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Autore: monalisasmile    16/06/2008    1 recensioni
Il viola è conosciuto come il colore dello spirito. Rappresenta il valore medio tra terra e cielo, tra passione ed intelligenza, tra amore e razionalità. È il colore della volontà di essere diversi, della metamorfosi. È una forza legata alla vitalità del rosso e all'intimo accoglimento dell'azzurro. Ma è anche il colore degli occhi di una ragazza che entrerà a far parte della vita dei digi-prescelti.
La narrazione comincia in toni leggeri: leggerete di nuovi incontri, di battibecchi e amori adolescenziali, di amicizie e piccoli dispiaceri, emozioni che condizioneranno le giornate e si porranno al centro delle loro vite. Almeno inizialmente.
Perché come nella vita spesso accade, arriverà il momento in cui i personaggi verranno posti di fronte a problemi maggiori e difficili decisioni. D’improvviso tutto parrà sfuggirgli tra le dita. Gli eventi si faranno incalzanti e spesso imprevedibili. Più volte si sentiranno impotenti di fronte a una realtà indecifrabile e troppo crudele per essere affrontata.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 4

 

Il mattino dopo, uscendo di casa, Rumiko trovò una sorpresa ad attenderla: Yamato appoggiato al man corrente.

-      Che fai qua? Aspetti qualcuno? –

-      Sì, te. – rispose lui, voltandosi dall’altro lato e cominciando a scendere le scale.

Tanto fu lo stupore della ragazza nel sentirsi rivolgere quelle parole, che rischiò di inciampare e finire a gambe all’aria.

-      Cos’è, una nuova tattica? – lo tallonò lei.

-      No. –

-      E allora si può sapere perché mi hai aspettata? –

Lui non rispose e la ragazza sbirciò la sua espressione. Possibile che ciò che vedeva sulle sue guance fosse un leggero rossore? Ma non disse nulla e continuarono a camminare lungo il viale. Di tanto in tanto lui le lanciava delle occhiate, affrettandosi poi a distogliere lo sguardo per non farsi scoprire. Ovviamente non ci riuscì e Rumiko cominciò ad irritarsi: che gli prendeva tutto d’un tratto? Sembrava che scrutasse il suo volto alla ricerca di non si sapeva cosa e lei cominciava a sentirsi come un pezzo d’esposizione.

-      Ehi, Ishida, ti sei forse innamorato di me? – sbottò poi.

Di nuovo lui non rispose. Lei sollevò le spalle, sbuffando leggermente.

-      Non lo credevo possibile, ma congratulazioni, riesci ancora a stupirmi: oggi sei più strano del solito! –

-      Perché, di solito sono strano? –

-      Da quando ti interessa la mia opinione? –

Per l’ennesima volta lui non trovò nulla di pungente con cui risponderle. Lei aggrottò la fronte.

-      Ti senti male, per caso? – chiese, avvicinando una manina al suo capo, ma lui scartò, evitando il suo tocco – Non sono mica un’appestata, sai? Ah, che ragazzo contorto! – e procedette.

Yamato attese un secondo e poi la seguì, il cuore in subbuglio e la mente confusa.

Quella scena si ripeté per un’intera settimana. Tutti i giorni lui l’aspettava davanti a casa, durante le lezioni di tanto in tanto lo beccava a fissarla e per i corridoi le faceva un cenno del capo quando la incontrava. Niente più frecciatine, sorrisi ironici, toni freddi e distaccati, sguardi che la superavano come se fosse fatta d’aria o la fulminavano. Se a molti altri la cosa avrebbe fatto piacere, lei cominciava ad infastidirsi: che si era messo in testa?
“ Giuro che non ci capisco più nulla! Ma cosa avrò di tanto interessante sulla faccia?! Anzi, dentro, visto che sembra farmi la radiografia!”
Incapace di darsi delle risposte, decise di rivolgersi all’unica persona che avrebbe potuto aiutarla.

-      Ciao Taichi, potrei parlarti un secondo? –

-      Dimmi pure! – fece lui, una volta entrati in un’aula deserta, lontani da sguardi indiscreti.

