Capitolo 4
Il
mattino dopo, uscendo di casa, Rumiko trovò una sorpresa ad
attenderla: Yamato
appoggiato al man corrente.
-
Che
fai qua? Aspetti qualcuno? –
-
Sì,
te. – rispose lui, voltandosi dall’altro lato e
cominciando a scendere le
scale.
Tanto
fu lo stupore della ragazza nel sentirsi rivolgere quelle parole, che
rischiò
di inciampare e finire a gambe all’aria.
-
Cos’è,
una nuova tattica? – lo tallonò lei.
-
No.
–
-
E
allora si può sapere perché mi hai aspettata?
–
Lui
non rispose e la ragazza sbirciò la sua espressione.
Possibile che ciò che
vedeva sulle sue guance fosse un leggero rossore? Ma non disse nulla e
continuarono a camminare lungo il viale. Di tanto in tanto lui le
lanciava
delle occhiate, affrettandosi poi a distogliere lo sguardo per non
farsi scoprire.
Ovviamente non ci riuscì e Rumiko cominciò ad
irritarsi: che gli prendeva tutto
d’un tratto? Sembrava che scrutasse il suo volto alla ricerca
di non si sapeva
cosa e lei cominciava a sentirsi come un pezzo d’esposizione.
-
Ehi,
Ishida, ti sei forse innamorato di me? – sbottò
poi.
Di
nuovo lui non rispose. Lei sollevò le spalle, sbuffando
leggermente.
-
Non
lo credevo possibile, ma congratulazioni, riesci ancora a stupirmi:
oggi sei
più strano del solito! –
-
Perché,
di solito sono strano? –
-
Da
quando ti interessa la mia opinione? –
Per
l’ennesima volta lui non trovò nulla di pungente
con cui risponderle. Lei
aggrottò la fronte.
-
Ti
senti male, per caso? – chiese, avvicinando una manina al suo
capo, ma lui scartò,
evitando il suo tocco – Non sono mica un’appestata,
sai? Ah, che ragazzo
contorto! – e procedette.
Yamato
attese un secondo e poi la seguì, il cuore in subbuglio e la
mente confusa.
Quella scena si ripeté per un’intera settimana.
Tutti i giorni lui l’aspettava
davanti a casa, durante le lezioni di tanto in tanto lo beccava a
fissarla e
per i corridoi le faceva un cenno del capo quando la incontrava. Niente
più
frecciatine, sorrisi ironici, toni freddi e distaccati, sguardi che la
superavano come se fosse fatta d’aria o la fulminavano. Se a
molti altri la
cosa avrebbe fatto piacere, lei cominciava ad infastidirsi: che si era
messo in
testa?
“ Giuro che non ci capisco più nulla! Ma cosa
avrò di tanto interessante sulla
faccia?! Anzi, dentro, visto che sembra farmi la
radiografia!”
Incapace di darsi delle risposte, decise di rivolgersi
all’unica persona che avrebbe
potuto aiutarla.
-
Ciao
Taichi, potrei parlarti un secondo? –
-
Dimmi
pure! – fece lui, una volta entrati in un’aula
deserta, lontani da sguardi
indiscreti.
-
Si
tratta di Ishida, cioè… Yamato. Ecco…
mi sembra strano ultimamente. –
-
Strano
in che senso? Io non ho notato nulla! –
-
Beh,
noi non siamo mai andati molto d’accordo, eppure ora
è come se il suo
atteggiamento fosse cambiato improvvisamente… –
-
Mah,
Yamato non è tipo da cambiare idea tanto facilmente.
Perciò se si comporta in
un certo modo avrà di sicuro le sue ragioni. –
-
Capisco…
-
In
realtà non le era stato di nessun aiuto, dato che ancora non
capiva cosa
passasse per la mente del biondo. Stava per tornare in classe, quando
Taichi la
fermò.
-
Ascolta,
so che non ha un buon carattere, ma ti è assicuro che
è un bravo ragazzo. – si
sedette – Vedi, fin da piccolo è stato molto
chiuso, anche a causa della
separazione dei suoi e la lontananza dal fratellino. –
-
Non
ne sapevo nulla. –
-
I
genitori hanno divorziato quando lui era piccolo: Yamato è
andato a vivere con
il padre e Takeru con la madre. –
-
Takeru
è… - ma non proseguì la frase.
