Illustrazione di presa da Google.
Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.
Doreen Gates
Parte II
Tappezzeria rosso scuro, mobili in noce e nessuna luce;
l’interno della casa era l’esatto opposto del suo esterno ma, anche se sentivo
il solito disagio che si prova quando si è in una casa estranea, il naturale
silenzio con cui Agnes correva nel corridoio mi fece intuire che quella era
solo un’altra parte della bellezza.
Correva. Marlene mi pestò il piede,
gridai, rise. Risi anch’io.
E poi ci ritrovammo davanti a un ambiente
unico, un salotto, dalle poltrone con i fiori e il camino che scoppiettava
anche se era appena arrivata la primavera.
«Nonno, loro sono mie amiche,» disse
Agnes, andando verso il signor Silvers, l’uomo che era seduto sulla poltrona. L’uomo sorrise e mi
sembrò giovane, anche se stringeva un bastone di legno con una mano tremante,
anche se la pelle era di quel chiaro marrone legno che un tempo era rosa
pallido.
«La mia Aggie.» L’uomo le accarezzò i
capelli. «Sono contento che tu abbia trovato delle signorine con cui giocare.»
«Ciao, Agnes.»
Non l’avevo nemmeno visto. La voce alta e
infantile proveniva da un ragazzino che doveva avere più o meno la mia età;
alto, per essere un bambino, e molto magro.
«Ciao, Joshua,» Agnes rispose gentile,
guardandolo appena, e poi posò un bacio sulla guancia del nonno.
Il
ragazzino la guardava con quello sguardo che solo la maturità
avrebbe fatto sbocciare in qualcosa di devastante, bello
come solo l'amore può essere,
e doloroso. Aveva la pelle così pallida che pensai che fosse
malato, e i
capelli neri e gli occhi azzurro ghiaccio la facevano risaltare ancora di più.
Anche
lui, lontano di metri, proprio come
Agnes la prima volta in cui l’avevo vista, non sembrava vero.
Azzurro ghiaccio, erano i suoi occhi. E quando guardavano Agnes
diventavano acqua.
Agnes ci portò fuori dal salotto, dicendo
che in cucina avremmo potuto trovare anche il succo di frutta alla pesca; lei e
Marlene avrebbero corso per tutto il giorno, se avessero potuto, allora io
rallentai un po’.
Ascoltai.
Non si origlia, Doreen.
Ma ascoltai lo stesso.
«Dicevamo, Joe?» disse il nonno.
«Le pietre nere.»
«Le pietre nere, già… sai, una sola
persona con una sola pietra ha potuto fare quello per cui le pietre sono
state create.»
«Fare giustizia…»
«Sì,
fare giustizia nell'animo dell'uomo. Una persona adulta può
usufruire del potere di una pietra soltanto una volta. Un'anima
innocente, invece, per sempre.»
«Ma come?»
«Era
nel suo cuore.» Una pausa. «Nacque così... fu un
dono per il mondo. Si chiamava Alisia. La natura a volte ti sceglie, e
non sai se chiamarlo destino, non sai se averne paura o esserne
orgoglioso. Era nel
suo cuore da quando le prime luci della vita hanno toccato i suoi
occhi, nell'innocenza dell'infanzia... l'innocenza è...»
«Doreen!» mi chiamò Marlene. Ed io non
seppi mai che cos’era l’innocenza per quell’uomo, e continuai a vivere nella
mia.
***
Con la schiena contro il muro, respiravo appena per non farmi sentire, in modo che Marlene non mi trovasse. Mi chiesi dove si fosse nascosta Agnes, di sicuro in un posto che conosceva solo lei, padrona e figlia di quella vita. Dopo qualche minuto mi allontanai, per correre verso il cancello e annunciare la mia vittoria... e allora corsi, corsi verso quella discesa e il vento mi accarezzava i capelli e il volto ed io pensavo questi sono i sogni.
Questo è vivere nei sogni.
«Ho vinto io!» Toccai il cancello, quella parte aperta verso l'interno per lasciare entrare me e Marlene. «Ho vinto io!» ripetei.
Sentii una presa sulla spalla. E così aprii gli occhi. Mi ritrovai davanti uno sguardo nero; iridi color catrame. Quell'uomo, con i capelli biondi come quelli di Marlene, mi strattonò e mi spinse contro il cancello ed io mi morsi le labbra per coprire con dolore il dolore.
«Perché sei qui?» L'uomo mi strinse ancora di più. Volevo scappare, tornare a casa, non tornare mai più... ma qualcosa bloccava la mia lotta. Quell'uomo era familiare, e lo era in un modo che mi ghiacciava il sangue, perché non riuscivo a scappare da lui. Perché una parte di me stessa, che odiai e cercai di reprimere con tutta la forza che poteva avere una bambina di dieci anni, mi diceva che presto quello sguardo d'orrore sarebbe scomparso. E sarebbe tornato... «Papà!» Era la voce di Marlene, distorta.
L'uomo mollo la prese ed io scivolai a terra. Il padre di Marlene, ecco chi era. Il signor Jenkins.
«Che ci fai qui, carogna?» L'uomo le strizzò l'orecchio e Marlene trattenne una smorfia di dolore.
