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Autore: Aledileo    13/06/2008    2 recensioni
Un prologo a tutta la serie, ambientato nel 1973, all'epoca dell'investitura dei Cavalieri d'Oro, con eventi che avranno conseguenze sul futuro.
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO NONO: LE PANATENEE.

 

Quella notte Shin dell’Ariete non riuscì a prendere sonno, rigirandosi nel letto della Tredicesima Casa, senza trovare quiete ai suoi pensieri, che gli rimbombavano imperterriti nella mente, che lo riportavano continuamente là, in Egitto, dove era certo stesse accadendo qualcosa di oscuro. Aveva accumulato abbastanza esperienza da poter comprendere molte cose semplicemente concentrando i sensi e ascoltando il vento. Ma quella notte soltanto sospiri lontani giunsero ai suoi orecchi. Il resto si perse nelle sabbie dell’Egitto, in quelle immense distese dove il suo cosmo faceva fatica a entrare. A fatica si addormentò, più per l’esaurimento delle sue forze che non per il desiderio di dormire.

 

Lo svegliò il suo fedele servitore alle prime luci dell’alba, per aiutarlo a vestirsi e a prepararsi per la grande giornata: quel giorno infatti avrebbero avuto inizio i giochi sportivi delle Panatenee, una sana competizione fisica organizzata dal Sacerdote sul modello degli antichi Giochi Olimpici, ed egli, quale rappresentante di Atena e del Grande Tempio, avrebbe dovuto presenziarvi.

 

“Avete l’aria stanca, Grande Sacerdote!” –Commentò timidamente Arles, aiutando l’Oracolo a scendere nella vasca della Sala della Purificazione. –“Non avete dormito bene?”

 

“Non ho dormito affatto!” –Mormorò Shin, sentendo il peso degli anni ricadergli sulle spalle.

 

“Mi dispiace! C’è qualcosa che posso fare per alleviare la vostra stanchezza?”

 

“Non molto, Arles… Non molto...” –Si limitò a commentare Shin, prima di accennare un sorriso.

 

“Se volete, posso prendere il vostro posto alla cerimonia di inaugurazione dei Giochi?!”

 

“No!” –Rispose bruscamente Shin, ma poi ringraziò il Cavaliere d’Argento per l’affetto dimostrato nuovamente. –“Spetta a me quell’incarico! E saprò trovare la forza per adempiere al mio compito!”

 

“Come desiderate!”

 

“Perdonami, mio buon amico!” –Si scusò Shin. –“Sono soltanto nervoso!”

 

Nervoso e insicuro! Rifletté il Sacerdote, lasciandosi cullare dalle tiepide acque della grande vasca. E impaurito dai giorni che verranno! La stanchezza fisica mi opprime sempre di più, in maniera inesorabile. Ogni giorno che passa mi sento un anno più vecchio, e le preoccupazioni di adesso non fanno altro che incrementare la mia discesa verso le fine!

 

Ma non devo lasciarmi abbattere! Si disse, stringendo i pugni. Non ho ceduto duecento anni fa, in una guerra disperata da cui ero convinto di non uscire vivo, e non ho intenzione di farlo adesso! Per Atena, che mi ha onorato di questo supremo incarico, nominandomi suo rappresentante in terra; per Dohko e per i compagni caduti nel 1743, giovani cuori che ardevano per la libertà e la giustizia; e per i Cavalieri di oggi, che hanno ancora bisogno di qualcuno che li guidi, di qualcuno che li aiuti nel difficile cammino di scoperta di loro stessi, di ciò che rappresentano realmente!

 

È un’epoca, questa, dove molti valori sono andati perduti, dove la tecnologia e le materialistiche scienze hanno invaso ogni campo della vita umana, sopraffacendo i vecchi valori e le tradizioni, che pochi cercano di conservare. È un’epoca di persone sole, dove l’anonimia regna sovrana, e pochi sono dediti agli antichi culti, pochi venerano ancora gli Dei, preferendo vuoti simulacri che non appagano il desiderio umano di infinito. Nostro compito, come Sommi Sacerdoti, è quello di aiutare gli altri a capire, a comprendere dove e come indirizzare le risorse che portano dentro!

