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Autore: _Pulse_    03/02/2014    3 recensioni
«Come hai fatto ad entrare? Ho fatto mettere il chiavistello alla porta».
«Avevo dato per scontato che fosse per la tua sicurezza personale, ora che Moriarty sembra essere tornato sul campo di battaglia. Sono lusingato».
I suoi occhi di ghiaccio brillarono come diamanti nella camera da letto buia, rischiarata soltanto da un fascio di luce lunare, e Molly strinse i pugni lungo i fianchi, cercando di mantenere la calma.
«Sono entrato dalla finestra», spiegò, nonostante fosse l'unica soluzione possibile, a quel punto, e Molly avrebbe potuto – e dovuto – arrivarci da sola.
«Perché sei qui?», gli chiese dopo vari secondi di silenzio, fissandosi direttamente i piedi piuttosto che lasciarsi cogliere in flagrante mentre si sorprendeva del candore della sua pelle, dei muscoli definiti e dei piccoli nei che formavano una specie di costellazione sulla sua schiena longilinea.
«Perché tu invece ti ostini a rimanere qui, a farmi domande di cui conosci già la risposta?».
«Non te l'ho mai chiesto prima».
«Non vuol dire che tu non conosca già la risposta».
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ecco il secondo capitolo, spero sia degno del precedente! ;)
Ringrazio ancora, di cuore, chi ha commentato e chi ha letto, mi avete fatto davvero la donna più felice del mondo.
Buona lettura!

 

_Pulse_

 

___________________________________________

 

 

2.      Night #2

 

Molly si svegliò e capì subito che c’era qualcosa di sbagliato.
Primo, la sua sveglia segnava le sette e trenta, quando avrebbe dovuto suonare almeno un’ora e mezza prima; secondo, la sua schiena era premuta contro qualcosa di caldo e compatto; terzo, qualcuno le stava respirando tra i capelli, all’altezza del collo.
Il suo cervello, già in allarme per il ritardo mostruoso, andò completamente nel pallone quando realizzò che quel respiro era di Sherlock e che quello contro cui era premuta la sua schiena era a tutti gli effetti il suo petto.
Scioccata, spostò con delicatezza il suo braccio e scivolò fuori dalle coperte. Quindi corse in bagno senza più guardarsi indietro, sperando che fosse solo l’incubo più bello che avesse mai fatto in vita sua.

 

***

 

Sherlock aspettò che Molly uscisse di casa, poi si alzò e aprì le ante dell’armadio, trovando la sua vestaglia delle emergenze lì dove l’aveva lasciata l’ultima volta. Aveva preso il profumo degli indumenti di Molly, ma non gli dispiacque più di tanto. Anzi, non gli dispiacque affatto.
Uscì dalla camera da letto e fece un giro di ricognizione, entrando in ogni camera del piccolo appartamento. Aveva bisogno di abbassare i livelli di inquietudine e soffermarsi sui particolari era la distrazione migliore.

«Concentrati», mormorò a se stesso, avvicinandosi alla mensola del bagno dove Molly teneva le boccette dei profumi.

