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Autore: Laylath    08/02/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 21. Sfumature dell'amore.

 

Il giorno successivo era domenica: un vero toccasana per tutti i ragazzi che, certamente, dopo la festa nel capannone, avevano ben poca voglia di riprendere le lezioni. Quel giorno di riposo sarebbe stato veramente gradito per smaltire i postumi della serata e riordinare le idee per i pettegolezzi che inevitabilmente si sarebbero fatti a scuola.
“Vato, svegliati – qualcosa di umido gli venne passato sulla tempia – tesoro, sono le dieci passate.”
“Mh?” mormorò il ragazzo aprendo gli occhi.
“Buongiorno dormiglione – sorrise Rosie, passandogli ancora la spugnetta tiepida, questa volta sulle palpebre assonnate – hai dormito bene.”
“Direi di sì – rispose al sorriso Vato, mettendosi a sedere nel letto – oh… sono ancora vestito.”
“Ieri come siamo tornati a casa, io e papà ti abbiamo trovato beatamente addormentato sul divano. Non ti abbiamo voluto svegliare e così ti abbiamo portato in camera e ti abbiamo messo a letto.”
Vato annuì, mentre i ricordi tornavano freschi nella sua mente: quando avevano capito che la festa stava terminando aveva riaccompagnato Elisa a casa, tenendola stretta a se. Poi era così inebriato e felice che come era rientrato nel salotto si era buttato nel divano ridendo e probabilmente si era addormentato senza nemmeno rendersene conto.
“E allora? – gli chiese la madre, con un sorriso malizioso che questa volta non diede nessun fastidio al ragazzo – Che è questo sorriso felice, mh?”
Per tutta risposta si trovò stretta nell’abbraccio entusiasta del ragazzo che iniziò a ridere di gioia, scoprendo che quella mattinata era la più bella della sua vita.
“Senti un po’, giovane innamorato, in salotto c’è Roy che ti aspetta. E’ venuto poco fa dicendo che voleva parlare con te: adesso fila a lavarti e cambiarti così io ti preparo la colazione.”
“Roy? E’ venuto qui?” si sorprese lui, staccandosi dalla madre.
“Sì, caro. Dai, alzati che metto ad arieggiare la stanza.”
La presenza dell’amico spinse Vato a prepararsi nella maniera più rapida che poteva tanto che quando entrò in salotto stava ancora finendo di infilarsi il maglione pulito. Non ce l’aveva con lui, in quel particolare giorno non poteva avercela con nessuno: forse, se non fosse stato per la gelosia che il gesto dell’amico aveva scatenato in lui, non si sarebbe concluso niente con Elisa. Sotto un certo punto di vista, Vato avrebbe dovuto ringraziarlo.
In ogni caso non poteva certo definirsi arrabbiato.
Roy si alzò dal divano e lo squadrò con aria interrogativa.
“Ciao.” lo salutò.
“Ciao, Roy.”
“Senti, – iniziò il moro con una lieve esitazione – volevo chiarire riguardo ieri. Non è stato molto bello quello che ho fatto e…”
“Elisa è la mia ragazza.” lo bloccò il più grande
“Lo so e credimi non ti forzerò più a fare il primo pas… aspetta, che hai detto?” sgranò gli occhi Roy.
“Elisa è la mia ragazza!” ripeté Vato arrossendo, mentre il sorriso felice ricompariva nel suo volto.
“Ieri sera?”
“Sì!”
I due stettero in silenzio per qualche secondo e poi scoppiarono a ridere con Roy che si accostò all’amico per dargli delle pacche sulle spalle. Si sentiva così felice e sollevato per questo grande traguardo di Vato: temeva che quanto era successo il giorno prima avesse in qualche modo rovinato le cose ed invece aveva inaspettatamente dato la spinta propulsiva nella direzione giusta.
A prescindere da quello che gli aveva detto Riza, agire a modo suo non si era rivelato sbagliato.
 
“Tu sei un fratellone cattivo!” esclamò per la centesima volta Janet.
“E smettila! – sbuffò Jean, mettendo una mano sulla testa della sorellina e tenendola lontana mentre lei cercava di dargli dei colpi – Oggi sei più noiosa del solito.”
“Non mi hai svegliato per i fuochi d’artificio! Me l’avevi promesso.”
“Avevo ben altro da fare che pensare a te! Senza contare che non ti saresti svegliata in ogni caso.”
“Jean – chiamò la voce del padre – vieni a darmi una mano in magazzino.”
“Arrivo, papà! – rispose lui, afferrando la sorella e portandola in cucina dalla madre – Mamma, tienila buona, io sto andando da papà. E tu finiscila di tenere il broncio, stupida!”
“Cattivo!”
“Irritante bambina, le femmine sono una peggio dell’altra! – dichiarò, mentre entrava nel magazzino e si accostava al padre – Starà tutto il giorno a lamentarsi, lo so.”