 

Per questo ho organizzato le Panatenee, rivitalizzando gli antichi Giochi, per permettere agli abitanti del Grande Tempio di avvicinarsi alle vecchie tradizioni, alle nostre tradizioni! Quelle che abbiamo dimenticato! Poiché siamo stati troppo impegnati a far la guerra, per difenderci da Ares o da Ade, troppo intenti a chiuderci in noi stessi, dimenticandoci del nostro passato, di ciò che siamo stati un tempo! Se davvero è giunta la fine, se davvero i miei giorni stanno volgendo al termine, voglio lasciare un segno, un ricordo di me. Che possa rinfrancare gli animi e spingere i giovani di oggi a non arrendersi e a continuare a lottare, per uno scopo superiore che sempre esisterà!

 

Rifletteva su questo l’Oracolo di Atena mentre camminava in cima al corteo che stava attraversando l’intero Grande Tempio. Il momento culminante della festività delle Panatenee era rappresentato infatti dalla processione organizzata per il giorno che si riteneva corrispondere al compleanno della Dea. Il corteo, nell’antica Atene, prendeva avvio presso la porta cittadina del Dìpylon e attraversava la città fino a concludersi alla statua della Dea presso l’Acropoli. Ad esso erano soliti partecipare i magistrati in carica, i portatori di offerte, i musicanti e i Cavalieri, oltre che la gente comune.

 

La processione del mese di Ecatombene dell’anno 1973, organizzata da Shin, fu ricreata in versione ridotta all’interno del Grande Tempio, ma non aveva niente da invidiare alle manifestazioni dell’età ellenistica, sia in termini organizzativi che di partecipazione numerica. Una grande massa di fedeli e di servitori della Dea si era infatti riunita e procedeva compostamente lungo le strade del Grande Tempio, pregando Atena e trasportando, come nella tradizione, uno splendido peplo ricamato.

 

Questo indumento femminile, privo di maniche, era ottenuto da un rettangolo di stoffa, che poteva essere indossato con o senza cintura. Fissato sulle spalle da spille o fermagli, era formato da una gonna, aperta su un lato, e da una ricaduta che terminava all’altezza della vita. Era stato ricamato nei mesi precedenti dalle ergastine, fanciulle scelte allo scopo, dirette da due Sacerdotesse arrefore, e vi erano rappresentate scene prese dalla Gigantomachia e dalle lotte contro Ares e Nettuno.

 

La processione aveva preso le mosse dalla piazza antistante il Cancello Principale e si era inoltrata per le vie del mercato, lambendo le residenze dei soldati, l’infermeria e giungendo infine all’Arena dei Combattimenti, i cui spalti erano gremiti di una folla in silenziosa preghiera. La scelta di partire dal Cancello Principale non aveva subito modifiche, neppure alla luce degli eventi del giorno precedente. Là infatti erano stati massacrati ventotto soldati di Atena, e Niso del Tucano era stato ferito, ma il Grande Sacerdote, su consiglio anche di Arles, non aveva cambiato i piani organizzativi, nella speranza che, alla luce di quanto accaduto, la benedizione di Atena scendesse presto sull’intero Santuario, contribuendo a rasserenare le inquiete anime dei suoi abitanti.

 

Quando la processione terminò, i fedeli si accomodarono sugli spalti rimasti liberi dell’Arena, mentre altri rimasero al centro dell’Anfiteatro, ad osservare il Sacerdote, sul palco più in alto, intento a compiere il rito conclusivo: un sacrificio di buoi ad Atena, la cosiddetta Ecatombe, che aveva dato origine al nome del mese in cui le Panatenee si svolgevano.

 

Cinque Cavalieri avevano trasportato due buoi nell’Arena, proprio sotto il palco del Sacerdote: Eurialo del Dorado, Noesis del Triangolo, Argetti di Eracle, Dedalus della Mosca e Orione del Cane Maggiore. Quindi avevano fermato i movimenti delle due bestie, usando soltanto la loro forza fisica, cercando di placare i loro corpi inquieti, poiché era tradizione che i sacrifici avvenissero con il consenso immaginato delle vittime, da cui si doveva ottenere almeno un cenno di assenso.

