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Autore: aniasolary    17/02/2014    3 recensioni
(Storia da revisionare)
Young Adult con elementi sovrannaturali e di Mistero.
In un pomeriggio assolato, le urla di una bambina oscurano il cielo; lei è un'arma, lei non potrà mai vivere, lei non può fare altro che nascondersi.
Anni dopo, un ragazzo trova la sua fotografia fra i documenti di suo padre. Un padre assente, troppo lontano da tutto e da tutti, così preso dai documenti fra cui c'è quella fotografia.
Sei appena venuto a conoscenza della presenza di un burrone. Vai a vederlo. Non ti aspetti che ci cadrai dentro.
Quella ragazza.
Quell'arma.
Quel ragazzo.
Il suo mondo.
Sogni spezzati.
L'amore difficile.
Vite in sospeso.
Amicizie distanti.
Vite rimaste indietro.
Vite in pericolo.
Buio.
Speranza.
Ed un uomo nell'ombra.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Illustrazione di presa da Google.

Grafica dell'immagine a cura di Honey Essentials.

Ne è vietato il riutilizzo. Tutti i diritti riservati.

23. 

Doreen Gates 

Parte II

Tappezzeria  rosso scuro, mobili in noce e nessuna luce; l’interno della casa era l’esatto opposto del suo esterno ma, anche se sentivo il solito disagio che si prova quando si è in una casa estranea, il naturale silenzio con cui Agnes correva nel corridoio mi fece intuire che quella era solo un’altra parte della bellezza.

Correva. Marlene mi pestò il piede, gridai, rise. Risi anch’io.

E poi ci ritrovammo davanti a un ambiente unico, un salotto, dalle poltrone con i fiori e il camino che scoppiettava anche se era appena arrivata la primavera.

«Nonno, loro sono mie amiche,» disse Agnes, andando verso il signor Silvers, l’uomo che era seduto sulla poltrona. L’uomo sorrise e mi sembrò giovane, anche se stringeva un bastone di legno con una mano tremante, anche se la pelle era di quel chiaro marrone legno che un tempo era rosa pallido.

«La mia Aggie.» L’uomo le accarezzò i capelli. «Sono contento che tu abbia trovato delle signorine con cui giocare.»

«Ciao, Agnes.»

Non l’avevo nemmeno visto. La voce alta e infantile proveniva da un ragazzino che doveva avere più o meno la mia età; alto, per essere un bambino, e molto magro.

«Ciao, Joshua,» Agnes rispose gentile, guardandolo appena, e poi posò un bacio sulla guancia del nonno.

Il ragazzino la guardava con quello sguardo che solo la maturità avrebbe fatto sbocciare in qualcosa di devastante, bello come solo l'amore può essere, e doloroso. Aveva la pelle così pallida che pensai che fosse malato, e i capelli neri e gli occhi azzurro ghiaccio la facevano risaltare ancora di più.

Anche lui, lontano di metri, proprio come Agnes la prima volta in cui l’avevo vista, non sembrava vero. Azzurro ghiaccio, erano i suoi occhi. E quando guardavano Agnes diventavano acqua.

Agnes ci portò fuori dal salotto, dicendo che in cucina avremmo potuto trovare anche il succo di frutta alla pesca; lei e Marlene avrebbero corso per tutto il giorno, se avessero potuto, allora io rallentai un po’.

Ascoltai.

Non si origlia, Doreen.

Ma ascoltai lo stesso.

«Dicevamo, Joe?» disse il nonno.

«Le pietre nere.»

«Le pietre nere, già… sai, una sola persona con una sola pietra ha potuto fare quello per cui le pietre sono state create.»

«Fare giustizia…»

«Sì, fare giustizia nell'animo dell'uomo. Una persona adulta può usufruire del potere di una pietra soltanto una volta. Un'anima innocente, invece, per sempre.»

«Ma come?»

«Era nel suo cuore.» Una pausa. «Nacque così... fu un dono per il mondo. Si chiamava Alisia. La natura a volte ti sceglie, e non sai se chiamarlo destino, non sai se averne paura o esserne orgoglioso. Era nel suo cuore da quando le prime luci della vita hanno toccato i suoi occhi, nell'innocenza dell'infanzia... l'innocenza è...»

«Doreen!» mi chiamò Marlene. Ed io non seppi mai che cos’era l’innocenza per quell’uomo, e continuai a vivere nella mia.

***

Con la schiena contro il muro, respiravo appena per non farmi sentire, in modo che Marlene non mi trovasse. Mi chiesi dove si fosse nascosta Agnes, di sicuro in un posto che conosceva solo lei, padrona e figlia di quella vita. Dopo qualche minuto mi allontanai, per correre verso il cancello e annunciare la mia vittoria... e allora corsi, corsi verso quella discesa e il vento mi accarezzava i capelli e il volto ed io pensavo questi sono i sogni.

Questo è vivere nei sogni. 

«Ho vinto io!» Toccai il cancello, quella parte aperta verso l'interno per lasciare entrare me e Marlene. «Ho vinto io!» ripetei. 

Sentii una presa sulla spalla. E così aprii gli occhi. Mi ritrovai davanti uno sguardo nero; iridi color catrame. Quell'uomo, con i capelli biondi come quelli di Marlene, mi strattonò e mi spinse contro il cancello ed io mi morsi le labbra per coprire con dolore il dolore. 