«La bambina che vive qui è mia amica...»
«Tua amica, eh? Ah... ah...» Il signor Jenkins cominciò a tossire, lasciò che Marlene si allontanasse da lui e si lasciò andare a una forte tosse. Era sempre stato gentile con me, con sua figlia, anche dopo aver perso il lavoro... ma da qualche mese non era più lo stesso. Era burbero, sempre arrabbiato, nervoso. Non lo vedevo da mesi ma in quel momento potei constatare che qualcosa di strano era visibile. I suoi occhi. Lo vidi schiaffeggiare Marlene e sentii il dolore con lei. I suoi occhi un tempo azzurri, ora neri.
Portò via Marlene trascinandola per il braccio. Lei non ne volle mai parlare, il solo pensiero la faceva piangere, ed io volevo solo salvarla dalle lacrime, dalla sofferenza, dai lividi nuovi che si vedevano sulle sue braccia magre e che dimenticava all'istante ogni volta che giocavamo insieme, ed Agnes era insieme a noi.
Agnes era reale, ed era mia amica. Agnes
amava le storie, e raccontarle in quel giardino pieno di fiori era
ormai
un’abitudine. Divenne marchiato al fuoco il suo rifiuto davanti
al cioccolato,
perché non le piaceva, così come il vizio di mangiarsi le
unghie. Quando
Marlene le disse che chi ha brutte mani non è una femmina non le
parlò per due
pomeriggi, ma quando le chiese scusa la abbracciò e le disse che
aveva ragione.
Quando le portai un dolce alla crema che mia madre aveva fatto per me,
disse
che per quel giorno avrei potuto essere la principessa del castello.
«La principessa Doreen.» Agnes mi posò
una coroncina di plastica dorata sulla testa. « Ti piace?» Agnes e Marlene
sorridevano così tanto che non potevo dire di no, eppure io ero una bambina
inquieta. Non avevo mai creduto a babbo Natale e alla fatina dei denti, non
c’erano principesse nel mio futuro: mia madre mi aveva insegnato bene la
differenza fra quello che verrà e quello che non potrà esserci mai.
«Sì, mi piace molto.»
«Domani potrai essere una principessa
anche se non lo porti, Marlene. Sei mia amica!»
«Oh, giusto.» Marlene ridacchiò, e poi
Agnes guardò in cielo; era così concentrata che finii per guardare nella sua
stessa direzione, senza trovare altro che il cielo.
«Doreen?»
«Mhm mhm?»
«Lo sai che il nome “Sarah” vuol dire
principessa?» Gli occhi azzurri di Agnes sembrarono diventare ancora più
grande. «Penso che mia figlia la chiamerò così.» Lo disse come se fosse una
cosa che sarebbe successa per forza, una bambina che crea il suo destino con
l’immaginazione.
Io ero troppo ancorata a terra anche per
pensarci. Non sapevo nemmeno se avrei mai avuto un bambino.
***
Quella sera io e Marlene prendemmo il
sentiero di ritorno prima del tramonto; faceva un po’ paura camminare nel
boschetto al buio. Sapevo che non c’erano
lupi, mostri, serpenti: mia madre mi metteva in guardia solo sulle persone
cattive.
Sentivo i muscoli vibrare mentre salivo la
collina che portava alla parte alta della piccola cittadina. Quando arrivavo in
cima, mi voltavo e guardavo sempre giù a valle, dove quella villa che sembrava
un castello brillava nel suo candore. E poi mi veniva facilissimo immaginare il
giorno dopo, con me, Marlene ed Agnes che correvamo fra i fiori; dolci alla
crema e succhi di frutta, nascondino e guardia e ladri, e la principessa di un
regno inventato.
Ma non riuscii ad immaginarlo, quella
sera.
«Dora…» Marlene mi strinse il braccio fra
due mani, il cestino del pranzo rotolò via ed lo seguii con lo sguardo, ancora,
ancora, ancora, mentre Marlene continuava a chiedere “cos’è?” e “perché?” e
“come? Come può essere successo, Dora?”
L’unica cosa che riuscii a pensare era non
riesco più ad immaginarlo. Il panico mi travolse. Non c’è più niente da
immaginare. Deglutii. Fino a qualche minuto prima ero lì, in quel luogo di
fiabe, adesso travolto dal fuoco.
La villa bruciava.
E chi era lì dentro, moriva.
Il ragazzo che parlava con la cameriera dai lunghi capelli castani era Joshua, ed io credevo che fosse morto in quell’incendio. Joseph lo aveva conosciuto ad un corso di aggiornamento all’università. Marlene diceva che non poteva essere davvero lui... gli occhi del ragazzino che avevamo conosciuto da piccole erano chiari, mentre quelli di quel Joshua erano neri. Ma era lui, ne ero convinta. Joshua. Joe.
Marlene, con il
vestito ampio e il lungo velo, rideva forte mentre Joseph la prendeva in
braccio per una foto che, diversi anni dopo, avrebbe fatto sorridere
tutti. Marlene era il ritratto di tutte le gioie del mondo, e forse ciò
accadeva perché aveva spesso la testa fra le nuvole anche se restava con i
piedi per terra. Alla prima occasione, però, anche i piedi se ne stavano in
aria, e allora tutto era perfetto, mentre tutti noi la guardavamo solcare il
cielo come un aquilone.
