Ecco
il secondo capitolo, spero sia degno del precedente! ;)
Ringrazio
ancora, di cuore, chi ha commentato e chi ha letto, mi avete fatto
davvero la
donna più felice del mondo.
Buona
lettura!
_Pulse_
___________________________________________
2.
Night
#2
Molly
si svegliò e capì subito che c’era
qualcosa di sbagliato.
Primo,
la sua sveglia segnava le sette e trenta, quando avrebbe dovuto suonare
almeno
un’ora e mezza prima; secondo, la sua schiena era premuta
contro qualcosa di
caldo e compatto; terzo, qualcuno le stava respirando tra i capelli,
all’altezza del collo.
Il
suo cervello, già in allarme per il ritardo mostruoso,
andò completamente nel
pallone quando realizzò che quel respiro era di Sherlock e
che quello contro
cui era premuta la sua schiena era a tutti gli effetti il suo petto.
Scioccata,
spostò con delicatezza il suo braccio e scivolò
fuori dalle coperte. Quindi
corse in bagno senza più guardarsi indietro, sperando che
fosse solo l’incubo
più bello che avesse mai fatto in vita sua.
***
Sherlock
aspettò che Molly uscisse di casa, poi si alzò e
aprì le ante dell’armadio,
trovando la sua vestaglia delle emergenze lì dove
l’aveva lasciata l’ultima
volta. Aveva preso il profumo degli indumenti di Molly, ma non gli
dispiacque
più di tanto. Anzi, non gli dispiacque affatto.
Uscì
dalla camera da letto e fece un giro di ricognizione, entrando in ogni
camera
del piccolo appartamento. Aveva bisogno di abbassare i livelli di
inquietudine
e soffermarsi sui particolari era la distrazione migliore.
«Concentrati»,
mormorò a se stesso, avvicinandosi alla mensola del bagno
dove Molly teneva le
boccette dei profumi.
Nonostante
fossero quasi tutte ancora piene, a Sherlock bastò una
frazione di secondo per distinguere
quali le erano state regalate – la maggior parte, –
quale utilizzava per le
occasioni speciali e quale avrebbe dovuto usare quotidianamente. Avrebbe dovuto perché si
dimenticava di
spruzzarsi addosso il profumo un giorno sì e
l’altro pure da quando era tornata
single.
Sherlock
aveva avuto l’occasione di sentirli tutti, ma nessuno di essi
era il suo
preferito. A lui piaceva il profumo della pelle di Molly. E quello del
suo
ammorbidente. Insieme, creavano un mix capace di rilassarlo in un modo
del
tutto inconcepibile ed irrazionale.
Aveva
provato con il solo ammorbidente (si era appuntato mentalmente il nome
e la
marca, ne aveva comprato un flacone al supermercato e aveva obbligato
la
signora Hudson a lavargli le lenzuola con quello), ma non aveva
funzionato.
Come non aveva funzionato quando Molly gli aveva permesso di dormire
nel suo
letto mentre Tom era a fare il turno di notte: il profumo di Molly era
stato contaminato da quello del suo
fidanzato
e Sherlock non aveva fatto altro che rotolarsi tra le lenzuola per ore,
senza
riuscire a chiudere occhio. Per quello era successo una volta sola. Ma
ora
sapeva che anche se fosse ritornato, lei lo avrebbe mandato via.
Era
sicuro al cento percento che tra lei e Tom non avrebbe mai funzionato,
anche se
per il suo bene ci aveva davvero sperato, ma era anche segretamente
contento di
poter riavere il letto tutto per sé. O quasi.
Quello
che aveva fatto Molly la sera prima lo aveva davvero spiazzato. E gli
aveva anche
dato l’ultima, definitiva conferma di quanto fosse cambiata.
Nei confronti del
mondo, nei suoi confronti.
