16
L’uomo
entrò di prepotenza nella mia stanza, subito dopo la
colazione. Era sulla
trentina, biondiccio, con le guance scavate e le braccia eccessivamente
muscolose.
-
Prepara i tuoi bagagli – mi disse, secco – Parti
fra mezzora.
Pensai
che avesse sbagliato stanza, sbagliato persona.
- Io
sono Helaida d’Orca, tu chi cerchi? Sono qua solamente da
quattro giorni.
- E
resteranno i tuoi unici quattro giorni, ti
riporto a casa. Forza, metti insieme le tue cose!
Io
invece rimasi immobile, imbambolata.
-
Avanti ragazza, non ho molto tempo da perdere! Il Granduca ci mette a
disposizione il calesse con i cavalli più veloci per
accelerare i tempi del
nostro viaggio: devo tornare il prima possibile per prendere in mano la
gestione
dell’harem.
- La
prendi in mano tu? E... Tristan?
Lui
fece un cenno dispersivo con il braccio e mi spinse verso
l’armadio.
-
Muoviti, adesso, ritorno fra poco.
- Ma
se torno a casa, il mio popolo morirà di fame!
- No,
le condizioni resteranno le stesse. E ora
sbrigati!
Se
ne andò sbattendo la porta e lasciandomi nel più
completo stato confusionale.
Andare
a casa. Le condizioni non cambiano. Tristan... destituito.
Ma che cosa sta
succedendo?
Mettere
insieme le mie cose fu questione di qualche minuto: ero arrivata con
poco, me
ne andavo con ancora meno. Indossai il mio vecchio vestito, ormai
ricucito, e
legai i capelli con il mio nastro azzurro... ricucito
anch’esso. Le altre
ragazze però iniziarono ad affollarsi alla mia
portafinestra, curiosando,
chiedendo prima in modo discreto, poi sempre più diretto.
-
Non lo so, non capisco – ripetevo io, stralunata –
Non mi ha spiegato niente!
Poi
Suhanna fece capolino fra le altre – Ho sentito io delle
voci, mentre
stamattina ci servivano la colazione... Sembra che Tristan abbia fatto
uno
scambio con il Granduca, per liberare Helaida.
Trasalii
– Quale tipo di scambio?
- Io
ho sentito solo questo – rispose, scuotendo la testa - Ieri
sera è andato sul
tardi nelle stanze di Roman Fedar e hanno stilato un patto. Da quel
momento,
nessuno ha più visto Tristan.
Non
feci in tempo a elaborare la notizia, perché il tizio
biondiccio tornò come un
ciclone nella mia stanza.
-
Sei pronta? I cavalli ci aspettano.
Non
mi lasciò neppure il tempo di congedarmi dalle mie compagne,
mi appoggiò le
dita alla schiena sospingendomi lungo i corridoi e tenendo con
l’altra mano la
mia borsa semivuota.
- È
vero che è stato Tristan a volermi libera? Che cosa gli
è successo? – domandavo
a ripetizione, ma quell’uomo, di cui neppure conoscevo il
nome, mi incitava a
fare presto senza dare una sola risposta.
Il
calesse ci aspettava con i cavalli già attaccati e, spronata
dal mio
accompagnatore biondo, stavo per montare, quando dal nulla un ricordo
mi
attraversò la mente.
“Ogni
richiesta, per il Granduca, vale una vita. Ha ucciso
mia sorella,, per smettere di torturare me. E poi me l’ha
detto, per farmi
comprendere che l’avevo ammazzata io. Quindi non chiedergli
mai niente,
Helaida, non fargli richieste, perché se le
esaudirà, vorrà dire che avrai la
morte di qualcuno sulla coscienza.”
Mi
bloccai all’improvviso, raddrizzando la schiena e
costringendo il mio
accompagnatore a lasciarmi.
-
Morirà, vero? – gridai – Ha accettato di
morire per liberarmi? O è già morto?
Oh, ti prego...!
Lui
cercò di afferrarmi per le braccia, ma mi dimenai
– Dimmi la verità, devo
saperlo, ho bisogno di sapere!
-
Non è ancora morto – sibilò lui
– Ma sì, lo sarà presto: ha fatto uno
scambio
con il Granduca per poterti liberare. Quindi sii contenta del dono che
ti è
stato fatto e smettila di agitarti, ti conviene tenere un profilo basso
e
dartela a gambe il prima possibile.