 

Eurialo e gli altri quattro Cavalieri d’Argento, ad un gesto del Sacerdote, condussero i due buoi sul grande palco, sotto gli occhi attenti della folla, che osservò la meticolosità dell’operazione. Shin cosparse i corpi delle bestie di acqua, mentre Nonna Ada e un’altra anziana Sacerdotessa, le due arrefore che avevano ricamato il peplo consacrato ad Atena, gettavano chicchi d’orzo sull’animale, per terra e sull’altare al centro del palco.

 

Niso del Tucano spuntò pochi attimi dopo, raggiungendo il palco e inchinandosi di fronte al Sacerdote. Nonostante la ferita al fianco continuasse a dargli fastidio, non aveva voluto rinunciare al suo importante ruolo, quello di portatore dell’arma del sacrificio. Teneva infatti in mano, avvolta in un mantello color porpora, una robusta scure, che rivelò e porse gentilmente all’amico Eurialo, il quale la afferrò con mano ferma, prima di calarla sulle due bestie, abbattendole.

 

Il cruento atto fu accompagnato da una preghiera ad Atena, mormorata dal Sacerdote e da tutti i fedeli, e doveva simboleggiare la protezione della Dea, invocata a scendere sull’intero suo Tempio, per evitare nuove guerre e pestilenze. Dopo l’abbattimento, i due animali vennero sgozzati con il coltello sacrificale, sempre dalle robuste mani di Eurialo, ma il sangue non cadde a terra, bensì venne raccolto in un recipiente da Nonna Ada e spruzzato sopra l’altare.

 

“Conducete i capi dallo splanchnòptes!” –Esclamò il Sacerdote, rivolgendosi ai Cavalieri d’Argento. –“Che si occupi dello scuoiamento e della macellazione!” – Quindi concluse la sua preghiera, mentre i Cavalieri si allontanavano con le carcasse dei buoi sacrificati. –“Che Atena non chieda altro sangue affinché regni la pace!” –Si augurò Shin, con la voce che gli tremava.

 

Quindi il Sacerdote si abbandonò a un piccolo sermone, pronunciato lentamente, a causa della stanchezza e da un vago senso di nausea, dovuto all’odore di sangue e di carne cruda che era rimasto nell’aria, non avendo quella mattina ingerito niente, per la pessima nottata trascorsa.

 

“Iniziano oggi i concorsi ginnici delle Panatenee, organizzati sul modello dei Giochi Olimpici Ateniesi! Possano essere per voi ciò che sono stati realmente nelle mie intenzioni! Un’occasione per stare insieme, per conoscersi, per gareggiare fianco a fianco, con lealtà e con spirito di sacrificio! Un momento per ritrovare noi stessi e ciò che siamo, tuffandoci nelle dimenticate tradizioni dei nostri avi! Una celebrazione del nostro Santuario, della nostra Dea che questo luogo edificò, e della vita, supremo bene di cui disponiamo!” –Quindi si fermò un attimo, volgendo lo sguardo a destra, mentre un giovane alto e snello lo raggiungeva sul palco, inchinandosi di fronte a lui.

 

Koroibos, eccellente allenatore sportivo, nonché capo della commissione organizzativa dei giochi delle Panatenee, dirigerà la manifestazione! E sarà lui, per volontà mia, e di Atena che io rappresento, ad illustrarvi gli splendidi giochi a cui preparatissimi atleti prenderanno parte tra breve!” –Esclamò il Sacerdote, facendo un passo indietro, mentre Koroibos raggiungeva il centro del palco, tra le grida festose e gli scroscianti applausi della folla.

 

Era costui un giovane alto e snello, con ricciuti capelli castani, un viso sbarazzino, dal carnato chiaro, su cui spiccavano due splendidi occhi verdi. Indossava tipiche vesti greche, con i calzari coturni annodati intorno alle gambe, e una tenia in fronte, il nastro portato dai sacerdoti, dai vincitori e dagli atleti d’eccellenza con significato culturale e festivo.

 

“Popolo del Grande Tempio! Siete tutti invitati a partecipare a questa splendida manifestazione organizzata dal Sommo Sacerdote! Sette saranno le gare in cui i migliori atleti dell’Attica si cimenteranno! E voi, tutti voi, potrete accompagnarli, gareggiando con loro, sfidandoli, mettendo in gioco voi stessi e le vostre capacità!” –Iniziò a parlare Koroibos, cercando di arringare la folla. –“La prima gara sarà la corsa con i carri, quindi seguiranno la corsa, il lancio del giavellotto, il pancrazio, il lancio del disco, il salto in lungo ed infine la celebre lampadedromìa, ovvero la corsa con le torce, che chiuderà, domani notte, questa lunga serie di gare!