“
Ma certo, in fondo si assomigliano e il modo in cui parlano tra di
loro…”
pensò, indispettita con se stessa per essersi lasciata
sfuggire quelle nozioni
fondamentali sul suo acerrimo nemico.
Taichi si limitò ad annuire.
-
È
cresciuto senza il calore della madre e il padre era sempre impegnato,
perciò
Yamato badava anche alla casa. A 11 anni sapeva già badare a
se stesso
perfettamente, come un adulto. –
Lei
non disse nulla.
-
So
che è pieno di difetti, anch’io ci litigavo
sempre! È testardo, arrogante,
lancia frecciatine e tratta la gente con sufficienza, perché
gli basta
un’occhiata per farsi un’idea degli altri. Poi
però ho scoperto che è solo
apparenza: ho cominciato a conoscerlo, capirlo e quindi ad apprezzarlo.
Quelle
che tu vedi come mancanze ora io li considero dei pregi. So che non
è facile,
ma bisogna riuscire a comprenderlo e a vedere al di là del
suo guscio. Lui ce
la mette tutta per migliorarsi, ma non è certo una cosa da
poco! Ha vissuto la
sua infanzia in solitudine, coperto di responsabilità che un
bambino non
dovrebbe avere e riuscendo a svolgere tutto nel migliore dei modi.
Quando il
padre tornava a casa la sera, trovava sempre la cena pronta e le
lenzuola
pulite. –
Sollevò
lo sguardo e la guardò.
-
Non
so perché… ma vedo in voi una certa somiglianza.
–
Lei
lo fissò stupita e incerta.
-
Io
penso – continuò sorridendo – che tu
possa aiutarlo, proprio perché forse puoi
capirlo meglio di me o chiunque altro. –
Fece
per andarsene, ma poi parve ripensarci.
-
E
penso che anche lui possa aiutare te. – aggiunse, per poi
uscire dall’aula.
Rumiko
si sedette su un banco, scossa. Che diavolo stava succedendo a tutti? E
perché
si sentiva tremare?
Udì la campanella decretare la fine
dell’intervallo e decise di tornare in
classe, dove avrebbe potuto riordinare con più calma le idee.
Una figura nell’ombra attese qualche secondo, per poi
seguirla: aveva assistito
alla conversazione. Con sorpresa aveva ascoltato le parole di Rumiko e
con
ancor maggior stupore quelle di Taichi. Cosa aveva voluto dire il
ragazzo?
“ Che intenzioni hai, Tai? “
Entrando in classe, Sora richiuse la porta alle sue spalle.
Rumiko e Yamato stavano tornando a casa fianco a fianco ma, come ormai
di
consueto, senza rivolgersi la parola. Poi quel silenzio venne infranto.
-
Devo
andare alle prove questa sera. – esordì il
ragazzo, ma poi non parve trovare le
parole per continuare.
-
Già,
con il tuo gruppo. – commentò lei, dandosi
mentalmente della scema per quella
frase banale.
Cadde
un imbarazzante silenzio e Yamato cominciò a perdere la
pazienza: perché non
riusciva a chiederglielo? Non era difficile, bastava assemblare poche
parole e
sputarle fuori! Eppure sembrava che le sue labbra fossero sigillate, il
che era
decisamente assurdo. Di solito capitava alle persone impacciate che non
riuscivano
a esprimere i propri sentimenti, invece lui aveva sempre parlato
tranquillamente con Sora. Ma allora cosa gli stava accadendo?
“ Forza Yamato, sono due parole in croce! Non è da
te titubare in questo modo!”
si rimproverò “ E se lei si accorgesse della tua
indecisione ne approfitterebbe
senza esitare e allora chi la placherebbe più?”
-
Ti
va di venire? – riuscì infine a sbiascicare e gli
parve di essersi tolto un
peso dallo stomaco.
-
Come
scusa? –
“
Ma perché? “ pensò sconsolato.
-
Le
prove – ripeté – ti va di venire a
vederle? –
-
E
perché dovrei? Non dirmi che ti interessa la mia opinione!
– sorrise lei,
sarcastica.
-
Beh,
visto che critichi tanto la mia musica, il minimo che tu possa fare
è venire ad
ascoltarci! –
-
Non
saprei… di sera è pericoloso… ci sono
tanti maniaci in giro, dicono… - rifletté
lei, seriamente preoccupata – potresti approfittare di me!
–
-
Non
ti preoccupare, ho gusti decisamente più raffinati.