Nonostante fossero quasi tutte ancora piene, a Sherlock bastò una frazione di secondo per distinguere quali le erano state regalate – la maggior parte, – quale utilizzava per le occasioni speciali e quale avrebbe dovuto usare quotidianamente. Avrebbe dovuto perché si dimenticava di spruzzarsi addosso il profumo un giorno sì e l’altro pure da quando era tornata single.
Sherlock aveva avuto l’occasione di sentirli tutti, ma nessuno di essi era il suo preferito. A lui piaceva il profumo della pelle di Molly. E quello del suo ammorbidente. Insieme, creavano un mix capace di rilassarlo in un modo del tutto inconcepibile ed irrazionale.
Aveva provato con il solo ammorbidente (si era appuntato mentalmente il nome e la marca, ne aveva comprato un flacone al supermercato e aveva obbligato la signora Hudson a lavargli le lenzuola con quello), ma non aveva funzionato. Come non aveva funzionato quando Molly gli aveva permesso di dormire nel suo letto mentre Tom era a fare il turno di notte: il profumo di Molly era stato contaminato da quello del suo fidanzato e Sherlock non aveva fatto altro che rotolarsi tra le lenzuola per ore, senza riuscire a chiudere occhio. Per quello era successo una volta sola. Ma ora sapeva che anche se fosse ritornato, lei lo avrebbe mandato via.
Era sicuro al cento percento che tra lei e Tom non avrebbe mai funzionato, anche se per il suo bene ci aveva davvero sperato, ma era anche segretamente contento di poter riavere il letto tutto per sé. O quasi.
Quello che aveva fatto Molly la sera prima lo aveva davvero spiazzato. E gli aveva anche dato l’ultima, definitiva conferma di quanto fosse cambiata. Nei confronti del mondo, nei suoi confronti.
Quella volta era davvero intenzionata a seppellire ogni sentimento amoroso che provava per lui da sempre, era davvero pronta a rifiutarlo, e Sherlock doveva prestare molta attenzione.
Aveva molti difetti, moltissimi, ma non era insensibile come dava a vedere e anche lui poteva diventare soggetto a quel particolarissimo meccanismo che aveva avuto più volte modo di analizzare osservando i suoi clienti: più una persona desidera qualcuno, meno quel qualcuno la ricambierà; più la prima decide allora di evitare quel qualcuno, più quel qualcuno cambierà idea e vorrà farla sua.
E proprio perché Sherlock era a conoscenza di tutto ciò, avrebbe dovuto prestare molta più attenzione. A partire da quella stessa notte, quando aveva permesso a Molly di sdraiarsi accanto a lui. E poi quella mattina, quando aveva disattivato la sua sveglia e si era avvicinato a lei sempre di più, un centimetro alla volta, fino a sfiorarle con le dita la spalla nuda, fino ad abbracciarla, fino a respirare il suo profumo direttamente dalla fonte: i suoi capelli, la sua pelle.

Non devi perdere la concentrazione, esclamò la sua mutevole voce interiore. Quella volta, giusto per irritarlo un po’, aveva deciso di assumere i toni saccenti di quella di suo fratello Mycroft.
Sempre che tu non l’abbia già persa.

«Fai silenzio!», sibilò Sherlock, sbattendosi la porta del bagno alle spalle.

 

***

 

Molly aprì la porta di casa e dopo aver ripreso le borse della spesa che aveva lasciato sul pianerottolo entrò sospirando di fatica. Ogni volta rimpiangeva il fatto di aver scelto un appartamento in un condominio sprovvisto di ascensore.

«Ehi Toby», salutò il micio che le era andato incontro per strusciarsi contro le sue caviglie. Quindi posò le borse sul tavolo della cucina e lo prese tra le braccia.

«Scusami se stamattina non ti ho salutato come si deve, ma ero in ritardo. La sveglia non è suonata, oppure l’ho spenta e non me ne sono resa conto. Dopotutto ero davvero stanca. E ora ho una fame terribile, sai? Ho saltato la pausa pranzo per recuperare. Ma lo sarai anche tu, immagino».

Gli sorrise e gli posò un bacio sulla testolina mentre si dirigeva verso l’armadietto in cui teneva le scatolette di cibo per gatti. Aveva appena aperto il cassetto dove teneva le posate, quando con la coda dell’occhio vide una scatoletta identica a quella che aveva in mano nel lavello, vuota. Corrugò la fronte e gettò uno sguardo verso Toby.

«Sherlock ti ha dato da mangiare?», gli chiese, come se sperasse davvero di ottenere una risposta da lui.

Il detective non aveva mai dimostrato simpatia verso il suo gatto, ma nemmeno antipatia, perciò Molly non si fece troppe domande e si inginocchiò per accarezzare di nuovo l’animale.