 

Vi saranno banchetti in ogni zona del Santuario e spazi destinati alla lirica e alla poesia dove i nostri abili musici, da tutta la Grecia provenienti, delizieranno le nostre orecchia con canti e motivi di gran pregio! Spettacoli di danza e fuochi pirotecnici completeranno il tutto! I premi per i vincitori delle gare saranno meravigliose anfore panatenaiche, ornate con l’effige di Atena, e contenente l’olio degli olivi sacri alla Dea, in numero variabile secondo le discipline e le classi d’età!”

 

Dopo che Koroibos ebbe finito di parlare, la folla esplose in scroscianti applausi ed egli sorrise, soddisfatto di tanta partecipazione. Si voltò indietro, scambiando qualche parola con l’Oracolo di Atena, prima che questi, dichiarandosi stanco, si allontanasse con alcuni sacerdoti del suo seguito, con Nonna Ada e l’altra sacerdotessa arrefora. La folla iniziò a disperdersi, dirigendosi verso i luoghi in cui si sarebbero svolte le gare e verso le cucine ed i banchetti per pasteggiare.

 

Koroibos discese quindi le scalinate degli spalti, tra i sorrisi e le pacche festose del pubblico, che lo amava e lo osannava come uno dei migliori atleti di Grecia, velocissimo nella corsa e preciso come un falco nel lancio del giavellotto. Raggiunse un gruppetto di Cavalieri di Atena intenti a parlare tra loro e domandò se si fossero già iscritti alle gare ginniche.

 

“Certamente!” –Esclamò il robusto Argetti di Eracle. –“Tocca questi muscoli ragazzo! Sono quelli che stenderanno tutti i miei avversari nel pancrazio!” –Ironizzò, mostrando il nerboruto braccio.

 

“Saprete certamente che dovrete gareggiare senza fare uso del cosmo ed è per questo che…” –Esclamò Koroibos, ma Dedalus della Mosca lo interruppe.

 

“Ed è per questo che, in quanto Cavalieri, siamo esclusi dalla corsa, ma ammessi soltanto ai giochi di mera forza fisica!” –Sbuffò, scocciato. –“Che si riducono al pancrazio e alla corsa coi carri!”

 

“Non fare dell’ostruzionismo, Dedalus!” –Lo rimproverò Orione del Cane Maggiore. –“Anch’io avrei voluto gareggiare nella corsa! Ma non sarebbe corretto nei confronti degli altri atleti, uomini semplici e valorosi che si sono duramente allenati, senza disporre dei poteri del cosmo!”

 

“Precisamente, Cavaliere del Cane Maggiore!” –Sorrise Koroibos. –“Voi Cavalieri fareste mangiare loro del fumo!” –Rise, ma la sua battuta non soddisfece l’attesa delusa dei Cavalieri d’Argento. –“Comunque... vi sono anche altre occasioni di gareggiare in questi giorni di festa!”

 

“E quali sarebbero?” –Domandò Dedalus.

 

In quel momento una leggera melodia risuonò nell’aria, un dolcissimo canto d’amore giunse alle orecchie di tutti i presenti. E fece sorridere Koroibos, che ben conosceva l’autore di quel motivo. Il Cavaliere d’Argento più amato dell’intero Santuario di Atena, non solo per le sue indubbie qualità guerriere ma anche per la sua umanità, per la sua vicinanza con la gente comune, di cui sapeva cantare gli umori e i sentimenti, pizzicando con le dita la sua lira argentata, per quanto preferisse cantare motivi d’amore per la sua amata.

 

“Orfeo della Lira Cantore!” –Esclamò Dedalus, quasi disgustato, all’apparizione del giovane.

 

Era costui un ragazzo quasi ventenne, alto e ben fatto, con mossi capelli celesti e brillanti occhi che risaltavano sul suo viso elegante. Indossava un’Armatura d’Argento, dal colore candido come la neve, e stringeva sotto il braccio sinistro una lira. La mano destra era invece nella mano di un’esile fanciulla dai lunghi capelli biondi, alta e snella, con uno sguardo pieno di ammirazione e di amore nei confronti del suo unico e vero amore.