James scoppiò a ridere e gli diede una pacca sulla spalla.
“Ah, Janet è proprio come sua madre: anche lei teneva il broncio per giorni interi se qualcosa non le andava bene… e ringrazia che si tratta di tua sorella e non della tua fidanzata.”
“Non vedo che grande convenienza ci sia nel doverla sopportare da quando è nata.”
“E lei sopporta te: è reciproca la cosa, mio caro.”
“Io non sono irritante come lei!” protestò Jean, profondamente offeso dal paragone.
“Irritante? No, ti definirei piuttosto scalmanato ed impegnativo da gestire e Janet sebbene in modo diverso è proprio come te, solo che aggiunge una bella dose di caratterino materno. Aspetta che diventi adolescente e rimpiangerai questi capricci infantili.”
“Di bene in meglio… le adolescenti sono la razza peggiore.”
“Ci vogliamo riferire a qualcuna in particolare?” chiese con malizia James.
Jean non rispose direttamente alla domanda, ma non cercò di evitare l’argomento:
“Papà, perché la gente crede che se uno balla con una ragazza allora è per forza fidanzato con lei?”
“Ti riferisci alla signorina che ieri ti ha imprigionato?”
“Esattamente: domani a scuola sarà un vero disastro. Tutti diranno che siamo fidanzati, ma non è vero! Io quella proprio non la sopporto.”
“Mi dispiace per te, ragazzo mio, ma quella brunetta è nell’età in cui se ha deciso qualcosa la ottiene.”
“Che? Ma io mica la voglio sposare!” inorridì Jean, immaginandosi già scenari catastrofici di lui trascinato a forza all’altare.
“Rilassati, Jean – lo prese in giro il padre, mentre gli passava alcune cassette di conserve – hai quattordici anni: non farti venire pensieri assurdi.”
“Secondo me l’amore è qualcosa di complicato.” dichiarò il ragazzo dopo qualche minuto di silenzio.
James annuì e si sedette su una panca, facendogli cenno di raggiungerlo: sapeva che quando il figlio assumeva quel tono serio voleva dire che era profondamente perplesso. Sicuramente nell’arco di uno o due anni avrebbe visto le cose in maniera totalmente diversa, ma per ora i suoi primi approcci con il mondo femminile non l’avevano lasciato molto entusiasta.
“L’amore o le ragazze?”
“Entrambi, ma penso siano collegati tra di loro, no?”
“Probabilmente.”
“Con Riza non ho problemi – confessò Jean, fissando il soffitto – prima litigavamo, certo, ma poi siamo diventati amici e ora sto bene con lei. Mi piace come persona, ma anche se è una femmina sento che con lei mi posso confidare come farei con Heymans, certo, a livelli differenti. E’ un misto tra lui e Janet…”
“Questa è un’amicizia molto bella – annuì il padre compiaciuto – e dunque non ti crea nessun turbamento. Ed invece quell’altra?”
“Quella è la sua migliore amica, Rebecca. Un’arpia, prepotente ed irritante! A scuola, da quando l’ho incontrata, non perdiamo occasione per litigare…”
“Ma…?”
“Ma poi alla festa di ieri, invece di comportarsi come al solito, mi intrappola e comincia a chiamarmi tesoro o altre idiozie simili. Perché?”
Gli occhi azzurri di Jean si fissarono sul padre con profonda e desolata curiosità: era chiaro che questo cambio d’atteggiamento così repentino ed immotivato l’aveva colto impreparato.
“Beh, vedi figliolo… credo che tu le piaccia. Solo che alla sua età c’è modo e modo di dimostrarlo: litiga per attirare la tua attenzione e poi si lascia andare a quei gesti.”
“E che devo fare con lei?”
“Ti piace?”
“Ma che ne so! No… non credo. Cioè litigare con lei mi piace, ma in quell’altro modo no.”
“E’ solo che non sei abituato a simili situazioni.”
“Come mi devo comportare domani? Non so nemmeno se vorrà litigare o fare la smorfiosa…”
“Ah, figliolo, – sospirò James, arruffandogli i capelli – benvenuto nel mondo dell’amore. Però stai tranquillo: siete ancora molto giovani e non hai nessun obbligo nei suoi confronti, spero che questo ti sia chiaro.”
“E come si dice di no ad una ragazza senza farla soffrire? Se domani continua in quel modo vorrei dirle chiaro e tondo che non voglio avere a che fare con lei in quel senso… ma mi dispiace.”
“Non è proprio come litigare, vero?”
“Qualche giorno fa una mia compagna di classe è stata rifiutata da uno di terza e si è messa a piangere. Io non voglio far piangere quella ragazza, non nel modo in cui ha pianto Sara. Senza contare che ora tutte le altre della mia classe odiano quell’altro ragazzo.”
“Solidarietà femminile.” dichiarò James con l’aria di chi la sa lunga.