«Adesso
lancio il bouquet!» esclamò
Marlene, voltandosi, e tante ragazze le si accostarono vicino fra
fruscii di
seta e velluto. Io non mi mossi, immersa nei miei pensieri. Quel
ragazzino che avevo creduto morto e che, anche quando
Joseph aveva presentato Marlene e me, sembrava non ricordare. Ma il
modo in cui aveva guardato me e poi Marlene… mi strinsi nelle
stola di seta, rabbrividendo.
Lui ricordava tutto. E non sembrava più lo stesso.
Sentii il rumore di un sorriso.
«Tu non vai a prendere il bouquet? »
«Oh, no.» Scossi la testa, qualche
ricciolo venne fuori dall’acconciatura. Sfiorai l’anello della mano sinistra. E la guardai.
Ancora non credevo che fosse venuta. Lei,
Agnes, che con il tempo era rimasta l’amica con cui avevo giocato in dei
pomeriggi primaverili dall’immenso prato verde e una villa da fiaba. Lei, salva
per miracolo.
Si mise a guardare le ragazze che
schiamazzavano ed io ebbi il tempo di osservarla. Agnes era un fiore, sì, ed
era completamente sbocciato. Aveva quel tipo di bellezza che avrei desiderato
avere con tutto il cuore, e mi ero rassegnata a non averla mai. Ma non la
invidiavo; era semplicemente Agnes, il fantasmino, l’angioletto, quello che dopo aver
guardato il suo mondo di sogni bruciare dal boschetto dove stava raccogliendo
le margherite, aveva chiamato aiuto ma era troppo tardi. Troppo tardi…
«Aggie,
hai freddo? » La voce di un
ragazzo, un po’ roca, ma come avvolgente, fece voltare Agnes. In
lontananza vidi Louis e Joseph che parlavano guardando il giardino, le
loro spalle si sfioravano. Ridevano. Riuscivano a specchiari l'uno
dentro l'altro con uno sguardo.
«No, sto benissimo. Nathan, hai già conosciuto
Doreen? »
Strinsi
la mano dell’uomo dai capelli
biondo chiaro, occhi color ambra, grandi, dalle ciglia lunghissimo. Il
suo sorriso solare mi accolse. «È un piacere.
A quando…?»
«Qualche mese.»
«Auguri!»
Nathan faceva il professore di matematica, e in lui c'era tutta la
vitalità che i numeri non avrebbero mai potuto avere. Sembra animare tutto quello che incontra solo toccandolo, mi aveva scritto Agnes in un lettera.
«Grazie.»
Risi. Con la laurea e poi l'organizzazione dell'azienda, Marlene e
Joseph avevano rimandato il matrimonio di un paio d'anni. Io e Louis,
invece, avevamo afferrato il tempo come se potesse sfuggirci da un
momento all'altro. Ancora non ci credevo, anche
se letteralmente si trattava di non credere nella mia stessa vita. Mi
carezzai
la pancia, facendo scorrere la mano sul tessuto blu, sentendo quello
che nella
mia mente chiamavo il nostro cuore. Il nostro bambino.
«Dora, come lo chiamerai? Mi chiedo ancora
come ho fatto a dimenticarmi di chiedertelo.» Gli occhi di Agnes divennero
luminosi. Come se già non lo fossero, come se non lo fossero mai stati.
«Marlene, se sarà una bambina.» Sorrisi. «Se invece sarà un
machietto…»
«Marlon!» Louis mi sfiorò la spalla ed io
sussultai, poi scoppiò a ridere. «Come Marlon Brando.»
«Assolutamente no.» Lo fulminai con lo
sguardo. Quanto era bello con quell’abito da cerimonia? Il blu gli donava. Ma era assolutamente
inammissibile che ci pensassi adesso, così tornai a guardare Agnes. «Stiamo
ancora decidendo.»
Agnes
sorrise con quell’aria che poteva
avere anche Marlene, con i sogni nello sguardo. Dipingeva, adesso, e si
stava affermando molto bene in Europa. Dopo la morte del nonno
si era
trasferita in Svizzera con i genitori; tornava solo ogni tanto
l’estate, anche
se non c’era più nessuna villa in cui giocare ma
semplicemente la sua cameretta
in un appartamento in centro. Mi piaceva tanto andare a trovarla, ma
qualcosa era cambiato, fra noi. C'era quell'affetto doloroso, quei
ricordi bellissimi sciolti poi dalle fiamme dell'incendio che aveva
portato via il signor Silvers. A quindici anni, i suoi genitori si
erano separati, e lei non era più tornata, anche se ci eravamo
scritte per tutto quel tempo. Nelle lettere, non c'era più
dolore. Nelle lettere, poteva ancora esserci il nostro mondo incantato,
anche se non eravamo più bambine.
«Sì, c’è tempo.» Louis prese una sedia,
con quei suoi movimenti decisi e sicuri e si sedette vicino a me. Mi prese la mano e mi sfiorò l’anello con
le labbra. «Anche se Marlon è davvero uno spettacolo.»
«Non se ne parla.»
