Il destino di Qayin
Una leggera brezza
mattutina filtrò dalla finestra socchiusa, accarezzando come
una mano fredda la spalla nuda di Violante.
La ragazza si destò, tirando il lenzuolo sino al mento e
ruotando il capo verso la fonte di quel fastidio, notando che il sole
stava giusto facendo capolino oltre la linea dell’orizzonte,
oltre il Colle Palatino.
Si trattenne dal mugolare infastidita, sentendo nel corridoio i passi
veloci di Machiavelli che scendevano le scale ed, infine, la sua voce
che chiamava i giovani apprendisti a rapporto.
Tornò ad appoggiare la guancia sul petto nudo di Ezio,
ancora totalmente immerso nel mondo dei sogni, richiudendo gli occhi e
godendosi quegli ultimi attimi di pace prima di un’ennesima
giornata di fatiche.
Si ridestò qualche minuto più tardi, quando le
dita del Mentore le pizzicarono con delicatezza la spalla nel tentativo
di svegliarla.
«Buongiorno», la salutò lui con voce
profonda, tirandosi appena sui gomiti per appoggiare la schiena al
cuscino e poterla guardare in viso.
Piegò più volte il collo, facendolo scrocchiare
con una smorfia. I suoi capelli castani, liberi dalla coda in cui erano
solitamente legati, gli ricaddero sulle spalle con sinuosità.
Anche lei si sollevò, mettendosi seduta e lasciando le
lenzuola scivolassero lungo il suo corpo, lasciandole scoperto il
petto.
«Buongiorno a te», rispose, portando indietro i
lunghi capelli mossi e guardandolo con un sorrisetto.
Ormai erano passate un paio di settimane da quella loro prima notte e,
ormai ad intervalli regolari, si ritrovavano a tenersi compagnia.
«Dovremmo alzarci», decretò la
bolognese, scendendo dal letto e sfilando davanti a lui, sino alla
tinozza di acqua che teneva su un comò. Si lavò
il viso sbrigativa, andando poi a recuperare la camicia a merletti
della sua divisa. «Oggi cosa ci aspetta, Mentore? Basta
furti, spero. Ormai sono passati quindici giorni.»
Ezio la seguì con lo sguardo lungo tutta la sua camminata,
lasciando che un sorrisetto malizioso si dipingesse sul suo volto
mentre la bolognese si rivestiva.
«Machiavelli ha voluto la sua vendetta»,
ridacchiò, strizzandole l’occhio.
«Perciò oggi no, niente furti. L’ultima
volta farfugliava di farvi fare una bella corsa in
città.» Volse lo sguardo alla finestra,
assottigliando gli occhi castani con fare ancora più
divertito di quanto già non fosse. «E diluvia, per
giunta! Sono sicuro che vi divertirete.»
Violante non parve della stessa opinione, visto che gli
lanciò uno stivale, colpendolo al centro del petto.
«Ridi pure, Ezio, finche ti è concesso!»
Si infilò dentro ai calzoni marroni, prima di recuperare la
casacca. Sperò sinceramente che quel bel cappuccio a becco
d’aquila impedisse alla pioggia di entrarle negli occhi, ma
non ci avrebbe giurato. Tornò verso il letto, sedendosi su
di esso e infilando uno stivale, strappando poi alla presa del Mentore
l’altro.
Come al solito, legò i capelli in una stretta treccia.
«Immagino che tu te ne starai qui a letto e lascerai che
Niccolò ci accompagni, vero?»
Ezio sogghignò, sempre più divertito.
«Non esattamente», rispose, stiracchiandosi tra le
coperte. «Alcune incombenze chiamano la mia presenza altrove.
È per questo, che ho deciso di affidarvi a
Machiavelli.» Fece una pausa, portandosi seduto sul
materasso. «Niccolò sa essere un valido
insegnante, quando vuole. Quando invece si impegna a mettervi i bastoni
tra le ruote, bé, prendetela come esperienza!»