– rispose maligno, in cuor
suo sollevato che la ragazza avesse alleggerito l’atmosfera:
meglio i
battibecchi di quel silenzio opprimente.
-
Come
ti permetti, razza di cafone? –
s’inviperì infatti lei.
-
Allora,
vieni o no? – fece lui, ignorando volutamente le sue
provocazioni e per questo
facendola alterare ancor di più.
-
D’accordo,
ci sarò. –
-
Bene,
allora ti passo a prendere alle sette. –
Stava
per entrare nel suo appartamento, ma si voltò.
-
Ah,
un’ultima cosa, Kitamura. –
-
Magaaari
fosse l’ultima. –
-
Non
farmi fare brutta figura. – e si richiuse la porta alle
spalle giusto in tempo
per sentire un tonfo sonoro.
Accostò
l’orecchio alla porta e poté sentire distintamente
i borbottii della ragazza.
Yamato sorrise: di sicuro si sarebbe rivelata una serata interessante.
Alle sette in punto si presentò davanti alla porta numero 17
e suonò il
campanello. Lei venne ad aprirgli la porta. Indossava un paio di jeans
attillati e degli anfibi. Sotto un giubbotto in pelle nera aveva una
felpa con
la cerniera aperta fino allo stomaco, che mostrava la maglietta rossa
con la
scritta “sound” sul petto. Non si era truccata,
giusto un po’ di mascara e un
velo di lucidalabbra. I capelli erano raccolti in una coda appoggiata
ad una
spalla.
Nel vedere il ragazzo guardarla con, secondo la sua opinione,
più attenzione
del dovuto, affondò le mani nelle tasche del giubbotto.
-
Andiamo
sì o no? – borbottò.
Si
avviarono, lui con la chitarra su una spalla, lei con il volto
imbronciato e il
cappuccio tirato sul capo. Yamato ridacchiò: in quel momento
sembrava proprio
una bambina scontrosa che fa i capricci.
-
E
ora che hai da ridere? –
-
Niente,
pensavo… - rispose lui, prevedendo la mossa successiva della
compagna.
-
Continui
a sorprendermi, Ishida. E cosa pensavi, di grazia? – lo
punzecchiò.
-
Che
sei carina quando metti il broncio. – disse lui con
semplicità.
Rumiko
avvampò, finendo di nuovo per mettere il muso tentando di
nascondere il suo
imbarazzo. Ovviamente il ragazzo aveva previsto anche questo e
scoppiò a ridere
della sua ingenuità. Lei rimase un attimo spiazzata, di
fronte a una simile
manifestazione: non aveva mai riso in quel modo
così… spontaneo. O almeno non
davanti a lei.
Poi la diciottenne parve riacquistare il controllo, perché
cominciò a
protestare, visibilmente stizzita.
Camminavano lungo il viale alberato, lo stesso che percorrevano per
andare a
scuola. Però ora appariva diverso, con quel silenzio quasi
surreale, le fronde
scure degli alberi che incombevano su di loro, le luci dei lampioni che
spandevano pozze gialle sull’asfalto. Di tanto in tanto una
macchina passava,
illuminandoli per un attimo per poi sfrecciare via veloce. Ma non era
solo il
paesaggio a sembrarle diverso: anche il suo compagno.
Era come vederlo per la prima volta, così calmo e
tranquillo, il passo cadenzato,
il viso disteso. Indossava abiti semplici: una paio di jeans scuri, un
giubbotto e sotto una camicia bianca. La chitarra ondeggiava
leggermente,
secondo il ritmo del suo incedere, come se fosse
un’estensione del suo corpo.
Si arrischiò a scrutarne il volto con più
attenzione e il suo cuore perse un
battito: un sorriso sereno e una sguardo limpido rischiaravano i suoi
lineamenti, facendoli apparire… belli.
Arrivarono a destinazione ed entrarono in quello che una volta doveva
esser
stato un magazzino. L’interno era stato ristrutturato e ora
doveva essere una
sorta di locale notturno. Una decina di tavolini e molte sedie erano
accatastati lungo una parete e un bancone dall’aspetto
rustico si ergeva
dall’altro lato. Di fronte a questo erano stati posizionati
gli immancabili
sgabelli alti e una collezione di bottiglie di ogni forma e colore
faceva la
sua bella mostra alle spalle del barista. Infine, al fondo
dell’edificio, c’era
un piccolo palco rialzato riservato al gruppo.
