CAPITOLO NONO: LE PANATENEE.
Quella notte Shin
dell’Ariete non riuscì a prendere sonno, rigirandosi nel letto della
Tredicesima Casa, senza trovare quiete ai suoi pensieri, che gli rimbombavano
imperterriti nella mente, che lo riportavano continuamente là, in Egitto, dove
era certo stesse accadendo qualcosa di oscuro. Aveva accumulato abbastanza
esperienza da poter comprendere molte cose semplicemente concentrando i sensi e
ascoltando il vento. Ma quella notte soltanto sospiri lontani giunsero ai suoi
orecchi. Il resto si perse nelle sabbie dell’Egitto, in quelle immense distese
dove il suo cosmo faceva fatica a entrare. A fatica si addormentò, più per
l’esaurimento delle sue forze che non per il desiderio di dormire.
Lo svegliò il suo
fedele servitore alle prime luci dell’alba, per aiutarlo a vestirsi e a
prepararsi per la grande giornata: quel giorno infatti avrebbero avuto inizio i
giochi sportivi delle Panatenee, una sana competizione fisica organizzata dal
Sacerdote sul modello degli antichi Giochi Olimpici, ed egli, quale
rappresentante di Atena e del Grande Tempio, avrebbe dovuto presenziarvi.
“Avete l’aria
stanca, Grande Sacerdote!” –Commentò timidamente Arles, aiutando
l’Oracolo a scendere nella vasca della Sala della Purificazione. –“Non avete
dormito bene?”
“Non ho dormito
affatto!” –Mormorò Shin, sentendo il peso degli anni ricadergli sulle spalle.
“Mi dispiace! C’è
qualcosa che posso fare per alleviare la vostra stanchezza?”
“Non molto, Arles…
Non molto...” –Si limitò a commentare Shin, prima di accennare un sorriso.
“Se volete, posso prendere
il vostro posto alla cerimonia di inaugurazione dei Giochi?!”
“No!” –Rispose
bruscamente Shin, ma poi ringraziò il Cavaliere d’Argento per l’affetto
dimostrato nuovamente. –“Spetta a me quell’incarico! E saprò trovare la forza
per adempiere al mio compito!”
“Come desiderate!”
“Perdonami, mio
buon amico!” –Si scusò Shin. –“Sono soltanto nervoso!”
Nervoso e
insicuro! Rifletté il
Sacerdote, lasciandosi cullare dalle tiepide acque della grande vasca. E
impaurito dai giorni che verranno! La stanchezza fisica mi opprime sempre di
più, in maniera inesorabile. Ogni giorno che passa mi sento un anno più
vecchio, e le preoccupazioni di adesso non fanno altro che incrementare la mia
discesa verso le fine!
Ma non devo
lasciarmi abbattere! Si
disse, stringendo i pugni. Non ho ceduto duecento anni fa, in una guerra
disperata da cui ero convinto di non uscire vivo, e non ho intenzione di farlo
adesso! Per Atena, che mi ha onorato di questo supremo incarico, nominandomi
suo rappresentante in terra; per Dohko e per i compagni caduti nel 1743,
giovani cuori che ardevano per la libertà e la giustizia; e per i Cavalieri di
oggi, che hanno ancora bisogno di qualcuno che li guidi, di qualcuno che li
aiuti nel difficile cammino di scoperta di loro stessi, di ciò che
rappresentano realmente!
È un’epoca,
questa, dove molti valori sono andati perduti, dove la tecnologia e le
materialistiche scienze hanno invaso ogni campo della vita umana, sopraffacendo
i vecchi valori e le tradizioni, che pochi cercano di conservare. È un’epoca di
persone sole, dove l’anonimia regna sovrana, e pochi sono dediti agli antichi
culti, pochi venerano ancora gli Dei, preferendo vuoti simulacri che non
appagano il desiderio umano di infinito. Nostro compito, come Sommi Sacerdoti,
è quello di aiutare gli altri a capire, a comprendere dove e come indirizzare
le risorse che portano dentro!