«Spero tu l’abbia ringraziato, almeno. Io gli manderò un sms, più tardi. Adesso devo sistemare questa roba».

Non si era ancora tolta il cappotto, né la sciarpa: era più importante mettere quello che aveva comprato in frigorifero, prima che andasse tutto a male. Solo una volta finito si spogliò e andò in camera per cambiarsi.
Quasi si sorprese nel trovare il letto ancora sfatto: comprensibile, visto che da quella mattina non aveva fatto altro che ripetersi che si era sognata tutto, che non si era svegliata stretta tra le braccia di Sherlock, che era impossibile nel modo più definitivo.

Sarebbe stato troppo chiedere un po’ di chiarezza, una volta tanto? Ma con Sherlock la parola “chiarezza” non esisteva, o meglio, esisteva nel suo personale dizionario come “unico risultato possibile una volta risolto un enigma o un efferato delitto”.

Spalancò le finestre per far cambiare aria alla stanza e nel frattempo si cambiò, infilandosi i morbidi pantaloni di una tuta da jogging che con lei non aveva mai vissuto per quello scopo e un’enorme felpa rossa con il collo alto e una tasca sul davanti, perfetta per le sue mani quasi sempre fredde.

Rifece velocemente il letto, senza badare troppo alla perfezione – dopo la giornataccia che aveva passato aveva intenzione di coricarsi presto – e dopo aver chiuso le finestre si diresse verso il bagno. Trovò la porta stranamente chiusa, ma non si pose molti problemi ed entrò come se nulla fosse. La ventata di vapore che la investì la paralizzò sulla porta, mentre i suoi occhi incrociavano quelli di Sherlock, a mollo tra la schiuma nella sua vasca da bagno.
Molly boccheggiò come un pesce fuor d’acqua e poi come un gambero arretrò fino ad uscire dal bagno. Chiuse anche la porta, non sapendo che altro fare, e vi si appoggiò con le spalle.

Stava cercando di razionalizzare ciò che aveva appena visto, senza risultati apparenti: era semplicemente assurdo!

«Non è buona norma bussare?», domandò Sherlock da dietro la porta, e Molly sentì lo scorrere del getto dell’acqua.

«Che cosa ci fai nella mia vasca da bagno?», chiese lei, scioccata.

«Mi pare piuttosto ovvio: il bagno!».

«Okay, ma… Perché?».

«Non avevo voglia di tornare a casa».

«Oh, quindi… Vuoi dire che sei stato qui tutto il giorno?».

«Mmh-mmh», mugugnò.

«Bene». Molly si passò le mani sul viso e sospirò: «Fantastico».

«Che hai detto?».

«Niente. Gli asciugamani puliti sono…».

La porta si aprì all’improvviso di fronte a lei e Molly sobbalzò, trovandosi di fronte ad uno Sherlock con i capelli bagnati che gli cadevano sugli occhi verdazzurri, un asciugamano intorno al collo e uno a cingergli la vita.

«Lo so», le sussurrò prima di rivolgerle un piccolo sorriso storto e di farle l’occhiolino. Quindi si chiuse di nuovo in bagno, lasciando Molly nella più totale confusione.

Una manciata di secondi dopo, o forse un paio di interi minuti – Molly non avrebbe saputo dire con precisione quanto tempo fosse rimasta a fissare la porta – Sherlock aggiunse, urlando per farsi sentire sopra il rumore del phon: «Potresti cucinare qualcosa?».

L’anatomo patologa si ridestò e, sempre più scioccata, esclamò: «Che cosa?».

«Ho fame!», fu la risposta di Sherlock. «Un piatto di pasta andrà più che bene».

Molly ripeté a bassa voce le sue parole, come se farlo potesse aiutarla a renderle più reali. Sherlock richiamò la sua attenzione, spegnendo persino il phon, e Molly fu costretta a dire che sì, gli avrebbe fatto quel piatto di pasta. Il phon si riaccese, così come una scintilla di irritazione nel suo stomaco. 