Quella
volta era davvero intenzionata a seppellire ogni sentimento amoroso che
provava
per lui da sempre, era davvero pronta a rifiutarlo, e Sherlock doveva
prestare
molta attenzione.
Aveva
molti difetti, moltissimi, ma non era insensibile come dava a vedere e
anche
lui poteva diventare soggetto a quel particolarissimo meccanismo che
aveva
avuto più volte modo di analizzare osservando i suoi
clienti: più una persona
desidera qualcuno, meno quel qualcuno la ricambierà;
più la prima decide allora
di evitare quel qualcuno, più quel qualcuno
cambierà idea e vorrà farla sua.
E
proprio perché Sherlock era a conoscenza di tutto
ciò, avrebbe dovuto prestare
molta più attenzione. A partire da quella stessa notte,
quando aveva permesso a
Molly di sdraiarsi accanto a lui. E poi quella mattina, quando aveva
disattivato la sua sveglia e si era avvicinato a lei sempre di
più, un
centimetro alla volta, fino a sfiorarle con le dita la spalla nuda,
fino ad
abbracciarla, fino a respirare il suo profumo direttamente dalla fonte:
i suoi
capelli, la sua pelle.
Non
devi perdere la
concentrazione,
esclamò la sua mutevole voce interiore. Quella volta, giusto
per irritarlo un
po’, aveva deciso di assumere i toni saccenti di quella di
suo fratello Mycroft.
Sempre
che tu non
l’abbia già persa.
«Fai
silenzio!», sibilò Sherlock, sbattendosi la porta
del bagno alle spalle.
***
Molly
aprì la porta di casa e dopo aver ripreso le borse della
spesa che aveva
lasciato sul pianerottolo entrò sospirando di fatica. Ogni
volta rimpiangeva il
fatto di aver scelto un appartamento in un condominio sprovvisto di
ascensore.
«Ehi
Toby», salutò il micio che le era andato incontro
per strusciarsi contro le sue
caviglie. Quindi posò le borse sul tavolo della cucina e lo
prese tra le
braccia.
«Scusami
se stamattina non ti ho salutato come si deve, ma ero in ritardo. La
sveglia
non è suonata, oppure l’ho spenta e non me ne sono
resa conto. Dopotutto ero
davvero stanca. E ora ho una fame terribile, sai? Ho saltato la pausa
pranzo
per recuperare. Ma lo sarai anche tu, immagino».
Gli
sorrise e gli posò un bacio sulla testolina mentre si
dirigeva verso
l’armadietto in cui teneva le scatolette di cibo per gatti.
Aveva appena aperto
il cassetto dove teneva le posate, quando con la coda
dell’occhio vide una
scatoletta identica a quella che aveva in mano nel lavello, vuota.
Corrugò la
fronte e gettò uno sguardo verso Toby.
«Sherlock
ti ha dato da mangiare?», gli chiese, come se sperasse
davvero di ottenere una
risposta da lui.
Il
detective non aveva mai dimostrato simpatia verso il suo gatto, ma
nemmeno
antipatia, perciò Molly non si fece troppe domande e si
inginocchiò per
accarezzare di nuovo l’animale.
«Spero
tu l’abbia ringraziato, almeno. Io gli manderò un
sms, più tardi. Adesso devo
sistemare questa roba».
Non
si era ancora tolta il cappotto, né la sciarpa: era
più importante mettere
quello che aveva comprato in frigorifero, prima che andasse tutto a
male. Solo
una volta finito si spogliò e andò in camera per
cambiarsi.
Quasi
si sorprese nel trovare il letto ancora sfatto: comprensibile, visto
che da
quella mattina non aveva fatto altro che ripetersi che si era sognata
tutto,
che non si era svegliata stretta tra le braccia di Sherlock, che era
impossibile nel modo più definitivo.
Sarebbe
stato troppo chiedere un po’ di chiarezza, una volta tanto?
