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Autore: HuGmyShadoW    12/06/2008    3 recensioni
[...]Nella stanza il silenzio era calato improvviso e soffocante come un'invisibile coperta. I due ragazzi erano lì in piedi, davanti alla madre, a lottare disperatamente con qualcosa nel loro petto per assimilare quanto avevano appena sentito. Infine, Bill deglutì nervosamente e scambiando un'occhiata obliqua con Tom, quasi a cercare una conferma, sussurrò:-Noi... Abbiamo un altro gemello?!-[...]
Una soffitta, un segreto mantenuto tale per diciotto, lunghi anni, due o forse più esistenze totalmente sconvolte... E voi che fareste nel sapere di avere un altro fratello?
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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°(Due)°


Un raggio di sole si fece largo a fatica nella città di cianfrusaglie impolverata che regnava nella soffitta. Filtrando attraverso lo spiraglio di una piccola finestrella ad oblò, si muoveva lentamente, senza fretta, ora immergendosi nel tessuto logoro di un vecchio divano, ora scavalcando agilmente qualche sgangherato gioco da tavolo a cui mancavano più pezzi di quanti ne contenesse, ora sbirciando attentamente all’interno di scatoloni umidi e dimenticati da tempo. Sembrava cercare qualcosa, il piccolo raggio di sole, ma senza affannarsi troppo, perché sapeva bene che quello che bramava era già lì.

Ero avvolto come in un bozzolo da mille coperte indistinguibili le une dalle altre. Durante la notte, il loro calore mi aveva protetto dagli spifferi, ma ora che il giorno avanzava il loro morbido infagottarmi si faceva sempre più soffocante. Sospirai immergendo il viso fra le pieghe del cuscino e presi a lottare contro gli improbabili legacci della mia prigione di stoffa. Avevo caldo, stavo sudando, ma non volevo svegliarmi, e come se già non bastasse, una luce diretta abbagliante che pian piano era scivolata senza un rumore lungo il mio corpo mi aveva di botto inondato il viso. Tenendo le palpebre furiosamente serrate, annaspai con le mani davanti al mio viso prima di trovare il lembo del lenzuolo. Alla fine, con un gemito rabbioso, calciai via le coperte che rotolarono inerti sul pavimento, ai piedi del vecchio letto con le spalliere di metallo che fungeva da “tana”. Barcollando, mi misi in piedi e mi grattai la testa. Lunghe ciocche di capelli soffici e neri si impigliarono fra le mie dita. Le liberai delicatamente e con gli occhi incollati di sonno, mi trascinai a zig-zag fino ad una cassettiera addossata al muro opposto. Schiusi le palpebre e un paio di occhi nocciola, gonfi e ancora fragranti, insaporiti del dolce dormire della notte appena passata ricambiarono il mio sguardo. Mi avvicinai di più allo specchio, scrutandomi attentamente fra una macchia di ruggine e un’altra. Mi piacevano quegli specchi, antichi, provati dal tempo...
“Brutta faccia...”, pensai osservandomi da più angolazioni. Sbadigliai accarezzando l’idea di tornarmene a letto quando un pensiero mi balenò nella mente, veloce come un battito d’ali.
-Ehi!-, esclamai ad alta voce, osservando che il mio riflesso apriva la bocca come un efficiente pappagallo. Immediatamente corsi al calendario ingiallito appeso di sbilenco alla parete. Scorsi velocemente i giorni mentre il mio sorriso si allargava mano a mano che il tempo di carta scorreva.  
-Sì!!-.
Gettai a terra il calendario e misi subito al suo posto uno nuovo fiammante. Accarezzai delicatamente il primo quadratino del foglio di gennaio.
-Sì! Sì! Sì!-. Ero incapace di contenere il mio entusiasmo, ma dopotutto, capitemi. Non si compiono 17 anni tutti i giorni!
Feci correre lo sguardo per la stanza, disordinato specchio della mia vita fin dai primi mesi.
Un vispo orologio ticchettante, unica nota stonata in quella sinfonia di polvere e lentezza mi rivelò che erano già le otto passate. Papà sicuramente non c’era.
Con l’adrenalina che mi ribolliva nelle vene afferrai un paio di jeans e un maglione senza nemmeno capire di che colore fossero, caracollai fuori saltellando per infilarmi una scarpa e chiusi la porta sbattendola forte.
Sentivo il cuore a mille mentre scendevo con sofferta lentezza le scale scricchiolanti che portavano alla soffitta, e il pompare del sangue nelle orecchie mi assordava.
Senza accorgermene arrivai davanti all’immacolata porta della stanza da letto di mamma. Prima di bussare gettai un’occhiata al corridoio buio. Tutto tranquillo. Mi schiarii la voce e battei le nocche contro il legno.
-Mamma?-, chiamai sottovoce socchiudendo la porta. La mia voce venne assorbita subito dalla moquette. La stanza linda e profumata era perfettamente ordinata; solo un libro sul comodino lasciato aperto dalla sera prima e un maglione adagiato contro lo schienale della  sedia a dondolo in un angolo regalavano un po’ più umanità a quella camera da catalogo.
-Mamma...?-, ripetei avanzando. Mi diressi a passi silenziosi fino al centro della stanza seguendo il percorso tracciato dalla debole striscia di luce che filtrava dalla porta. Mi fermai accanto al letto e tesi le orecchie. Niente, nessuno rumore.
“Sarà in cucina?”, mi chiesi tornando in fretta sui miei passi. Accompagnai con delicatezza la chiusura della porta e mi voltai.
-AH!-.
Un istante dopo mi pentii del mio strillo e mi premetti una mano sul cuore, tentando invano di rallentare il suo battito e il mio respiro.
-Mamma, mi hai spaventato! Perché salti sempre fuori dal nulla?-, protestai con il fiato corto.
Lei mi osservò dolcemente mentre mi riprendevo, poi si avvicinò e mi carezzò la guancia.
-Scusami, Jake...-.
Che tipo, mia madre. Per me era la colonna portante della mia vita, l’unica donna a cui mi fossi mai affezionato. Ogni volta che la vedevo cercavo di respirare più a fondo il suo profumo, di imprimermi bene nella mente il suo modo di sorridere, tutto un sollevarsi di fossette, quel suo mettere le mani sui fianchi, ogni cellula del suo meraviglioso, dolce essere.
L’amavo. E lei amava me.
Con un sorriso, Simone mi distolse dalle mie contemplazioni.
-Stavo per venire a svegliarti. Vieni in cucina, c’è una sorpresa per te!-. Nel dirlo si illuminò in volto, e anche non sapendo cosa mi aveva preparato, era quello il mio regalo più bello.  La presi per mano e mi lascia guidare senza esitazioni lungo il corridoio buio e poi giù per le ripide scale di legno, attraverso l’atrio e fino in cucina.
-Papà non c’è vero?-, le domandai con una punta d’ansia nella voce.
-No, non è ancora tornato da ieri sera... Adesso però dovresti chiudere gli occhi-, ridacchiò con una mano già sulla maniglia della porta.
-Ma dai, mamma! Non ho più cinque anni!-, sbuffai.
Nei suoi occhi calò un’ombra come un sipario e capii all’istante di averla ferita. Mi morsi la lingua e sospirai.
-Va bene... Ecco, sono chiusi!-, esclamai serrando per bene le palpebre.
Immaginai il suo sorriso mentre mi mormorava -Resta qui...- e spariva oltre la soglia. Più leggera di un soffio di vento, la presa della sua mano svanì e le mie dita strinsero il vuoto.
Capii all’istante quando fui veramente solo. Il silenzio era tutto intorno a me e una vertigine aveva preso a contorcermi le budella. Lì, vicino al semplice portaombrelli, ad un passo dalla mia isola di salvezza, mi sentii come sull’orlo di un precipizio. Potevo quasi sentire il vento fischiare nelle mie orecchie e se solo avessi allungato il piede, probabilmente non ci sarebbe stato più nulla a sostenermi... Mi spostai di un centimetro più avanti, sempre ad occhi chiusi, e mi aspettai di sentire il vuoto piombare sotto le mie dita...
-Jake-.
Sobbalzai.
-Jake... Ora puoi aprire gli occhi-.  
Con cautela, sollevai prima una palpebra e poi l’altra. Niente precipizio. Niente strapiombo incombente sotto i miei piedi, solo il vecchio, consumato parquet di sempre.
Alzai gli occhi, attirato da un chiarore.
Con un sorriso grande e luminoso come la luna a sovrastare tante candeline in fila, Simone mi porse una torta bellissima, glassata, invitante come nessun altra.
-Buon compleanno-.