«I miei ci tenevano molto,» disse Nathan,
l’abito grigio sotto il sole invernale. Guardava Agnes rapito, innamorato.
«La Svizzera è bella ma… questa è la mia
casa. Voi lo sapete.» La voce di Agnes aveva mantenuto lo stesso candore di quando era
bambina, ma adesso aveva molta più sicurezza. «E poi… era proprio destino,
Nathan è americano! Se non avessi perso la valigia nell’aereoporto di Ginevra
non l’avrei mai incontrato!»
«Allora Agnes è stata la tua salvezza.» Sorrisi.
«Già, proprio così. »
***
Quando senti per la
prima volta il pianto di tuo figlio il tempo si ferma, e ti chiedi con che
coraggio i medici e le infermiere interferiscano nella sacralità di quel
momento parlando, camminando, facendo rumore, mentre tuo figlio piange e per te
non esiste più niente.
È un bambino. La voce
dell’infermiera entra nella tua mente come se fosse la conseguenza di un
incantesimo, quando l’incantesimo più grande è, in realtà, la vita.
Ed il tempo è ancora
fermo, anche se la lancetta dell’orologio si sposta di secondo in secondo, di
minuto in minuto, e senti che qualcuno ti stringe la mano e ti volti ed è lui,
l’uomo che ami, sai che è l’uomo che ami anche se non puoi vederlo perché le
lacrime scendono.
«È bellissimo, ‘Reen. Non
puoi immaginare.»
E sei così stanca. «Lo
so che è bellissimo.»
«Perché io sono il
padre? »
Ma riesci ancora a
ridere. «Perché lui è il nostro cuore.»
Ti imponi di non
piangere quando l’infermiera entra nella stanza con un fagottino avvolto nella
coperta di lana beige che hai comprato qualche mese fa, ed alzi le braccia come
se potessi allungarle all’infinito per abbracciarlo per sempre. Si lamenta e
stringe i pugnetti ancora rossi, ed ha le guance piene ancora arrossate e poi
il suo pugnetto finisce dove ti batte il cuore e pensi non piangere, guarda
quanto è bello. Louis gli carezza il dorso della mano con l’indice, quasi
avesse paura di sbagliare qualcosa, e le prime cose a cui pensi è che ha pochi
capelli, e sono chiari, e quanto è bello.
È come lui.
«Avete scelto il nome?»
L’infermiera ti distrae
per un attimo dalla semplice gioia di tenerlo tra le braccia. E poi i tuoi
occhi incrociano quelli verdi, splendidi, di tuo marito; con un cenno ti chiede
se deve e tu annuisci e sei felice. E sai che, con il tuo piccolo fra le
braccia, lo sarai per sempre.
***
Cresceva così in fretta,
il mio bambino. E con i giorni e i mesi, mi rendevo conto di come somigliasse a
suo padre. Di me aveva preso solo la tendenza ad avere i capelli ondulati,
naturalmente biondissimi come quelli di Louis nelle foto in cui anche lui era
piccolo. E poi gli occhi, così verdi e gioiosi.
E adesso giocava su un
tappetino di gomma su cui erano sistemate tante costruzioni; Louis gli era
vicino, lo aiutava a sistemare i lego e ci sistemava vicino dei pupazzetti di
plastica.
«Il bambino si è ben
ambientato, qua in hotel, eh?» fece Louis.
«Si ambienta ovunque sia
io.»
«E anch’io.»
«Sì ma io sono la
mamma.»
Louis scosse la testa e
si mise in piedi, mio figlio alzò il visino verso di lui curioso, come in
attesa, e Louis gli diede un buffetto sulla guancia. Poi si avvicinò a me.
«Sai che se non ci fossi
stato io non sarebbe mai nato.»
«Dettagli.»
«Un giorno dovrai
spiegarglielo. »
«Fra trent’anni magari.»
Louis sbuffò ed io
provai una fitta di irritazione. C’era bisogno di parlarne proprio in quel
momento? Dopo trent’anni magari sarebbe stato opportuno, certo, ma ora era solo
un bambino. Lo sarebbe sempre stato.
«Io sono sicuro che sarà
bravissimo a rimorchiare ragazze. Magari in caffetteria.» Louis ammiccò. «Ma
anche sui mezzi pubblici, a scuola o alle feste.»
«Taci.»
Mi diede un bacio che
sapeva di champagne e fragole.
***
«Oh mio Dio, è
bellissimo, mio Dio, quanto è bello, mio Dio! Ciao, ciao, ciao! Ma com’è
cresciuto. Somiglia a Louis ma è decisamente meglio, si vede già dalla faccia
che è più intelligente. No, ma guarda come ride… ciao, ciao, ciao!»
Marlene riempiva mio
figlio di carezze e sguardi teneri alternando la voce stridula riservata al
piccolo con quella seria e decisa con cui faceva le sue considerazioni.
Mi guardai un po’intorno, giusto il tempo per sentirmi venire meno perché la
casa splendeva sotto i miei occhi, come se fosse dorata anche nel legno, nella
tovaglia color prugna del tavolo, nel divano in pelle su cui ero seduta, nelle
finestre.