“Mi sono sembrate un branco di arpie pronte a scannare la preda.” confessò il ragazzo con un brivido lungo la schiena.
“Mh…”
“E se faccio piangere Rebecca… Riza è la sua migliore amica.”
“Paura che si comporti da arpia?”
“No, con Riza no – sospirò Jean – ma ho paura che ci resti male anche lei e lo consideri un tradimento della nostra amicizia.”
“Prima hai detto che quella ragazza ti è sembrata una brava persona, vero?”
“Sì, su questo ne sono sicuro.”
“Allora stai tranquillo che saprà separare le cose.”
“Speriamo. Stupida Rebecca! Ma guarda quanti problemi mi sta creando! E probabilmente in questo momento starà gongolando con estrema soddisfazione…” bofonchiò il ragazzo.
 
“Rebecca?” esclamò sorpresa Riza quando, uscendo dal cortile di casa, si trovò davanti l’amica.
“Ce ne hai impiegato di tempo per uscire! E’ un’ora che aspetto!”
“Un’ora? Mica sapevo che eri qui fuori. Potevi anche bussare, no?”
“Con tuo padre in casa? – scosse il capo la mora con aria infastidita – E se apriva lui?”
“Avrei aperto io… tienilo a mente la prossima volta. Ma che hai?”
Rebecca la fissò e perse tutta la sua espressione contrariata. Il viso affilato si intristì e dei lucciconi apparirono negli occhi scuri. Nell’arco di un secondo si aggrappò disperatamente all’amica.
“Riza! Ma che cosa ho fatto!? Perché non mi hai fermata ieri sera?”
“Che?” balbettò la bionda, irrigidendosi in quella stretta e capendo in parte cosa aveva dovuto sopportare Jean durante il ballo.
“Non capisci? – esclamò lei con disperazione – Domani sarà furente e non vorrà più saperne di me! Non ho chiuso occhio stanotte!”
“Ma come? Hai detto che l’avresti convinto a ballare e ce l’hai fatta…”
“Mi odia, ne sono sicura…”
“Oh no, dai non piangere così. Sono sicura che Jean, anche se magari sarà un po’ arrabbiato, non ti odia.”
“Sono stata una stupida… anche quando l’ho chiamato tesoro lui ha continuato a protestare.”
“…Becca…”
“Stai andando da qualche parte?” chiese la moretta, staccandosi dall’amica.
“A casa di Kain: ci siamo dati appuntamento per la merenda questo pomeriggio.”
“Capito… torno a casa e mi chiudo in camera. Se mamma mi vede piangere inizierà a stressare.”
“Finiscila – sospirò Riza, prendendole la mano – avanti, vieni pure tu. La mamma di Kain è una persona buona e paziente e sicuramente non si arrabbierà se porto anche te.”
“Grazie!” singhiozzò lei, aggrappandosi alla manica del cappotto.
Per tutto il tragitto cercò di consolare l’amica in modo che non si presentasse in maniera troppo disastrata a casa di Kain. Forse il suo piccolo amico si sarebbe sentito un po’ in imbarazzo dal vedere questo nuovo “incomodo” che conosceva a malapena, ma Rebecca era la sua prima e più grande amica, l’unica che l’avesse accettata senza problemi quando aveva iniziato a frequentare la scuola. In genere era una ragazza estremamente indipendente e vivace, poco restia a scene di questo tipo, ma quando succedeva Riza capiva che aveva estremamente bisogno di lei e dunque non la poteva lasciare. E considerato che la motivazione di questa tristezza era da ricercarsi nell’amore e nei ragazzi, forse era il caso di interpellare una persona adulta. Ovviamente la madre di Rebecca era da escludere… Riza l’aveva conosciuta e la riteneva troppo pettegola e per la tipologia di rapporto che aveva instaurato con la figlia era più per chiacchierare piuttosto che per capire le tempistiche di determinati problemi. Anche perché la ragazza era tutt’altro che disposta a mostrare simili debolezze nell’ambito familiare.
Così, quando Kain aprì la porta con entusiasmo, rimase sorpreso nel trovare due ospiti invece che una.
“Ciao Kain, ti ricordi di Rebecca?” disse Riza con lieve imbarazzo.
“Sì, ciao Rebecca…” salutò lui, ricordandosi perfettamente di colei che aveva tenuto imprigionato Jean per tutta la serata di ieri. Però sembrava così diversa rispetto alla festa: era tutta rannicchiata nel proprio cappotto e aveva le guance rigate di lacrime.
“Ciao… scusa… scusa se ci sono anche io…”
“Oh, ma piange! – esclamò il bambino facendole entrare – Si è fatta male?”
“Non proprio…” sospirò Riza.
“Ma che ha? Dai, passami i vostri cappotti, li appendo.”
“Grazie; era triste per una cosa e non mi andava di lasciarla sola.”
