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Autore: Bloomsbury    12/02/2014    17 recensioni
[Storia in revisione] Capitoli revisionati: 14/35.
Jay era un ragazzo come tanti, con qualcosa in più o in meno degli altri, un ragazzo normale, un ragazzo omosessuale: particolare insignificante per ogni persona di buon senso.
Si vergognava di tante cose, tranne che di questo.
Jay bramava la luce, la libertà.
Fece la scelta sbagliata nel contesto meno appropriato e quel particolare insignificante diventò la spada che lo uccise, la macchia scura che lo inghiottì.
«Mio figlio è morto il giorno stesso in cui ha tradito la natura che gli ho donato con orgoglio.»
«La natura che mi hai donato è quella che ti ho confessato…»
«È una natura che mi fa ribrezzo!»
Così comincia la storia di Jay Hahn, fatta di dolori, di abbandoni, di amore, di amicizia, di segreti, di bugie, di tempesta.
E le tempeste intrappolano nel proprio occhio ogni cosa, risputandoti fuori lacerato, diverso, un mostro.
Jay uscirà ed entrerà da quelle raffiche di vento, diventerà lui stesso la tempesta e annienterà ogni cosa al suo passaggio.
Compreso se stesso.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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"We might kiss when we are alone
When nobody's watching
We might take it home
We might make out when nobody's there
It's not that we're scared
It's just that it's Delicate."

Delicate- Damien Rice



7. Delicate

Il freddo dei primi di Novembre era sempre il più insoffribile, soprattutto per il vento tagliente che quasi costringeva i passanti a cercare indisturbati un qualsiasi luogo che potesse salvarli dall’incessante sensazione di intorpidimento che impossessava ogni cosa.
Nonostante l’abitudine di vivere in un luogo sempre e costantemente oggetto di ogni indignazione del tempo, nessun londinese riusciva realmente ad accettare passivamente il freddo che quell’anno colpì Londra senza alcuna benevolenza.
Il freddo si sopporta ma difficilmente si accetta per come è, tranne che per Izaya che viveva il ciclo ininterrotto di ogni giornata come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Raramente si lamentava di ciò che non poteva controllare e anziché compiangersi per il gelo che aveva impietosamente preso in ostaggio le sue vene, preferiva gioire del calore ritrovato per merito della fumante e rinvigorente tazza di caffè che stringeva nelle mani.
Amava lasciar perdere lo sguardo al difuori delle vetrate del bar, concentrandosi, di tanto in tanto, sulle gocce di pioggia che componevano buffi disegni aggrappati all’ampio finestrone affacciato sul tratto finale dello Strand.
Izaya poggiava i gomiti sul tavolo sostenendosi il viso con le mani, e vagabondava con i pensieri lasciandoli posare su qualsiasi cosa avesse catturato il suo interesse.
Spostava i suoi grandi occhi nocciola su ogni piccolo particolare e a volte sorrideva tra sé e sé pescando nella sua mente una delle tante immagini capaci di allietarlo.
C’era un pensiero in particolare che lo spingeva a sorridere, sempre più spesso.
Vide una goccia di pioggia scivolare lievemente sul vetro appannato e sorrise ripensando al ragazzo che aveva conosciuto neanche una settimana prima ma che si era imposto silenziosamente, senza grandi gesti o plateali richieste di attenzione.
Jay era entrato nella sua testa pacatamente, leggero come una brezza e in punta di piedi vagava tra le parole confuse generate dagli eventi della sua quotidianità.
Laddove normalmente non doveva essere contemplato, la sua figura si ripresentava di sorpresa, senza alcun preavviso. Vagava leggero tra le liste della spesa, tra il fumo di sigarette, tra i titoli di coda di un film trasmesso in seconda serata in tv.
Jay c’era sempre e persisteva.