«Perché sei qui?» L'uomo mi strinse ancora di più. Volevo scappare, tornare a casa, non tornare mai più... ma qualcosa bloccava la mia lotta. Quell'uomo era familiare, e lo era in un modo che mi ghiacciava il sangue, perché non riuscivo a scappare da lui. Perché una parte di me stessa, che odiai e cercai di reprimere con tutta la forza che poteva avere una bambina di dieci anni, mi diceva che presto quello sguardo d'orrore sarebbe scomparso. E sarebbe tornato... «Papà!» Era la voce di Marlene, distorta. 

L'uomo mollo la prese ed io scivolai a terra. Il padre di Marlene, ecco chi era. Il signor Jenkins. 

«Che ci fai qui, carogna?» L'uomo le strizzò l'orecchio e Marlene trattenne una smorfia di dolore. 

«La bambina che vive qui è mia amica...» 

«Tua amica, eh? Ah... ah...» Il signor Jenkins cominciò a tossire, lasciò che Marlene si allontanasse da lui e si lasciò andare a una forte tosse. Era sempre stato gentile con me, con sua figlia, anche dopo aver perso il lavoro... ma da qualche mese non era più lo stesso. Era burbero, sempre arrabbiato, nervoso. Non lo vedevo da mesi ma in quel momento potei constatare che qualcosa di strano era visibile. I suoi occhi. Lo vidi schiaffeggiare Marlene e sentii il dolore con lei. I suoi occhi un tempo azzurri, ora neri. 

Portò via Marlene trascinandola per il braccio. Lei non ne volle mai parlare, il solo pensiero la faceva piangere, ed io volevo solo salvarla dalle lacrime, dalla sofferenza, dai lividi nuovi che si vedevano sulle sue braccia magre e che dimenticava all'istante ogni volta che giocavamo insieme, ed Agnes era insieme a noi.

Agnes era reale, ed era mia amica. Agnes amava le storie, e raccontarle in quel giardino pieno di fiori era ormai un’abitudine. Divenne marchiato al fuoco il suo rifiuto davanti al cioccolato, perché non le piaceva, così come il vizio di mangiarsi le unghie. Quando Marlene le disse che chi ha brutte mani non è una femmina non le parlò per due pomeriggi, ma quando le chiese scusa la abbracciò e le disse che aveva ragione. Quando le portai un dolce alla crema che mia madre aveva fatto per me, disse che per quel giorno avrei potuto essere la principessa del castello.

«La principessa Doreen.» Agnes mi posò una coroncina di plastica dorata sulla testa. « Ti piace?» Agnes e Marlene sorridevano così tanto che non potevo dire di no, eppure io ero una bambina inquieta. Non avevo mai creduto a babbo Natale e alla fatina dei denti, non c’erano principesse nel mio futuro: mia madre mi aveva insegnato bene la differenza fra quello che verrà e quello che non potrà esserci mai.

«Sì, mi piace molto.»

«Che fortuna!» Sbuffò Marlene. «Domani te lo porto io un dolce alla crema!»

«Domani potrai essere una principessa anche se non lo porti, Marlene. Sei mia amica!»

«Oh, giusto.» Marlene ridacchiò, e poi Agnes guardò in cielo; era così concentrata che finii per guardare nella sua stessa direzione, senza trovare altro che il cielo.

«Doreen?»

«Mhm mhm?»

«Lo sai che il nome “Sarah” vuol dire principessa?» Gli occhi azzurri di Agnes sembrarono diventare ancora più grande. «Penso che mia figlia la chiamerò così.» Lo disse come se fosse una cosa che sarebbe successa per forza, una bambina che crea il suo destino con l’immaginazione.

Io ero troppo ancorata a terra anche per pensarci. Non sapevo nemmeno se avrei mai avuto un bambino.

***

Quella sera io e Marlene prendemmo il sentiero di ritorno prima del tramonto; faceva un po’ paura camminare nel boschetto al buio. Sapevo che non c’erano lupi, mostri, serpenti: mia madre mi metteva in guardia solo sulle persone cattive.

Sentivo i muscoli vibrare mentre salivo la collina che portava alla parte alta della piccola cittadina. Quando arrivavo in cima, mi voltavo e guardavo sempre giù a valle, dove quella villa che sembrava un castello brillava nel suo candore. E poi mi veniva facilissimo immaginare il giorno dopo, con me, Marlene ed Agnes che correvamo fra i fiori; dolci alla crema e succhi di frutta, nascondino e guardia e ladri, e la principessa di un regno inventato.

Ma non riuscii ad immaginarlo, quella sera.

«Dora…» Marlene mi strinse il braccio fra due mani, il cestino del pranzo rotolò via ed lo seguii con lo sguardo, ancora, ancora, ancora, mentre Marlene continuava a chiedere “cos’è?” e “perché?” e “come? Come può essere successo, Dora?”

L’unica cosa che riuscii a pensare era non riesco più ad immaginarlo. Il panico mi travolse. Non c’è più niente da immaginare. Deglutii. Fino a qualche minuto prima ero lì, in quel luogo di fiabe, adesso travolto dal fuoco.