“Sei triste? Mi dispiace… eppure sembravi così felice ieri con Jean e…”
“No! Non dire quel nom…”
Troppo tardi: Rebecca scoppiò di nuovo a piangere e abbracciò il bambino con disperazione. Riza non aveva fatto in tempo ad avvisarlo che il nome del primogenito degli Havoc provocava una simile reazione.
“Ciao Riza – salutò Ellie, comparendo dalla cucina col vassoio della merenda – ti aspettavamo…uh?”
“Mamma!” chiamò Kain, impanicato in quell’abbraccio, non sapendo come consolarla.
“Mi scusi tanto…” disse la bionda rispondendo all’occhiata interrogativa di Ellie.
“Le fa male il nome Jean.” spiegò il bambino.
 
Mentre Ellie veniva messa al corrente del motivo per cui il nome di Jean suscitasse simili reazioni in Rebecca, il migliore amico del biondo usciva dalla sua camera e scendeva discretamente al piano di sotto.
La sera prima Gregor ci era andato giù pesante al locale della zia di Roy e non si era alzato nemmeno per pranzo e, probabilmente, sarebbe stato un bel risultato se per cena si sarebbe palesato. Ma questa volta Heymans stava facendo discretamente soprattutto per un altro motivo: voleva evitare il più possibile qualsiasi contatto con la madre.
I discorsi che aveva sentito la sera prima l’avevano fatto entrare in una fase di profonda confusione e si era accorto di non saper reggere la facciata di spensieratezza davanti alla donna. Già a colazione era stata difficile e durante il pranzo era stata la presenza di Henry a salvarlo da un profondo ed imbarazzato mutismo. Da una parte c’erano decine e decine di domande che voleva porre alla donna, in primis quella del suo nome, ma dall’altra aveva una tremenda paura di scoprire la verità sulla sua nascita. Senza contare che avrebbe fatto riaprire a sua madre vecchie ferite che facevano ancora male: ieri quando aveva parlato con il padre di Kain ad un certo punto aveva anche pianto… con che coraggio poteva farle domande che l’avrebbero fatta soffrire?
Mamma, scusa, lo so che forse la cosa migliore sarebbe parlare… ma adesso proprio non ce la posso fare.
Fu questo il suo pensiero mentre usciva da casa.
Laura ed Andrew si erano ripromessi di affrontare l’argomento con lui, ma la verità era che Heymans non si sentiva ancora pronto ad una cosa simile. O meglio, non lo era più ora che aveva scoperto che le cose erano profondamente diverse dalla realtà che, per quanto sgradita, era abituato a conoscere.
Tuttavia la sua naturale curiosità lo stava spingendo a cercare delle piccole risposte per conto proprio. In particolare voleva sapere di più dello zio di cui aveva appena scoperto l’esistenza. Ci aveva riflettuto quella notte ed era arrivato alla conclusione che, se si era preoccupato così per sua madre, allora di certo non era andato via dal paese… dunque era morto. Così, il ragazzo dalla chioma fulva si recò al cimitero che si trovava poco fuori il centro abitato: un piccolo recinto di legno delimitava una collinetta dove sorgevano in ordine sparso diverse lapidi. Non aveva paura, i cimiteri di campagna sono così tranquilli e placidi che ispirano pace e tranquillità… curiosi prati dove spuntano le lapidi invece che i fiori.
Non essendo una realtà molto grande i controlli potevano esser fatti con relativa rapidità: per esempio la parte più lontana ospitava tombe più vecchie e dunque non interessavano il ragazzo. La zona della sua indagine quindi si ridusse al resto del cimitero e gli ci volle solo una mezzoretta per effettuarla… si fermò davanti a qualche tomba conosciuta, come quella del vecchio sindaco che era morto quattro anni prima. Una particolare curiosità lo spinse ad osservare la lapide del nonno di Jean, che proprio come gli era stato detto, portava il medesimo nome. Passando oltre, poco distante, trovò anche la lapide della madre di Riza, Elizabeth Hawkeye e anche lì si fermò: forse erano persone per le quali provava un minimo di rispetto anche se non le aveva mai conosciute.
Ma con il nome Hevans ci sono solo pochissime lapidi e tutte di persone morte da almeno cinquant’anni. 
Forse prozii o parenti alla lontana, gente che comunque non aveva alcun legame con quello che interessava a lui. Il dato di fatto era che la tomba di Henry Hevans non esisteva ed Heymans fu costretto ad ammettere di essere di nuovo ad un punto morto.
Tornò davanti alla tomba del nonno di Jean e si sedette davanti ad essa.
“Forse… forse il mio è solo un nome che piaceva a mia madre, senza bisogno di strane spiegazioni – disse rivolgendosi a quel nome inciso – A dire il vero non so nemmeno come si chiamano i miei nonni, ma mi pare strano che mia madre mi abbia chiamato come uno di loro.”
Nessuna risposta: quel Jean non poteva essergli di conforto.
