Φ
And if you look, you look through me
And when you talk, you talk at me
And when I touch you, you don't feel a thing
(U2, Stay (Faraway, So Close!), 1993)
Lui scriveva solo in stampatello, perché non
aveva voglia di perdere tempo appresso alle volute capricciose del corsivo.
Maiuscolo, come se le sue parole, così, acquistassero maggiore forza. Il
trattino della sua Φ è una linea che sega in due un cerchio ed è così che ti
chiamava. Phi. Lui diceva che
il tuo nome era troppo difficile da pronunciare, con quelle nasali che
mettevano a dura prova le adenoidi, quel ro da massacrare contro il palato molle e quella
musicalità che no, non riusciva a riprodurre. L’unico suono che gli veniva bene era
quella u piccola,
chiusa, presa a gomitate dalla a del dittongo, più
ingombrante e capricciosa di un’attrice dei tempi andati; ma non era
abbastanza.
Così ti chiamava Phi. Perché la verità è che il tuo nome per lui era
qualcosa di prezioso, da sussurrare come le parole di un incantesimo, come una
preghiera, quasi che, a pronunciarlo, perdesse di valore.
E adesso di lui ti resta solo quel biglietto, un
pezzo di carta scritto di fretta, dove campeggia solo il tuo nome per esteso;
quel biglietto che hai stretto tra le mani, accartocciato e gettato a terra
mentre sfasciavi piatti e vetri e piangevi ogni lacrima che avevi in corpo, e
che poi hai lisciato, con cura, come si fa con le cose antiche e preziose, che
profumano d’eternità.
Adesso quel biglietto non fa più solo male da
morire, ma c’è anche una goccia di miele nella coltellata che ti procuri ogni
volta che lo leggi; adesso fissi il cielo amaranto, di una sera nuova di zecca
e pura come solo le cose iniziate da poco sanno essere, mentre le rocce del
Santuario si tingono di calde tonalità e le Dodici Case si ergono tra una curva
e l’altra, pigre, come il gatto accanto a te che si gode gli ultimi raggi di
sole.
«Guarda che carino! Teniamolo!»
«Tenerlo? Cosa pensi che sia questo posto, un rifugio per animali
abbandonati?»
«Non è abbandonato, è randagio.»
«Perfetto. Quindi non appartiene a nessuno.»
«Nessuno appartiene a nessuno. E lui è un gatto.»
«Quindi?»
«I gatti non appartengono al padrone, è il padrone che appartiene a
loro.»
«Quindi tu apparterresti a lui?»
«Geloso?»
«Di un gatto? Non dire assurdità…»
«Perfetto. Quindi Carbone può restare.»
«Carbone?»
«È nero, come altro dovrebbe chiamarsi? Milos?»
Quel pezzo di carta sono le sue istruzioni per
quando lui se ne sarebbe andato e ti avrebbe lasciato sola. Senza di lui. Tutto
ciò che ti ha lasciato di sé sono quelle nove lettere che sanno di meltèmi e dolmadès e moussakà senza carne. E tu sei lì, col sedere sui gradini
davanti all’Ottava Casa ancora caldi a chiederti che diamine gli sia passato
per il cervello.
Sotto, sul piazzale alla base della Scalinata,
si stanno alzando i fuochi e l’aroma delle tavolate imbandite sale a chiamarti,
come si fa con una bambina capricciosa. Quell’odore è nauseante. C’è voglia di
festeggiare la vita, la vittoria sull’eterno nemico, ed il ritorno a casa degli
eroi, questo lo capisci; ma tu non ti unirai all’allegria. Sei felice che
Athena sia tornata indietro, sì. Sei felice che anche Hyoga sia rientrato sano
e salvo. Ma tutto questo non annulla il vuoto che la sua morte ti ha lasciato.
È una voragine enorme, abbacinante, più di
quanto avessi paura anche solo di ipotizzare, la notte, stretta a lui mentre il
mare muggiva arrabbiato o il vento sembrava voler abbattere la casa sulla
spiaggia.
Perché la verità è che non siamo mai preparati
al dolore, alla perdita. Il cuore non si immunizza. Ogni volta, soffre. Ogni
volta, sanguina. E credere che no, non accadrà di nuovo, è la più grande bugia
che possiamo raccontarci; perché la vita chiede sempre il saldo. Quando uno
meno se l’aspetta.
E per quanto tu ti dicessi che sì, lo sapevi che
sarebbe andata a finire male, che non sarebbe mai tornato da quel dannatissimo
scontro finale, fa male, male, male toccare con mano la verità. È come
affondare coi piedi nel fondo viscido e freddo dello stagno in un giorno di
pioggia, sapendo che non apparirà nessuna mano tesa a salvarti. Stai
affondando, ma non t’importa. Vuoi cadere, vuoi scendere giù, il più in fondo
possibile e nasconderti fino a quando non sarai pronta. Se mai sarai di nuovo
pronta.