Rumiko dedusse che era lì che si sarebbero svolte le prove
per via degli
strumenti, le apparecchiature, i microfoni, gli spartiti sparsi sul
pavimento e
un gruppo di ragazzi che faceva loro cenno di avvicinarsi. Ma appena si
accorsero della ragazza cominciarono a sghignazzare.
-
Ma
Yamato caro… non ci
avevi detto che
volevi portare la tua fidanzatina! – cinguettò uno
di loro – A saperlo ci
saremmo messi in tiro, vero ragazzi? –
Sghignazzarono.
-
Se
mai un giorno volessi essere lasciato su due piedi ti
presenterò la mia
ragazza. – gli rispose a tono Yamato con un ghigno sul bel
volto – Lei invece si
chiama Rumiko Kitamura ed è la mia nuova vicina di casa.
–
-
Comunque
resta il fatto che è una donna e tu stesso hai detto di non
volerle tra i
piedi! – disse un altro.
-
Non
è una donna, ma solo… -
-
Prova
a dire qualcosa di anche vagamente offensivo –
sibilò lei con un grosso sorriso
stampato in faccia – e farò in modo che la tua
voce raggiunga degli acuti da
fare invidia a Whitney Houston… –
sibilò lei.
Subito
scese il silenzio e tutti la fissarono attoniti. La ragazza contrasse
la
mascella, per nascondere l’imbarazzo crescente. Poi il
silenzio si infranse in
una risata generale.
Lanciò
un’occhiata d’ammonimento al cantante e subito
questo smise di ridere: ormai
aveva capito quando stava per passare il limite.
-
Sei
proprio forte! Altro che ragazza, sei una bomba a orologeria!
– commentò uno
tra le lacrime.
-
Già,
non avevo mai sentito il gentil sesso minacciare Yamato. –
-
Povero
il nostro idolo, ti sei trovato finalmente una ragazza che ti da del
filo da torcere!
– lo canzonò uno, dandogli delle pacche energiche
sulla schiena.
Rumiko
decise che era il momento di lasciare il campo.
-
Datti
da fare, ok? Non voglio rovinarmi la serata per colpa tua. –
-
Come
sarebbe a dire? Guarda che se non ti andava potevi non venire.
–
L’altra
non gli rispose neanche, liquidandolo con un gesto annoiato della mano.
Scese
dal palco per andare a sedersi al bancone, dove incrociò le
braccia a intendere
che dovevano darsi una mossa a cominciare.
I ragazzi si prepararono sghignazzando.
-
Non
è solo un peperino, è pure mooolto
carina. – commentò il batterista.
-
Già,
bella e di carattere! Ma dove le trovi? –
-
Vi
prego, evitate: è una musica che già sento tutti
i giorni a scuola. –
-
Ce
l’hai pure in classe! Ah, beata giovinezza…
– disse un altro inforcando il
basso.
-
Piantala
di fare il matusa, che hai solo due anni più di me!
–
-
D’accordo,
continuerete dopo! Sta sera abbiamo un ospite pericoloso,
perciò impegniamoci,
ok? –
E
diedero inizio alle prove.
Dopo un oretta decisero di fare una pausa e Yamato raggiunse la
ragazza,
sedendosi su uno sgabello.
-
Allora,
che te ne pare? – chiese.
In
realtà avrebbe saputo rispondersi anche da solo: quella sera
aveva dato il
meglio di sé.
-
Potresti
essere bravo. – si limitò a commentare lei,
sorseggiando il drink che le era
stato offerto dal barista.
-
Come
scusa? – fece l’altro, per un momento spiazzato.
Senza
alzare lo sguardo dal bicchiere, Rumiko continuò.
-
Hai
una bella voce, bassa e leggermente roca… Non esattamente
Johnny Cash, ma ha un
timbro interessante. Insomma, la tecnica è buona e il ritmo
c’è, ma è come se
ti mancasse qualcosa… –
-
E
cosa sarebbe? – chiese, un po’ stizzito.
-
La
passione. – rispose lei, guardandolo finalmente negli occhi.
Di
nuovo lui non seppe cosa dire.
-
La…passione?
– riuscì solo a sbiascicare.
-
Sì.
–
Scese
un silenzio imbarazzante e il ragazzo fece un cenno al barista
perché gli
portasse qualcosa da bere. La ragazza aspettò che mandasse
giù un bel sorso,
poi proseguì, volgendosi però a guardare il palco
dove i musicisti conversavano
animatamente.
-
Te
l’ho detto anche la prima volta che ci siamo incontrati, no?