“E’… è strano. Insomma, che io sia figlio di Gregor e di mia madre non è nemmeno da discutere… e so benissimo di essere stato concepito prima del matrimonio ed è normale che i miei nonni non fossero felici. Le linee base della storia le so, che cosa mi dovrebbe importare di altri dettagli?”
Ancora nessuna risposta, ma forse in questo momento faceva comodo: non c’era niente che potesse obbiettare con le false convinzioni che stava cercando di imporsi.
Si alzò in piedi e serrò i pugni.
“Sai che c’è? – chiese rivolgendosi alla lapide – La situazione non cambia! Mio padre è sempre un ubriacone che influenza mio fratello e rende triste mia madre… ed io voglio con tutto il cuore allontanarlo da loro e da me, perché senza di lui stiamo meglio! Voglio proteggere la mia famiglia, tutto qui… non ho assolutamente bisogno di sapere chi è Henry Hevans o di sapere da dove viene il mio nome! Io sono Heymans Breda, punto e basta!”
Si girò di colpo e a passo convinto si diresse verso l’uscita del cimitero.
Tanto non sarà la storia di quattordici anni fa ad aiutarmi con quanto devo fare.
 
Non che Kain avesse qualche preconcetto nei confronti delle femmine, tutt’altro: era cresciuto con una madre assolutamente adorabile ed aveva trovato in Riza una persona meravigliosa che considerava ormai come una sorella maggiore. Elisa poi era una ragazza estremamente dolce e disponibile e anche Janet gli piaceva molto, sebbene la sera prima gli si fosse addormentata addosso.
Però c’erano femmine che andavano oltre qualsiasi forma di comprensione e l’amica di Riza rientrava proprio in questa categoria. Era rimasta a casa sua per circa un’ora, passando la maggior parte del tempo a piangere e raccontando di tutti i suoi dubbi su Jean. A dire il vero Kain era molto confuso in merito: la sera prima era tutta felice, anche se Jean le diceva brutte cose, e invece ora se ne disperava profondamente.
“Riza…” disse, quando la brunetta andò via, essendosi ricordata di avere l’interrogazione di storia il giorno dopo e non aver ancora ripassato gli ultimi capitoli.
“Dimmi, Kain.” fece lei, mentre si accomodavano nel divano davanti al caminetto, godendosi finalmente la quiete dopo la tempesta.
“C’è una cosa che non credo di aver capito… perché la tua amica oggi era così disperata per come si è comportato Jean ieri? Insomma ero accanto a loro da quando hanno iniziato a ballare… e Jean ha passato tutto il tempo a dirle un sacco di cose non proprio gentili. Ma lei sembrava proprio non farci caso, anzi era felice e diceva qualcosa tipo mi piace quando fai lo scontroso. Credo che a un certo punto l’abbia chiamato anche tesoro.”
“Posso darti un consiglio? Non fare mai caso al comportamento di Rebecca: è qualcosa di estremamente complicato e ci perderesti la testa.”
“Capisco. Beh, però sembrava stesse meglio dopo che ha parlato con te e la mamma: si è persino mangiata tre fette di torta e bevuta una tazza di cioccolata.”
“Doveva solo sfogarsi, tutto qui. Piuttosto, scusami ancora per averla portata a casa tua senza preavviso: ho abusato della vostra ospitalità.”
“Oh, ma non ti preoccupare, Riza – sorrise Kain, mettendosi a gambe incrociate sul divano: si stava così bene in quella casa che lui era privo di scarpe con solo i calzini addosso – per te questo e altro. E se abbiamo potuto aiutare Rebecca tanto meglio, no? E’ tua amica ed è normale che le voglia stare accanto, io farei lo stesso per te.”
“Davvero, Riza, non ti preoccupare – gli fece eco Ellie che sparecchiava il tavolo dove i ragazzi avevano consumato la merenda – è stato un piacere per me poter aiutare la tua amica a sfogarsi. L’importante era farle capire che non deve fare un dramma di certe cose… in fondo ha solo tredici anni ed è giusto guardare la situazione da un corretto punto di vista.”
La ragazza sorrise, accoccolandosi meglio tra i cuscini: adesso che l’emergenza era passata stava iniziando a godersi la pace e la tranquillità di quell’ambiente che aveva imparato ad amare.
“Spero che ti sia divertita ieri alla festa.” disse Kain all’improvviso.
“Tantissimo: non immaginavo che potesse essere così divertente.”
“Sai, è la prima volta che mi diverto tanto pure io. – confessò lui – In genere stavo sempre con mamma e papà, ma questa volta avevo anche tutti voi con cui parlare. E poi mi sono divertito anche a ballare con Janet… è proprio simpatica quella bambina. All’inizio non ci potevo pensare che fosse la sorella di Jean.”
“Secondo me le piaci molto.” sorrise Riza con divertita malizia.
“Le sto simpatico.” annuì Kain con innocenza, non cogliendo il sottinteso.