Non era ciò che aveva detto né qualcosa in particolare che aveva fatto, era lui e soltanto lui nel suo insieme composto dalle sue peculiarità, era Jay nella sua sostanza, nel suo essere, nel suo vissuto; appariva anche quando non era presente ed era il desiderio di vederlo che costruiva la sua forma quasi palpabile.
Izaya sorseggiò il caffè nero lasciando che il calore potesse risvegliare il torpore che aveva dominato le sue dita per tutta la mattina e cercò Lizzie indaffarata con le prime faccende del preapertura.
Il ragazzo era solito recarsi al bar poco prima dell’ora di inizio delle attività, degustando il primo e debole caffè della macchinetta appena accesa. Purgarsi con l’annacquato e iniziale prodotto della caffetteria era diventato quasi un rito barbarico di iniziazione, poiché cominciare la giornata con il caffè di Lizzie era più una prova di coraggio che una reale necessità, ma l’abitudine di beneficiare delle prime ore del mattino, custodito tra le braccia amorevoli di quelle mura zeppe di poster dei musicisti dell’età del Jazz, si rivelò dura a morire, soprattutto da quando aveva svelato questo piccolo particolare a Jay.
Izaya non sapeva se avesse colto quell’informazione buttata lì, quasi per caso, durante una chiacchierata, ma attese l’arrivo di Jay consultando continuamente l’orologio, sperando non facesse troppo tardi.

“Io, di solito, sto qui al bar già delle sei del mattino. Mi piace bere il caffè da solo, ascoltare il tintinnio delle tazze e dei bicchieri appena usciti dalla lavastoviglie, aspettare che arrivi l’ora di andare a lavoro e godere del silenzio di questa sala vuota che mi permette di mettere in ordine i pensieri.” Lo disse, quella sera, senza farsi alcuna aspettativa, ma pronunciò quelle parole così lentamente da farle sembrare un invito.

Fissò ancora l’orologio, insicuro sul da farsi. Lo avrebbe aspettato ancora, fino a che il tempo a sua disposizione non fosse terminato. E quando ormai sentì di poter lasciare andare la speranza lo vide correre lungo lo Strand come la prima volta, sotto la pioggia: aspettava il momento giusto per attraversare la strada con il viso leggermente alzato e gli occhi attenti sulle auto che sfrecciavano. Sembrava un bimbo in preda all’eccitazione e un senso di gioia scivolò sul viso di Izaya, donandogli un lieve sorriso di compiacimento che lo illuminò mentre sbirciava di sottecchi l’arrivo di Jay, richiamandolo a sé con impazienza.
Il rumore del campanellino posto sulla porta lo fece trasalire, come se non si aspettasse un’entrata così irruenta e aspettò di spalle, senza voltarsi, fremendo al solo pensiero di avercelo davanti.
Sentì i suoi passi avvicinarsi lentamente; anche il suo incedere parlava di lui, lo raccontava, lo svelava.
Passi silenziosi ma decisi si susseguivano, sempre più udibili e pieni della sua presenza, finché smisero di farsi sentire.
L’impercettibile e adorabile rumore cessò e già sentiva che gli sarebbe mancato.
«Izaya.» Anche la sua voce lo definiva, anche quando pronunciava un nome che non era il proprio.
Izaya si voltò, svelando il solito sorriso in bilico tra l’imbarazzo e il compiacimento, non disse nulla ma lo invitò con lo sguardo a sedersi difronte a lui.
Tacitamente, Jay accettò l’invito e si sedette ansimante per via della corsa, mostrando i grandi occhi verdi legati a quella dannata e perenne malinconia che l’aveva da sempre contraddistinto, fin dal loro primo incontro.
Se avesse potuto gli avrebbe strappato quella tristezza dallo sguardo e l’avrebbe trasformata in qualcos’altro. Avrebbe voluto vedere tutto fuorché la tristezza, eppure, guardando meglio, quelle iridi trasparenti avevano dell’altro quella mattina.
«Sono felice che tu sia qui, Jay.»