-      Si tratta di Ishida, cioè… Yamato. Ecco… mi sembra strano ultimamente. –

-      Strano in che senso? Io non ho notato nulla! –

-      Beh, noi non siamo mai andati molto d’accordo, eppure ora è come se il suo atteggiamento fosse cambiato improvvisamente… –

-      Mah, Yamato non è tipo da cambiare idea tanto facilmente. Perciò se si comporta in un certo modo avrà di sicuro le sue ragioni. –

-      Capisco… -

In realtà non le era stato di nessun aiuto, dato che ancora non capiva cosa passasse per la mente del biondo. Stava per tornare in classe, quando Taichi la fermò.

-      Ascolta, so che non ha un buon carattere, ma ti è assicuro che è un bravo ragazzo. – si sedette – Vedi, fin da piccolo è stato molto chiuso, anche a causa della separazione dei suoi e la lontananza dal fratellino. –

-      Non ne sapevo nulla. –

-      I genitori hanno divorziato quando lui era piccolo: Yamato è andato a vivere con il padre e Takeru con la madre. –

-      Takeru è… - ma non proseguì la frase.

“ Ma certo, in fondo si assomigliano e il modo in cui parlano tra di loro…” pensò, indispettita con se stessa per essersi lasciata sfuggire quelle nozioni fondamentali sul suo acerrimo nemico.
Taichi si limitò ad annuire.

-      È cresciuto senza il calore della madre e il padre era sempre impegnato, perciò Yamato badava anche alla casa. A 11 anni sapeva già badare a se stesso perfettamente, come un adulto. –

Lei non disse nulla.

-      So che è pieno di difetti, anch’io ci litigavo sempre! È testardo, arrogante, lancia frecciatine e tratta la gente con sufficienza, perché gli basta un’occhiata per farsi un’idea degli altri. Poi però ho scoperto che è solo apparenza: ho cominciato a conoscerlo, capirlo e quindi ad apprezzarlo. Quelle che tu vedi come mancanze ora io li considero dei pregi. So che non è facile, ma bisogna riuscire a comprenderlo e a vedere al di là del suo guscio. Lui ce la mette tutta per migliorarsi, ma non è certo una cosa da poco! Ha vissuto la sua infanzia in solitudine, coperto di responsabilità che un bambino non dovrebbe avere e riuscendo a svolgere tutto nel migliore dei modi. Quando il padre tornava a casa la sera, trovava sempre la cena pronta e le lenzuola pulite. –

Sollevò lo sguardo e la guardò.

-      Non so perché… ma vedo in voi una certa somiglianza. –

Lei lo fissò stupita e incerta.

-      Io penso – continuò sorridendo – che tu possa aiutarlo, proprio perché forse puoi capirlo meglio di me o chiunque altro. –

Fece per andarsene, ma poi parve ripensarci.

-      E penso che anche lui possa aiutare te. – aggiunse, per poi uscire dall’aula.

Rumiko si sedette su un banco, scossa. Che diavolo stava succedendo a tutti? E perché si sentiva tremare?
Udì la campanella decretare la fine dell’intervallo e decise di tornare in classe, dove avrebbe potuto riordinare con più calma le idee.
Una figura nell’ombra attese qualche secondo, per poi seguirla: aveva assistito alla conversazione. Con sorpresa aveva ascoltato le parole di Rumiko e con ancor maggior stupore quelle di Taichi. Cosa aveva voluto dire il ragazzo?
“ Che intenzioni hai, Tai? “
Entrando in classe, Sora richiuse la porta alle sue spalle.

Rumiko e Yamato stavano tornando a casa fianco a fianco ma, come ormai di consueto, senza rivolgersi la parola. Poi quel silenzio venne infranto.

-      Devo andare alle prove questa sera. – esordì il ragazzo, ma poi non parve trovare le parole per continuare.

-      Già, con il tuo gruppo. – commentò lei, dandosi mentalmente della scema per quella frase banale.

Cadde un imbarazzante silenzio e Yamato cominciò a perdere la pazienza: perché non riusciva a chiederglielo? Non era difficile, bastava assemblare poche parole e sputarle fuori! Eppure sembrava che le sue labbra fossero sigillate, il che era decisamente assurdo. Di solito capitava alle persone impacciate che non riuscivano a esprimere i propri sentimenti, invece lui aveva sempre parlato tranquillamente con Sora. Ma allora cosa gli stava accadendo?
“ Forza Yamato, sono due parole in croce! Non è da te titubare in questo modo!” si rimproverò “ E se lei si accorgesse della tua indecisione ne approfitterebbe senza esitare e allora chi la placherebbe più?”