La villa bruciava.

E chi era lì dentro, moriva.

 ***

Il ragazzo che parlava con la cameriera dai lunghi capelli castani era Joshua, ed io credevo che fosse morto in quell’incendio. Joseph lo aveva conosciuto ad un corso di aggiornamento all’università. Marlene diceva che non poteva essere davvero lui... gli occhi del ragazzino che avevamo conosciuto da piccole erano chiari, mentre quelli di quel Joshua erano neri. Ma era lui, ne ero convinta. Joshua. Joe.

Marlene, con il vestito ampio e il lungo velo, rideva forte mentre Joseph la prendeva in braccio per una foto che, diversi anni dopo, avrebbe fatto sorridere tutti. Marlene era il ritratto di tutte le gioie del mondo, e forse ciò accadeva perché aveva spesso la testa fra le nuvole anche se restava con i piedi per terra. Alla prima occasione, però, anche i piedi se ne stavano in aria, e allora tutto era perfetto, mentre tutti noi la guardavamo solcare il cielo come un aquilone. 

«Adesso lancio il bouquet!» esclamò Marlene, voltandosi, e tante ragazze le si accostarono vicino fra fruscii di seta e velluto. Io non mi mossi, immersa nei miei pensieri. Quel ragazzino che avevo creduto morto e che, anche quando Joseph aveva presentato Marlene e me, sembrava non ricordare. Ma il modo in cui aveva guardato me e poi Marlene… mi strinsi nelle stola di seta, rabbrividendo. Lui ricordava tutto. E non sembrava più lo stesso.

Sentii il rumore di un sorriso.

«Tu non vai a prendere il bouquet? »

«Oh, no.» Scossi la testa, qualche ricciolo venne fuori dall’acconciatura. Sfiorai l’anello della mano sinistra. E la guardai.

Ancora non credevo che fosse venuta. Lei, Agnes, che con il tempo era rimasta l’amica con cui avevo giocato in dei pomeriggi primaverili dall’immenso prato verde e una villa da fiaba. Lei, salva per miracolo.

Si mise a guardare le ragazze che schiamazzavano ed io ebbi il tempo di osservarla. Agnes era un fiore, sì, ed era completamente sbocciato. Aveva quel tipo di bellezza che avrei desiderato avere con tutto il cuore, e mi ero rassegnata a non averla mai. Ma non la invidiavo; era semplicemente Agnes, il fantasmino, l’angioletto, quello che dopo aver guardato il suo mondo di sogni bruciare dal boschetto dove stava raccogliendo le margherite, aveva chiamato aiuto ma era troppo tardi. Troppo tardi…

«Aggie, hai freddo? » La voce di un ragazzo, un po’ roca, ma come avvolgente, fece voltare Agnes. In lontananza vidi Louis e Joseph che parlavano guardando il giardino, le loro spalle si sfioravano. Ridevano. Riuscivano a specchiari l'uno dentro l'altro con uno sguardo.

«No, sto benissimo. Nathan, hai già conosciuto Doreen? »

Strinsi la mano dell’uomo dai capelli biondo chiaro, occhi color ambra, grandi, dalle ciglia lunghissimo. Il suo sorriso solare mi accolse. «È un piacere. A quando…?»

«Qualche mese.»

«Auguri!» Nathan faceva il professore di matematica, e in lui c'era tutta la vitalità che i numeri non avrebbero mai potuto avere. Sembra animare tutto quello che incontra solo toccandolo, mi aveva scritto Agnes in un lettera.

«Grazie.» Risi. Con la laurea e poi l'organizzazione dell'azienda, Marlene e Joseph avevano rimandato il matrimonio di un paio d'anni. Io e Louis, invece, avevamo afferrato il tempo come se potesse sfuggirci da un momento all'altro. Ancora non ci credevo, anche se letteralmente si trattava di non credere nella mia stessa vita. Mi carezzai la pancia, facendo scorrere la mano sul tessuto blu, sentendo quello che nella mia mente chiamavo il nostro cuore. Il nostro bambino.

«Dora, come lo chiamerai? Mi chiedo ancora come ho fatto a dimenticarmi di chiedertelo.» Gli occhi di Agnes divennero luminosi. Come se già non lo fossero, come se non lo fossero mai stati.

«Marlene, se sarà una bambina.» Sorrisi. «Se invece sarà un machietto…»

«Marlon!» Louis mi sfiorò la spalla ed io sussultai, poi scoppiò a ridere. «Come Marlon Brando.»

«Assolutamente no.» Lo fulminai con lo sguardo. Quanto era bello con quell’abito da cerimonia? Il blu gli donava. Ma era assolutamente inammissibile che ci pensassi adesso, così tornai a guardare Agnes. «Stiamo ancora decidendo.»

Agnes sorrise con quell’aria che poteva avere anche Marlene, con i sogni nello sguardo. Dipingeva, adesso, e si stava affermando molto bene in Europa. Dopo la morte del nonno si era trasferita in Svizzera con i genitori; tornava solo ogni tanto l’estate, anche se non c’era più nessuna villa in cui giocare ma semplicemente la sua cameretta in un appartamento in centro. Mi piaceva tanto andare a trovarla, ma qualcosa era cambiato, fra noi. C'era quell'affetto doloroso, quei ricordi bellissimi sciolti poi dalle fiamme dell'incendio che aveva portato via il signor Silvers. A quindici anni, i suoi genitori si erano separati, e lei non era più tornata, anche se ci eravamo scritte per tutto quel tempo. Nelle lettere, non c'era più dolore. Nelle lettere, poteva ancora esserci il nostro mondo incantato, anche se non eravamo più bambine.