Assicurata la treccia con un laccetto di cuoio, la giovane si
alzò dal letto, appoggiandosi con entrambe le mani alle
spalle larghe del Mentore.
«Oggi piove così tanto …»,
disse pensierosa, guardando fuori dalla finestra. «Immagino
che le tegole dei tetti siano davvero scivolose. In pochi
sopravvivranno e sicuramente per Machiavelli sarà solo
un’occasione di selezione tra i candidati.»
Con una mano, Viola spostò i capelli di Ezio dal suo viso,
guardandolo negli occhi color nocciola, molto simili ai suoi.
«Se dovesse scivolare anche lui, in modo assolutamente
accidentale, sarebbe una gran sciagura. Non credi, Auditore?»
«Confido che qualcuno di voi giovani abbia riflessi
sufficientemente attenti per allungare una mano e afferrarlo prima che
una tale tragedia colpisca il nostro Ordine», le rispose lui,
ormai sull’orlo di una fragorosa risata.
Le prese il viso tra le mani e la baciò con fermezza,
accompagnandola con delicatezza mentre la spingeva sotto di lui.
Lei si lasciò stendere sul materasso, ridacchiando.
«Mi farai fare tardi …»,
mormorò senza convinzione, passando una mano sul viso
dell’uomo, crespo per via della barba.
Lasciò che tra loro vi fosse quel momento di
intimità, in cui si scambiarono diversi baci e sospiri a
fior di labbra, poi si tirò su, quasi di scatto.
«L’altro giorno Chiara stava per scoprirci. Se
vogliamo tenerlo per noi, dobbiamo essere cauti e io devo scendere a
mangiare.»
Gli concesse un ultimo bacio, prima di avviarsi alla porta.
Si bloccò su di essa.
«Vuoi dirmi qualcos’altro?»
Ezio le sorrise sornione.
«Se dovessi vedere l’arcobaleno, fermati a
guardarlo anche da parte mia!», trillò, e detto
questo si ributtò tra le coperte ficcando la testa sotto il
cuscino.
Violante si pentì di non essersi detta indisposta
nell’esatto istante in cui scese a fare colazione.
Seduta, come sempre, tra Cristiano e Augusto, aveva ascoltato i deliri
senza senso di Machiavelli riguardo altre due importanti
abilità che ogni buon Assassino doveva avere: la resistenza
e la velocità.
Quella che di fatto era solo una staffetta che attraversava tutta
l’Urbe, Niccolò la mascherò in modo da
renderla un incarico a dir poco essenziale.
«Quindi dobbiamo correre da una parte all’altra di
Roma, passandoci una lettera che dovrà tornare intatta e
leggibile qui?», chiese Corella. «Ma là
fuori diluvia! Non arriverà nemmeno la cera lacca, al
Covo!»
Niccolò Machiavelli lo guardò con un ghigno colmo
di perfidia dipinto sul volto.
«Come ha detto Ezio, il lavoro di Assassini non vi
porrà come unico pericolo quello di scottarvi con un forno
da panettiere. Un vero Assassino lavora giorno e notte, con la calura
di luglio o la neve di dicembre. Il fatto che oggi il cielo vi abbia
imposto un’ulteriore sfida, non mi tocca particolarmente.
Sono certo che troverete il modo.» Fece una pausa,
utilizzandola per sbuffare con un tono più che soddisfatto,
dopodiché lasciò Corella per rivolgersi alla sala
intera. «Andate, adesso! Se le missive saranno sulla mia
scrivania entro mezzogiorno, potrete considerarvi liberi per
l’intera giornata.»
E detto questo se ne andò, senza preoccuparsi che qualcuno
non avesse afferrato gli ordini che aveva impartito prima che Corella
lo interrompesse.
Cristiano si alzò per primo, guardando tutta la sua squadra.