 

“Salute a voi, Cavalieri d’Argento!” –Sorrise loro Orfeo, fermandosi davanti ai quattro uomini. –“E a voi, Maestro Koroibos! Quando inizieranno le gare di canto e di danza?” –Chiese all’allenatore.

 

“Questo pomeriggio, Orfeo! Ma non dirmi che hai intenzione di partecipare, mio caro, o tutti i concorrenti ritireranno la loro iscrizione! Con tu e la tua cetra in gara, non c’è gioco per nessuno!” –Ironizzò Koroibos, avvicinandosi alla coppia.

 

“Non è per la vittoria che bramo di partecipare, Maestro Koroibos! Ma per cantare il mio amore ad Euridice, che nella musica al massimo riesco a riversare!” –Spiegò Orfeo, con voce pacata, sorridendo alla ragazza che si teneva stretta a lui. –“Per lei io canto, e niente più!”

 

“Hai un talento naturale, ragazzo!” –Gli sorrise Koroibos. –“Al suono della tua cetra il mondo pare fermarsi per ascoltarti! Persino gli alberi e gli animali rimangono incantati!”

 

“Ma dubito che sia arma efficace in battaglia!” –Intervenne bruscamente Argetti, sbattendo un piede sul terreno. –“Sono i muscoli e la forza fisica a determinare la vittoria!”

 

“Non esserne certo, Cavaliere di Eracle! Lottare contro un nemico è come gareggiare contro altri avversari in una competizione sportiva! È un’occasione dove dare il massimo per affermare noi stessi e ciò che siamo! La forza fisica è importante, indiscutibilmente, ma non è tutto! Non può essere tutto!” –Spiegò Koroibos, incontrando il sorridente sguardo di Orfeo. –“Vi sono numerose altre doti che entrano in gioco in battaglia! L’agilità, la velocità, la strategia, la tenacia, la determinazione! Tutti elementi che mescolati insieme portano il vero atleta, colui che conosce il suo obiettivo finale e fa di tutto per arrivarvi, alla vittoria! Perché solo un atleta determinato può vincere una gara, come solo un Cavaliere determinato può uscire vincitore da uno scontro in battaglia!” –Esclamò, e le sue parole caddero come una sentenza sui volti attenti dei Cavalieri d’Argento.

 

“Lottare per gli altri, per proteggerli e renderli felici, sentendosi da loro ammirati, è bello, ed è anche nobile!” –Aggiunse, fissando Orfeo negli occhi. –“Ma può rivelarsi fatale, se non si è convinti fino in fondo della causa per cui stiamo lottando! È la motivazione che fa la differenza! Ricordalo!” –Mormorò Koroibos, allontanandosi.

 

Orfeo rimase un attimo colpito dalle parole del maestro e fu il lieve tocco della mano di Euridice a riportarlo alla realtà. Il ragazzo si voltò verso di lei, trovandola sorridente e ansiosa come sempre di vivere con lui quello spicchio di vita mortale che era data loro. Orfeo ricambiò il suo sorriso e si allontanò con lei, dirigendosi verso i prati dei banchetti, sul lato meridionale del Grande Tempio.

 

Argetti, Dedalus e Orione restarono per qualche minuto ad osservare il Cavaliere allontanarsi mano per mano con la sua amata, quasi nauseati da tutto quell’amore, ai loro occhi stucchevole.

 

“Quello non è un Cavaliere, è un damerino!” –Brontolò Argetti, arricciando il naso. –“Cos’è? Ha forse paura di sporcarsi? In un corpo a corpo lo pianterei in terra con un pugno sul capo!”

 

“Ed io gli farei mangiare la mia polvere nella corsa veloce!” –Proseguì Dedalus, con tono provocatorio. –“Ha paura di sudare e di sporcarsi il bellimbusto!” –Ma Orione zittì entrambi.

 

“Non riuscireste neppure ad avvicinarvi ad Orfeo!”

 

“Eeh?! Ma cosa dici, Orione?!” –Sgranarono gli occhi Argetti e Dedalus.