Per questo ho
organizzato le Panatenee, rivitalizzando gli antichi Giochi, per permettere
agli abitanti del Grande Tempio di avvicinarsi alle vecchie tradizioni, alle
nostre tradizioni! Quelle che abbiamo dimenticato! Poiché siamo stati troppo
impegnati a far la guerra, per difenderci da Ares o da Ade, troppo intenti a
chiuderci in noi stessi, dimenticandoci del nostro passato, di ciò che siamo
stati un tempo! Se davvero è giunta la fine, se davvero i miei giorni stanno
volgendo al termine, voglio lasciare un segno, un ricordo di me. Che possa
rinfrancare gli animi e spingere i giovani di oggi a non arrendersi e a
continuare a lottare, per uno scopo superiore che sempre esisterà!
Rifletteva su
questo l’Oracolo di Atena mentre camminava in cima al corteo che stava
attraversando l’intero Grande Tempio. Il momento culminante della festività
delle Panatenee era rappresentato infatti dalla processione organizzata per il
giorno che si riteneva corrispondere al compleanno della Dea. Il corteo,
nell’antica Atene, prendeva avvio presso la porta cittadina del Dìpylon e
attraversava la città fino a concludersi alla statua della Dea presso
l’Acropoli. Ad esso erano soliti partecipare i magistrati in carica, i
portatori di offerte, i musicanti e i Cavalieri, oltre che la gente comune.
La
processione del mese di Ecatombene dell’anno 1973, organizzata da Shin, fu
ricreata in versione ridotta all’interno del Grande Tempio, ma non aveva niente
da invidiare alle manifestazioni dell’età ellenistica, sia in termini
organizzativi che di partecipazione numerica. Una grande massa di fedeli e di
servitori della Dea si era infatti riunita e procedeva compostamente lungo le
strade del Grande Tempio, pregando Atena e trasportando, come nella tradizione,
uno splendido peplo ricamato.
Questo
indumento femminile, privo di maniche, era ottenuto da un rettangolo di stoffa,
che poteva essere indossato con o senza cintura. Fissato sulle spalle da spille
o fermagli, era formato da una gonna, aperta su un lato, e da una ricaduta che
terminava all’altezza della vita. Era stato ricamato nei mesi precedenti dalle ergastine,
fanciulle scelte allo scopo, dirette da due Sacerdotesse arrefore, e vi erano rappresentate
scene prese dalla Gigantomachia e dalle lotte contro Ares e Nettuno.
La
processione aveva preso le mosse dalla piazza antistante il Cancello Principale
e si era inoltrata per le vie del mercato, lambendo le residenze dei soldati,
l’infermeria e giungendo infine all’Arena dei Combattimenti, i cui spalti erano
gremiti di una folla in silenziosa preghiera. La scelta di partire dal Cancello
Principale non aveva subito modifiche, neppure alla luce degli eventi del
giorno precedente. Là infatti erano stati massacrati ventotto soldati di Atena,
e Niso del Tucano era stato ferito, ma il Grande Sacerdote, su consiglio anche
di Arles, non aveva cambiato i piani organizzativi, nella speranza che, alla
luce di quanto accaduto, la benedizione di Atena scendesse presto sull’intero
Santuario, contribuendo a rasserenare le inquiete anime dei suoi abitanti.
Quando
la processione terminò, i fedeli si accomodarono sugli spalti rimasti liberi
dell’Arena, mentre altri rimasero al centro dell’Anfiteatro, ad osservare il
Sacerdote, sul palco più in alto, intento a compiere il rito conclusivo: un
sacrificio di buoi ad Atena, la cosiddetta Ecatombe, che aveva dato origine al
nome del mese in cui le Panatenee si svolgevano.
Cinque
Cavalieri avevano trasportato due buoi nell’Arena, proprio sotto il palco del
Sacerdote: Eurialo del Dorado, Noesis del Triangolo, Argetti
di Eracle, Dedalus della Mosca e Orione del Cane Maggiore.
Quindi avevano fermato i movimenti delle due bestie, usando soltanto la loro
forza fisica, cercando di placare i loro corpi inquieti, poiché era tradizione
che i sacrifici avvenissero con il consenso immaginato delle vittime, da cui si
doveva ottenere almeno un cenno di assenso.
Eurialo
e gli altri quattro Cavalieri d’Argento, ad un gesto del Sacerdote, condussero
i due buoi sul grande palco, sotto gli occhi attenti della folla, che osservò
la meticolosità dell’operazione. Shin cosparse i corpi delle bestie di acqua,
mentre Nonna Ada e un’altra anziana Sacerdotessa, le due arrefore
che avevano ricamato il peplo consacrato ad Atena, gettavano chicchi d’orzo
sull’animale, per terra e sull’altare al centro del palco.