«Lo sono anche io». Sorrise e tutto fu chiaro: c’era una pacata esaltazione nei suoi occhi, del tutto nuova. Aveva corso affannosamente lungo lo Strand per raggiungerlo, sperando di fare in tempo.
Si era alzato quella mattina dicendosi che non sarebbe dovuto andare al bar, che non avrebbe potuto compiere quel gesto sperando potesse risultare casuale 
non dopo le parole di Izaya  ma l’istinto aveva giocato sporco, facendolo svegliare prima del solito con un unico ed invadente pensiero: correre da lui con il rischio di scoprirsi troppo.
Aveva temporeggiato ammonendosi di continuo, trovandosi mille cose da fare pur di non cadere nella tentazione di riunirsi a lui, ma ogni tentativo fu vano perché, nonostante il ritardo, i suoi piedi avevano deciso di correre. Lo fece disperatamente, pregando di trovarlo ancora lì e quando, poi, lo vide di spalle, seduto da solo nel bar vuoto, il cuore aveva sbrogliato ogni dubbio dicendogli che aveva fatto la cosa giusta, contro ogni ragione e logica.
«Hai fatto troppo tardi, ragazzino. Devo andare via».
Izaya aveva osato, affondando lo sguardo nel caffè. Aveva ammesso di averlo velatamente incoraggiato a recarsi al bar e sperò che Jay potesse dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse sdrammatizzare un’affermazione che, seppur ardita, era del tutto sincera.
La risposta attesa non arrivò a parole, ma giunse ai suoi occhi con uno sguardo eloquente che esprimeva appieno ogni minima emozione. Non avevano più molto tempo, il ritardo di Jay aveva reso quel momento fuggevole, ma le percezioni di entrambi divennero sempre più acute, come se avessero deciso di funzionare al massimo delle loro possibilità per dargli modo di gustarsi reciprocamente e pienamente in un lasso di tempo troppo breve per essere vissuto con disattenzione. Il rumore della pioggia, i profumi e perfino i movimenti di ognuno sembravano avere tutto un altro gusto e significato; come quando osservi una persona che conosci in ogni minimo particolare ma che, chissà per quale motivo, ti sembra di vederla per la prima volta.
Ormai si conoscevano, avevano passato una settimana insieme a Lizzie e Chaz, ogni benedetta sera a bere, a fumare, a chiacchierare, eppure sembravano diversi, due sconosciuti che imparano a conoscersi di nuovo, perché era sempre così tra Izaya e Jay: si conoscevano per la prima volta ad ogni incontro.
Era la voglia di scoprirsi vicendevolmente che iniziava questo gioco di ricordi perduti, Jay lo vedeva e dopo averlo lasciato se ne dimenticava, scordava tutto: gli occhi, il sorriso, ogni suo tratto diventava vago, cosa che lo portava a sentirne sempre la mancanza.
Per Izaya era diverso, sebbene avesse sempre il suo ricordo marchiato nella mente, più il loro rapporto si intensificava più i suoi tratti prendevano forma distintamente, tanto da farlo mutare in continuazione, perché ogni nuovo tassello incastrato all’altro componeva ininterrottamente immagini nuove, più dettagliate e precise.
Sapevano che prima o poi sarebbe arrivato il momento di mettere fine a quella costante sensazione di déjà vu e l’unico modo era parlarsi, dichiararsi ed esprimersi liberamente in modo da impedire alla mente di cancellarsi ogni volta per protezione o per spirito di sopravvivenza. L’uno avrebbe dovuto assicurare la propria presenza all’altro, senza paura di prendere fregature.
Izaya, dal canto suo, aspettava che Jay potesse prendere in mano le redini della sua vita senza forzature, conosceva profondamente le sue difficoltà in proposito ma decise comunque di osare e di metterlo a conoscenza delle sue intenzioni. «Io voglio vederti ancora. Perché sta diventando di vitale importanza». Parole che sembravano più grandi di lui fluirono dalle sue labbra, investendo in pieno il cuore di Jay che colpito dall’imprevedibilità di quell’affermazione trascinò i porpri dubbi lontano da sè, conducendo la nitidezza dei suoi sentimenti in superficie. E come in ogni prima cotta, la sicurezza dei pensieri dell’altro porta l’infatuazione a diventare qualcosa di più e Jay, nell’ingenuità del suo acerbo amore, ricadde nella certezza di desiderarlo pienamente, cancellando ogni traccia di timore legata all’incapacità di sostenere l’ennesimo rifiuto.