 

“Voi non conoscete il potenziale che quel ragazzo racchiude in sé! Nonostante le sue apparenze eleganti, quasi efebiche, che lo raffigurano più come un damerino intento a declamare poesie in un salotto, Orfeo è un Cavaliere dagli immani poteri, al punto che molti sostengono che potrebbe essere un Cavaliere d’Oro, avendo le capacità per ambire ai Dodici scrigni dorati!”

 

“Un Cavaliere d’Oro?!” –Brontolò Argetti. –“Chiacchiere da mercato, Orione!”

 

“Forse!” –Lo zittì l’amico. –“O verità nascosta che giace sepolta nel nulla! Nascosta nel timido cuore di Orfeo, innamorato più della sua bella Euridice che della sua stessa vita! Quand’egli realizzerà cosa significa per lui essere un Cavaliere di Atena, forse potremo valutare realmente il suo potere! Per adesso riesco soltanto a percepire un potenziale celato dentro di lui! Un cosmo vasto e luminoso, ma al tempo stesso solcato dal dubbio!” –Mormorò Orione, e nient’altro aggiunse.

 

Lasciati i tre Cavalieri d’Argento, Orfeo e Euridice si diressero verso i prati del lato meridionale, dove erano stati sistemati tavoli e banchetti per pranzare all’aria aperta e dove nel pomeriggio si sarebbero svolte gare canore, danze e declamazioni di poesie. Euridice correva nel prato fiorito, inseguendo farfalle, splendida come la prima volta in cui Orfeo l’aveva ammirata. Più bella del sole.

 

“Euridice!” –La chiamò Orfeo, tirandola a sé e baciandola. Incapace di separarsi da lei anche solo per un momento. Tremendamente attratto dai suoi occhi, dal suo cuore, dall’idea stessa di lei.

 

Perché era quello che gli mancava ogni volta in cui Euridice si allontanava. Ogni volta in cui posava il suo sguardo lontano da lui. Eros, Dio Supremo dell’Amore e delle Forze Primordiali, lo aveva trafitto con il suo dardo, scatenando un incantesimo, un potere più grande di qualsiasi cosmo, capace di vincere il tempo e divenire eternità. Un potere chiamato amore.

 

E di questo Orfeo era consapevole. Di quanto grande fosse quel potere, di quanto bene lo facesse sentire, di quanto felice lo rendesse in ogni singolo momento in cui stava con lei, in cui la cingeva tra le braccia, dichiarandogli il suo amore, e cantando per lei, nelle fresche notti d’estate, sulla scogliera sul mare. Soli, mentre tutto il resto rimaneva indietro, tutto il resto rimaneva lontano.

 

Ma Orfeo era un Cavaliere, e dei più potenti, a detta del suo maestro. Un uomo che aveva cercato di risvegliare il potenziale sopito del Cavaliere della Lira, motivando le sue azioni, cercando di indirizzare lo splendore del suo cosmo verso un fine ultimo, non contingente. Un fine a cui Orfeo sembrava continuamente sfuggire.

 

“Cosa ti spaventa così tanto da frenarti in battaglia?” –Gli aveva chiesto una volta Koroibos. –“La morte?”

 

“Non credo di essere fatto per diventare Cavaliere, maestro!” –Aveva risposto Orfeo, malinconicamente. –“Le guerre e le stragi non mi si addicono, né la turbolenta violenza della battaglia! Non datemi del pavido, poiché non esiterei a lanciarmi nel fuoco se vi sapessi in pericolo, o qualcuno a cui molto sono legato, ma neppure dell’eroe, perché non credo sia nella mia natura!”

 

“Gli eroi non esistono, Orfeo!” –Gli aveva sorriso Koroibos. –“Sono soltanto persone che fanno la differenza! E tu, con queste nobili e misurate parole, hai già dimostrato di essere sulla strada buona! La vittoria che brami, la felicità che cerchi, la otterrai anche con la modestia! Ma fa sì che tale modestia non diventi indecisione, non diventi rinuncia! O perderai te stesso e i migliori anni della tua vita a chiederti cosa sia meglio fare per viverla fino in fondo, senza accorgerti di quante occasioni hai mancato!”

