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Autore: Ely79    07/02/2014    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 29
29

Charlotte aprì gli occhi a fatica. Si sentiva esausta.
Dopo la festa – peraltro affatto entusiasmante e resa angosciosa dagli sguardi taglienti di Goundoulakis – aveva dovuto affrontate uno dei peggiori fine e inizio settimana da quando lavorava alla “Legendary Customs”: Delmar l’aveva insultata di nuovo, due fornitori avevano sbagliato l’invio del materiale, un altro aveva emesso una nota pro forma gonfiando indebitamente l’importo, i ragazzi avevano discusso furiosamente per questioni organizzative e Niklas aveva avuto bisogno del Dottor Hernzt a causa di un improvviso malore. La presenza del medico era tornata utile per suturare il fianco di Clayton, infilzato da una scheggia, e per l’ennesimo occhio nero di Jessie. Inoltre, la donna aveva trascorso la domenica in compagnia di Sandy: frustrata e abbattuta dagli esiti non proprio brillanti del party, dove i potenziali clienti si erano opposti a nuove spese dopo le elargizioni alla raccolta fondi del Governatore, ed impossibilitata a pensare ad altro per l’assenza dei figli, le aveva dato il tormento nella vana speranza di sentirsi coccolare e sostenere almeno in parte. Charlotte però non era riuscita nemmeno a simulare un briciolo d’empatia, col risultato d’irritarla ancor di più.
Voltò la testa sul cuscino, guardando il marchingegno delle dimensioni di una piccola valigia appoggiato alla parete. Un grosso cavo sbucava dal lato destro e serpeggiando sulle assi impolverate andava a tuffarsi nella piastra tonda che occhieggiava dallo scollo della camicia da notte. Uno degli indicatori alla sommità della macchina segnalava che la carica aveva raggiunto il cinquanta percento.
Si mise a sedere spostando il peso prima sul fianco sinistro, sollevandosi con lentezza, la mano premuta sul petto. Attorno, familiari forme scure sembravano darle il buon giorno mentre la bocca rosea di LucyBelle era spalancata in uno sbadiglio grottesco.
Sospirò passando una mano sulla faccia e controllò di nuovo l’indicatore, sperando d’essersi ingannata. Altre volte le era capitato di non riuscire a trasferire completamente l’energia dall’accumulatore al cuore artificiale, ma si era trattato di eventi occasionali. Ora, invece, era la prassi. Non aveva abbastanza tempo per ricaricarlo completamente e quella notte non aveva fatto eccezione.
Può essere pericoloso mantenere un basso livello per lunghi periodi, perché il sistema rallenta e va ad intaccare le riserve di energia del corpo, consumandole rapidamente, le avevano detto dopo l’operazione. Non scenda per troppo tempo sotto il quaranta percento, e soprattutto non vada mai sotto il venticinque, perché in quel caso il blocco è assicurato e non c’è modo di riavviare l’apparato.
Ripensare a quelle parole, anche a distanza di tanti anni, le dava i brividi. Stava rischiando molto, lo sapeva bene, ma confidava come sempre nel fine settimana per ristabilirsi e riequilibrare l’energia nei meccanismi. Il sabato i ragazzi uscivano alle sei, quando capitava che si trattenessero per l’intera giornata, lasciandole l’intera notte ed eventualmente la domenica per assorbire l’intera carica.
«Forza, Charlotte. Oggi è martedì, sei già a buon punto» tentò d’incoraggiarsi, passando le mani fra i capelli arruffati con un sorriso tirato.
Il lemure le balzò in grembo agitando la lunga coda.
«Hai dormito qui anche stanotte, Lucy? Vuoi proprio far arrabbiare Odrin?» le domandò abbattuta.
I giorni passavano e l’Andull manteneva le distanze, al punto tale che Charlotte cominciava a nutrire dubbi riguardo un possibile ripensamento. Non le rivolgeva la parola, neppure per questioni di lavoro, arrivando a servirsi della voce di Patch per trasmettere le richieste; non la guardava mai in faccia né tantomeno si tratteneva per più di pochi istanti nella stanza dove lei entrava.
L’animale squittì, allungando una zampa sul suo viso. I ruvidi polpastrelli tamburellarono lievi sulla fronte, quasi cercasse di consolarla.
Pur non sentendosi troppo rincuorata, Charlotte ricambiò la gentilezza grattandole la testa e lisciando la pelliccia scura, fin quando LucyBelle si allontanò, decidendo d’essere stata ringraziata a sufficienza.
Nuovamente sola con la propria controparte meccanica, sganciò il terminale con attenzione, estraendo la barra dentellata che penetrava per tre pollici nel torace, riponendola con il cavo in uno scomparto del sistema di ricarica. Sfilò la camicia da notte, stiracchiandosi e rabbrividendo appena nella frescura del mattino. Rimase immobile tra le lenzuola ancora tiepide. Sulle assi sconnesse giaceva la piastra curva che simulava la rotondità del seno sinistro. Charlotte la raccolse, rigirandola pensierosa fra le dita. In quegli attimi di silenzio e nudità non riusciva a fare a meno di sentirsi violata, vulnerabile, triste, avvilita. Sbagliata.
«Retch» mormorò fissando la calotta metallica. «E se Odrin avesse ragione?».
Pur rispettando le tradizioni Andull, faticava a credere che una superstizione avesse tanto potere. Lei non era un mostro, un ammasso di putridume capace di distruggere altre vite per diletto, era evidente. Scosse il capo e con uno scatto secco posizionò la protesi. Sapeva di aver fatto la cosa giusta quando aveva accettato di sottoporsi all’intervento e, se fosse tornata indietro, l’avrebbe rifatto mille volte. Era orgogliosa della sua scelta.
Erano le sei meno venti. Entro poco più di un’ora Lomann sarebbe arrivato per far partire le caldaie e lei doveva vestirsi, truccarsi, sistemare tutto e sgattaiolare fuori dalla porticina su Carretera Bruja per rientrare dall’ingresso principale verso le otto. Giusto il tempo di girare attorno all’isolato e fare colazione in una caffetteria.
Si alzò a fatica, reggendosi alle casse che nascondevano il giaciglio. Piccole lame di luce filtravano attraverso i pannelli sconnessi del tetto curvo, dove la polvere mulinava dorata precipitando sul vecchio materasso. Prese degli abiti puliti dalla valigia nascosta fra gli scatoloni e incominciò a vestirsi tenendo d’occhio LucyBelle, che aveva il brutto vizio d’infilarsi in ogni contenitore alla ricerca di cibo, gioco o un posto adatto a un sonnellino.
Nessuno sospettava vivesse lassù, sopra l’ufficio: in quei due anni era stata molto brava nel dissimulare la sua presenza. Persino Boy, che di tanto in tanto saliva a nascondersi all’angolo opposto dell’edificio, lavorando in silenzio a strane composizioni di metallo, aveva mai notato nulla. Charlotte una volta aveva dato un’occhiata alle sue produzioni, senza riuscire a capirne granché. Aveva il sospetto si trattasse di parti di motori per veicoli diversi dalle airship, ma non ne era certa.
Anche se non prenderò mai la patente, un giorno dovrò decidermi a farmi spiegare cosa sono quelle cose, rimuginò.