– continuò, pacata
– La tua musica è piacevole, ma le manca
trasporto. Ascoltandoti, io posso
ammirare le note e la tua intonazione, ma… non posso
ammirare te. –
Fece
una pausa, constatando che lo sguardo del biondo era puntato su di lei.
-
Le
tue canzoni sono del tutto impersonali. Parlano di amicizie, di amori,
di
nobili sentimenti – un sorriso appena accennato – e
sono certa di sapere chi
sono le tue fonti d’ispirazione. Sono tutte persone
bellissime, ma non sono te. Tu non
vuoi cantare di te. –
Lui
non rispose, continuando a scrutare il liquido nel bicchiere. Avrebbe
voluto
ribattere, farla tacere, ma improvvisamente si sentiva la gola secca e
la mente
svuotata. Si sentiva sotto processo: qualsiasi cosa avesse detto,
temeva
sarebbe stata usata contro di lui. Eppure lei taceva, in attesa.
-
Non
c’è niente di interessante da sapere di me.
– riuscì a dire, quasi in un
soffio.
-
Mio
padre non la pensa così. – commentò
lei, in tono fermo – E nemmeno io, Yamato.
–
L’altro
sollevò lo sguardo, colpito più dal fatto che
l’avesse chiamato per nome che
dal contenuto delle sue parole.
-
Le
persone vanno ai tuoi concerti e acquistano i tuoi album
perché vogliono
sentirti. – proseguì lei, misurando le parole
– Vogliono sentire te,
non solo la tua voce. –
-
Le
persone vogliono sentire qualcosa di divertente, di triste o
commovente. Ma io
non sono così. – abbassò il tono di
voce – Tai lo è. Anche Sora lo è.
Persino
Koushiro. Tutti loro traboccano di simili… emozioni.
È questo che li rende ciò
che sono. È per questo che canto di loro. –
-
Pensi
di essere povero di emozioni? –
-
Forse.
O forse è come dici tu – sorrise amaramente
– Mi manca il trasporto,
non sono uno che si lascia andare. – si scompigliò
nervosamente i capelli. – Magari sono solo strano, come
spesso mi ripeti. –
-
Allora
canta di questo. –
-
Questo
cosa? –
-
Del
fatto che non sai che ti manca, che non riesci a lasciarti trasportare
dalle
emozioni. Se non altro sarebbe qualcosa di diverso dal solito!
–
-
La
gente non capirebbe. –
-
Non
credere di essere l’unico ad avere simili dubbi, faticare nel
conoscere se
stessi è un problema che molti affrontano tutti i giorni.
Molti capiranno
quello stai loro dicendo, altri invece no. Ma infondo che importa?
L’importante
è che tu riesca a tradurre i tuoi pensieri e le tue emozioni
in parole. – gli
sorrise – E qualsiasi termini tu scelga per esprimerti,
sarà qualcosa di
intimo, di te. –
Yamato
piegò la bocca in una smorfia.
-
Cosa
ti fa pensare che io muoia dalla voglia di rivelare i miei pensieri
più intimi
a centinaia di persone? –
-
Il
fatto che siamo qui stasera. Che hai scelto di cantare. –
rispose lei, sicura.
-
Non
essere ingenua – le disse in tono più velenoso di
quanto avesse voluto – Far
parte di una band non ha nulla a che fare col parlare di se stessi. -
-
E
allora perché hai deciso di fare musica? –
-
Per
lo stesso motivo di molte altre persone, no? –
sbottò lui, tagliente, di nuovo
con modi molto più rudi di quelli che avrebbe voluto,
incapace di controllarsi.
-
E
quali sarebbero questi motivi? – fece lei, cominciando a
perdere la pazienza –
I soldi, la fama, le ragazze? Tu non hai bisogno di queste cose e lo
sappiamo
tutti e due. –
-
Mettiti
in testa una cosa: TU NON SAI NULLA DI ME! –
soffiò lui torvo, per
poi abbassare lo sguardo e stringere i pugni.
Questa
volta il silenzio calò sull’intero locale: tutti i
presenti avevano udito la
discussione.
“
Non volevo dirlo, non avrei dovuto… ma tu mi fondi il
cervello e io perdo il
controllo.
Maledizione… non guardarmi! Non fissarmi con quello sguardo
così simile al mio.