Perché il mondo se ne frega e continua a girare,
è molto triste e partecipe per il tuo dolore, ma non lo tocca. Lui non può
fermarsi, e se tu ci sei, bene; altrimenti è un problema tuo. Non suo. E va
bene così. Vuoi solo stare da sola col tuo dolore, il cuore in cocci che batte
senza essere vivo, e l’assurdo, stupido, egoistico desiderio di poter restare
per sempre così, nel limbo. Perché così, sola e col suo biglietto stretto tra
le mani, riesci a sentirlo ancora quel piccolo residuo di cosmo, del suo cosmo impetuoso, che aleggia ancora per l’Ottava Casa.
Come se quel pezzetto di carta te lo rendesse vicinissimo e lontanissimo allo
stesso tempo.
«Resta.»
È appena un sussurro che si perde nel vento. Non sei certa di aver
capito bene. I fuochi d’artificio esplodono uno dopo l’altro, decorando il
fondo nero del cielo con trine oro, rosa, verde, azzurro, giallo, bianco, mentre
la barca scivola luminosa sulle acque dell’Egeo. Brilla, come il retsina che hai bevuto ballando per le
strade del villaggio tra le case di calce bianca e i battiti delle mani a
tenere il ritmo per i tuoi piedi stanchi. Sì, dev’essere colpa del vino se hai
sentito quello che credi di aver sentito. Perché no, lui non potrebbe mai aver
detto una cosa simile a te. A te.
Scherziamo?
Ma prima che tu possa chiederti se ti piacerebbe restare lì con
lui – e la risposta è sì – al di là di ogni significato che questo
implicherebbe, lui te lo domanda di nuovo.
«Resta. Qui. Con me», sussurra mentre tu sgrani gli occhi nei suoi e la
sua mano scivola nella tua. Calda. Forte. Protettiva. «Non mordo mica…»
«Nemmeno io.»
L’Armatura è tornata da sola
all’ovile. Come un cane che conosce da sé la strada di casa. S’è divisa e
ricomposta sotto il tuo tocco, gentile e un po’ titubante sulla chela sinistra
dello scorpione, ma è stato un atto di pura e masochistica violenza. Perché
vedere quella corazza vuota, senza di lui, è stato peggio che leggere quel
biglietto, o svegliarsi dal torpore di colpo, sentendo il suo cosmo esplodere
assieme agli altri. Una raffica di Scarlet Needle avrebbe fatto meno male, e lo sai per esperienza. Le
cicatrici bruciano ancora, ogni tanto, quando cambia il tempo.
Invece così è come un veleno più dolce da
mandare giù, più saporito del cucchiaino di zucchero su cui far cadere le gocce
di Novalgina. Te lo immagini senza difficoltà a cercare una penna nella
confusione di cassetti e carte sparse alla rinfusa, rimediare un ritaglio di
pagina da un qualche quaderno ingiallito dal tempo, e scrivere quelle nove
lettere impugnando la biro nera tra indice e medio, in quel modo assurdo che
hai visto usare solo a lui, sporcandosi il pollice coll’inchiostro. E poi
metterti il biglietto nell’incavo della mano, sussurrandoti parole che tu non
avresti mai sentito.
«Resta.».
«Vivi.».
«Ama.».
«Sii felice. Anche per me.».
Parole che adesso non hanno senso, ma che allo
stesso modo e tempo ne hanno. Sei conscia di vivere in un ossimoro. Di doverti
staccare da quella Casa e da quella corazza, che poi non sono nemmeno le tue,
ma che allo stesso tempo è un po’ come se lo fossero. Come se il restare lì, su
quei gradini, fosse lo stesso che indugiare davanti alla lapide, giù al
cimitero; solo che quella è una tomba vuota, una burla atroce e crudele, questa
è un sepolcro all’ombra del marmo, invece che dei cipressi, dove ritrovare il suo
fantasma, il suono della sua voce, lo scintillio residuo del suo cosmo, il
profumo di vetiver della sua colonia, il rumore dei suoi passi. Lui.
Lontanissimo. Eppure vicinissimo. Allo stesso tempo.
If I could stay...
Then the night would give you up
Stay...and the day would keep its trust
Stay...and the night would be enough
Note:
Φ è la ventunesima lettera
dell'alfabeto greco, introdotta in epoca tarda - per questo la troviamo alla
fine della lista. È assimilabile alla nostra 'F', da cui deriva, ma che ha
perso parte del suo carattere aspirato.
Il meltèmi è un vento
secco e fresco che soffia da Giugno a Settembre sulle isole dell'Egeo, Cicladi
comprese, e che aiuta a sopportare meglio il caldo asfissiante ed intenso di
quel periodo.
I dolmadès sono
involtini di riso cotto con olio e limone e aneto, avvolto in foglie di vite.
Squi.Si.Ti.
La moussakà è un
pasticcio di carne e verdure assimilabile alla nostra parmigiana di melanzane,
con la differenza che il macinato di carne dovrebbe essere composto in
prevalenza da carne di montone, mista all'agnello.
Il Retsina è un vino da
tavola, bianco o rosato, aromatizzato al mosto di pino d'Aleppo. Una
squisitezza, parola di chi, col vino, fa un po' a cazzotti.