Niso del Tucano spuntò pochi attimi dopo, raggiungendo il
palco e inchinandosi di fronte al Sacerdote. Nonostante la ferita al fianco continuasse
a dargli fastidio, non aveva voluto rinunciare al suo importante ruolo, quello
di portatore dell’arma del sacrificio. Teneva infatti in mano, avvolta in un
mantello color porpora, una robusta scure, che rivelò e porse gentilmente
all’amico Eurialo, il quale la afferrò con mano ferma, prima di calarla sulle
due bestie, abbattendole.
Il
cruento atto fu accompagnato da una preghiera ad Atena, mormorata dal Sacerdote
e da tutti i fedeli, e doveva simboleggiare la protezione della Dea, invocata a
scendere sull’intero suo Tempio, per evitare nuove guerre e pestilenze. Dopo
l’abbattimento, i due animali vennero sgozzati con il coltello sacrificale,
sempre dalle robuste mani di Eurialo, ma il sangue non cadde a terra, bensì
venne raccolto in un recipiente da Nonna Ada e spruzzato sopra l’altare.
“Conducete
i capi dallo splanchnòptes!” –Esclamò il Sacerdote, rivolgendosi ai
Cavalieri d’Argento. –“Che si occupi dello scuoiamento e della macellazione!” –
Quindi concluse la sua preghiera, mentre i Cavalieri si allontanavano con le
carcasse dei buoi sacrificati. –“Che Atena non chieda altro sangue affinché
regni la pace!” –Si augurò Shin, con la voce che gli tremava.
Quindi il
Sacerdote si abbandonò a un piccolo sermone, pronunciato lentamente, a causa
della stanchezza e da un vago senso di nausea, dovuto all’odore di sangue e di
carne cruda che era rimasto nell’aria, non avendo quella mattina ingerito
niente, per la pessima nottata trascorsa.
“Iniziano oggi i
concorsi ginnici delle Panatenee, organizzati sul modello dei Giochi Olimpici
Ateniesi! Possano essere per voi ciò che sono stati realmente nelle mie
intenzioni! Un’occasione per stare insieme, per conoscersi, per gareggiare
fianco a fianco, con lealtà e con spirito di sacrificio! Un momento per ritrovare
noi stessi e ciò che siamo, tuffandoci nelle dimenticate tradizioni dei nostri
avi! Una celebrazione del nostro Santuario, della nostra Dea che questo luogo
edificò, e della vita, supremo bene di cui disponiamo!” –Quindi si fermò un
attimo, volgendo lo sguardo a destra, mentre un giovane alto e snello lo
raggiungeva sul palco, inchinandosi di fronte a lui.
“Koroibos,
eccellente allenatore sportivo, nonché capo della commissione organizzativa dei
giochi delle Panatenee, dirigerà la manifestazione! E sarà lui, per volontà
mia, e di Atena che io rappresento, ad illustrarvi gli splendidi giochi a cui
preparatissimi atleti prenderanno parte tra breve!” –Esclamò il Sacerdote,
facendo un passo indietro, mentre Koroibos raggiungeva il centro del palco, tra
le grida festose e gli scroscianti applausi della folla.
Era costui un
giovane alto e snello, con ricciuti capelli castani, un viso sbarazzino, dal
carnato chiaro, su cui spiccavano due splendidi occhi verdi. Indossava tipiche
vesti greche, con i calzari coturni annodati intorno alle gambe, e una tenia in
fronte, il nastro portato dai sacerdoti, dai vincitori e dagli atleti
d’eccellenza con significato culturale e festivo.
“Popolo del Grande
Tempio! Siete tutti invitati a partecipare a questa splendida manifestazione
organizzata dal Sommo Sacerdote! Sette saranno le gare in cui i migliori atleti
dell’Attica si cimenteranno! E voi, tutti voi, potrete accompagnarli,
gareggiando con loro, sfidandoli, mettendo in gioco voi stessi e le vostre
capacità!” –Iniziò a parlare Koroibos, cercando di arringare la folla. –“La
prima gara sarà la corsa con i carri, quindi seguiranno la corsa, il lancio del
giavellotto, il pancrazio, il lancio del disco, il salto in lungo ed infine la
celebre lampadedromìa, ovvero la corsa con le torce, che chiuderà,
domani notte, questa lunga serie di gare!