«Joseph viene sempre qui
per gli affari.» Marlene venne a sedersi vicino a me con il piccolo in braccio.
«E allora abbiamo pensato, perché non comprare una casa qui? »
«È sempre un buon motivo
per stare insieme. »
«Certo. Anche se non ci
siamo ancora trasferiti definitivamente, la residenza è ancora a Boston.»
Marlene sorrise e il mio bambino scese dalle sue gambe; camminava da poco, la
sua prima parola era stata “Reen” e per questo avevo fulminato Louis con lo
sguardo per una settimana. «E poi credo che… ecco, presto noi… insomma, io e
lui…»
Sbattei le palpebre.
«Non mi dire!»
«Non è ancora niente di
certo. » Arrossì. Non era da lei, arrossire per certe cose; sin da piccole lei
era sempre stata la più curiosa, la più estroversa.
«Be’, se mai lo fosse… è
una cosa semplicemente splendida. »
«Penso che verremo a
vivere qui definitivamente. Per ora siamo in hotel come se fossimo in vacanza,
come te e Louis praticamente... A breve nascerà anche la bambina di Agnes. »
«È vero.»
«Pensa se conoscesse il
tuo…»
«Ne parliamo di nuovo
fra trent’anni.»
Marlene rise di gusto,
prese in braccio mio figlio e prese una penna dalla tasca; era fatto di
plastica blu, con una J e una S dorata sul dorso. Scrisse qualcosa su un
foglio. «Ma quella penna...?»
«Joseph ha voluto fare
le lettere di oro vero.» Marlene sorrise. «Ne abbiamo fatte fare due, una
per me e una per lui. L'ha fatta fare per l'azienda, visto che è intestata a
entrambi. J per Jenkins, il mio cognome, ed S per Sullivan, il suo.»
***
Marlene teneva la mano
di Joseph; lei aveva i guanti, ma lui no, e si vedeva la fede dorata. Tutto era
d’oro, lo era per lei, lo era per me.
Louis mi aiutò a
sistemare il passeggino sul marciapiede e sorrise, io poggiai la mano sulla sua
spalla.
«Volete salire? Ci
facciamo portare la cena in camera,» chiese a Joseph e Marlene.
«Che gentilezza,
stasera,» cantilenò Marlene.
«Io sono sempre
impeccabile.»
«Ah-ah, certo. Comunque
sì… Joe?» Marlene si voltò verso Joseph; lui armeggiava con quello che al tempo
era un cellulare molto costoso.
«Vi raggiungo dopo,»
disse lui, e la sua voce mi parve tesa.
«È successo qualcosa? »
gli chiese Marlene. Evidentemente doveva aver avuto la mia stessa impressione.
«N-no, no, davvero. Un
cliente.»
«A quest’ora? »
Joseph fece un’alzata di
spalle come per dire non è colpa mia, ma la tensione non scomparve… era
come se nascondesse qualcosa, ma poi mi chiesi, chi ero io per farmi certe
domande?
«Faccio presto.» La voce
di Joseph era calma, dolce. Forse mi ero sbagliata.
Forse. Prendemmo l’ascensore ed entrammo nella suite, mi
sentivo inquieta e, per la prima volta da quando ero lì, desiderai di tornare a
casa, nel nostro piccolo appartamento con la culla bianca vicino al lettone, i
peluches dappertutto, i miei libri di letteratura e i giornali di Louis. Forse.
Quel piccolo forse.
Mio figlio si era già
addormentato; erano passate due ore e di Joseph nessuna notizia, non rispondeva
neanche al telefono. Percepivo l’ansia di Marlene ad ogni respiro, come se
fosse mia, come se io fossi lei. Da bambine eravamo in simbiosi, due diverse
tonalità di uno stesso colore, e anche dopo anni sentivo che era ancora così.
Marlene si toccò la pancia per un secondo, poi tornò a sfregare il palmo sui
pantoloni con un sbuffo. Lo aspettava davvero, quel bambino… si chiamerà
Dora, se sarà una bambina. Spero che il destino non mi faccia lo stesso scherzo
che ha fatto a te.
Qualcuno bussò alla
porta.
In quel momento, il
telefono squillò.
«Joseph!» chiamò
Marlene, al telefono.
Mi inoltrai nella stanza
per raggiungere il corridoio.
«Come… che significa che
dobbiamo restare chiusi qui? Non… non capisco… in che senso pericolo?»
continuò.
Mi fermai. Sentii un
brivido, come se qualcuno mi stesse puntando un pugnale dietro la schiena, e
smisi di respirare. Il corridoio era buio. Marlene non parlava più.
Avevo paura e non sapevo
perché.
Sapevo solo che dovevo
averne.
Tornai subito indietro e
trovai Marlene ancora seduta, con il telefono sulle gambe, gli occhi vuoti. I
suoi occhi celesti, senza luce.
«Vado a cercarlo.»
«Che cosa succede?»
Marlene si alzò in piedi.
«Dice che se esco di qui
sarò in pericolo quando è lui ad essere in pericolo e può morire... per me. Per
me. Quel pazzo… quel pazzo…»
Louis entrò nella
stanza, le chiavi in mano, il volto confuso, i capelli biondi scompigliati.