Se ti guardo mi vedo allo specchio, mi vedo riflesso nei tuoi
dannatamente
belli occhi viola e questo mi fa male. Ti prego, perciò, non
guardarmi così…
Delusa…
No, non dire nulla, ti prego! Non aprire quella bocca implacabile, che
mi
costringe a ribattere con parole ancor più orrende. Non
voglio ferirti, non
voglio deluderti ancora… Fa male da morire… Ti
prego, perciò, non parlare!
Odiami, se vuoi, scappa! Scapperei da me stesso se solo
potessi… Non sono la
persona giusta per te. Non posso aiutarti come vorrebbe tuo padre, come
io
stesso vorrei. Perciò fuggi, allontanati, tu che
puoi… perché io non posso
lasciare questo sgabello che mi tiene inchiodato accanto a
te…”
-
È
vero, io non so nulla di te, perché non ti conosco. Ma una
cosa la so per
certo: stai sprecando il tuo talento a causa del tuo stupido orgoglio.
O forse
per timore che la gente veda chi sei veramente, che ti giudichi. Mette
paura
essere il giudicato anziché il giudice, vero? –
gli rivolse un ghigno sarcastico
– Non è piacevole scoprire di essere meno
straordinari di quanto si pensava di
essere, trovandosi faccia a faccia coi propri difetti. Fortuna
– proseguì – che
non bisogna essere persone meravigliosamente perfette per comporre e
cantare,
basta essere schietti. Con se stessi e quindi con gli altri. La musica,
quella vera, non è fatta
per illudere, ma per
parlare ai cuori di chi ti ascolta. –
Lui
la guardò, indecifrabile.
-
Mio
padre ti direbbe la stessa cosa. In fondo la fotografia e la musica si
somigliano. Con le sue opere, mio padre comunica le sue emozioni e suoi
pensieri alla gente. Le sue foto sono così belle
perché in grado di trasmettere
il suo punto di vista, mostra ai cuori delle persone il mondo come lo
percepisce lui. Io, quando le guardo, mi sento bene. –
Lui
non le staccò gli occhi dosso, nemmeno per un istante.
-
Dovresti
fare come lui. –
-
Non
è così facile. –
-
Lo
so. – ribatté lei fermamente. – Ma cerca
di prender spunto da chi ci è
riuscito. –
-
Vuoi
dire da tuo padre? –
Lei
annuì.
-
Lui
mi ha detto che hai un tipo davvero… attento, che sa
osservare. – continuò lei,
distogliendo lo sguardo – Se è
così… troverai di sicuro un modo. –
-
E
come? –
-
Innanzitutto
finendola con queste domande e prendendo quella stupida chitarra!
– sbottò lei
– Non vorrai far fare tutto a me, no? – gli
strizzò un occhio.
Yamato
tornò sul palco e si posizionò davanti al
microfono. Gli altri componenti lo
guardarono, un po’ incerti. Lui fece un semplice accordo, lo
strumento vibrò e
il suono parve espandersi al suo stesso corpo.
Provò alcuni versi di una canzone, la prima che gli venne in
mente. Sentiva lo
sguardo di due occhi viola su di sé e il cuore battergli
forte nel petto.
Ricordò le parole di lei e gli tornarono in mente le
fotografie. Rivide quei
paesaggi, quei mari, quei cieli, quelle città… e
quel viso, quel collo, quelle
labbra, quegli occhi… e tutto gli parve così vero
e prezioso e delicato, come
vibrante di luce, come se il flash ne avesse carpito
l’essenza per trasportarla
sulla pellicola, come un soffio di vento. Poi quelle immagini si
dissolsero e
la sua mente si svuotò: forse aveva capito.
Ispirò profondamente, impugnò la chitarra e
cantò. Per la prima volta in vita
sua ebbe la sensazione di cantare con tutto se stesso, facendo sgorgare
l’anima
insieme alle parole. Per la prima volta in vita sua si sentì
in pace col mondo,
quel mondo che l’aveva talvolta respinto ma poi avvolto nel
suo abbraccio,
sussurrandogli che lui stesso ne era il cuore pulsante.
Gli altri componenti del gruppo si erano uniti al cantante e pareva
fossero
stati influenzati dalla sua energia.
Rumiko non riusciva a distogliere lo sguardo, ipnotizzata da quella
voce. No,
si corresse, era ipnotizzata dal suo sorriso, dai suoi gesti. Non
riusciva a
staccare gli occhi da lui. Un lieve
rossore si dipinse sul su volto: in quel momento, le parve bello.
Continua…