***

Choncho lo guardò una volta. Una seconda. Una terza. Persino una quarta. Lui restava fermo, lo sguardo lontano dallo scheletro dell’ariship, il labbro inferiore pendulo e sbavante. Era un’immagine disgustosa persino per lui che era di stomaco robusto.
«Beh?» sbottò rifilandogli uno schiaffo sulla nuca.
Pancake grugnì un’imprecazione scuotendosi appena.
«Ti sei addormentato, Bidone? Questo maldetto pianale non si sistema da solo e io sono stufo di pararti quelle chiappone flaccide!» sbraitò indicando l’insieme di tralicci rugginosi ed incurvati che avrebbero dovuto raddrizzare a forza di martellate, martinetti a vapore ad alta pressione.
Non era messo così male da doverlo buttare, ma occorreva una buona dose di pazienza e attenzione per non danneggiare la struttura, cose che non passavano nemmeno per l’anticamera del cervello al suo socio che lo fissava inebetito, sbattendo le palpebre quasi fosse appena sceso dal letto.
«Datti una mossa!» urlò.
«Ho fame» biascicò Pancake, frugando negli abiti alla ricerca di qualche fortunoso avanzo.
Choncho gli afferrò i polsi, strattonandoli fuori dalle tasche.
«Non me ne frega niente. Finiscila e muovi quel culone: sei l’unico che si sta grattando le palle qui dentro!» latrò indicando i martinetti ancora da posizionare.
«Ho fame» insisté piagnucolando.
Il collega fece orecchie da mercante e riprese a controllare l’inclinazione della barra su cui stava lavorando da un’ora.
«Ho fame» gracchiò ancora Pancake dondolandosi pericolosamente sui talloni.
Esasperato, Wilmar addentò il manico del martello per soffocare l’eruzione di imprecazioni che gli premeva in gola.
«Sai che ti dico? Chi se ne frega! Fai quel cazzo che ti pare. Vai! Vai a mangiare, magari ti pulisci la faccia da quello schifo! Sembra che ti sei leccato una latta di muffa! Stupido Bidone…» e riprese a controllare la brutta piega impressa da un urto nella parte posteriore destra del pianale, cercando di capire dove calare i colpi per rimettere in asse almeno l’aletta superiore del traliccio.
«Certo, a che te ne può fregare, immigrato di merda? A te lo Stato passa tutto quello che ti serve, mica te lo devi sudare come me!»
Choncho trasecolò. Il martello cadde a terra con un fragore inusuale mentre si voltava a guardare Pancake. Non riusciva a credere alle sue orecchie. Si conoscevano da anni e mai gli aveva sentito pronunciare assurdità del genere sul suo conto, né su altri della “Legendary”.
«Cos’hai detto?»
«Mi hai sentito, stronzo. Torna al tuo cazzo di paese, tu e quella puttana di tua madre» scandì, torreggiando su di lui con la sua flaccida mole.
Lo sbaffo di polvere verdastra sul suo mento gli dava un’aria di insana soddisfazione che Wilmar proprio non riuscì a mandar giù. Finché avesse insultato lui era un conto, ma che mettesse di mezzo sua madre, con la quale aveva condiviso ore a guardare quella scemenza di telenovela abbuffandosi dei suoi manicaretti, arrivando a definirla una poco di buono, era l’affronto peggiore che potesse fargli.
«Te voy a matar, bastardo!» urlò balzandogli al collo con insospettabile agilità.
Sentendoli urlare, Iron si precipitò a dividerli; i due però si dimenavano con tanta foga che era quasi impossibile agguantarli.
«Lascialo! Lascialo, Willie! Lascialo!» gridò quando riuscì ad afferrargli la cinta, ma il carrozziere era avvinghiato a suo fratello con tanta forza che pareva avesse l’intenzione di mozzargli la testa con le proprie mani.
Odrin e Jack li raggiunsero di corsa, interrompendo i lavori sulla Almond e per diversi minuti nell’officina si spensero i normali rumori del lavoro. Volarono calci, pugni, schiaffi e ginocchiate, spesso alla cieca e verso chi era intervenuto. Cassette dei attrezzi finirono rovesciate a terra e il pianale vibrò pericolosamente sugli appoggi quando Clay, allertato dal fracasso, piombò su di loro a sedare la rissa.