Vi
saranno banchetti in ogni zona del Santuario e spazi destinati alla lirica e
alla poesia dove i nostri abili musici, da tutta la Grecia provenienti,
delizieranno le nostre orecchia con canti e motivi di gran pregio! Spettacoli
di danza e fuochi pirotecnici completeranno il tutto! I premi per i vincitori
delle gare saranno meravigliose anfore panatenaiche, ornate con l’effige di
Atena, e contenente l’olio degli olivi sacri alla Dea, in numero variabile secondo
le discipline e le classi d’età!”
Dopo
che Koroibos ebbe finito di parlare, la folla esplose in scroscianti applausi
ed egli sorrise, soddisfatto di tanta partecipazione. Si voltò indietro,
scambiando qualche parola con l’Oracolo di Atena, prima che questi,
dichiarandosi stanco, si allontanasse con alcuni sacerdoti del suo seguito, con
Nonna Ada e l’altra sacerdotessa arrefora. La folla iniziò a disperdersi,
dirigendosi verso i luoghi in cui si sarebbero svolte le gare e verso le cucine
ed i banchetti per pasteggiare.
Koroibos discese
quindi le scalinate degli spalti, tra i sorrisi e le pacche festose del
pubblico, che lo amava e lo osannava come uno dei migliori atleti di Grecia,
velocissimo nella corsa e preciso come un falco nel lancio del giavellotto.
Raggiunse un gruppetto di Cavalieri di Atena intenti a parlare tra loro e
domandò se si fossero già iscritti alle gare ginniche.
“Certamente!”
–Esclamò il robusto Argetti di Eracle. –“Tocca questi muscoli ragazzo! Sono
quelli che stenderanno tutti i miei avversari nel pancrazio!” –Ironizzò,
mostrando il nerboruto braccio.
“Saprete
certamente che dovrete gareggiare senza fare uso del cosmo ed è per questo
che…” –Esclamò Koroibos, ma Dedalus della Mosca lo interruppe.
“Ed è per questo che,
in quanto Cavalieri, siamo esclusi dalla corsa, ma ammessi soltanto ai giochi
di mera forza fisica!” –Sbuffò, scocciato. –“Che si riducono al pancrazio e
alla corsa coi carri!”
“Non fare
dell’ostruzionismo, Dedalus!” –Lo rimproverò Orione del Cane Maggiore.
–“Anch’io avrei voluto gareggiare nella corsa! Ma non sarebbe corretto nei
confronti degli altri atleti, uomini semplici e valorosi che si sono duramente
allenati, senza disporre dei poteri del cosmo!”
“Precisamente,
Cavaliere del Cane Maggiore!” –Sorrise Koroibos. –“Voi Cavalieri fareste
mangiare loro del fumo!” –Rise, ma la sua battuta non soddisfece l’attesa
delusa dei Cavalieri d’Argento. –“Comunque... vi sono anche altre occasioni di
gareggiare in questi giorni di festa!”
“E quali
sarebbero?” –Domandò Dedalus.
In quel momento
una leggera melodia risuonò nell’aria, un dolcissimo canto d’amore giunse alle
orecchie di tutti i presenti. E fece sorridere Koroibos, che ben conosceva
l’autore di quel motivo. Il Cavaliere d’Argento più amato dell’intero Santuario
di Atena, non solo per le sue indubbie qualità guerriere ma anche per la sua
umanità, per la sua vicinanza con la gente comune, di cui sapeva cantare gli
umori e i sentimenti, pizzicando con le dita la sua lira argentata, per quanto
preferisse cantare motivi d’amore per la sua amata.
“Orfeo della Lira
Cantore!” –Esclamò Dedalus, quasi disgustato, all’apparizione del giovane.
Era costui un
ragazzo quasi ventenne, alto e ben fatto, con mossi capelli celesti e brillanti
occhi che risaltavano sul suo viso elegante. Indossava un’Armatura d’Argento,
dal colore candido come la neve, e stringeva sotto il braccio sinistro una
lira. La mano destra era invece nella mano di un’esile fanciulla dai lunghi
capelli biondi, alta e snella, con uno sguardo pieno di ammirazione e di amore
nei confronti del suo unico e vero amore.