 

***

 

Sherlock si sistemò il colletto della camicia scura e si diede un’ultima occhiata allo specchio, poi si voltò per chiudere le ante dell’armadio di Molly.
Col tempo le aveva lasciato un paio cambi di emergenza, assieme ad una delle sue vestaglie, e proprio per questo la scelta era davvero limitata.
A volte quando si parlava di abbigliamento poteva essere incontentabile come una vera e propria regina – escluso il drama.

Trovò Molly in cucina, intenta a scolare l’acqua della pasta. 
La tavola era apparecchiata per due e Sherlock, non sapendo dove solitamente si sedeva lei, si schiarì la voce per attirare la sua attenzione.

L’anatomo patologa gli gettò una rapida occhiata e disse: «Siediti dove vuoi, fai come se fossi a casa tua».

Il detective aggrottò le sopracciglia, afferrando lo schienale della sedia a capotavola. «Era sarcastica la tua affermazione?».

Molly accennò un sorriso, e quello fu tutto ciò che gli concesse: a lui il compito di dedurre ciò che stava a significare.

Sherlock prese posto e Molly gli servì in silenzio un piatto di pasta al sugo, poi si sedette alla sua destra.

«Buon appetito», disse senza molta convinzione, infilzando due pennette.

Sherlock la imitò, senza mai perderla di vista.

Era ovvio che fosse infastidita, se non addirittura arrabbiata con lui. Appurato questo, doveva solo scegliere uno dei molteplici motivi per cui Molly avrebbe potuto esserlo e metà dell’opera era fatta. La seconda metà sarebbe stata quella più ardua, ma aveva ancora tempo prima che ci arrivassero.

Uno, sono stato a casa sua tutto il giorno senza che lei lo sapesse.
Due, ho usato il suo bagno senza chiederle il permesso.
Tre, può pensare che abbia ficcanasato in giro. E l’ho fatto.

Quattro, l’ho messa in imbarazzo mostrandomi mezzo nudo. Ma questa non è una novità, dopo ieri sera.
Quattro, le ho chiesto di prepararmi la cena in modo scortese.
Cinque, sono stato scortese.
Sei, non l’ho ringraziata.
Sette, non l’ho salutata.

La lista si stava facendo troppo lunga, quindi Sherlock optò per un’altra tattica: mostrarsi gentile perché si dimenticasse di quanto avesse fatto di sbagliato in precedenza.

«Non sapevo sapessi cucinare così bene», disse sorridendole. «La pasta è un po’ troppo cotta, ma il sugo è eccezionale. L’hai fatto tu?».

Molly si pulì la bocca con il tovagliolo ed indicò il ripiano della cucina alle sue spalle: lì in bella vista, un vasetto vuoto di sugo già pronto.

«Uhm», mugugnò Sherlock, abbassando gli occhi. Il primo tentativo era fallito, ma aveva ancora un asso nella manica.

«Ho dato da mangiare al tuo gatto, a… Mi dimentico sempre il suo nome».

«Toby. Si chiama Toby».

«Toby, certo».

La fissò speranzoso, in attesa che lo ringraziasse e che smettesse di ignorarlo, ma Molly non lo degnò nemmeno di uno sguardo mentre gli diceva in tono piatto: «Pensavo l’avessi scambiata per una scatoletta di tonno normale e che l’avessi mangiata tu, sai? Beh, sei stato gentile allora».

«Davvero? Tutto qui?», sbottò, infastidito.

Molly alzò il capo, guardandolo con finta aria sorpresa. «Come, scusa?».

«Sei arrabbiata con me».

«No, ti sbagli».

«No, non mi sbaglio».

Molly lasciò cadere la forchetta nel piatto ed incrociò le braccia al petto, guardandolo negli occhi con aria di sfida. 
«Ti sto imitando, Sherlock».

Il detective sbatté rapidamente le palpebre, cercando di focalizzare il punto che evidentemente si era perso. 
«Tu mi stai cosa?».