Marlene parlava, si agitava, ed in quel momento pensai a chi poteva essere
quello che aveva bussato alla porta. «Quel pazzo furioso che ucciderebbe tutti
solo per arrivare a me… pazzo, pazzo… Doreen, non uscire di qui e proteggi il
bambino, perché prenderà lui se noi… se noi…»
«Marlene…»
«Devo andare.»
«No!»
Ma lei era più veloce,
era sempre più veloce di me, e quando io raggiunsi la metà del corridoio lei
aveva già aperto la porta. Il suo sguardo era addolorato, mi chiedeva perdono.
Io invece le chiedevo perché.
Ma lei chiuse la porta e
non ci fu nessuna risposta.
Rimasi lì, a tremare, a
guardare il legno dipinto di bianco della porta dell’hotel, incapace di capire
che cosa fosse successo, che cosa stesse succedendo, che cosa c’entrasse il mio
bambino con tutto questo.
«Amore, ehi.» Louis mi
prese il viso fra le mani; non mi ero nemmeno accorta dei suoi passi, e ne fui
grata, perché il suo tocco in qualche modo riuscì a calmarmi, quasi lui potesse
controllare la frequenza dei battiti del mio cuore. «Sta’ vicino al bambino. Io
vado a cercare Joseph…»
Mi staccai da lui. «No,
non se ne parla. Non ci sto capendo niente… sai qualcosa, Louis? Marlene sembra
completamente impazzita, tutte quelle parole non avevano senso… »
«No, non hanno senso,»
Respirò profondamente, le spalle larghe si alzavano e si abbassavano. «Non ha
senso, Doreen, ma ascoltami… non uscire da qui per nessun motivo, spegni
tutte le luci, tutte, e sta’ vicino al piccolo fino a quando io non torno.»
Ascoltami. Scossi la testa. Ascoltami, Dora.
«'Reen, ti prego.» Di
nuovo le sue mani su di me. La sua bocca sulla mia fronte, poi sulla guancia,
umida bocca sulla mia, senza più respiro.
«Tu sai. Tu sai, Louis.
Perché non me lo dici?»
«Perché è troppo tardi
adesso e… Perché ti amo e sei mia moglie e amo nostro figlio e vi proteggerò
fino a quando sarò in vita.»
Poggiai la testa sul suo
petto, inspirai il suo profumo, quel caffè, quell’amore, la nostra vita.
«Non voglio avere
paura.»
«Non ne avrai.» La sua
voce, un sussurro vicino al mio orecchio. Vento caldo d’estate. «Per nostro
figlio, non avremo paura.» Lo guardai negli occhi, così verdi, con il contorno
grigio, con un’ombra che speravo andasse via presto ma che mi ritrovai a riconoscere.
Mi prese una mano fra le sue e per un attimo quell’ombra scomparve.
«Louis.»
«Tornerò da te.»
Le nostre dita si
sfiorarono un’ultima volta ed io seppi che mi diceva la verità.
***
Mio figlio si svegliò al
primo sparo. I suoi occhioni verdi erano l’unica luce della stanza, e poi si
fecero un po’ più piccoli mentre allargava la bocca in un pianto che chiamava
me. Lo presi in braccio, il suo profumo mi avvolse in una nuvola che sapeva di
borotalco e risolini, e cominciai a cullarlo. «La mamma è qui, tesoro.»
Piangeva piano, mio figlio. Non si faceva mai sentire. «La mamma è qui.»
Un altro sparo.
«La mamma è qui.»
Non
andartene fino a quando non torno.
«La mamma è qui.»
Mio figlio si calmò,
strinse i pugnetti sulle mie spalle, alla sua manina destra si erano
attorcigliati i miei capelli, come per impedirmi di lasciarlo.
Non
avremo paura.
Lo strinsi e gli baciai
la testolina bionda.
Per
lui, non avremo paura.
E poi sentii la porta
che sbatteva forte, quasi fosse stata buttata a terra, e il gelo mi prese le ossa.
In quell’unico secondo di lucidità, capii che non poteva essere Louis ad essere
entrato. Oltre la finestra c’era una scala d’emergenza. Corsi fuori e scoprii
che potevo essere veloce, nel silenzio della calma del respiro di mio figlio.
Restai immobile, con la
schiena sul muro, fuori dall’hotel, e poi sentii il cigolio della porta.
Deglutii. Ancora dei passi. Lenti e decisi, uno due tre. Lenti e decisi, uno
due tre. Un sospiro. E poi i passi divennero veloci, sempre più lontani, e
ringraziai il mio bambino che se ne stava zitto zitto a respirare sul mio
petto. Piano, scesi dalla scala d’emergenza. Avevo il telefono in tasca e anche
qualche banconota nella giacca, non sapevo dove sarei andata, ma sapevo che io
e Louis stavamo proteggendo il bambino, ed io dovevo farlo in quel modo. Con
una mano mi alzai il cappuccio e cominciai a camminare, poi sentii una goccia
d’acqua puntellarmi il naso, e la mia testa sentì di nuovo lo sparo e mi dissi non
avere paura, per lui, per Louis, per il tuo bambino. Sistemai meglio la
coperta del piccolo in modo che non si bagnasse, e cominciai a camminare sotto
i balconi a passo veloce.
