Ma perché tutti facevano così? E, soprattutto,
perché Sherlock non aveva detto
a nessuno di lei? Nessuno sapeva della sua esistenza. Questo
era… faceva male.
Ecco. Soprattutto dopo tutto quello che loro due aveva passato insieme,
sapere
che per lui lei non significava niente era peggio… peggio
che non avere un
posto dove dormire.
Perché? Le veniva da chiedergli soltanto questo, ma
sicuramente non le avrebbe
risposto. Non le aveva risposto nemmeno a quel messaggio. Se solo
avesse potuto
leggergli nella mente come faceva con tutti gli altri. Tutti gli altri
erano un
libro aperto per lei, ma lui non lo era mai stato. E pensare che
Sherlock era l’unica
persona che veramente contava per lei.
“Sherlock?”
lo chiamò, allungandosi sul lungo tavolo
al quale era seduta.
“Hmm?”
mugugnò lui senza spostare gli occhi dal
microscopio su cui stava analizzando qualcosa.
“Dimmi
che mi vuoi bene”.
MILLY’S
SPACE
Non
credevo che avrei aggiornato oggi visto che di pomeriggio
non avevo molta ispirazione. Ma come ai migliori scrittori, le idee
vengono di
sera ^^ e quindi eccomi qui, dopo una puntata di
“Braccialetti Rossi”, ad aggiornare
questa storia per voi.
Fatemi
sapere che ne pensate e se volete ditemi pure le idee
che vi siete fatti leggendo.
Kiss
kiss.
M.
MONKEY_D_ALICE:
ehi : ) sono contenta che la storia ti piaccia, spero continuerai a
seguirla. Siamo
solo agli inizi ma ho già delle belle ideuzze in mente ^^
fatti sentire ancora.
Un bacione, Milly.