-
Voglio vederlo.
-
Dobbiamo partire, Helaida. Il Granduca non mi ha dato molto tempo.
- Ho
bisogno di vederlo, altrimenti non partirò!
Mi
scostai da lui e feci per scappare via, ma mi afferrò per il
vestito.
-
Sei stupida? Qualunque ragazza dell’harem di Roman Fedar
pagherebbe con il
sangue per salire su quel calesse. Vuoi andartene sì o no?
-
Certo che voglio andarmene – dissi, mentre le lacrime
iniziavano a inondarmi il
viso – Ma non a costo della vita di Tristan. Fammi parlare
con lui, fammelo
vedere...
I
singhiozzi funzionarono più della mia furia,
l’uomo si guardò intorno e poi,
prendendomi per un braccio, mi guidò lungo le mura del
palazzo.
-
Seguimi e fai silenzio, ti porterò da lui, ma dovrai
salutarlo velocemente.
Mi
fece girare lungo le mura, tra l’erba, finché mi
indicò alcune fessure nella
parte più bassa della parete - Queste sono le feritoie della
prigione, ti farò
entrare, ma non ti aspetterò a lungo.
Scendemmo
alcuni scalini nascosti tra l’erba e aprimmo un piccolo
cancelletto cigolante, entrando
nei sotterranei della Roccaforte.
Un
uomo grosso, dalla fronte alta e arrossata, ci venne incontro.
-
Lascia entrare la ragazza – disse il mio accompagnatore
– Vuole salutare
Tristan.
Lui
mi lanciò un’occhiata sbilenca –
È la ragazza che ha salvato? La lascio
entrare, ma la responsabilità è tua.
Aprì
una porta bassa e stretta, pesante quanto scura, facendomi accedere ad
una
stanzetta minuscola, buia e carica di umidità.
-
Tristan?
Un
movimento nell’angolo destro attrasse la mia attenzione.
- ...Helaida?
Lo
vidi accartocciato contro il muro, una massa informe, priva di contorni.
- Tieni
– Alle mie
spalle, l’uomo biondo mi
passò una candela accesa – Ti aspetto fuori.
Appoggiai
la candela a terra e osservai la figura di fronte a me farsi pian piano
più
distinta: i capelli di Tristan, poi i contorni del suo viso, gli occhi,
scurissimi
a quella poca luce. E il sangue. Sangue sui suoi vestiti e sul
pavimento attorno
a lui.
Diedi
in un gemito strozzato e mi coprii la bocca con le mani, ma le lacrime
tornarono a scorrermi a fiumi dagli occhi.
-
Helaida, smettila – mormorò lui, in un filo di
voce – Ho fatto questo per
vederti sorridere, non piangere.
Questo
non fece che aumentare i miei singhiozzi, la mia tristezza.
-
Basta, piangere – ripeté lui, stavolta con
più forza – Non sopporto più di
sentir delle ragazze piangere.
Cercai
di trattenermi, respirai a fondo e rimangiai i singhiozzi come potei;
ma
vederlo in quelle condizioni mi straziava più di quanto
avessi ritenuto
possibile.
-
Che cosa hai fatto? – sussurrai – Perché
ti ritrovo qui? Perché mi riportano a
casa? E tuo fratello, Tristan?
- Ho
scambiato la mia vita per la tua liberazione, e ci ho aggiunto una
buona dose
di sofferenza per la certezza che nessuno avrebbe toccato mio fratello
– lo
vidi sorridere, ironico nonostante tutto – Non potevo offrire
due vite, sai.
- Ma
perché?
Allungò
una mano verso di me e l’afferrai, stringendola delicatamente
perché tutto in lui
vibrava di dolore.
-
Alla fine ho capito quello che intendevi dire. Ho trascorso gli ultimi
anni
assimilandomi alla mentalità di Roman Fedar, trasformando la
sua verità nella
mia, convinto che fosse la strada giusta per sopravvivere, per non
soffrire. Ma,
così facendo, ho perso il rispetto per me stesso. E me
l’hai detto tu, Helaida.
-
Ero arrabbiata, quando te l’ho detto – protestai.
- Ma
tu non lasci mai che la rabbia inquini le tue parole. Ho capito che
avevi
ragione, quando ho visto come affrontavi il Granduca, i suoi
tormenti... e persino
i miei. Non voglio più vivere come ho
fatto finora, voglio riguadagnare il rispetto di me stesso, la mia
dignità.