Riza non se la sentiva assolutamente di stuzzicarlo, ne aveva abbastanza con le questioni di cuore.
Alzando lo sguardo sopra il caminetto, vide una foto che prima non aveva notato.
“Oh che bella, sono i tuoi genitori?”
“Sì – sorrise Kain, osservandola alzarsi e la prenderla in mano – è stata fatta al pranzo per festeggiare la fine delle scuole della mamma. Sai, papà le ha chiesto di sposarlo il giorno stesso che lei ha terminato le superiori.”
“Davvero?” esclamò la ragazza sorpresa ma allo stesso tempo estasiata: queste sì che erano cose che le piacevano. Sua madre non le aveva mai raccontato dell’incontro tra lei e suo padre, ma per il tipo di rapporto che aveva con Berthold, la ragazzina preferiva non sapere ulteriori dettagli. Ma i genitori di Kain erano così dolci, disponibili e affiatati, che Riza intuiva che dietro non ci poteva essere che una bella storia d’amore.
“Però hanno dovuto aspettare l’anno dopo, perché mamma non aveva ancora la maggiore età.”
“Ma fosse dipeso da me, – dichiarò Ellie dalla cucina – l’avrei sposato il giorno stesso.”
“Vi conoscevate da molto, signora?” chiese Riza con grande curiosità.
La donna ricomparve, asciugandosi le mani con il grembiule e si sedette in mezzo a loro due, prendendo in mano la foto e fissandola con un pizzico di nostalgia.
“Vediamo, a scuola l’avevo visto altre volte, ma credo iniziai a notarlo quando avevo tredici anni come te, Riza, del resto è più o meno a quell’età che noi ragazze iniziamo a guardaci intorno, no?”
“Beh, sicuramente Rebecca lo fa.” ridacchiò lei.
“Sapevo il suo nome ovviamente, ma nelle mie fantasie era il meraviglioso ragazzo dei libri. Durante l’intervallo ne aveva sempre uno in mano…sai, studiava per prepararsi all’esame di ammissione. Però, ahimè, proprio l’anno che mi accorgevo di provare interesse, Andrew terminava la scuola: è più grande di me di quattro anni. E come se non bastasse nell’arco di pochi mesi sarebbe partito ad East City per l’Università.”
Riza rimase interdetta a quella rivelazione e si avvicinò ancora di più ad Ellie, curiosa di sapere come fosse possibile colmare quelle distanze così grandi e quella differenza d’età che da ragazzi vuol dire davvero tanto.
“Ma come ha fatto? Se lei aveva solo tredici anni…”
“Oh, – arrossì Ellie – ero solo una sciocca sognatrice… come partì per East City cercai di convincermi che non c’era niente da fare: io ero appena al secondo anno di liceo e figuriamoci se lui non avrebbe trovato una fidanzata della sua età ad East City o in paese. Però…”
“Però?” la incitò Riza.
“Beh, non chiedermi come o perché, ma ogni volta che tornava a casa, ogni due mesi circa, io ero sempre alla stazione ferroviaria: fortunatamente un mio zio lavorava lì e dunque avevo la scusa. E chissà perché ci trovavamo sempre a fare la strada verso il paese assieme.”
“Oh, che meraviglia, allora è stata lei a prendere l’iniziativa!”
“A dire il vero fu Andrew il primo a rivolgermi la parola: per le prime volte facevamo la strada assieme senza che nessuno dicesse niente, come se fosse una cosa puramente casuale. O almeno, questo è quello di cui ero convinta io… adesso so che dopo le prime due volte Andrew doveva aver capito qualcosa e penso che anche il mio atteggiamento troppo indifferente e la mia faccia fossero abbastanza eloquenti.”
“Mamma arrossisce sempre quando papà le dice qualcosa di romantico.” ridacchiò Kain.
“Spiritoso, davvero spiritoso.” lo rimproverò Ellie con finta aria offesa, arruffandogli i capelli.
“E come si è smossa la situazione?” chiese Riza, impaziente di sapere.
“Me lo ricorderò sempre, era la primavera del 1880: io avevo appena compiuto quattordici anni e mi sentivo così grande con i capelli  raccolti in una treccia e non più in due, come si fa da bambine. In ogni caso, iniziò la nostra solita silenziosa passeggiata verso il paese e, come sempre, mi domandavo se mai mi avrebbe notata. Poi a un certo punto lui si ferma, mi guarda e mi chiede…”
“Ellie Lyod, come si chiama il tuo amico invisibile che viaggia in treno proprio gli stessi giorni in cui torno in paese? Sarei proprio curioso di conoscerlo… altrimenti mi viene da pensare che tu venga per me.”
Fu Kain a dire queste parole, imitando il tono di voce paterno in una maniera così buffa che Ellie e Riza scoppiarono a ridere.