-      Ti va di venire? – riuscì infine a sbiascicare e gli parve di essersi tolto un peso dallo stomaco.

-      Come scusa? –

“ Ma perché? “ pensò sconsolato.

-      Le prove – ripeté – ti va di venire a vederle? –

-      E perché dovrei? Non dirmi che ti interessa la mia opinione! – sorrise lei, sarcastica.

-      Beh, visto che critichi tanto la mia musica, il minimo che tu possa fare è venire ad ascoltarci! –

-      Non saprei… di sera è pericoloso… ci sono tanti maniaci in giro, dicono… - rifletté lei, seriamente preoccupata – potresti approfittare di me! –

-      Non ti preoccupare, ho gusti decisamente più raffinati. – rispose maligno, in cuor suo sollevato che la ragazza avesse alleggerito l’atmosfera: meglio i battibecchi di quel silenzio opprimente.

-      Come ti permetti, razza di cafone? – s’inviperì infatti lei.

-      Allora, vieni o no? – fece lui, ignorando volutamente le sue provocazioni e per questo facendola alterare ancor di più.

-      D’accordo, ci sarò. –

-      Bene, allora ti passo a prendere alle sette. –

Stava per entrare nel suo appartamento, ma si voltò.

-      Ah, un’ultima cosa, Kitamura. –

-      Magaaari fosse l’ultima. –

-      Non farmi fare brutta figura. – e si richiuse la porta alle spalle giusto in tempo per sentire un tonfo sonoro.

Accostò l’orecchio alla porta e poté sentire distintamente i borbottii della ragazza. Yamato sorrise: di sicuro si sarebbe rivelata una serata interessante.

Alle sette in punto si presentò davanti alla porta numero 17 e suonò il campanello. Lei venne ad aprirgli la porta. Indossava un paio di jeans attillati e degli anfibi. Sotto un giubbotto in pelle nera aveva una felpa con la cerniera aperta fino allo stomaco, che mostrava la maglietta rossa con la scritta “sound” sul petto. Non si era truccata, giusto un po’ di mascara e un velo di lucidalabbra. I capelli erano raccolti in una coda appoggiata ad una spalla.
Nel vedere il ragazzo guardarla con, secondo la sua opinione, più attenzione del dovuto, affondò le mani nelle tasche del giubbotto.

-      Andiamo sì o no? – borbottò.

Si avviarono, lui con la chitarra su una spalla, lei con il volto imbronciato e il cappuccio tirato sul capo. Yamato ridacchiò: in quel momento sembrava proprio una bambina scontrosa che fa i capricci.

-      E ora che hai da ridere? –

-      Niente, pensavo… - rispose lui, prevedendo la mossa successiva della compagna.

-      Continui a sorprendermi, Ishida. E cosa pensavi, di grazia? – lo punzecchiò.

-      Che sei carina quando metti il broncio. – disse lui con semplicità.

Rumiko avvampò, finendo di nuovo per mettere il muso tentando di nascondere il suo imbarazzo. Ovviamente il ragazzo aveva previsto anche questo e scoppiò a ridere della sua ingenuità. Lei rimase un attimo spiazzata, di fronte a una simile manifestazione: non aveva mai riso in quel modo così… spontaneo. O almeno non davanti a lei.
Poi la diciottenne parve riacquistare il controllo, perché cominciò a protestare, visibilmente stizzita.

Camminavano lungo il viale alberato, lo stesso che percorrevano per andare a scuola. Però ora appariva diverso, con quel silenzio quasi surreale, le fronde scure degli alberi che incombevano su di loro, le luci dei lampioni che spandevano pozze gialle sull’asfalto. Di tanto in tanto una macchina passava, illuminandoli per un attimo per poi sfrecciare via veloce. Ma non era solo il paesaggio a sembrarle diverso: anche il suo compagno.
Era come vederlo per la prima volta, così calmo e tranquillo, il passo cadenzato, il viso disteso. Indossava abiti semplici: una paio di jeans scuri, un giubbotto e sotto una camicia bianca. La chitarra ondeggiava leggermente, secondo il ritmo del suo incedere, come se fosse un’estensione del suo corpo.
Si arrischiò a scrutarne il volto con più attenzione e il suo cuore perse un battito: un sorriso sereno e una sguardo limpido rischiaravano i suoi lineamenti, facendoli apparire… belli.