Ma con Sherlock la
parola “chiarezza” non esisteva, o meglio, esisteva
nel suo personale
dizionario come “unico risultato possibile una volta risolto
un enigma o un
efferato delitto”.
Spalancò
le finestre per far cambiare aria alla stanza e nel frattempo si
cambiò,
infilandosi i morbidi pantaloni di una tuta da jogging che con lei non
aveva
mai vissuto per quello scopo e un’enorme felpa rossa con il
collo alto e una
tasca sul davanti, perfetta per le sue mani quasi sempre fredde.
Rifece
velocemente il letto, senza badare troppo alla perfezione –
dopo la
giornataccia che aveva passato aveva intenzione di coricarsi presto
– e dopo
aver chiuso le finestre si diresse verso il bagno. Trovò la
porta stranamente
chiusa, ma non si pose molti problemi ed entrò come se nulla
fosse. La ventata
di vapore che la investì la paralizzò sulla
porta, mentre i suoi occhi
incrociavano quelli di Sherlock, a mollo tra la schiuma nella sua vasca
da
bagno.
Molly
boccheggiò come un pesce fuor d’acqua e poi come
un gambero arretrò fino ad
uscire dal bagno. Chiuse anche la porta, non sapendo che altro fare, e
vi si
appoggiò con le spalle.
Stava
cercando di razionalizzare ciò che aveva appena visto, senza
risultati
apparenti: era semplicemente assurdo!
«Non
è buona norma bussare?», domandò
Sherlock da dietro la porta, e Molly sentì lo
scorrere del getto dell’acqua.
«Che
cosa ci fai nella mia vasca da bagno?», chiese lei, scioccata.
«Mi
pare piuttosto ovvio: il bagno!».
«Okay,
ma… Perché?».
«Non
avevo voglia di tornare a casa».
«Oh,
quindi… Vuoi dire che sei stato qui tutto il
giorno?».
«Mmh-mmh»,
mugugnò.
«Bene».
Molly si passò le mani sul viso e sospirò:
«Fantastico».
«Che
hai detto?».
«Niente.
Gli asciugamani puliti sono…».
La
porta si aprì all’improvviso di fronte a lei e
Molly sobbalzò, trovandosi di
fronte ad uno Sherlock con i capelli bagnati che gli cadevano sugli
occhi
verdazzurri, un asciugamano intorno al collo e uno a cingergli la vita.
«Lo
so», le sussurrò prima di rivolgerle un piccolo
sorriso storto e di farle
l’occhiolino. Quindi si chiuse di nuovo in bagno, lasciando
Molly nella più
totale confusione.
Una
manciata di secondi dopo, o forse un paio di interi minuti –
Molly non avrebbe
saputo dire con precisione quanto tempo fosse rimasta a fissare la
porta –
Sherlock aggiunse, urlando per farsi sentire sopra il rumore del phon:
«Potresti
cucinare qualcosa?».
L’anatomo
patologa si ridestò e, sempre più scioccata,
esclamò: «Che cosa?».
«Ho
fame!», fu la risposta di Sherlock. «Un piatto di
pasta andrà più che bene».
Molly
ripeté a bassa voce le sue parole, come se farlo potesse
aiutarla a renderle
più reali. Sherlock richiamò la sua attenzione,
spegnendo persino il phon, e
Molly fu costretta a dire che sì, gli avrebbe fatto quel
piatto di pasta. Il
phon si riaccese, così come una scintilla di irritazione nel
suo stomaco.
***
Sherlock
si sistemò il colletto della camicia scura e si diede
un’ultima occhiata allo
specchio, poi si voltò per chiudere le ante
dell’armadio di Molly.
Col
tempo le aveva lasciato un paio cambi di emergenza, assieme ad una
delle sue
vestaglie, e proprio per questo la scelta era davvero limitata.
A
volte quando si parlava di abbigliamento poteva essere incontentabile
come una
vera e propria regina – escluso il drama.
Trovò
Molly in cucina, intenta a scolare l’acqua della
pasta.