Ci spostammo in cucina, dove mi attendeva un pacchetto innocentemente posato sul tavolo. Soffia sulle candeline, diciassette, blu come il cielo, e le spensi tutte in un colpo. Nonostante le insistenze di mamma, preferii non esprimere nessuno desiderio.
Con una fetta del dolce davanti per ciascuno, Simone aspettò che aprissi il mio regalo multicolore. Lo scartai con impazienza, facendo a brandelli la carta, ed esibii un’impeccabile espressione da festeggiato stupito.
Per farla contenta, solo per la sua felicità.  
Chiacchierammo tanto, parlando del più e del meno, del tempo, del nuovo anno, di papà, dei vicini, stando bene attenti a non toccare l’argomento “fratelli”.
Il grande orologio sopra il forno ormai segnava le dieci passate; entrambi sapevamo che papà sarebbe tornato da un momento all’altro, ma nessuno dei due intendeva finirla così.
Lanciando un breve sguardo alla cucina ordinata, sospirai, pensando a quante volte avevo abbandonato la mia cena solitaria per spiare loro, i miei fratelli e i miei genitori, mangiare ridendo, conversando, felici, sereni... Io non avrei mai fatto parte di questa famiglia, lo sapevo bene.
Sospirai, stuzzicando con la forchetta la mia fetta di torta quasi intatta. Mamma se ne accorse.
-Non ti piace?-.
Alzai gli occhi, allarmato.
-No, no, è buonissima! Davvero!-, esclamai.
Simone sorrise morbidamente, di un sorriso umido, non solare come al solito. E anch’io ricambiai lo stesso tipo di sorriso. Posai la forchetta.
-Grazie mamma. Questo è il più bel compleanno della mia vita-.
E coccolato dolcemente da quel profumo di casa, rimasi sorpreso del fatto che lo pensavo davvero.


°°°


Come  
miya shinizuu mi ha fatto notare, nel capitolo precedente è scritto che Jake è nato quattro mesi dopo rispetto agli altri due gemellini. Io non sono molto informata sulle gentica e simili, però credo possa succedere che un bambino si formi in ritardo rispetto ai fratelli, anche a mesi di distanza (in casi più unici che rari... -_-'); diciamo che mi prendo questa licenza poetica, e voi, se potete, perdonate l'inverosimilità degli inizi.
Ringrazio quanti hanno commentato e quanti hanno messo la mia storia fra i preferiti. Cercherò di aggiornare il prima possibile. Baci <3



   
 
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