E poi alzai il viso.
Riuscivo a vedere il
terrazzo; Marlene poggiava la mano sulla ringhiera, tremava, e un uomo con i
capelli neri, Joshua, la teneva per i capelli, con in mano una pistola.
Trattenni un urlo. Il tuo bambino, devi proteggere il tuo bambino.
Indietreggiai nell’ombra, dove io potevo vedere e nessuno poteva vedere me.
Joseph aveva il volto rosso, forse piangeva, forse aveva già pianto. Lui e
Joshua potevano essere confusi... entrambi alti, entrambi con i capelli capelli
scuri e lisci, il volto pallido e i lineamenti fini. Ma erano gli occhi ad
eliminare ogni dubbio: Joshua aveva gli occhi di un nero inumano, si
vedeva anche da lontano, ed era lo stesso colore che avevano gli occhi del
signor Jenkins prima di morire; gli occhi di Joseph, invece, erano di un caldo
marrone scuro. Louis, accanto a lui, sembrava di pietra.
Riuscii a capire poche
parole.
La voce era chiara,
glaciale. «Il signor Jenkins ha ucciso mio padre, ha incendiato la sua casa e
ha distrutto la mia vita. Lui è già morto ormai... non ho fatto in tempo a
ucciderlo io stesso e con i miei mezzi... ma lei deve pagare. E per finire
tutto, ho bisogno di quel bambino.»
«Quel bambino è mio
figlio e la madre non è Marlene, ma mia moglie,» disse Louis.
«Non ti credo.»
«Marlene è incinta,» la
voce di Joseph, spezzata. «Prendi me, uccidi me. Non lei, non lei...»
«Marlene muore e prendo
il bambino.»
Sentii la voce di Louis,
sicura, che tremò sull’ultima lettera. «Mai.»
E vidi Joseph che si
buttava addosso all’uomo che teneva Marlene per i capelli, vidi Louis che
avvicinava la mano a Marlene e sentii lo sparo, di nuovo. Marlene si accasciò a
terra. No… no… Un altro sparo e Louis, il mio Louis, si toccò il cuore. Era lì
che l’aveva colpito ed anche lui cadde, cadde e non si rialzò. Non si rialzò ed
io volevo solo urlare e piangere ma non potevo. Conoscevo il volto di
quell’uomo, sapevo chi era.
Joshua.
Joe.
Sollevò la pistola e la
puntò verso Joseph, inginocchiato davanti a lui.
Ma non ci fu nessuno
sparo.
«Che fortuna.» Quella
voce era acciaio. «I proiettili sono finiti, resterai in vita.»
Joshua si allontanò e non potei più vederlo, allora
cominciai a correre più veloce che potevo. Volevo solo andare da lui, l’uomo
che amavo, l’uomo che era morto per me.
Ma dovevo salvare il mio
bambino e niente mi avrebbe fermato.
***
Mi trovarono in una
città vicina, in un centro per famiglie disagiate. Quando ci arrivai dissi solo
che avevo visto mio marito e la mia migliore amica morire davanti a me. Presto
la notizia passò ai telegiornali. I poliziotti entrarono in quella che era la
mia stanza, ed io li guardai tutti. Non riconobbi nessuno… ma poi spuntò una
giacca nera. Non avevo più forza di avere paura.
«Doreen.» Sospirò.
Era Joseph.
Scoppiai a piangere
davanti a lui, il mio bambino che faceva scontrare le macchinine sul letto, il
mio bambino che si voltò con espressione curiosa senza capire. Quante volte
aveva detto “papà” in quei giorni. C’è la mamma qui con te non gli
bastava. Non gli sarebbe bastato mai.
Joseph mi abbracciò
forte.
***
Joshua era scappato, non
si sapeva dove, e ci avrebbe cercato.
Voleva Agnes e voleva la
sua bambina, voleva amare Agnes e voleva trasformare sua figlia in un’arma.
Come Dio solo lo sapeva, io sapevo solo che era un folle. Aveva assillato
Joseph, che aveva subito dubitato di lui. E voleva uccidere il mio bambino
perché lo credeva figlio di Marlene.
E Louis mi aveva
protetta.
Louis
non c’è più.
Marlene aveva paura.
Marlene
non c’è più.
«Ho capito bene,
allora?» L’agente di fronte a me aveva il viso scavato ma gli occhi gentili.
Annuii. «Qualunque cosa
per proteggerlo.»
«Sarà dura.»
«Non ho paura.»
L’uomo fece rigirare la
penna fra le mani.
«Nemmeno io,» disse
Joseph, accanto a me. Joseph, che non aveva più niente. Joseph, che aveva perso
sua moglie. Joseph, che cambiava cognome per noi. Marlene, che avrebbe avuto un
bambino, chissà se maschio, chissà se femmina, e chissà se avremmo portato
insieme i nostri figli al mare, al parco, a scuola…
Deglutii e sentii le
parole di Louis. Tornerò da te. Guardai il poliziotto di fronte a
me.
Solo la morte non
l’avrebbe fatto tornare, eppure io sentivo, mentre ascoltavo, che lui era lì
con me.