***

Niklas levò gli occhi azzurri oltre il bordo di ceramica, fino a raggiungere il soffitto. All’altro capo della scrivania, Avelan tamburellava assorto con le dita sulle labbra.
«Possiamo risparmiarci questo ridicolo siparietto? Mi sta venendo a noia» si lamentò posando la quarta tazza di tisana della giornata.
«Eppure, Ingegnere, converrà con me che la sua metamorfosi è davvero notevole! Insomma, conoscevo un uomo dedito al vizio e al turpiloquio, che spesso non si reggeva neppure in piedi, sragionava, vestiva in maniera trasandata per non dire indecente e…»
«Grazie per il tenero ritratto. Per cosa sei venuto? Casomai ti fosse sfuggito, qui abbiamo da parecchio da fare per merito tuo» lo interruppe prima di mandar giù un’altra sorsata.
In quei momenti rimpiangeva l’astinenza dall’alcol: era la sola cosa che gli avrebbe permesso di considerarlo sopportabile. Quello o Charlotte seduta sulle sue ginocchia. Ma dato che la seconda opzione non era ancora praticabile, avrebbe pagato oro per un bicchiere di whiskey, gin o tequila, persino per un paio di quelle orrende birrette annacquate che aveva tracannato nelle peggiori bettole della città; qualunque cosa pur di stordirsi a sufficienza e sopportate le trovate assurde di quel chiacchierone. Era persino dispiaciuto di non aver preso parte alla zuffa di qualche ora prima.
«Sono qui da voi, anzi, da lei giacché il nostro Clayton è impegnato, perché ho bisogno di un’idea».
L’Ingegnere aggrottò la fronte, spostando l’attenzione sul tirapiedi che ingombrava la porta, augurandosi che Charlotte passasse in quel preciso istante sul ballatoio: sarebbe stata una buona scusa per allontanarsi o, almeno, avrebbe potuto supplicarla di prendere parte all’incontro.
«Sto cercando qualcosa di grandioso, munifico, lussuoso, mirabolante, strepitoso… che renda ogni opera per la realizzazione del museo – dalla prima palata di terra degli scavi all’ultimo strofinaccio passato sulle vetrate – una calamita per gli occhi e la mente della gente, e che questa rimanga allibita, senza parole!»
«Rischio che tu non corri. I vocabolari da mangiare glieli procuri tu o li scova da solo?» domandò Almgren a Thomas.
L’assistente sembrò vacillare, pareva fosse tentato di ribattere. Nonostante si presentasse come un monolito nero e taciturno, molti avevano l’impressione morisse dalla voglia di vuotare il sacco riguardo le ore trascorse ad ascoltare le verbose tiritere del capo.
«Ostap, vorrei ricordarti che non ho voce in capitolo. Se ti serve qualche dritta su ciò che fa la “Legendary Customs”, dovrai aspettare Clay e trattarlo coi guanti. È piuttosto… su di giri. Altrimenti se si tratta di pubbliche relazioni o conti, sai già a chi rivolgerti. Io mi occupo solo di stabilire le linee guida per sistemare le vecchie glorie che ci stai rifilando» rimbrottò.
Detto ciò, riprese a tracciare linee e formule sullo schizzo della Steeler VN arrivata quel mattino.
«Se me lo concede, è piuttosto seccante. Ho bisogno di un interlocutore fisso con cui poter discutere ciò che riguarda i miei piani!» piagnucolò battendo i pugni sui braccioli della poltroncina.
Quando si agitava a quel modo somigliava in tutto e per tutto ad un bambino capriccioso. Purtroppo però aveva ragione e Nikals ne era consapevole.
«Non posso farci niente, te l’ho detto. Non sono io il capo» aggiunse a denti stretti.
«Una volta lo era» ribatté untuoso, fingendo d’interessarsi agli anelli che portava sulle dita.
A quell’insinuazione le labbra del progettista si tesero in una smorfia rabbiosa, subito ricacciata indietro.
Dall’altro lato della scrivania, Avelan si compiacque della reazione: sapeva di aver toccato un nervo scoperto e insistette.
«Sarebbe utile poter contare su una figura di riferimento cui rivolgersi in ogni situazione, senza dover attendere il termine di lavorazioni impegnative o di momenti burrascosi. Si eviterebbero inutili perdite di tempo che, come lei ben sa, si traducono quasi esclusivamente in perdite economiche».
Sarebbe stato sciocco negare l’evidenza e Niklas lo sapeva bene: i vecchi debiti della società si erano accumulati proprio per il suo vizio di procrastinare perché sempre oberato di lavoro e bicchieri da vuotare.
Ciò che rifiutava di mandare giù era l’intromissione nei suoi progetti.
Scrutò il cliente a braccia conserte, deciso a mettere il punto alla questione una volta per tutte.
«Se hai parlato con Clay di quella sua idea cretina, sappi che la risposta è la stessa: no. Non rientrerò come socio di minoranza».