«Sì, c’è tempo.» Louis prese una sedia, con quei suoi movimenti decisi e sicuri e si sedette vicino a me. Mi prese la mano e mi sfiorò l’anello con le labbra. «Anche se Marlon è davvero uno spettacolo.»

«Non se ne parla.» Tossii. «Quindi, Agnes, sai… non immaginavo che tornassi in America per sposarti.»

«I miei ci tenevano molto,» disse Nathan, l’abito grigio sotto il sole invernale. Guardava Agnes rapito, innamorato.

«La Svizzera è bella ma… questa è la mia casa. Voi lo sapete.» La voce di Agnes aveva mantenuto lo stesso candore di quando era bambina, ma adesso aveva molta più sicurezza. «E poi… era proprio destino, Nathan è americano! Se non avessi perso la valigia nell’aereoporto di Ginevra non l’avrei mai incontrato!»

«Avevamo perso tutti e due la valigia ed io non sapevo una parola di tedesco,» disse Nathan, ridendo.

«Allora Agnes è stata la tua salvezza.» Sorrisi.

«Già, proprio così. »

***

Quando senti per la prima volta il pianto di tuo figlio il tempo si ferma, e ti chiedi con che coraggio i medici e le infermiere interferiscano nella sacralità di quel momento parlando, camminando, facendo rumore, mentre tuo figlio piange e per te non esiste più niente.

È un bambino. La voce dell’infermiera entra nella tua mente come se fosse la conseguenza di un incantesimo, quando l’incantesimo più grande è, in realtà, la vita. 

Ed il tempo è ancora fermo, anche se la lancetta dell’orologio si sposta di secondo in secondo, di minuto in minuto, e senti che qualcuno ti stringe la mano e ti volti ed è lui, l’uomo che ami, sai che è l’uomo che ami anche se non puoi vederlo perché le lacrime scendono.

«È bellissimo, ‘Reen. Non puoi immaginare.»

E sei così stanca. «Lo so che è bellissimo.»

«Perché io sono il padre? »

Ma riesci ancora a ridere. «Perché lui è il nostro cuore.»

Ti imponi di non piangere quando l’infermiera entra nella stanza con un fagottino avvolto nella coperta di lana beige che hai comprato qualche mese fa, ed alzi le braccia come se potessi allungarle all’infinito per abbracciarlo per sempre. Si lamenta e stringe i pugnetti ancora rossi, ed ha le guance piene ancora arrossate e poi il suo pugnetto finisce dove ti batte il cuore e pensi non piangere, guarda quanto è bello. Louis gli carezza il dorso della mano con l’indice, quasi avesse paura di sbagliare qualcosa, e le prime cose a cui pensi è che ha pochi capelli, e sono chiari, e quanto è bello.

È come lui.

«Avete scelto il nome?»

L’infermiera ti distrae per un attimo dalla semplice gioia di tenerlo tra le braccia. E poi i tuoi occhi incrociano quelli verdi, splendidi, di tuo marito; con un cenno ti chiede se deve e tu annuisci e sei felice. E sai che, con il tuo piccolo fra le braccia, lo sarai per sempre.

***

Cresceva così in fretta, il mio bambino. E con i giorni e i mesi, mi rendevo conto di come somigliasse a suo padre. Di me aveva preso solo la tendenza ad avere i capelli ondulati, naturalmente biondissimi come quelli di Louis nelle foto in cui anche lui era piccolo. E poi gli occhi, così verdi e gioiosi. 

E adesso giocava su un tappetino di gomma su cui erano sistemate tante costruzioni; Louis gli era vicino, lo aiutava a sistemare i lego e ci sistemava vicino dei pupazzetti di plastica.

«Il bambino si è ben ambientato, qua in hotel, eh?» fece Louis.

«Si ambienta ovunque sia io.»

«E anch’io.»

«Sì ma io sono la mamma.»

Louis scosse la testa e si mise in piedi, mio figlio alzò il visino verso di lui curioso, come in attesa, e Louis gli diede un buffetto sulla guancia. Poi si avvicinò a me.

«Sai che se non ci fossi stato io non sarebbe mai nato.»

«Dettagli.»

«Un giorno dovrai spiegarglielo. »

«Fra trent’anni magari.»

Louis sbuffò ed io provai una fitta di irritazione. C’era bisogno di parlarne proprio in quel momento? Dopo trent’anni magari sarebbe stato opportuno, certo, ma ora era solo un bambino. Lo sarebbe sempre stato.

«Io sono sicuro che sarà bravissimo a rimorchiare ragazze. Magari in caffetteria.» Louis ammiccò. «Ma anche sui mezzi pubblici, a scuola o alle feste.»

«Taci.»

Mi diede un bacio che sapeva di champagne e fragole.