***
La luce del mattino
filtrava dalla finestra, colpendo il letto su cui avevo passato la notte senza
mai chiudere gli occhi. Da quel giorno, sarebbe cominciata la mia nuova vita.
Da quel giorno, non sarei più potuta essere la stessa persona.
Se
tornerà indietro, Doreen, cercherà te, e cercherà tuo figlio.
Mi chiamavo Doreen Mayer
adesso. La mia laurea in Francese sarebbe stato solo un pezzo di carta
conservato in dei libri dalle copertine improbabili di romanzetti d’amore, in
modo che mio figlio non li guardasse nemmeno.
Scalciai via la coperta
e mi misi seduta; il mio bambino dormiva ancora, la culla era la stessa
dell’appartamento mio e di Louis, così come lo erano tutti i suoi giochi. La
casa, estranea. Non era quello il mio posto, era di Marlene, Marlene e Joseph e
i loro figli, e ci avrebbero offerto del caffè nero in veranda con Louis seduto
vicino a me…
Per
proteggere il bambino, i servizi segreti si occuperanno dei documenti e andrà
tutto bene. Tuo figlio sarà sempre al sicuro.
Mi alzai in piedi e mi
misi addosso la vestaglia; Joseph, nel dolore, era stato la grande persona che
Marlene aveva amato dal primo istante. Mi avrebbe pagata per tenere in ordine
la casa, anche se il vero motivo per cui ero lì era stare vicino al mio
bambino, che secondo i documenti era figlio di Joseph, Joseph Scott, perché ora
aveva il cognome di Louis.
Aprii la porta.
«Mamma.»
Una piccola voce.
«Mamma.»
Una piccola voce, acuta.
Voltai di poco la testa
e mi morsi la lingua. Fino a quando avrei resistito? Quanto sarebbe stato
difficile? Lo sentivo già adesso, con il mio bambino che si era alzato in piedi
e si teneva in equilibrio con le manine sulle sbarre della culla, i riccioli
dorati, le guanciotte, gli occhi verdi con le ciglia lunghe. Mi avvicinai alla
culla e ricacciai indietro le lacrime, gli accarezzai il viso.
«Devi chiamarmi Doreen, Martin,»
mormorai.
«Mamma.»
Mi faceva male la gola e
le lacrime pungevano come se potessero uscire dai pori della pelle.
E allora mi voltai,
camminai lontano, arrivai di nuovo vicino alla porta, e sentii il mio bambino
piangere, il mio bambino che diceva “mamma” “mamma” “mamma”. Io. Sono io.
«Mamma.»
No,
amore mio. Sarò sempre tua madre, ma tu non puoi saperlo.
Mi morsi le labbra.
Non
puoi saperlo.
Martin singhiozzò.
«’Reen,» chiamò la sua
voce.
E da quel momento, ogni
cosa fu abbastanza. Fu abbastanza sapere che era al sicuro ed essere sua madre,
essere sua madre sempre, in ogni momeno e in ogni attimo, il primo giorno di
scuola, la prima caduta, la prima bambina che ha fatto piangere, il primo
brutto voto, il primo pianto di rabbia per Joseph che non c’era mai, le prime
storie sulla sua mamma volata in cielo.
Ma non ho mai smesso di
essere sua madre. Quando è nato Martin, io sono nata per la seconda volta.
‘Reen, Doreen, Dora. Madre.
Per tutta la vita.
E ora lui è
tornato e mi sta guardando e mi ascolta, mentre dico con poche parole, secche,
balbettate, quello che è vero. Che lui è il mostro, e non questa povera
ragazzina che mi è davanti. E vorrei sapere come ha fatto a coinvolgerla in
tutto questo.
«Doreen, la tata. Che
bella trovata.» La voce di Joe ride per lui. Mi ha portato via me stessa, ma
non mi porterà via mio figlio. «Ripetila.»
Joseph non è suo padre.
Quest'uomo è Joshua, non Joseph come Martin aveva creduto, come i suoi indizi
gli avevano fatto capire. E...
Lo guardo.
Lui, con quell’abito
nero e la pelle così bianca da essere traslucida, gli occhi neri come carbone
bruciato. «Ripetilo!»
Sussulto.
«Ripetilo. Diglielo,
guardalo negli occhi.»
Lo sguardo di mio figlio
è vuoto, la mia gioia di vederlo in vita basta a tenere in vita me, anche se
ora è lui a distogliere lo sguardo, ora è lui a soffrire, forse a non capire.
«Ho mentito.» Sento una
lacrima tagliarmi la guancia. «Tutti noi abbiamo mentito... e tu sei mio
figlio.»
*
*
*
*
Ho aggiornato prima del previsto, siete contenti? *-* Visto che ho avuto un attimo libero, ne ho approfittato per rileggere il capitolo e aggiornare :D Spero che vi abbia fatto piacere, anche perché questo capitolo è ricchissimo di rivelazioni.
Ve lo aspettavate? :3
Vi linko qui il link della pagina in cui posto immagini e curiosità, mentre questo è il mio profilo facebook :)
Ringrazio chi mi legge sempre e recensisce, e le persone che continuano a mettere la storia fra seguite, ricordate e preferite, siete davvero molti! *.*
Grazie di cuore,
Ania :)