***

Lo sentiva. Lo sentiva eccome ma fingeva d’essersi appisolato come sempre. Non voleva essere trascinato nell’ennesima bega, gli erano bastati il caos di quella mattina, la gomitata nelle costole e la strigliata che avevano ricevuto da Clay e Charlotte a pranzo. Era un po’ che la segretaria non arrivava ad imporre ammende e quel giorno era stata di ben cinque trias a testa. Clay, tutt’altro che soddisfatto dalla temporanea tregua, aveva inasprito la punizione rifilando al quartetto un paio d’ore di pulizie, augurandosi che un po’ d’olio di gomito raffreddasse quelle teste calde.
Giacomo voleva solo starsene steso sul pianale dell’Almond in santa pace mentre nella sua testa cavi, corde di richiamo, valvole, condotti, snodi e pulsantiere si scomponevano e ricomponevano secondo un ordine rigoroso.
«Jack!» strillò di nuovo la voce, questa volta accompagnata dal battere furioso di qualcosa contro la fiancata del mezzo.
Rassegnato, sgusciò tra la pedaliera e il piantone delle cloche.
«’caputtanevarojammiseria!» sbadigliò emergendo dal nascondiglio con la coppola calata sugli occhi. «Ma che vuoi, Patch?»
«Ti cercano» bofonchiò.
Allungò il collo oltre la spalla dell’amico, strizzando gli occhi nella luce abbagliante del pomeriggio.
«Dì un po’, da quando te la fai con le signorine di Mac Gregor?» ridacchiò il collega mentre la chiazza scura sul portone prendeva contorni più definiti.
Nonostante gli abiti meno appariscenti del solito, era impossibile non riconoscere Vivian, se non altro la voluminosa aureola di riccioli che le contornava il viso scuro.
Accanto a lei, trepidante come un bambino a Natale, la sagoma piccola e storta del nonno con indosso il vestito della festa che gli cadeva dalle spalle.
«Ave Pater Gloriae» mormorò Jack, usando quel modo di dire tipico della nonna quando il consorte le faceva cascare le braccia con qualcuna delle sue uscite.
Non appena li raggiunse, Vivian si affettò a chiarire come stavano le cose:
«Non prendertela. Avrei dovuto dire di no, ma la nonna stava impazzendo e la zia non era da meno. Ho dovuto portarlo o avrebbe dato il tormento anche a Linda».
«Immagino. Quando l’cumencia, al ta strèpa vià la pél di oss1» rispose controllando che Clay non fosse nei paraggi.
Proprio non gli andava un’altra ramanzina.
«Ta pödet dì giuro2» sbuffò la donna. «Ho dovuto accontentarlo. E dire che è il mio giorno libero… speravo di evitare i marmocchi capricciosi» soggiunse, presagendo i resoconti che avrebbe avuto su Adam.
«Almeno hai avuto un bel tempismo. Hito l’ha appena…»
«’nduela? Ta l’è casàda n’doe?3» brontolò irritato il vecchio facendosi avanti per minacciarlo col pugno ossuto. «Quando la ria a cà to mama ti senteret a sura po’ de le. Purtam via la me escìpp! Ma dise, Francesco! Ta ghét cusé n’del co? Se ghera mia chesta bela zùena che la sera n’doe ta seret e che la m’ha purtàt che de cursa, chisà cusa ta areset cumbinàt! J’è mia i tò laùr!4»
I due cugini tacquero addolorati. Lo aveva di nuovo scambiato per suo figlio e non aveva riconosciuto Vivian, non ricordava fosse sua nipote.
«Calmes, rebiùs. Go fai dà ‘na netada, che l’era töta ùcia. Adèss la par nöa5» protestò bonariamente Jack, facendo segno ad entrambi di seguirlo.
Le scarpe di Vivian ticchettarono sul pavimento, attirando gli sguardi furtivi di Boy e Ozone.
Hito stava lucidando con cura maniacale la carrozzeria della 7.201 usando una pelle di agnello nuova. La cera appena stesa faceva scintillare la vernice verde-azzurra e le cromature delle bandelle laterali, rimesse a nuovo. Il numero sette dipinto sul muso era di una bellezza oleosa, talmente vivido che ci si sarebbe aspettati di sentirlo palpitare sotto le dita.