***

«Oh mio Dio, è bellissimo, mio Dio, quanto è bello, mio Dio! Ciao, ciao, ciao! Ma com’è cresciuto. Somiglia a Louis ma è decisamente meglio, si vede già dalla faccia che è più intelligente. No, ma guarda come ride… ciao, ciao, ciao!»

Marlene riempiva mio figlio di carezze e sguardi teneri alternando la voce stridula riservata al piccolo con quella seria e decisa con cui faceva le sue considerazioni.  Mi guardai un po’intorno, giusto il tempo per sentirmi venire meno perché la casa splendeva sotto i miei occhi, come se fosse dorata anche nel legno, nella tovaglia color prugna del tavolo, nel divano in pelle su cui ero seduta, nelle finestre.

«Joseph viene sempre qui per gli affari.» Marlene venne a sedersi vicino a me con il piccolo in braccio. «E allora abbiamo pensato, perché non comprare una casa qui? »

«È sempre un buon motivo per stare insieme. »

«Certo. Anche se non ci siamo ancora trasferiti definitivamente, la residenza è ancora a Boston.» Marlene sorrise e il mio bambino scese dalle sue gambe; camminava da poco, la sua prima parola era stata “Reen” e per questo avevo fulminato Louis con lo sguardo per una settimana. «E poi credo che… ecco, presto noi… insomma, io e lui…»

Sbattei le palpebre. «Non mi dire!»

«Non è ancora niente di certo. » Arrossì. Non era da lei, arrossire per certe cose; sin da piccole lei era sempre stata la più curiosa, la più estroversa.

«Be’, se mai lo fosse… è una cosa semplicemente splendida. »

«Penso che verremo a vivere qui definitivamente. Per ora siamo in hotel come se fossimo in vacanza, come te e Louis praticamente... A breve nascerà anche la bambina di Agnes. »

«È vero.»

«Pensa se conoscesse il tuo…»

«Ne parliamo di nuovo fra trent’anni.» 

Marlene rise di gusto, prese in braccio mio figlio e prese una penna dalla tasca; era fatto di plastica blu, con una J e una S dorata sul dorso.  Scrisse qualcosa su un foglio. «Ma quella penna...?»

«Joseph ha voluto fare le lettere di oro vero.» Marlene sorrise. «Ne abbiamo fatte fare due, una per me e una per lui. L'ha fatta fare per l'azienda, visto che è intestata a entrambi. J per Jenkins, il mio cognome, ed S per Sullivan, il suo.»

***

Marlene teneva la mano di Joseph; lei aveva i guanti, ma lui no, e si vedeva la fede dorata. Tutto era d’oro, lo era per lei, lo era per me. 

Louis mi aiutò a sistemare il passeggino sul marciapiede e sorrise, io poggiai la mano sulla sua spalla.

«Volete salire? Ci facciamo portare la cena in camera,» chiese a Joseph e Marlene.

«Che gentilezza, stasera,» cantilenò Marlene.

«Io sono sempre impeccabile.»

«Ah-ah, certo. Comunque sì… Joe?» Marlene si voltò verso Joseph; lui armeggiava con quello che al tempo era un cellulare molto costoso.

«Vi raggiungo dopo,» disse lui, e la sua voce mi parve tesa.

«È successo qualcosa? » gli chiese Marlene. Evidentemente doveva aver avuto la mia stessa impressione.

«N-no, no, davvero. Un cliente.»

«A quest’ora? »

Joseph fece un’alzata di spalle come per dire non è colpa mia, ma la tensione non scomparve… era come se nascondesse qualcosa, ma poi mi chiesi, chi ero io per farmi certe domande?

«Faccio presto.» La voce di Joseph era calma, dolce. Forse mi ero sbagliata.

Forse. Prendemmo l’ascensore ed entrammo nella suite, mi sentivo inquieta e, per la prima volta da quando ero lì, desiderai di tornare a casa, nel nostro piccolo appartamento con la culla bianca vicino al lettone, i peluches dappertutto, i miei libri di letteratura e i giornali di Louis. Forse.

Quel piccolo forse.

Mio figlio si era già addormentato; erano passate due ore e di Joseph nessuna notizia, non rispondeva neanche al telefono. Percepivo l’ansia di Marlene ad ogni respiro, come se fosse mia, come se io fossi lei. Da bambine eravamo in simbiosi, due diverse tonalità di uno stesso colore, e anche dopo anni sentivo che era ancora così. Marlene si toccò la pancia per un secondo, poi tornò a sfregare il palmo sui pantoloni con un sbuffo. Lo aspettava davvero, quel bambino… si chiamerà Dora, se sarà una bambina. Spero che il destino non mi faccia lo stesso scherzo che ha fatto a te.

Qualcuno bussò alla porta.

In quel momento, il telefono squillò.

«Joseph!» chiamò Marlene, al telefono.

Mi inoltrai nella stanza per raggiungere il corridoio.

«Come… che significa che dobbiamo restare chiusi qui? Non… non capisco… in che senso pericolo?» continuò.

Mi fermai. Sentii un brivido, come se qualcuno mi stesse puntando un pugnale dietro la schiena, e smisi di respirare. Il corridoio era buio. Marlene non parlava più.

Avevo paura e non sapevo perché. 

Sapevo solo che dovevo averne.