«Io prendo un cavallo e corro alla porta Est della
città per recuperare la lettera. Attraverserò
tutto il Vaticano sino a Castel Sant’Angelo. Lì la
passerò a Virgilio, che dovrà fare una bella
corsa tra le guardie mentre io le tengo impegnate. Corella, attendilo
alla fine del ponte e poi separatevi in due direzioni opposte. Una
volta fatto questo, sarai tu a portare la lettera a Paola,
che ti attenderà accanto alle colonne del
Pantheon.»
Nominata, la rossa si fece avanti.
«Dove dovrò portarla, io?»
«Al Colosseo. Piazza Navona è troppo pericolosa,
ci sono troppe possibilità di incappare in guardie.
Lì ti attenderà Violante che poi
passerà tra i Fori per potare la missiva a Machiavelli.
Tutto chiaro?»
«Bel piano, Principe», disse Spallaci, passando
accanto a loro assieme alla sua squadra. «Speriamo fili tutto
liscio.»
«Speriamo che tu non scivoli di nuovo nel Tevere,
Serpe.»
Si scambiarono una lunga occhiata, poi Augusto tornò dai
suoi. Non prima, però, di essersi rivolto a Violante.
«Ci vediamo davanti all’Ara Caesaris
allora.»
Si separarono, partendo ciascuno verso la propria direzione.
Gli altri gruppi avevano scelto più o meno un itinerario
simile, nonostante vi fosse qualcuno intestardito a passare per Piazza
Navona e qualche pazzo che invece si era deciso a varcare frontalmente
le porte del Vaticano.
Come aveva detto Ezio, fuori diluviava.
Non solo la pioggia cadeva battente sulle strade rese fangose e
interrotte da piccoli torrentelli, ma la vista era annebbiata dalla
pesante umidità che c’era nell’aria e il
vento soffiava impetuoso, quasi ogni fattore fosse stato sapientemente
disposto da Machiavelli per rendere impossibile quell’impresa.
L’unica nota positiva era che, con quel maltempo, per le
strade non c’era quasi nessuno. Poca folla significava pochi
sorveglianti, di solito, il che rendeva un po’ meno ostica la
prospettiva di quella corsa.
Cristiano riuscì a prendere la lettera con
facilità, dovendo però cedere il cavallo in
quanto si sarebbe rivelato contro le regole tenerlo anche solo per un
breve percorso.
Fece a gara con Bengiamino sino ad un certo punto. Quando venne il
momento di avvicinarsi a Castel Sant’Angelo, il milanese
cambiò strada, deciso ad aggirare la fortezza scendendo
verso un altro dei molti ponti sul Tevere.
Ponte Sisto era di certo più sicuro, ma allungava di
parecchio la corsa.
Machiavelli era stato chiaro: dovevano essere anche veloci.
Lo scambio con Virgilio e Corella avvenne più liscio del
previsto, visto che il veneziano si trovò contro solo
quattro poveracci posti davanti alle porte dell’enorme
castello.
Corella raggiunse quindi Paola, porgendole la lettera che si era solo
leggermente inumidita.
La rossa corse il suo tragitto più veloce che
poté, nonostante la rapidità non spiccasse certo
tra le sue doti.
Chiara Filippi la superò con facilità, balzando
leggiadra sui tetti più bassi e piani. Scattante, ma senza
esagerare nella velocità che le avrebbe di certo fatto
perdere l’equilibro, sparì nella lieve nebbia che
era calata sulla città con un sorriso soddisfatto a
illuminarle il viso incappucciato.
Affaticata, Paola arrivò nei pressi del foro romano che
Spallaci era già partito da tempo. Passò la
missiva a Violante e si scusò per il ritardo, ritirandosi
poi al coperto del vecchio acquedotto.
«Lo posso battere», la rassicurò la
bolognese, sollevando il cappuccio sul capo e mettendo la lettera al
sicuro dentro alla casacca. Partì quindi di buona lena, non
avendo tetti da scalare, lungo la pavimentazione scivolosa del
lastricato romano.