 

Le parole di Koroibos risuonavano sempre nella mente di Orfeo, ed egli, talvolta, pensava fossero la sua maledizione, soprattutto da quando aveva conosciuto Euridice, da quando si era innamorato follemente di lei. In quei momenti, quando stava con lei e giacevano insieme sul mare al tramonto, Orfeo non vedeva altro, non sentiva altro se non il richiamo dell’amore. Neppure Atena, neppure la sua missione di Cavaliere della giustizia. Tutto passava in secondo piano, tutto era il secondo piano rispetto all’amore per Euridice. E questo lo spaventava, e in parte lo faceva sentire in colpa.

 

Lo spaventava perché aveva paura di perdere quell’amore che tanta forza e gioia dava al suo animo, per un banale incidente, per un gesto avventato o in una guerra che non avrebbe voluto combattere. E spesso si sentiva oppresso, si sentiva frustrato, incapace di continuare a vivere nel presente, timoroso di non avere un futuro. Timoroso di poter perdere tutto da un momento all’altro.

 

Ma al tempo stesso si sentiva anche colpevole, nei confronti di Atena e dei suoi compagni, e delle genti che doveva proteggere ma di cui spesso si dimenticava. Non per cattiveria o per indolenza, semplicemente perché amava fuggire dal mondo e rifugiarsi nella sua isola felice, dove esisteva soltanto Euridice, il loro amore e nient’altro. Niente guerre, né violenze, né morte. Soltanto amore.

 

Koroibos, maestro mio! Passano gli anni ma voi rimanete sempre il migliore! Rifletté Orfeo, accomodandosi insieme ad Euridice a un banchetto. Per tutti questi anni, anche dopo l’investitura, non avete mai smesso di seguirmi e di darmi utili consigli, sorreggendomi ogni qualvolta le mie gambe non fossero state in grado di farlo! E anche oggi ne avete avuto l’occasione!

 

Perdonatemi se non sono stato l’allievo che avreste voluto! Se non sono così determinato e desideroso di combattere come un Cavaliere dovrebbe essere, senza tutta questa esitazione e questo dubbio che mi attanaglia il cuore! Mormorò, prima che le delicate mani di Euridice gli sfiorassero il viso, facendolo voltare e perdersi nuovamente in lei. Ma l’amo! E non vi è altro al mondo che valga per me altrettanto! Non vi è altro al mondo che mi rechi maggior conforto e felicità!

 

Nel primo pomeriggio, dopo un lauto banchetto, Orfeo ed Euridice camminarono nei prati fioriti attorno al Grande Tempio, fermandosi infine di fronte a una sporgenza rocciosa, un enorme masso che spuntava al sottosuolo in quel lago di fiori. Il luogo del loro primo incontro. Là infatti, pochi anni prima, Orfeo l’aveva ammirata, intenta a cantare sulla roccia, con una corona di fiori in testa. L’aveva ammirata e ne era rimasto abbagliato, come si resta nel guardare il sole senza coprirsi gli occhi. E da quel giorno non era passato momento della sua vita in cui non avesse pensato a lei, all’unico sole capace di scaldargli il cuore.

 

Euridice sedette sulla roccia e Orfeo si accomodò al suo fianco, iniziando a pizzicare le corde della sua arpa, lasciando scivolare dolci note in quel soleggiato pomeriggio d’estate. I fiori iniziarono a danzare, roteando intorno a loro, in un profumato circolo di amore che lentamente si strinse su di loro, mentre le delicate note di Orfeo invadevano l’aria, in un’armoniosa serenata.

 

“Risvegliarsi!” –Mormorò infine Orfeo. –“Mentre le ombre sfumano e il vento dal mare mormora silenzi lontani, mentre l'angoscia va giù e lascia al posto alla serenità, mentre smetto di chiedermi come andrà e perché, e mi limito a farla andare. Mi limito a sorridere, ad assaporare un raggio di sole, un giorno di felicità che il destino mi ha donato. Risvegliarsi, e pensare a te. Sensazione strana, sicuramente, ma piacevole.... tremendamente piacevole.”

 

Sorrise, Orfeo della Lira, ma in fondo al cuore non poté fare a meno di sentire un corvo gracchiare nell’aria. Un suono stridulo, per quanto insignificante potesse essere, capace di rovinare l’armonia cosmica di quel momento. Un grido che gli ricordò il suo dovere di Cavaliere di Atena, destinato a proteggere la Dea e le genti libere dal male. Un urlo di guerra.

 

   
 
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