«Ma noi ci vediamo ogni giorno…»
«Non mi basta». Il tono perentorio di Izaya, scaturito dal pressante desiderio di accorciare le distanze, lo fece sorridere con estremo imbarazzo.
L’incertezza data dall’inesperienza lo zittì irrimediabilmente.
Cercava parole da dire senza riuscire a trovarne una che fosse calzante e che potesse spiegare al meglio i suoi intenti.
Izaya riconobbe tra i tratti dolci e fanciulleschi di Jay la risposta alla sua provocazione e per non costringerlo ad esprimersi si alzò. «Sono in ritardo, devo scappare. Pensaci a quello che ti ho detto e se ancora non hai capito te lo ripeto in modo più diretto: tu mi piaci Hahn, Jay Hahn. Quindi, se non ti disturba la cosa, vorrei conoscerti meglio».
Il tono canzonatorio di Izaya, che evidenziava ancor di più i contorni della sua personalità che, tendenzialmente, lo portavano a sdrammatizzare qualsiasi cosa 
maggiormente in presenza di Jay  lo divertì e, contemporaneamente, lo fece sentire meglio, libero dalle oppressioni che normalmente vengono generate dalla sensazione di inadeguatezza di chi deve rispondere ad una dichiarazione così specifica.
«Ma… cioè… io non ci devo pensare. Io già so cosa rispondere, ma…»
«Non rispondere e affidati all’intuito di un uomo adulto che dovrebbe saper leggere negli occhi di chi ha davanti».
Jay alzò la testa per guardarlo dritto negli occhi e rimase piacevolmente colpito dall’espressione teneramente scherzosa di Izaya.
Come al solito, aveva reso tutto più facile, alleggerendo il suo animo.
Perché lui faceva sempre così.
Anche quando Jay giungeva al bar di cattivo umore per via dei comportamenti della sua famiglia
con Chaz accanto che lo ammoniva continuamente dicendogli cosa avrebbe dovuto fare e cosa, invece, aveva sbagliato  trovava lui pronto a ridimensionare tutto e a dargli la giusta dose di coraggio per resistere.
Ogni sorriso non dato da sua madre, ce n’erano cento di Izaya; ogni parola demolitiva di suo padre, ce n’erano mille di consolazione. Ormai era così da una settimana e sentiva che se si fosse affidato pienamente a lui sarebbe stato sempre così, per tutto il resto del tempo che c’era da vivere.
«I miei occhi ti dicono che voglio vederti ancora?»
La delicatezza con il quale Jay tentava di farsi capire senza scoprirsi troppo lo intenerì e nonostante avesse voluto prenderlo e portarlo via con sé, si fermò, quasi per paura di spezzare un’innocenza così bella. Quel ragazzino lo spiazzava, anche quando non osava parlare, capì che avrebbe dovuto trattarlo con cura, con attenzione, a tal punto da trattenere l'istinto e decidere di prenderlo per mano e condurlo verso un viaggio nuovo, un cammino che l’avrebbe portato, poco per volta, a lui.
«Se vuoi saperla tutta: i tuoi occhi dicono molto di più.» Si voltò incamminandosi verso l’uscita. «Ci vediamo più tardi, Hahn. E vedi, stavolta, di farti trovare abbastanza presto, non mi piace aspettare.»
«D’accordo!» acconsentì ridacchiando, stringendo gli occhi e mostrando il primo sorriso davvero felice dopo giorni che sembravano fossero stati anni.
La campanella sulla porta fece il resto, ricordandogli che l’incontro, ormai, era finito.