“Salute a voi,
Cavalieri d’Argento!” –Sorrise loro Orfeo, fermandosi davanti ai quattro
uomini. –“E a voi, Maestro Koroibos! Quando inizieranno le gare di canto e di
danza?” –Chiese all’allenatore.
“Questo
pomeriggio, Orfeo! Ma non dirmi che hai intenzione di partecipare, mio caro, o
tutti i concorrenti ritireranno la loro iscrizione! Con tu e la tua cetra in
gara, non c’è gioco per nessuno!” –Ironizzò Koroibos, avvicinandosi alla coppia.
“Non è per la
vittoria che bramo di partecipare, Maestro Koroibos! Ma per cantare il mio
amore ad Euridice, che nella musica al massimo riesco a riversare!” –Spiegò
Orfeo, con voce pacata, sorridendo alla ragazza che si teneva stretta a lui.
–“Per lei io canto, e niente più!”
“Hai un talento
naturale, ragazzo!” –Gli sorrise Koroibos. –“Al suono della tua cetra il mondo
pare fermarsi per ascoltarti! Persino gli alberi e gli animali rimangono
incantati!”
“Ma dubito che sia
arma efficace in battaglia!” –Intervenne bruscamente Argetti, sbattendo un
piede sul terreno. –“Sono i muscoli e la forza fisica a determinare la
vittoria!”
“Non esserne
certo, Cavaliere di Eracle! Lottare contro un nemico è come gareggiare contro
altri avversari in una competizione sportiva! È un’occasione dove dare il
massimo per affermare noi stessi e ciò che siamo! La forza fisica è importante,
indiscutibilmente, ma non è tutto! Non può essere tutto!” –Spiegò Koroibos,
incontrando il sorridente sguardo di Orfeo. –“Vi sono numerose altre doti che
entrano in gioco in battaglia! L’agilità, la velocità, la strategia, la
tenacia, la determinazione! Tutti elementi che mescolati insieme portano il
vero atleta, colui che conosce il suo obiettivo finale e fa di tutto per
arrivarvi, alla vittoria! Perché solo un atleta determinato può vincere una
gara, come solo un Cavaliere determinato può uscire vincitore da uno scontro in
battaglia!” –Esclamò, e le sue parole caddero come una sentenza sui volti
attenti dei Cavalieri d’Argento.
“Lottare per gli
altri, per proteggerli e renderli felici, sentendosi da loro ammirati, è bello,
ed è anche nobile!” –Aggiunse, fissando Orfeo negli occhi. –“Ma può rivelarsi
fatale, se non si è convinti fino in fondo della causa per cui stiamo lottando!
È la motivazione che fa la differenza! Ricordalo!” –Mormorò Koroibos,
allontanandosi.
Orfeo rimase un
attimo colpito dalle parole del maestro e fu il lieve tocco della mano di
Euridice a riportarlo alla realtà. Il ragazzo si voltò verso di lei, trovandola
sorridente e ansiosa come sempre di vivere con lui quello spicchio di vita
mortale che era data loro. Orfeo ricambiò il suo sorriso e si allontanò con
lei, dirigendosi verso i prati dei banchetti, sul lato meridionale del Grande
Tempio.
Argetti, Dedalus e
Orione restarono per qualche minuto ad osservare il Cavaliere allontanarsi mano
per mano con la sua amata, quasi nauseati da tutto quell’amore, ai loro occhi
stucchevole.
“Quello non è un
Cavaliere, è un damerino!” –Brontolò Argetti, arricciando il naso. –“Cos’è? Ha
forse paura di sporcarsi? In un corpo a corpo lo pianterei in terra con un
pugno sul capo!”
“Ed io gli farei
mangiare la mia polvere nella corsa veloce!” –Proseguì Dedalus, con tono
provocatorio. –“Ha paura di sudare e di sporcarsi il bellimbusto!” –Ma Orione
zittì entrambi.
“Non riuscireste
neppure ad avvicinarvi ad Orfeo!”
“Eeh?! Ma cosa
dici, Orione?!” –Sgranarono gli occhi Argetti e Dedalus.