Arrivarono a destinazione ed entrarono in quello che una volta doveva esser stato un magazzino. L’interno era stato ristrutturato e ora doveva essere una sorta di locale notturno. Una decina di tavolini e molte sedie erano accatastati lungo una parete e un bancone dall’aspetto rustico si ergeva dall’altro lato. Di fronte a questo erano stati posizionati gli immancabili sgabelli alti e una collezione di bottiglie di ogni forma e colore faceva la sua bella mostra alle spalle del barista. Infine, al fondo dell’edificio, c’era un piccolo palco rialzato riservato al gruppo.
Rumiko dedusse che era lì che si sarebbero svolte le prove per via degli strumenti, le apparecchiature, i microfoni, gli spartiti sparsi sul pavimento e un gruppo di ragazzi che faceva loro cenno di avvicinarsi. Ma appena si accorsero della ragazza cominciarono a sghignazzare.

-      Ma Yamato caro… non ci avevi detto che volevi portare la tua fidanzatina! – cinguettò uno di loro – A saperlo ci saremmo messi in tiro, vero ragazzi? –

Sghignazzarono.

-      Se mai un giorno volessi essere lasciato su due piedi ti presenterò la mia ragazza. – gli rispose a tono Yamato con un ghigno sul bel volto – Lei invece si chiama Rumiko Kitamura ed è la mia nuova vicina di casa. –

-      Comunque resta il fatto che è una donna e tu stesso hai detto di non volerle tra i piedi! – disse un altro.

-      Non è una donna, ma solo… -

-      Prova a dire qualcosa di anche vagamente offensivo – sibilò lei con un grosso sorriso stampato in faccia – e farò in modo che la tua voce raggiunga degli acuti da fare invidia a Whitney Houston… – sibilò lei.

Subito scese il silenzio e tutti la fissarono attoniti. La ragazza contrasse la mascella, per nascondere l’imbarazzo crescente. Poi il silenzio si infranse in una risata generale.

Lanciò un’occhiata d’ammonimento al cantante e subito questo smise di ridere: ormai aveva capito quando stava per passare il limite.

-      Sei proprio forte! Altro che ragazza, sei una bomba a orologeria! – commentò uno tra le lacrime.

-      Già, non avevo mai sentito il gentil sesso minacciare Yamato. –

-      Povero il nostro idolo, ti sei trovato finalmente una ragazza che ti da del filo da torcere! – lo canzonò uno, dandogli delle pacche energiche sulla schiena.

Rumiko decise che era il momento di lasciare il campo.

-      Datti da fare, ok? Non voglio rovinarmi la serata per colpa tua. –

-      Come sarebbe a dire? Guarda che se non ti andava potevi non venire. –

L’altra non gli rispose neanche, liquidandolo con un gesto annoiato della mano. Scese dal palco per andare a sedersi al bancone, dove incrociò le braccia a intendere che dovevano darsi una mossa a cominciare.
I ragazzi si prepararono sghignazzando.

-      Non è solo un peperino, è pure mooolto carina. – commentò il batterista.

-      Già, bella e di carattere! Ma dove le trovi? –

-      Vi prego, evitate: è una musica che già sento tutti i giorni a scuola. –

-      Ce l’hai pure in classe! Ah, beata giovinezza… – disse un altro inforcando il basso.

-      Piantala di fare il matusa, che hai solo due anni più di me! –

-      D’accordo, continuerete dopo! Sta sera abbiamo un ospite pericoloso, perciò impegniamoci, ok? –

E diedero inizio alle prove.

Dopo un oretta decisero di fare una pausa e Yamato raggiunse la ragazza, sedendosi su uno sgabello.

-      Allora, che te ne pare? – chiese.

In realtà avrebbe saputo rispondersi anche da solo: quella sera aveva dato il meglio di sé.

-      Potresti essere bravo. – si limitò a commentare lei, sorseggiando il drink che le era stato offerto dal barista.

-      Come scusa? – fece l’altro, per un momento spiazzato.

Senza alzare lo sguardo dal bicchiere, Rumiko continuò.

-      Hai una bella voce, bassa e leggermente roca… Non esattamente Johnny Cash, ma ha un timbro interessante. Insomma, la tecnica è buona e il ritmo c’è, ma è come se ti mancasse qualcosa… –

-      E cosa sarebbe? – chiese, un po’ stizzito.

-      La passione. – rispose lei, guardandolo finalmente negli occhi.

Di nuovo lui non seppe cosa dire.