Tornai subito indietro e trovai Marlene ancora seduta, con il telefono sulle gambe, gli occhi vuoti. I suoi occhi celesti, senza luce.

«Vado a cercarlo.»

«Che cosa succede?» Marlene si alzò in piedi. 

«Dice che se esco di qui sarò in pericolo quando è lui ad essere in pericolo e può morire... per me. Per me. Quel pazzo… quel pazzo…» 

Louis entrò nella stanza, le chiavi in mano, il volto confuso, i capelli biondi scompigliati. Marlene parlava, si agitava, ed in quel momento pensai a chi poteva essere quello che aveva bussato alla porta. «Quel pazzo furioso che ucciderebbe tutti solo per arrivare a me… pazzo, pazzo… Doreen, non uscire di qui e proteggi il bambino, perché prenderà lui se noi… se noi…»

«Marlene…»

«Devo andare.»

«No!»

Ma lei era più veloce, era sempre più veloce di me, e quando io raggiunsi la metà del corridoio lei aveva già aperto la porta. Il suo sguardo era addolorato, mi chiedeva perdono. Io invece le chiedevo perché.

Ma lei chiuse la porta e non ci fu nessuna risposta.

Rimasi lì, a tremare, a guardare il legno dipinto di bianco della porta dell’hotel, incapace di capire che cosa fosse successo, che cosa stesse succedendo, che cosa c’entrasse il mio bambino con tutto questo.

«Amore, ehi.» Louis mi prese il viso fra le mani; non mi ero nemmeno accorta dei suoi passi, e ne fui grata, perché il suo tocco in qualche modo riuscì a calmarmi, quasi lui potesse controllare la frequenza dei battiti del mio cuore. «Sta’ vicino al bambino. Io vado a cercare Joseph…»

Mi staccai da lui. «No, non se ne parla. Non ci sto capendo niente… sai qualcosa, Louis? Marlene sembra completamente impazzita, tutte quelle parole non avevano senso… »

«No, non hanno senso,» Respirò profondamente, le spalle larghe si alzavano e si abbassavano. «Non ha senso, Doreen, ma ascoltami… non uscire da qui per nessun motivo, spegni tutte le luci, tutte, e sta’ vicino al piccolo fino a quando io non torno.» Ascoltami. Scossi la testa. Ascoltami, Dora.

«'Reen, ti prego.» Di nuovo le sue mani su di me. La sua bocca sulla mia fronte, poi sulla guancia, umida bocca sulla mia, senza più respiro.

«Tu sai. Tu sai, Louis. Perché non me lo dici?»

«Perché è troppo tardi adesso e… Perché ti amo e sei mia moglie e amo nostro figlio e vi proteggerò fino a quando sarò in vita.»

Poggiai la testa sul suo petto, inspirai il suo profumo, quel caffè, quell’amore, la nostra vita.

«Non voglio avere paura.»

«Non ne avrai.» La sua voce, un sussurro vicino al mio orecchio. Vento caldo d’estate. «Per nostro figlio, non avremo paura.» Lo guardai negli occhi, così verdi, con il contorno grigio, con un’ombra che speravo andasse via presto ma che mi ritrovai a riconoscere. Mi prese una mano fra le sue e per un attimo quell’ombra scomparve.

«Louis.»

«Tornerò da te.»

Le nostre dita si sfiorarono un’ultima volta ed io seppi che mi diceva la verità.

***

Mio figlio si svegliò al primo sparo. I suoi occhioni verdi erano l’unica luce della stanza, e poi si fecero un po’ più piccoli mentre allargava la bocca in un pianto che chiamava me. Lo presi in braccio, il suo profumo mi avvolse in una nuvola che sapeva di borotalco e risolini, e cominciai a cullarlo. «La mamma è qui, tesoro.» Piangeva piano, mio figlio. Non si faceva mai sentire. «La mamma è qui.»

Un altro sparo.

«La mamma è qui.»

Non andartene fino a quando non torno.

«La mamma è qui.»

Mio figlio si calmò, strinse i pugnetti sulle mie spalle, alla sua manina destra si erano attorcigliati i miei capelli, come per impedirmi di lasciarlo.

Non avremo paura.

Lo strinsi e gli baciai la testolina bionda.

Per lui, non avremo paura.

E poi sentii la porta che sbatteva forte, quasi fosse stata buttata a terra, e il gelo mi prese le ossa. In quell’unico secondo di lucidità, capii che non poteva essere Louis ad essere entrato. Oltre la finestra c’era una scala d’emergenza. Corsi fuori e scoprii che potevo essere veloce, nel silenzio della calma del respiro di mio figlio.

Restai immobile, con la schiena sul muro, fuori dall’hotel, e poi sentii il cigolio della porta. Deglutii. Ancora dei passi. Lenti e decisi, uno due tre. Lenti e decisi, uno due tre. Un sospiro. E poi i passi divennero veloci, sempre più lontani, e ringraziai il mio bambino che se ne stava zitto zitto a respirare sul mio petto. Piano, scesi dalla scala d’emergenza. Avevo il telefono in tasca e anche qualche banconota nella giacca, non sapevo dove sarei andata, ma sapevo che io e Louis stavamo proteggendo il bambino, ed io dovevo farlo in quel modo. Con una mano mi alzai il cappuccio e cominciai a camminare, poi sentii una goccia d’acqua puntellarmi il naso, e la mia testa sentì di nuovo lo sparo e mi dissi non avere paura, per lui, per Louis, per il tuo bambino. Sistemai meglio la coperta del piccolo in modo che non si bagnasse, e cominciai a camminare sotto i balconi a passo veloce.