“Voi non conoscete
il potenziale che quel ragazzo racchiude in sé! Nonostante le sue apparenze
eleganti, quasi efebiche, che lo raffigurano più come un damerino intento a
declamare poesie in un salotto, Orfeo è un Cavaliere dagli immani poteri, al
punto che molti sostengono che potrebbe essere un Cavaliere d’Oro, avendo le
capacità per ambire ai Dodici scrigni dorati!”
“Un Cavaliere
d’Oro?!” –Brontolò Argetti. –“Chiacchiere da mercato, Orione!”
“Forse!” –Lo zittì
l’amico. –“O verità nascosta che giace sepolta nel nulla! Nascosta nel timido
cuore di Orfeo, innamorato più della sua bella Euridice che della sua stessa
vita! Quand’egli realizzerà cosa significa per lui essere un Cavaliere di
Atena, forse potremo valutare realmente il suo potere! Per adesso riesco
soltanto a percepire un potenziale celato dentro di lui! Un cosmo vasto e
luminoso, ma al tempo stesso solcato dal dubbio!” –Mormorò Orione, e
nient’altro aggiunse.
Lasciati i tre
Cavalieri d’Argento, Orfeo e Euridice si diressero verso i prati del
lato meridionale, dove erano stati sistemati tavoli e banchetti per pranzare
all’aria aperta e dove nel pomeriggio si sarebbero svolte gare canore, danze e
declamazioni di poesie. Euridice correva nel prato fiorito, inseguendo
farfalle, splendida come la prima volta in cui Orfeo l’aveva ammirata. Più
bella del sole.
“Euridice!” –La
chiamò Orfeo, tirandola a sé e baciandola. Incapace di separarsi da lei anche
solo per un momento. Tremendamente attratto dai suoi occhi, dal suo cuore,
dall’idea stessa di lei.
Perché era quello
che gli mancava ogni volta in cui Euridice si allontanava. Ogni volta in cui
posava il suo sguardo lontano da lui. Eros, Dio Supremo dell’Amore e delle
Forze Primordiali, lo aveva trafitto con il suo dardo, scatenando un
incantesimo, un potere più grande di qualsiasi cosmo, capace di vincere il
tempo e divenire eternità. Un potere chiamato amore.
E di questo Orfeo
era consapevole. Di quanto grande fosse quel potere, di quanto bene lo facesse
sentire, di quanto felice lo rendesse in ogni singolo momento in cui stava con
lei, in cui la cingeva tra le braccia, dichiarandogli il suo amore, e cantando
per lei, nelle fresche notti d’estate, sulla scogliera sul mare. Soli, mentre
tutto il resto rimaneva indietro, tutto il resto rimaneva lontano.
Ma Orfeo era un
Cavaliere, e dei più potenti, a detta del suo maestro. Un uomo che aveva
cercato di risvegliare il potenziale sopito del Cavaliere della Lira, motivando
le sue azioni, cercando di indirizzare lo splendore del suo cosmo verso un fine
ultimo, non contingente. Un fine a cui Orfeo sembrava continuamente sfuggire.
“Cosa ti spaventa
così tanto da frenarti in battaglia?” –Gli aveva chiesto una volta Koroibos.
–“La morte?”
“Non credo di
essere fatto per diventare Cavaliere, maestro!” –Aveva risposto Orfeo,
malinconicamente. –“Le guerre e le stragi non mi si addicono, né la turbolenta
violenza della battaglia! Non datemi del pavido, poiché non esiterei a
lanciarmi nel fuoco se vi sapessi in pericolo, o qualcuno a cui molto sono
legato, ma neppure dell’eroe, perché non credo sia nella mia natura!”
“Gli eroi non
esistono, Orfeo!” –Gli aveva sorriso Koroibos. –“Sono soltanto persone che
fanno la differenza! E tu, con queste nobili e misurate parole, hai già
dimostrato di essere sulla strada buona! La vittoria che brami, la felicità che
cerchi, la otterrai anche con la modestia! Ma fa sì che tale modestia non
diventi indecisione, non diventi rinuncia! O perderai te stesso e i migliori
anni della tua vita a chiederti cosa sia meglio fare per viverla fino in fondo,
senza accorgerti di quante occasioni hai mancato!”