-      La…passione? – riuscì solo a sbiascicare.

-      Sì. –

Scese un silenzio imbarazzante e il ragazzo fece un cenno al barista perché gli portasse qualcosa da bere. La ragazza aspettò che mandasse giù un bel sorso, poi proseguì, volgendosi però a guardare il palco dove i musicisti conversavano animatamente.

-      Te l’ho detto anche la prima volta che ci siamo incontrati, no? – continuò, pacata – La tua musica è piacevole, ma le manca trasporto. Ascoltandoti, io posso ammirare le note e la tua intonazione, ma… non posso ammirare te. –

Fece una pausa, constatando che lo sguardo del biondo era puntato su di lei.

-      Le tue canzoni sono del tutto impersonali. Parlano di amicizie, di amori, di nobili sentimenti – un sorriso appena accennato – e sono certa di sapere chi sono le tue fonti d’ispirazione. Sono tutte persone bellissime, ma non sono te. Tu non vuoi cantare di te. –

Lui non rispose, continuando a scrutare il liquido nel bicchiere. Avrebbe voluto ribattere, farla tacere, ma improvvisamente si sentiva la gola secca e la mente svuotata. Si sentiva sotto processo: qualsiasi cosa avesse detto, temeva sarebbe stata usata contro di lui. Eppure lei taceva, in attesa.

-      Non c’è niente di interessante da sapere di me. – riuscì a dire, quasi in un soffio.

-      Mio padre non la pensa così. – commentò lei, in tono fermo – E nemmeno io, Yamato. –

L’altro sollevò lo sguardo, colpito più dal fatto che l’avesse chiamato per nome che dal contenuto delle sue parole.

-      Le persone vanno ai tuoi concerti e acquistano i tuoi album perché vogliono sentirti. – proseguì lei, misurando le parole – Vogliono sentire te, non solo la tua voce. –

-      Le persone vogliono sentire qualcosa di divertente, di triste o commovente. Ma io non sono così. – abbassò il tono di voce – Tai lo è. Anche Sora lo è. Persino Koushiro. Tutti loro traboccano di simili… emozioni. È questo che li rende ciò che sono. È per questo che canto di loro. –

-      Pensi di essere povero di emozioni? –

-      Forse. O forse è come dici tu – sorrise amaramente – Mi manca il trasporto, non sono uno che si lascia andare. – si scompigliò nervosamente i capelli. – Magari sono solo strano, come spesso mi ripeti. –

-      Allora canta di questo. –

-      Questo cosa? –

-      Del fatto che non sai che ti manca, che non riesci a lasciarti trasportare dalle emozioni. Se non altro sarebbe qualcosa di diverso dal solito! –

-      La gente non capirebbe. –

-      Non credere di essere l’unico ad avere simili dubbi, faticare nel conoscere se stessi è un problema che molti affrontano tutti i giorni. Molti capiranno quello stai loro dicendo, altri invece no. Ma infondo che importa? L’importante è che tu riesca a tradurre i tuoi pensieri e le tue emozioni in parole. – gli sorrise – E qualsiasi termini tu scelga per esprimerti, sarà qualcosa di intimo, di te. –

Yamato piegò la bocca in una smorfia.

-      Cosa ti fa pensare che io muoia dalla voglia di rivelare i miei pensieri più intimi a centinaia di persone? –

-      Il fatto che siamo qui stasera. Che hai scelto di cantare. – rispose lei, sicura.

-      Non essere ingenua – le disse in tono più velenoso di quanto avesse voluto – Far parte di una band non ha nulla a che fare col parlare di se stessi. -

-      E allora perché hai deciso di fare musica? –

-      Per lo stesso motivo di molte altre persone, no? – sbottò lui, tagliente, di nuovo con modi molto più rudi di quelli che avrebbe voluto, incapace di controllarsi.

-      E quali sarebbero questi motivi? – fece lei, cominciando a perdere la pazienza – I soldi, la fama, le ragazze? Tu non hai bisogno di queste cose e lo sappiamo tutti e due. –

-      Mettiti in testa una cosa: TU NON SAI NULLA DI ME! – soffiò lui torvo, per poi abbassare lo sguardo e stringere i pugni.

Questa volta il silenzio calò sull’intero locale: tutti i presenti avevano udito la discussione.