E poi alzai il viso.

Riuscivo a vedere il terrazzo; Marlene poggiava la mano sulla ringhiera, tremava, e un uomo con i capelli neri, Joshua, la teneva per i capelli, con in mano una pistola. Trattenni un urlo. Il tuo bambino, devi proteggere il tuo bambino. Indietreggiai nell’ombra, dove io potevo vedere e nessuno poteva vedere me. Joseph aveva il volto rosso, forse piangeva, forse aveva già pianto. Lui e Joshua potevano essere confusi... entrambi alti, entrambi con i capelli capelli scuri e lisci, il volto pallido e i lineamenti fini. Ma erano gli occhi ad eliminare ogni dubbio: Joshua aveva gli occhi di un nero inumano, si vedeva anche da lontano, ed era lo stesso colore che avevano gli occhi del signor Jenkins prima di morire; gli occhi di Joseph, invece, erano di un caldo marrone scuro. Louis, accanto a lui, sembrava di pietra.

Riuscii a capire poche parole.

La voce era chiara, glaciale. «Il signor Jenkins ha ucciso mio padre, ha incendiato la sua casa e ha distrutto la mia vita. Lui è già morto ormai... non ho fatto in tempo a ucciderlo io stesso e con i miei mezzi... ma lei deve pagare. E per finire tutto, ho bisogno di quel bambino.» 

«Quel bambino è mio figlio e la madre non è Marlene, ma mia moglie,» disse Louis. 

«Non ti credo.»

«Marlene è incinta,» la voce di Joseph, spezzata. «Prendi me, uccidi me. Non lei, non lei...»

«Marlene muore e prendo il bambino.»

Sentii la voce di Louis, sicura, che tremò sull’ultima lettera. «Mai.»

E vidi Joseph che si buttava addosso all’uomo che teneva Marlene per i capelli, vidi Louis che avvicinava la mano a Marlene e sentii lo sparo, di nuovo. Marlene si accasciò a terra. No… no… Un altro sparo e Louis, il mio Louis, si toccò il cuore. Era lì che l’aveva colpito ed anche lui cadde, cadde e non si rialzò. Non si rialzò ed io volevo solo urlare e piangere ma non potevo. Conoscevo il volto di quell’uomo, sapevo chi era.

Joshua.

Joe.

Sollevò la pistola e la puntò verso Joseph, inginocchiato davanti a lui.

Ma non ci fu nessuno sparo.

«Che fortuna.» Quella voce era acciaio. «I proiettili sono finiti, resterai in vita.» 

Joshua si allontanò e non potei più vederlo, allora cominciai a correre più veloce che potevo. Volevo solo andare da lui, l’uomo che amavo, l’uomo che era morto per me.

Ma dovevo salvare il mio bambino e niente mi avrebbe fermato.

***

Mi trovarono in una città vicina, in un centro per famiglie disagiate. Quando ci arrivai dissi solo che avevo visto mio marito e la mia migliore amica morire davanti a me. Presto la notizia passò ai telegiornali. I poliziotti entrarono in quella che era la mia stanza, ed io li guardai tutti. Non riconobbi nessuno… ma poi spuntò una giacca nera. Non avevo più forza di avere paura.

«Doreen.» Sospirò.

Era Joseph.

Scoppiai a piangere davanti a lui, il mio bambino che faceva scontrare le macchinine sul letto, il mio bambino che si voltò con espressione curiosa senza capire. Quante volte aveva detto “papà” in quei giorni. C’è la mamma qui con te non gli bastava. Non gli sarebbe bastato mai.

Joseph mi abbracciò forte.

***

Joshua era scappato, non si sapeva dove, e ci avrebbe cercato.

Voleva Agnes e voleva la sua bambina, voleva amare Agnes e voleva trasformare sua figlia in un’arma. Come Dio solo lo sapeva, io sapevo solo che era un folle. Aveva assillato Joseph, che aveva subito dubitato di lui. E voleva uccidere il mio bambino perché lo credeva figlio di Marlene. 

E Louis mi aveva protetta.

Louis non c’è più.

Marlene aveva paura.

Marlene non c’è più.

«Ho capito bene, allora?» L’agente di fronte a me aveva il viso scavato ma gli occhi gentili.

Annuii. «Qualunque cosa per proteggerlo.»

«Sarà dura.»

«Non ho paura.»

L’uomo fece rigirare la penna fra le mani.

«Nemmeno io,» disse Joseph, accanto a me. Joseph, che non aveva più niente. Joseph, che aveva perso sua moglie. Joseph, che cambiava cognome per noi. Marlene, che avrebbe avuto un bambino, chissà se maschio, chissà se femmina, e chissà se avremmo portato insieme i nostri figli al mare, al parco, a scuola…

Deglutii e sentii le parole di Louis. Tornerò da te. Guardai il poliziotto di fronte a me. 