Sfruttando il poco attrito, Violante recuperò un
po’ di terreno, superando egregiamente Maria.
Solo per quello si sentì vittoriosa.
Saltò su un antico colonnato romano, scendendo di livello in
livello ad ogni balzo. Quando intravide Spallaci erano arrivati ormai
al Palatino.
Salirono quasi fianco a fianco la salita, arrivando
sino alla villa di Domiziano.
«Abituata a scappare da quelli che derubi, Ladra?»,
la punzecchiò Spallaci, balzando in avanti e scartandola di
qualche passo. «Attenta a non restare indietro! Se Maria ti
prende, non torni a casa viva!»
Scoppiò in una delle sue grasse e odiose risate e
saltò sul tetto vicino, atterrando con una capriola che per
poco non gli costò una rovinosa caduta nel fango della
strada. Riprese l’equilibrio in un lampo, però,
prendendo a scalare un muro dinanzi a sé.
«Andiamo!», la sfidò, facendole cenno di
seguirlo. «Vedo già quella strega con
l’ascia sguainata!»
Viola represse a sua volta una risata, decisa a concentrarsi su
ciò che stava facendo. Portò le mani su un
muretto basso, saltandolo con entrambe le gambe e scendendo di un
piano.
Quando fu di nuovo accanto all’altro Assassino, rispose
seppur con un poco di fiatone: «Nonostante la tua descrizione
di Madonna Frigida sia assai adeguata, non la temo affatto.»
Si tuffò in avanti, passando sotto ad un arco prima di
Augusto e rialzandosi con una capriola. Voltò il capo verso
di lui, che era rimasto indietro, e sogghignando disse:
«Avrà già tre decadi, non
può di certo sperare di prendermi!»
Quella distrazione le fu quasi fatale.
Prese con la punta di piede un mattone e inciampò in avanti,
con la faccia nel vuoto. Non era solo una casa, dalla quale poteva
cadere rompendosi qualche osso.
Era arrivata al limitare del colle.
Cadde in avanti, ma non arrivò a staccare i piedi dal
terreno, poiché le braccia forti di Spallaci la presero per
il cappuccio, tirandola verso la discesa che l’aveva condotta
fin lì con un mezzo grido allarmato.
Ruzzolarono entrambi giù per il colle, fermandosi quando le
loro schiene si scontrarono con le mura in mattoni di una vecchia casa.
Spallaci imprecò tirando pugni all’aria,
massaggiandosi poi il capo con il palmo della mano aperta.
«Stai bene?», chiese, un po’ preoccupato.
«Se non ti prendevo io finivi a fare quella schifosa
confettura che Madonna Auditore ci rifila per colazione!»
Violante, che rotolando si era ritrovata a testa in giù
contro al muretto, si rimise diritta sulle ginocchia, massaggiandosi il
collo dolorante.
«Sì, sto bene», rispose, levando il
fango dal viso e rialzandosi in piedi. Le ginocchia le tremavano
appena. «Dovremmo ripartire, non voglio che Maria mi superi
davvero», azzardò poi con un mezzo sorriso.
Porse la mano al ragazzo, invitandolo ad alzarsi.
Spallaci balzò sulle ginocchia senza accettare alcun aiuto,
scoppiando però in una lieve risata quando le
indicò la via per tornare al Covo.
«Donne!», commentò, scuotendo il capo
con aria divertita mentre insieme riprendevano a correre. «Ma
non eri tu, quella che bisogna collaborare ad ogni costo?»
Alzò il braccio verso una scala di mattoni che scendeva
verso il ponte, ultimo scatto prima dell’Isola Tiberina.
Se non fossero in qualche modo precipitati nel Tevere, sarebbero
riusciti ad arrivare sani e salvi.
Chissà, forse erano addirittura i primi.
Violante lo seguì, tendendosi vicina ma senza provare in
alcun modo a superarlo. La sfida con Augusto era finita nel momento in
cui le aveva salvato la vita.