“ Non volevo dirlo, non avrei dovuto… ma tu mi fondi il cervello e io perdo il controllo.
Maledizione… non guardarmi! Non fissarmi con quello sguardo così simile al mio. Se ti guardo mi vedo allo specchio, mi vedo riflesso nei tuoi dannatamente belli occhi viola e questo mi fa male. Ti prego, perciò, non guardarmi così… Delusa…
No, non dire nulla, ti prego! Non aprire quella bocca implacabile, che mi costringe a ribattere con parole ancor più orrende. Non voglio ferirti, non voglio deluderti ancora… Fa male da morire… Ti prego, perciò, non parlare!
Odiami, se vuoi, scappa! Scapperei da me stesso se solo potessi… Non sono la persona giusta per te. Non posso aiutarti come vorrebbe tuo padre, come io stesso vorrei. Perciò fuggi, allontanati, tu che puoi… perché io non posso lasciare questo sgabello che mi tiene inchiodato accanto a te…”

-      È vero, io non so nulla di te, perché non ti conosco. Ma una cosa la so per certo: stai sprecando il tuo talento a causa del tuo stupido orgoglio. O forse per timore che la gente veda chi sei veramente, che ti giudichi. Mette paura essere il giudicato anziché il giudice, vero? – gli rivolse un ghigno sarcastico – Non è piacevole scoprire di essere meno straordinari di quanto si pensava di essere, trovandosi faccia a faccia coi propri difetti. Fortuna – proseguì – che non bisogna essere persone meravigliosamente perfette per comporre e cantare, basta essere schietti. Con se stessi e quindi con gli altri. La musica, quella vera, non è fatta per illudere, ma per parlare ai cuori di chi ti ascolta. –

Lui la guardò, indecifrabile.

-      Mio padre ti direbbe la stessa cosa. In fondo la fotografia e la musica si somigliano. Con le sue opere, mio padre comunica le sue emozioni e suoi pensieri alla gente. Le sue foto sono così belle perché in grado di trasmettere il suo punto di vista, mostra ai cuori delle persone il mondo come lo percepisce lui. Io, quando le guardo, mi sento bene. –

Lui non le staccò gli occhi dosso, nemmeno per un istante.

-      Dovresti fare come lui. –

-      Non è così facile. –

-      Lo so. – ribatté lei fermamente. – Ma cerca di prender spunto da chi ci è riuscito. –

-      Vuoi dire da tuo padre? –

Lei annuì.

-      Lui mi ha detto che hai un tipo davvero… attento, che sa osservare. – continuò lei, distogliendo lo sguardo – Se è così… troverai di sicuro un modo. –

-      E come? –

-      Innanzitutto finendola con queste domande e prendendo quella stupida chitarra! – sbottò lei – Non vorrai far fare tutto a me, no? – gli strizzò un occhio.

Yamato tornò sul palco e si posizionò davanti al microfono. Gli altri componenti lo guardarono, un po’ incerti. Lui fece un semplice accordo, lo strumento vibrò e il suono parve espandersi al suo stesso corpo.
Provò alcuni versi di una canzone, la prima che gli venne in mente. Sentiva lo sguardo di due occhi viola su di sé e il cuore battergli forte nel petto. Ricordò le parole di lei e gli tornarono in mente le fotografie. Rivide quei paesaggi, quei mari, quei cieli, quelle città… e quel viso, quel collo, quelle labbra, quegli occhi… e tutto gli parve così vero e prezioso e delicato, come vibrante di luce, come se il flash ne avesse carpito l’essenza per trasportarla sulla pellicola, come un soffio di vento. Poi quelle immagini si dissolsero e la sua mente si svuotò: forse aveva capito.
Ispirò profondamente, impugnò la chitarra e cantò. Per la prima volta in vita sua ebbe la sensazione di cantare con tutto se stesso, facendo sgorgare l’anima insieme alle parole. Per la prima volta in vita sua si sentì in pace col mondo, quel mondo che l’aveva talvolta respinto ma poi avvolto nel suo abbraccio, sussurrandogli che lui stesso ne era il cuore pulsante.

Gli altri componenti del gruppo si erano uniti al cantante e pareva fossero stati influenzati dalla sua energia.
Rumiko non riusciva a distogliere lo sguardo, ipnotizzata da quella voce. No, si corresse, era ipnotizzata dal suo sorriso, dai suoi gesti. Non riusciva a staccare gli occhi da lui. Un lieve rossore si dipinse sul su volto: in quel momento, le parve bello.

 


Continua…

 

  
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