Non sarebbe tornato a breve, l’avrebbe visto la sera stessa, quindi avrebbe dovuto passare il resto della giornata senza di lui, senza poterlo sbirciare furtivamente nel suo gesto di accarezzarsi la barba con fare pensoso, senza le sue improvvise sparate buttate a caso.
Guardò incuriosito fuori dal finestrone e lo vide allontanarsi sotto la pioggia, con la sua solita calma placida, fino a che poi sparì tra la gente frettolosa, lasciando solo un enorme senso di vuoto nel petto.
Adagiò la testa sulle braccia lasciando che le stesse gli coprissero il volto, Izaya non l’aveva neanche sfiorato ma stranamente poté percepire ancora il suo profumo. Chiuse gli occhi e assaporò la fragranza fresca ma decisa dell’uomo che sentiva di amare, al quale mai avrebbe dichiarato i suoi sentimenti con leggerezza. Avrebbe pensato, ci avrebbe riflettuto, anche se sentiva già la risposta pulsargli nel petto.
Izaya, a differenza della sua presenza possente, quasi intimidatoria, era l’esatto opposto nella sua essenza, ed era proprio questo a renderlo ancora più strano e adorabile.
Nelle belle giornate amava cimentarsi in evoluzioni sullo skateboard sotto gli occhi compiaciuti dei suoi colleghi, a lavoro vestiva i panni di un praticante serio e ligio al dovere. Aveva scelto con cura lo studio legale nel quale lavorare: non troppo famoso, con un ambiente sereno al pari del suo animo, capi giovani e tolleranti; aveva pensato a tutto pur di farsi assumere senza dover modificarsi. Non era lui a doversi adattare: strana filosofia, ma certamente molto azzeccata, poiché sembrava fosse alla base del suo intero stile di vita. Per questo Izaya era un ottimista, un perenne cultore della leggerezza d’animo.
“Un immaturo!” diceva Chaz.
“Un eccentrico” rispondeva Lizzie.
“Un uomo libero” concludeva Jay.
Viveva solo ed era indipendente e, cosa strana, odiava qualsiasi mezzo di locomozione di appartenenza propria. Preferiva raggiungere ogni luogo a piedi o con i mezzi pubblici, e odiava testardamente chiunque gli dicesse che avere un’auto fosse di vitale importanza.
“Le gambe, quelle sì che sono di vitale importanza. Le auto sono solo grovigli di ferraglia inquinanti, costose e impegnative. Le auto sono il male. Mandano in paranoia la gente, per questo chi ha un auto è sempre e perennemente incazzato con il mondo”.
Qualsiasi cosa fosse, Izaya era un uomo in pace con se stesso e con tutto quello che lo circondava e se il suo carattere era così contrastante come il suo modo di apparire, allora, doveva per forza nascondere dell’altro.
Etichettare le persone è sempre troppo facile, soprattutto quando si dimostrano particolarmente aperte, ma Jay ne era certo: Izaya era molto di più di un eccentrico, immaturo e pazzo uomo libero.
Con il viso immerso nelle braccia e i pensieri inabissati sul fondale sconosciuto della complessità di Izaya, Jay pregustava il prossimo incontro, dicendosi che avrebbe fatto e detto qualcosa di più.
Gli avrebbe confessato i suoi sentimenti, dichiarando la sua intenzione di volerlo frequentare più approfonditamente.
Non c’era alcun ostacolo, perché avrebbe dovuto temporeggiare inutilmente?
La piccola campanella avvisò l’arrivo di qualcun altro e nella speranza che potesse essere proprio lui destò lo sguardo e vide due occhi grandi e scuri guardarlo con determinazione. «Jay, io ti devo parlare.»
Ogni fantasia fu calpestata dall’irruente risolutezza di Chaz che, con i muscoli irrigiditi dalla tensione, impose la sua presenza, aizzando le paure incerte e nascoste di Jay circa il destino della loro amicizia.

   
 
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