La tavola era
apparecchiata per due e Sherlock, non sapendo dove solitamente si
sedeva lei,
si schiarì la voce per attirare la sua attenzione.
L’anatomo
patologa gli gettò una rapida occhiata e disse:
«Siediti dove vuoi, fai come se
fossi a casa tua».
Il
detective aggrottò le sopracciglia, afferrando lo schienale
della sedia a
capotavola. «Era sarcastica la tua affermazione?».
Molly
accennò un sorriso, e quello fu tutto ciò che gli
concesse: a lui il compito di
dedurre ciò che stava a significare.
Sherlock
prese posto e Molly gli servì in silenzio un piatto di pasta
al sugo, poi si
sedette alla sua destra.
«Buon
appetito», disse senza molta convinzione, infilzando due
pennette.
Sherlock
la imitò, senza mai perderla di vista.
Era
ovvio che fosse infastidita, se non addirittura arrabbiata con lui.
Appurato
questo, doveva solo scegliere uno dei molteplici motivi per cui Molly
avrebbe
potuto esserlo e metà dell’opera era fatta. La
seconda metà sarebbe stata
quella più ardua, ma aveva ancora tempo prima che ci
arrivassero.
Uno,
sono stato a casa
sua tutto il giorno senza che lei lo sapesse.
Due, ho usato il suo
bagno senza chiederle il permesso.
Tre, può pensare che
abbia ficcanasato in giro. E l’ho fatto.
Quattro,
l’ho messa in
imbarazzo mostrandomi mezzo nudo. Ma questa non è una
novità, dopo ieri sera.
Quattro,
le ho chiesto
di prepararmi la cena in modo scortese.
Cinque, sono stato
scortese.
Sei, non l’ho ringraziata.
Sette, non l’ho
salutata.
La
lista si stava facendo troppo lunga, quindi Sherlock optò
per un’altra tattica:
mostrarsi gentile perché si dimenticasse di quanto avesse
fatto di sbagliato in
precedenza.
«Non
sapevo sapessi cucinare così bene», disse
sorridendole. «La pasta è un po’
troppo cotta, ma il sugo è eccezionale. L’hai
fatto tu?».
Molly
si pulì la bocca con il tovagliolo ed indicò il
ripiano della cucina alle sue
spalle: lì in bella vista, un vasetto vuoto di sugo
già pronto.
«Uhm»,
mugugnò Sherlock, abbassando gli occhi. Il primo tentativo
era fallito, ma
aveva ancora un asso nella manica.
«Ho
dato da mangiare al tuo gatto, a… Mi dimentico sempre il suo
nome».
«Toby.
Si chiama Toby».
«Toby,
certo».
La
fissò speranzoso, in attesa che lo ringraziasse e che
smettesse di ignorarlo,
ma Molly non lo degnò nemmeno di uno sguardo mentre gli
diceva in tono piatto: «Pensavo
l’avessi scambiata per una scatoletta di tonno normale e che
l’avessi mangiata
tu, sai? Beh, sei stato gentile allora».
«Davvero?
Tutto qui?», sbottò, infastidito.
Molly
alzò il capo, guardandolo con finta aria sorpresa.
«Come, scusa?».
«Sei
arrabbiata con me».
«No,
ti sbagli».
«No,
non mi sbaglio».
Molly
lasciò cadere la forchetta nel piatto ed incrociò
le braccia al petto,
guardandolo negli occhi con aria di sfida.
«Ti sto imitando, Sherlock».
Il
detective sbatté rapidamente le palpebre, cercando di
focalizzare il punto che
evidentemente si era perso.
«Tu mi stai cosa?».
«Non
hai limiti, non ti interessi delle opinioni degli altri e soprattutto
hai
sempre in mente mossa e contromossa», gli spiegò,
contando sulle dita di una
mano. «Io ti sto imitando, Sherlock, perché la mia
mossa ora è quella di
chiederti il motivo per cui sei qui da ieri sera, la tua è
il silenzio, o la
menzogna, e la mia contromossa è quella di andarmene senza
farti alcuna domanda».