«Vero», confermò, rimettendo piede
sull’Isola in mezzo al fiume e preparandosi a scalare fino
alla cima in palazzo che ospitava il Covo. «Ma quella
… ci guarda con superiorità perché
conosce Ezio da più tempo. Se fosse così brava
lui non le avrebbe fatto riprendere l’addestramento da capo,
no?»
Salirono sulla torretta fianco a fianco e, quando furono in cima, lei
lo bloccò.
Dopo una giornata passata sotto l’acqua battente e il freddo
bramava solo una cosa, ma prima doveva dire qualcosa a Spallaci.
Appoggiò una mano sulla sua spalla e gli sorrise, prima di
sussurrare un piccolo ‘Grazie’, seguito da pallido
bacio sulla sua guancia ruvida.
Fatto questo, varcò per prima la porta.
Quando uscirono per il loro prima
turno di guardia assieme, aveva smesso di piovere da tempo.
Avevano passato tutto il pomeriggio nella sala comune a leggere, mentre
Corella e Spallaci si passavano una pallina di pelle facendola
rimbalzare sul muro, e non c’era nulla che Chiara bramasse di
più, quella sera, che passare qualche istante
all’aria aperta.
Il fatto che con lei ci fosse anche Bengiamino Lorenzetti, poi,
allietava ancor di più la prospettiva del turno di guardia
introdotto da Machiavelli.
Si erano incontrati in piazza, decidendo di iniziare un giro
dell’isola di tetto in tetto, approfittando della scomparsa
della nebbia per dare un’occhiata ai dintorni.
Era tutto così silenzioso, così quieto
… l’unico rumore che Chiara poteva sentire, nel
momento in cui spiccava un balzo per raggiungere le tegole della casa
accanto, era il respiro di Bengiamino farsi più lieve
dell’aria stessa.
Non pareva esserci nessuno nei dintorni, ma la prudenza non era mai
troppa.
Scesero in strada, camminando sul ponte fianco a fianco, mentre il
freddo vento autunnale non dava loro tregua. Passeggiarono sino a
tornare sulla via per il Lungo Tevere, lasciandosi alle spalle
l’isola e addentrandosi di nuovo nei dintorni cittadini. De
Ferris e Tonari pattugliavano la sponda orientale, quindi a loro
toccò la zona più pericolosa della
città e il ghetto ebraico.
Bengiamino non parlò quasi per nulla, mentre Chiara, come al
solito, non gli risparmiava discorsi eccitati alternati a qualche
piccolo allarmismo.
Quando si trovarono nei pressi del ghetto, onde evitare complicazioni,
scelsero di salire di nuovo sui tetti. Anche lì le strade
erano deserte, ma Bengiamino preferì tenere
d’occhio la situazione dall’alto, senza rischiare
di perdersi per quel groviglio di vicoli che era il quartiere in cui
gli ebrei erano stati proscritti.
Seguirono quindi il perimetro del ghetto dall’esterno,
saltando di comignolo in comignolo fino a che non si trovarono dinanzi
a un complesso di case meno trasandate ma comunque destinate al ceto
più basso. Dall’angolo della strada, provenivano
degli schiamazzi.
Storcendo il naso, Chiara ne dedusse che dovevano trovarsi vicino alla
locanda dove Spallaci di solito andava a bere con i suoi due amici, Pio
e Geranio.
Bengiamino si affacciò giusto per dare un’occhiata
anche a quella zona, ma si ritrovò a fissare confuso
qualcuno.
Non era saggio uscire la notte senza avvisare nessuno e, a quanto
ricordava, Alessandro Corella aveva detto di essere stanco e pronto a
coricarsi subito dopo la cena.
Eppure eccolo là, con la sua divisa delle sfumature del
grigio forlivese, mentre camminava rapido di angolo in angolo, senza
farsi vedere.
Senza avvisare Chiara, Lorenzetti si lanciò, afferrandosi a
una corda per il bucato e atterrando su un altro palazzo per poter
seguire rapidamente l’amico.