“E’ vero, disse proprio così: – ammise la donna, quando si ripresero – Kain conosce la storia a memoria, da piccolo gliela raccontavo sempre. Ti giuro che io rimasi veramente interdetta: non solo conosceva il mio nome, ma ovviamente aveva capito tutto… per dieci secondi mi sentii veramente umiliata e temetti che mi avrebbe respinto, del resto ero così piccola rispetto a lui che ormai era un uomo.”
“Non avrebbe mai potuto, si vede che siete fatti l’uno per l’altra.”
“In effetti non lo fece. – rise la donna accarezzando i capelli di Kain – Io presi coraggio e gli chiesi se la cosa gli creava tanti problemi… e lui mi sorrise e mi disse di no. Ti giuro, Riza, spero tanto che un giorno il tuo cuore possa battere all’impazzata come fece il mio quel giorno. Ovviamente all’epoca lui non pensava a me in termini d’amore, mi trovava simpatica, tutto qui, ma io avevo appena deciso che era l’uomo della mia vita. Sai come vanno le cose quando si rompe il ghiaccio, no? Iniziammo a parlare di East City, di quello che era successo in paese mentre lui era via… e così, ogni due mesi io lo aspettavo alla stazione ferroviaria e gli facevo da scorta fino a casa. Quando ebbi quindici anni gli chiesi se potevo anche scrivergli qualche lettera…sai, ero una grande grafomane all’epoca, ed iniziammo anche a scriverci: una lettera alla settimana, era questo il nostro patto. Le ho ancora tutte conservate.”
“E quando si è innamorato davvero di lei?”
“L’anno che terminò l’Università: io non ne avevo ancora sedici, lui ne aveva diciannove… ci vedevamo spesso, ormai, anche se non parlavamo ancora d’amore. Ma poi, alla festa del primo dicembre, lui mi chiese di ballare, una cosa che non aveva mai fatto con nessuna: fu la dichiarazione più bella del mondo…”
L’espressione di Ellie era totalmente estatica e romantica e all’improvviso Riza capì da chi Kain aveva preso la sua grande fantasia e tendenza ad idealizzare le cose. Ma era anche vero che quella storia sembrava uscita da un romanzo e sembrava che la realtà avesse cucito questa piccola favola romantica apposta per Ellie e suo marito.
 Quasi automaticamente pensò alla questione del ballo tra Roy ed Elisa e la conseguente gelosia di Vato. Sapeva che quella mattina Roy era andato a parlare con lui, ma non aveva ancora saputo l’esito della discussione. Sperava solo che le cose si fossero aggiustate, specie per la povera Elisa.
 
“Ciao.” salutò Elisa, uscendo di casa e sfregandosi le mani per far fronte al freddo.
“Ciao – rispose al saluto Vato – conviene che ti metti i guanti. Credo che tra poco nevicherà.”
“Mh, è quello che dice anche mio padre – annuì lei, frugandosi nelle tasche del cappotto e tirando fuori i caldi guanti di lana – E tu stai bene solo con quel maglione grigio, guanti e sciarpa?”
“Non credere: sotto sono ben riempito… è che il cappotto si è sporcato e mia madre l’ha messo a lavare. Mi sono dovuto arrangiare, tutto qui.”
“Allora, che vogliamo fare?” chiese lei, con le mani intrecciate dietro la schiena ed il naso che iniziava ad arrossarsi per l’aria fredda.
“Una passeggiata prima che faccia buio, ti va?” propose Vato.
“Va bene.” annuì Elisa, sistemandosi meglio la sciarpa.
Iniziarono a camminare, mano nella mano, come se tutti i mesi di imbarazzo ed indecisione non fossero mai esistiti. A Vato sembrava di essere nato per tenere Elisa così vicina a sé e gli sembrava così innaturale che fino al giorno prima ci fosse stata una strana ed invisibile barriera tra di loro.
Ma adesso…
“Lunedì a scuola come vuoi comportarti?” chiese ad un certo punto lei con uno sguardo significativo.
“Perché? Cosa dovrebb… oh già…”
E’ vero: a scuola inevitabilmente sarebbero state confermate le voci su lui ed Elisa e sicuramente i pettegolezzi l’avrebbero fatta da padrone almeno fino alle vacanze natalizie. La cosa lo fece sentire profondamente a disagio: purtroppo non poteva fare a meno di percepire tutti gli sguardi, i bisbigli e le risatine maliziose che sarebbero state fatte al suo indirizzo.
Un po’ come in prima elementare quando aveva scoperto che i suoi capelli bicolore non erano proprio normali per gli altri bambini: i suoi genitori non ne avevano mai fatto accenno e lui dava per scontato che anche gli altri accettassero la cosa come un dato di fatto. L’avevano fatto, certo, ma solo dopo diverse settimane di bisbigli e sguardi incuriositi.
Ora, la cosa era anche giustificabile: erano bambini di sei anni, con la naturale curiosità e mancanza di tatto.