Solo la morte non l’avrebbe fatto tornare, eppure io sentivo, mentre ascoltavo, che lui era lì con me.

***

La luce del mattino filtrava dalla finestra, colpendo il letto su cui avevo passato la notte senza mai chiudere gli occhi. Da quel giorno, sarebbe cominciata la mia nuova vita. Da quel giorno, non sarei più potuta essere la stessa persona.

Se tornerà indietro, Doreen, cercherà te, e cercherà tuo figlio.

Mi chiamavo Doreen Mayer adesso. La mia laurea in Francese sarebbe stato solo un pezzo di carta conservato in dei libri dalle copertine improbabili di romanzetti d’amore, in modo che mio figlio non li guardasse nemmeno.

Scalciai via la coperta e mi misi seduta; il mio bambino dormiva ancora, la culla era la stessa dell’appartamento mio e di Louis, così come lo erano tutti i suoi giochi. La casa, estranea. Non era quello il mio posto, era di Marlene, Marlene e Joseph e i loro figli, e ci avrebbero offerto del caffè nero in veranda con Louis seduto vicino a me…

Per proteggere il bambino, i servizi segreti si occuperanno dei documenti e andrà tutto bene. Tuo figlio sarà sempre al sicuro.

Mi alzai in piedi e mi misi addosso la vestaglia; Joseph, nel dolore, era stato la grande persona che Marlene aveva amato dal primo istante. Mi avrebbe pagata per tenere in ordine la casa, anche se il vero motivo per cui ero lì era stare vicino al mio bambino, che secondo i documenti era figlio di Joseph, Joseph Scott, perché ora aveva il cognome di Louis.

Aprii la porta.

«Mamma.»

Una piccola voce.

«Mamma.» 

Una piccola voce, acuta.

Voltai di poco la testa e mi morsi la lingua. Fino a quando avrei resistito? Quanto sarebbe stato difficile? Lo sentivo già adesso, con il mio bambino che si era alzato in piedi e si teneva in equilibrio con le manine sulle sbarre della culla, i riccioli dorati, le guanciotte, gli occhi verdi con le ciglia lunghe. Mi avvicinai alla culla e ricacciai indietro le lacrime, gli accarezzai il viso.

«Devi chiamarmi Doreen, Martin,» mormorai.

«Mamma.»

Mi faceva male la gola e le lacrime pungevano come se potessero uscire dai pori della pelle.

E allora mi voltai, camminai lontano, arrivai di nuovo vicino alla porta, e sentii il mio bambino piangere, il mio bambino che diceva “mamma” “mamma” “mamma”. Io. Sono io. 

«Mamma.»

No, amore mio. Sarò sempre tua madre, ma tu non puoi saperlo.

Mi morsi le labbra.

Non puoi saperlo.

Martin singhiozzò.

«’Reen,» chiamò la sua voce.

E da quel momento, ogni cosa fu abbastanza. Fu abbastanza sapere che era al sicuro ed essere sua madre, essere sua madre sempre, in ogni momeno e in ogni attimo, il primo giorno di scuola, la prima caduta, la prima bambina che ha fatto piangere, il primo brutto voto, il primo pianto di rabbia per Joseph che non c’era mai, le prime storie sulla sua mamma volata in cielo.

Ma non ho mai smesso di essere sua madre. Quando è nato Martin, io sono nata per la seconda volta. ‘Reen, Doreen, Dora. Madre.

Per tutta la vita.

E ora lui è tornato e mi sta guardando e mi ascolta, mentre dico con poche parole, secche, balbettate, quello che è vero. Che lui è il mostro, e non questa povera ragazzina che mi è davanti. E vorrei sapere come ha fatto a coinvolgerla in tutto questo.

«Doreen, la tata. Che bella trovata.» La voce di Joe ride per lui. Mi ha portato via me stessa, ma non mi porterà via mio figlio. «Ripetila.»

Joseph non è suo padre. Quest'uomo è Joshua, non Joseph come Martin aveva creduto, come i suoi indizi gli avevano fatto capire. E...

Lo guardo. 

Lui, con quell’abito nero e la pelle così bianca da essere traslucida, gli occhi neri come carbone bruciato. «Ripetilo!»

Sussulto.

«Ripetilo. Diglielo, guardalo negli occhi.»

Lo sguardo di mio figlio è vuoto, la mia gioia di vederlo in vita basta a tenere in vita me, anche se ora è lui a distogliere lo sguardo, ora è lui a soffrire, forse a non capire.

«Ho mentito.» Sento una lacrima tagliarmi la guancia. «Tutti noi abbiamo mentito... e tu sei mio figlio.»

*

*

*

*

Ho aggiornato prima del previsto, siete contenti? *-* Visto che ho avuto un attimo libero, ne ho approfittato per rileggere il capitolo e aggiornare :D Spero che vi abbia fatto piacere, anche perché questo capitolo è ricchissimo di rivelazioni. 

Ve lo aspettavate? :3

Vi linko qui il link della pagina in cui posto immagini e curiosità, mentre questo è il mio profilo facebook :)

Ringrazio chi mi legge sempre e recensisce, e le persone che continuano a mettere la storia fra seguite, ricordate e preferite, siete davvero molti! *.*

Grazie di cuore,

Ania :)

   
 
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