Si
alzò facendo strisciare rumorosamente i piedini della sedia
sul pavimento e
lasciò Sherlock da solo in cucina, di fronte al suo piatto
di pasta mezzo
pieno.
Poco
dopo il detective la sentì tornare e si alzò,
chiedendosi se avesse cambiato
idea, ma ciò che vide fu il triste epilogo della loro
discussione: si era
cambiata, quindi voleva uscire.
Molly
si diresse spedita verso l’attaccapanni e si
infilò il cappotto. Mentre si
sistemava la sciarpa intorno al collo, Sherlock le chiese dove volesse
andare
da sola a quell’ora.
«Non
è affar tuo», rispose concisa e una volta
afferrata la borsa uscì
dall’appartamento, sbattendosi rumorosamente la porta alle
spalle.
***
Molly
sapeva benissimo di essere stata dura con lui, forse un po’
troppo, tanto da
risultare patetica, ma non aveva visto altre alternative. E poi era
davvero
arrabbiata con lui. Non come quando John l’aveva portato al
Bart’s ed
analizzando un campione delle sue urine lo aveva trovato ben
poco pulito, ma quasi.
Il
suo recente comportamento le era incomprensibile e lui, come sempre,
non
sembrava minimamente intenzionato a dare spiegazioni.
“Spiegazione”
era un’altra parola dal significato contorto stando al
dizionario di Sherlock:
non aveva una definizione vera e propria, era più che altro
un sinonimo di
“perdita di tempo”, “scarso utilizzo
delle capacità intellettive” e
“inutilità”.
Sherlock
doveva imparare ad essere chiaro con lei, a chiedere ciò di
cui aveva bisogno
senza pretendere che lei lo capisse leggendogli la mente.
Perché era vero, a
volte non c’era bisogno che lui parlasse perché
lei afferrasse ogni suo più
piccolo pensiero, ma… a volte.
Sherlock
si era in qualche modo abituato a quelle volte e quando gli faceva
comodo –
quando non lo trovava fastidioso – ci faceva pieno
affidamento, senza rendersi
conto di chiederle l’impossibile.
Di
fronte ad un bicchiere aveva pensato molto a cosa fare una volta
tornata a casa
– sempre se Sherlock fosse stato ancora là
– ma lei non era affatto tagliata
per la pianificazione di mosse e contromosse. Lei era emotiva,
sensibile, e la
maggior parte del tempo agiva d’istinto, seguendo
ciò che le diceva il cuore.
Quindi aveva deciso di essere se stessa: sarebbe successo quello che
sarebbe
successo e il sole sarebbe sorto comunque.
Girò
piano le chiavi nella toppa ed entrò
nell’appartamento di soppiatto, trovandolo
immerso nel buio e nel silenzio. Chiuse con due mandate e mise anche il
chiavistello, poi si spogliò e in punta di piedi si diresse
verso la sua
camera. Sporgendosi all’interno, scorse Sherlock steso sotto
le coperte, con le
braccia sotto al cuscino e i ricci ancora un po’ umidi che
gli ombreggiavano il
viso.
Molly
si lasciò andare ad un sospiro e senza far rumore socchiuse
la porta. Aveva
vinto lui, anche quella notte.
Andò
in cucina per prepararsi un tè e fu con sorpresa che
notò che Sherlock aveva
sparecchiato e aveva persino lavato i piatti. Sul tavolo inoltre
c’era un
bigliettino scritto di suo pugno.
Una
sola parola, un semplice «Scusa» che fu in grado di
farle affiorare un
minuscolo sorriso alle labbra.
«Questo
è giocare sporco, Sherlock Holmes».
Ma con lei come avversaria avrebbe vinto in qualsiasi modo, sempre.