Ma da parte dei più grandi mi aspetterei maggiore discrezione… suvvia!
“Allora?”
“Beh, è chiaro che ci saranno voci su di noi – disse infine, cercando di apparire il più calmo possibile – ma non importa, ci faremo l’abitudine, no?”
“Se vuoi facciamo finta di niente.”
“No – scosse il capo lui – non mi va di nasconderti… l’abbiamo fatto per troppo tempo, non credi?”
“Sono felice di sentirti dire queste parole.” sorrise lei abbracciandolo.
“Oh, davvero? – disse lui arrossendo e ricambiando l’abbraccio – Beh, sì… insomma… sei la mia ragazza…è… è più che normale, no?”
“Mh mh!” annuì Elisa.
Un primo fiocco cadde sui capelli castani di lei, seguito da un altro e un altro ancora. Nell’arco di un minuto una prima dolce nevicata dicembrina iniziò a scendere dal cielo, sopra i due ragazzi.
“Neve del due dicembre: sarà un inverno freddo, ma finirà prima del previsto.” annunciò lui.
Come i pettegolezzi.
 
Jean non era quello che si poteva definire un fratello affettuoso.
A seconda dell’umore considerava la sorellina una seccatura o un divertimento, più la prima che la seconda ad essere sinceri. Le volte che l’abbracciava o la prendeva in braccio era quasi sempre per evitare una situazione più complicata come lacrime o proteste.
Ora, quello che stava per fare era dettato dalla volontà di evitare il suo broncio per il resto della giornata e anche per i giorni successivi. Non c’entrava minimamente l’inevitabile forma di affetto che era stato obbligato a provare per lei… su imposizione dei genitori, ovviamente.
Entrò nella stanza della sorellina e la trovò che giocava con alcune bambole, comodamente seduta sul pavimento di legno. Come si accorse della presenza fraterna, la bambina assunse la sua espressione più imbronciata e fece finta di niente.
“Ciao…”
“Vattene!”
“Ancora arrabbiata?”
“Mh!”
“Senti – sospirò Jean, accovacciandosi accanto a lei – mi dispiace di non averti svegliato per i fuochi artificiali, davvero.”
“L’avevi promesso. Sei cattivo con me.” disse la bambina.
“Se vuoi mi faccio perdonare.”
“Non voglio perdonarti.”
“E se volessi farti una sorpresa?” chiese lui, cercando di assumere un’aria cospiratoria. In cuor suo detestava queste sceneggiate esclusivamente per creare l’atmosfera, ma a Janet piacevano. Infatti gli occhioni azzurri della bambina si puntarono subito su di lui.
“Una sorpresa?”
“Però devi venire in braccio e tenere gli occhi chiusi finché non te lo dico io.”
“Va bene – annuì lei, dopo una lieve esitazione, alzandosi in piedi e facendosi prendere in braccio – ma se è uno scherzo mi arrabbio davvero.”
“Certo, certo… come no…” sospirò Jean, portandola giù dalle scale. Aprì la porta ed uscì fuori in cortile, godendo dei fiocchi di neve che cadevano sul suo viso e sulla sua chioma dorata.
“Allora?” chiese Janet, che ancora non si rendeva conto di cosa stava succedendo.
“Va bene se per farmi perdonare faccio scendere la neve?” le disse con un sorriso, alzandole il mento verso l’alto in modo che i fiocchi le cadessero nel viso e non nei capelli dove non li sentiva.
“Neve? – esclamò lei aprendo gli occhi e fissando incantata lo spettacolo – Neve! Neve! Fratellone, sta nevicando!”
“Ferma, non scalciare! Ecco, ti faccio scendere… no! No aspetta! Janet, non correre così! Devi andare a metterti il cappotto!”
“Ahah! Mi dispiace per te ma non si ferma – rise James, uscito per aver sentito le grida entusiaste della bimba – Aveva tre anni l’ultima volta che ha nevicato, per lei è una vera meraviglia.”
“Aveva le tende tirate in camera e non se ne era accorta… le ho fatto una sorpresa.”
“Riappacificati?” chiese l’uomo.
“Sì, direi di sì.”
“Non avrei mai pensato che avresti fatto una cosa simile per lei: ci stavi ringhiando contro fino a dieci minuti fa.”
Jean sospirò e poi sorrise mentre un fiocco di neve gli cadeva sul naso.
“E’ che con tutti questi problemi di femmine e di amore, trovo che una sorella di sei anni sia la cosa più facile da gestire. Almeno con lei so come farle passare il broncio. Ehi! Buona! Che ti aggrappi così!?”
“Fratellone! Sei il migliore! Il migliore! Papà hai visto? Jean ha fatto nevicare per me!”
“Certo, bambina mia, certo…” sghignazzò James, dando una pacca sulle spalle del figlio.
Almeno quella sfumatura dell’amore era facile da gestire.
 




I bellissimi disegni sono di Mary
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