-
Non è necessario
morire, per ottenere
questo!
- “Nel
sacrificio c’è onore, poiché si offre
la
propria vita per il bene altrui.”
Sono
parole tue, lo ricordi? Aspiro a questo... e non solo.
Fece
una pausa, respirando velocemente per tenere a bada il dolore che
sentiva.
O
forse, soltanto per trovare le parole giuste. Quelle che seguirono.
- Non
sopporto che il Granduca ti sfiori. Voglio saperti al sicuro con la tua
famiglia... Quella tua famiglia pazza che crede che il bene produca
altro bene,
che il perdono sia più importante dell’odio e che
un nastro di poco prezzo
valga quanto un tesoro inestimabile. È là che
devi restare: amata, inviolata...
E fare del bene come solo tu lo sai fare, Helaida.
Altre
lacrime cominciarono a uscire, il cuore mi faceva male come se qualcuno
mi
martellasse il petto con un sasso acuminato.
-
Avevi ragione tu, vedi? – riprese – Persino da me,
ti ritorna quel bene che mi
hai dato. Da me, che ero diventato vuoto e freddo e sterile.
Scossi
la testa, quasi senza respiro.
-
Come faccio ad andarmene lasciandoti qui? Senza sapere per quanto
dovrai
soffrire o fino a quando vivrai?
-
Pensa che sono in pace, solo quello.
-
Non avrei dovuto parlarti, non avrei dovuto dirti niente!
Un
po’ di quell’antico scherno gli comparve sul volto
– Vedo che avere ragione non
ti dà proprio soddisfazione - Allungò un braccio
e mi accarezzò il viso – Se
hai voglia di fare qualcosa per ringraziarmi, lasciami quel nastro.
Annuii
fra le lacrime e me lo sfilai dai capelli, poi lo girai attorno al
polso di
Tristan una, due, tre volte e lo fermai con un nodo.
Lui
lo osservò qualche istante e poi si chinò in
avanti, slacciandosi dalla
caviglia quella benda di stoffa che gli avevo legato solo la sera
prima. Era ancora
pulita, perché la sua gamba era ormai guarita; me la porse e
io mi acconciai i
capelli con quella.
Non
c’era altro che potessimo offrirci l’un
l’altra, in ricordo di un legame nato in
silenzio e d’improvviso così intenso,
così importante da valere una vita.
-
Ragazza, sbrigati, dobbiamo partire! – urlò la
voce del tizio biondo, appena
fuori dalla porta.
L’ansia
mi sopraffece.
- Le
tue ferite...posso fare qualcosa per te? Posso...
-
Helaida – la sua voce era grave, ma gli occhi lo tradivano
– Non hai intenzione
di andartene senza baciarmi, vero?
Scossi
il capo, sbigottita.
Con
cautela mi accostai a lui; sapevo che doveva sentir male, ma mi
strinse, imbrattandomi
di polvere e sangue. Non ero mai stata abbracciata con tanta forza e
non avevo
idea che il corpo di un uomo potesse essere così solido,
così vigoroso e nel
contempo trasmettere protezione... e
dolcezza.
Lo
baciai, o mi baciò lui, non compresi bene ciò che
accadde, ma ci perdemmo in
sensazioni violente,
così struggenti da
squarciarmi il petto.
-
Adesso è proprio ora di andare! – tuonò
il mio accompagnatore biondo, piombando
nella cella.
Ci
staccammo a fatica, il corpo di Tristan sembrava essersi incollato al
mio.
- Ti
prego, sii contenta, Helaida – mi sussurrò,
lasciandomi andare – Voglio
pensarti felice.
Annuii,
ricacciando il nodo d’angoscia dalla gola allo stomaco... E
poi qualcuno mi
prese per le braccia e all’improvviso ero fuori di
lì, fuori dalla cella e
fuori dalla Roccaforte, in bilico su un calesse lanciato a tutta
velocità.
Per
molte ore, il cuore mi rotolò nel petto così
dolorosamente da offuscarmi la
vista e il pensiero. Mi accucciai, nella notte, tenendomi aggrappata a
quella
fascia che Tristan mi aveva lasciato e,
nell’oscurità, non mi accorsi di nulla
di insolito.
Solo
alla luce del sole, il mattino dopo, vidi che non era esattamente come
quando
gliel’avevo data.