«Non hai limiti, non ti interessi delle opinioni degli altri e soprattutto hai sempre in mente mossa e contromossa», gli spiegò, contando sulle dita di una mano. «Io ti sto imitando, Sherlock, perché la mia mossa ora è quella di chiederti il motivo per cui sei qui da ieri sera, la tua è il silenzio, o la menzogna, e la mia contromossa è quella di andarmene senza farti alcuna domanda».

Si alzò facendo strisciare rumorosamente i piedini della sedia sul pavimento e lasciò Sherlock da solo in cucina, di fronte al suo piatto di pasta mezzo pieno.
Poco dopo il detective la sentì tornare e si alzò, chiedendosi se avesse cambiato idea, ma ciò che vide fu il triste epilogo della loro discussione: si era cambiata, quindi voleva uscire.

Molly si diresse spedita verso l’attaccapanni e si infilò il cappotto. Mentre si sistemava la sciarpa intorno al collo, Sherlock le chiese dove volesse andare da sola a quell’ora.

«Non è affar tuo», rispose concisa e una volta afferrata la borsa uscì dall’appartamento, sbattendosi rumorosamente la porta alle spalle.

 

***

 

Molly sapeva benissimo di essere stata dura con lui, forse un po’ troppo, tanto da risultare patetica, ma non aveva visto altre alternative. E poi era davvero arrabbiata con lui. Non come quando John l’aveva portato al Bart’s ed analizzando un campione delle sue urine lo aveva trovato ben poco pulito, ma quasi.

Il suo recente comportamento le era incomprensibile e lui, come sempre, non sembrava minimamente intenzionato a dare spiegazioni.
“Spiegazione” era un’altra parola dal significato contorto stando al dizionario di Sherlock: non aveva una definizione vera e propria, era più che altro un sinonimo di “perdita di tempo”, “scarso utilizzo delle capacità intellettive” e “inutilità”.

Sherlock doveva imparare ad essere chiaro con lei, a chiedere ciò di cui aveva bisogno senza pretendere che lei lo capisse leggendogli la mente. Perché era vero, a volte non c’era bisogno che lui parlasse perché lei afferrasse ogni suo più piccolo pensiero, ma… a volte.
Sherlock si era in qualche modo abituato a quelle volte e quando gli faceva comodo – quando non lo trovava fastidioso – ci faceva pieno affidamento, senza rendersi conto di chiederle l’impossibile.

Di fronte ad un bicchiere aveva pensato molto a cosa fare una volta tornata a casa – sempre se Sherlock fosse stato ancora là – ma lei non era affatto tagliata per la pianificazione di mosse e contromosse. Lei era emotiva, sensibile, e la maggior parte del tempo agiva d’istinto, seguendo ciò che le diceva il cuore. Quindi aveva deciso di essere se stessa: sarebbe successo quello che sarebbe successo e il sole sarebbe sorto comunque.

 

Girò piano le chiavi nella toppa ed entrò nell’appartamento di soppiatto, trovandolo immerso nel buio e nel silenzio. Chiuse con due mandate e mise anche il chiavistello, poi si spogliò e in punta di piedi si diresse verso la sua camera. Sporgendosi all’interno, scorse Sherlock steso sotto le coperte, con le braccia sotto al cuscino e i ricci ancora un po’ umidi che gli ombreggiavano il viso.
Molly si lasciò andare ad un sospiro e senza far rumore socchiuse la porta. Aveva vinto lui, anche quella notte.

Andò in cucina per prepararsi un tè e fu con sorpresa che notò che Sherlock aveva sparecchiato e aveva persino lavato i piatti. Sul tavolo inoltre c’era un bigliettino scritto di suo pugno.
Una sola parola, un semplice «Scusa» che fu in grado di farle affiorare un minuscolo sorriso alle labbra.

«Questo è giocare sporco, Sherlock Holmes».

Ma con lei come avversaria avrebbe vinto in qualsiasi modo, sempre.



   
 
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