Giuseppe girò attorno all’aeromobile sgranando gli occhi miopi e sorridendo a ricordi che solo lui poteva rivivere nelle vecchie carni essiccate dalla velocità. Con l’aiuto di Hito e Boy, Giacomo lo issò al posto di guida. L’anziano pilota si sistemò sul sedile emettendo un sospiro commosso, le mani tremanti e le lacrime che solcavano le guance cadenti. Strinse le cloche con attenzione, quasi si rendesse conto del tempo trascorso dall’ultima volta che le aveva tenute così. Tutto d’un tratto gli anni e la malattia parvero abbandonarlo e la piccola folla radunatasi attorno vide il campione di quarant’anni prima, pronto allo scatto.
«Se qualcuno si sta picchiando di nuovo si prepari a non vedere lo stipendio!» ruggì qualcuno.
I presenti trasalirono, a dispetto della loro innocenza, e Vivian fu la sola a sorridere maliarda alla corpulenta figura che sopraggiungeva dal portone sul retro caricata di alcune grosse forme sporche di terra e sabbia.
«Tranquillo capo, è mio nonno che sta provando la sua airship» spiegò Jack indicando la testa quasi calva che emergeva a stento dall’abitacolo. «Lei è Vivian, te la ricordi?»
Clay la salutò appena per rivolgere gli onori del caso al campione.
«Signor Balzaretti, è un onore averla qui» disse avvicinandosi e tendendo una mano.
Giuseppe rispose con un cenno sbrigativo, più per congedare lo scocciatore che per salutarlo, e cominciò a provare ogni singolo interruttore, ascoltandone il suono e saggiandone la rigidità, mormorando la lista dei check.
«Capo, lascia stare. Lui… non c’è tanto con la testa» spiegò Jack, a disagio nel dare spiegazioni ben sapendo che Clay era al corrente di ogni cosa.
«Se lo vedesse la nonna gli urlerebbe di scendere» mormorò emozionata Vivian.
«Tuo nonno sembra pronto per scendere in pista» commentò distrattamente Hito. «La sua forza interiore è rimasta inalterata come il filo di una lama riposta nel giusto fodero».
«Signori, il dilemma è risolto!» esclamò giulivo Avelan, facendo sobbalzare tutti quanti comparendo dal nulla. «Guardatelo! Guardatelo! Italico Balzaretti alle cloche della sua celebre 7.201!» strillò indicando l’anziano con entrambe le mani, quasi che nessuno avesse notato la sua presenza.
L’osservazione era talmente ovvia e sconcertante allo stesso tempo che i presenti si ritrovarono a fissare inebetiti l’ometto, il quale, dal canto suo, insisteva ad ignorarli beatamente, preso dai controlli.
«È deciso! Thomas! Provvedi immediatamente a contattare il nostro ufficio stampa, entro domani voglio la prima pagina dei maggiori quotidiani delle Colonie, nessuno escluso! E se fanno storie, sai come convincerli».
«Avrà finito la carta in bagno?» ridacchiò sottovoce Patch e Odrin fece un’immensa fatica per non ridere.
«Che ti sei messo in testa?»
Ostap ruotò su se stesso con le braccia spalancate e guardò il ballatoio dov’era affacciato Niklas che, con il mento tra le mani, attendeva una risposta.
«Cosa mi sono messo in testa? Che cosa?» replicò sempre più gioioso.
La sua voce riecheggiava tra le mura della “Legendary”, assumendo una sfumatura quasi eroica. Si arrampicò a fatica su uno dei carrelli, ergendosi in posa da arringatore sopra carrozzerie e arnesi luridi.
«Noi! Noi daremo vita al più grande spettacolo mai realizzato prima d’ora per la posa della prima pietra di un museo!» dichiarò.
I secondi che seguirono furono percorsi da occhiate perplesse e sorprese.
Clay era talmente confuso da dimenticare quanto era ancora nervoso per la rissa di quella mattina.
«Capo, scusa… ha detto… “noi”?» domandò Choncho grattandosi la bandana.