Le parole di
Koroibos risuonavano sempre nella mente di Orfeo, ed egli, talvolta, pensava
fossero la sua maledizione, soprattutto da quando aveva conosciuto Euridice, da
quando si era innamorato follemente di lei. In quei momenti, quando stava con
lei e giacevano insieme sul mare al tramonto, Orfeo non vedeva altro, non
sentiva altro se non il richiamo dell’amore. Neppure Atena, neppure la sua
missione di Cavaliere della giustizia. Tutto passava in secondo piano, tutto
era il secondo piano rispetto all’amore per Euridice. E questo lo spaventava, e
in parte lo faceva sentire in colpa.
Lo spaventava
perché aveva paura di perdere quell’amore che tanta forza e gioia dava al suo
animo, per un banale incidente, per un gesto avventato o in una guerra che non
avrebbe voluto combattere. E spesso si sentiva oppresso, si sentiva frustrato,
incapace di continuare a vivere nel presente, timoroso di non avere un futuro.
Timoroso di poter perdere tutto da un momento all’altro.
Ma al tempo stesso
si sentiva anche colpevole, nei confronti di Atena e dei suoi compagni, e delle
genti che doveva proteggere ma di cui spesso si dimenticava. Non per cattiveria
o per indolenza, semplicemente perché amava fuggire dal mondo e rifugiarsi
nella sua isola felice, dove esisteva soltanto Euridice, il loro amore e
nient’altro. Niente guerre, né violenze, né morte. Soltanto amore.
Koroibos,
maestro mio! Passano gli
anni ma voi rimanete sempre il migliore! Rifletté Orfeo, accomodandosi
insieme ad Euridice a un banchetto. Per
tutti questi anni, anche dopo l’investitura, non avete mai smesso di seguirmi e di darmi utili consigli,
sorreggendomi ogni qualvolta le mie gambe non fossero state in grado di farlo!
E anche oggi ne avete avuto l’occasione!
Perdonatemi se
non sono stato l’allievo che avreste voluto! Se non sono così determinato e
desideroso di combattere come un Cavaliere dovrebbe essere, senza tutta questa
esitazione e questo dubbio che mi attanaglia il cuore! Mormorò, prima che le delicate mani di
Euridice gli sfiorassero il viso, facendolo voltare e perdersi nuovamente in
lei. Ma l’amo! E non vi è altro al mondo che valga per me altrettanto! Non
vi è altro al mondo che mi rechi maggior conforto e felicità!
Nel primo
pomeriggio, dopo un lauto banchetto, Orfeo ed Euridice camminarono nei prati
fioriti attorno al Grande Tempio, fermandosi infine di fronte a una sporgenza
rocciosa, un enorme masso che spuntava al sottosuolo in quel lago di fiori. Il
luogo del loro primo incontro. Là infatti, pochi anni prima, Orfeo l’aveva
ammirata, intenta a cantare sulla roccia, con una corona di fiori in testa.
L’aveva ammirata e ne era rimasto abbagliato, come si resta nel guardare il
sole senza coprirsi gli occhi. E da quel giorno non era passato momento della
sua vita in cui non avesse pensato a lei, all’unico sole capace di scaldargli
il cuore.
Euridice sedette
sulla roccia e Orfeo si accomodò al suo fianco, iniziando a pizzicare le corde
della sua arpa, lasciando scivolare dolci note in quel soleggiato pomeriggio
d’estate. I fiori iniziarono a danzare, roteando intorno a loro, in un profumato
circolo di amore che lentamente si strinse su di loro, mentre le delicate note
di Orfeo invadevano l’aria, in un’armoniosa serenata.
“Risvegliarsi!”
–Mormorò infine Orfeo. –“Mentre le ombre sfumano e il vento dal mare mormora
silenzi lontani, mentre l'angoscia va
giù e lascia al posto alla serenità, mentre smetto di chiedermi come andrà e
perché, e mi limito a farla andare. Mi limito a sorridere, ad assaporare un
raggio di sole, un giorno di felicità che il destino mi ha donato.
Risvegliarsi, e pensare a te. Sensazione strana, sicuramente, ma piacevole....
tremendamente piacevole.”
Sorrise, Orfeo della Lira, ma in fondo al cuore non poté fare a meno di
sentire un corvo gracchiare nell’aria. Un suono stridulo, per quanto
insignificante potesse essere, capace di rovinare l’armonia cosmica di quel
momento. Un grido che gli ricordò il suo dovere di Cavaliere di Atena,
destinato a proteggere la Dea e le genti libere dal male. Un urlo di guerra.