1 Quando l’cumencia, al ta strèpa vià la pél di oss: in dialetto bergamasco “Quando comincia, ti strappa via la pelle dalle ossa”.
2 Ta pödet dì giuro: in dialetto bergamasco “Puoi giurarci”.
3 ’nduela? Ta l’è casàda n’doe?: in dialetto bergamasco “Dov’è? Dove l’hai messa?”
4 Quando la ria a cà to mama ti senteret a sura po’ de le. Purtam via la me escìpp! Ma dise, Francesco! Ta ghét cusé n’del co? Se ghera mia chesta bela zùena che la sera n’doe ta seret e che la m’ha purtàt che de cursa, chisà cusa ta areset cumbinàt! J’è mia i tò laùr!: in dialetto bergamasco “Quando arriva a casa tua madre le sentirai anche da lei. Portare via la mia airship! Ma dico, Francesco! Che cos’hai in testa? Se non c’era questa bella giovane che sapeva dov’eri e che mi ha portato qui di corsa, chissà cosa avresti combinato! Non sono cose tue!”
5 Calmes, rebiùs. Go fai dà ‘na netada, che l’era töta ùcia. Adèss la par nöa: in dialetto bergamasco “Calmati, rabbioso. Gli ho fatto dare una pulita, che era tutta sporca. Adesso sembra nuova”.


Writer's Corner
Ringrazio tutti per la pazienza. Non è facile rimettersi in sesto con le pubblicazioni, ma sto cercando di darmi da fare per recuperare il tempo perso e la cadenza settimanale.
Nel frattempo ringrazio: Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John SpanglerAurelianus, windshade, a cui si sono aggiunti MorphineJ, Niki12 e Nana Punk.
Ovviamente ribadisco a tutti l'invito a darmi i vostri pareri sulla storia!

   
 
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