Il comportamento sospetto di Corella non gliela raccontava giusta.
Chiara lo raggiunse balzando goffamente su un pergolato poco distante.
Non fece il suo nome, afferrando al volo che quel cambiamento di
itinerario improvviso doveva essere di certo dovuto a qualcosa in grado
di attirare la sua attenzione.
Curiosa, si avvicinò a Bengiamino, aggrappandosi alle sue
spalle per alzarsi e spiare oltre la sua stazza.
A vedere Corella, i suoi occhi color nocciola si sbarrarono di colpo.
«Ma quello non è … »,
mormorò, sbigottita.
Si accovacciarono contro la facciata del palazzo poco prima che lui si
voltasse a controllare, prima di sparire in un vicolo.
Scalarono allora del tutto il palazzo e, quando furono in cima, il
milanese la aiutò a tirarsi su del tutto. Camminarono lungo
in tetto per poter vedere la fine del vicolo e ciò che si
trovarono dinanzi bloccò loro il fiato in gola.
Insieme a Corella c’era un uomo, circa alto come lui.
I due si stavano abbracciando in modo molto fraterno e subito
Bengiamino ne capì il motivo. Osservando quello sconosciuto
dalla mantella rossa che teneva sulle spalle recante uno stemma con un
toro, sino alla maschera nera di cuoio che gli celava metà
il viso, indovinò subito di chi si trattava.
«Non va bene», sussurrò con un filo di
voce, guardando un po’ allarmato Chiara.
Lei si lasciò scappare un gemito affranto.
«Chi è?», chiese, spaesata. «E
perché Alessandro parla con un emissario dei
Borgia?»
Spostava freneticamente lo sguardo da Bengiamino a Corella, in strada,
ancora in compagnia dell’uomo.
Quando i due si allontanarono, Chiara riprese a parlare con voce
più alta.
«Dimmelo, Bengiamino!»
Lui le coprì la bocca, spingendola al centro del tetto e
guardandola duramente.
«Vuoi che ci scopra? Così che ci troveremo
costretti a far rapporto al Mentore?» Non riuscì a
distendere il viso, continuando a parlare come se si sentisse
arrabbiato con lei anziché frustrato per la situazione.
«Quello è Michelotto Corella, il braccio destro di
Cesare Borgia», sputò, come se quel titolo fosse
un insulto. «Il fratello di Alessandro.»
Lasciò passare qualche secondo di vuoto, prima di scuotere
il capo «Andiamo via, fingiamo di non aver visto.»
Chiara mugugnò qualche lamento sommesso, tirandosi in piedi
sulle tegole addosso a cui Bengiamino l’aveva spinta.
«Non ci credo», disse, affondando le dita sottili
nella stoffa del mantello del suo compagno. «È
sempre stato così bendisposto verso tutti noi! Siete amici,
tu e lui! Ci deve essere senz’altro un motivo per quello che
abbiamo visto.»
«La vuoi smettere di urlare come un’ochetta,
Chiara?», sbottò infastidito il milanese,
mordendosi poi le labbra pentito. «Scusa. Ma fai troppo
chiasso», disse sottomesso, prima di sospirare e portare le
mani al viso.
Non potevano fare nulla per molti motivi e lui ora doveva spiegarlo a
lei. Non sarebbe stato facile, ma doveva farlo.
Alessandro era suo amico e, senza sapere il vero motivo di
quell’incontro, non avrebbe mai permesso che gli sarebbe
successo qualcosa.
«Se ora ne parliamo con lui, potrebbe scappare. Machiavelli
si domanderebbe perché, verrebbe a sapere qualcosa e lo
farebbe uccidere. Se ne parliamo con Ezio, sarebbe comunque condannato.
Ora come ora, possiamo solo fingere di non aver visto nulla.»
Al culmine della frustrazione, diede le spalle a Chiara, camminando
verso il tetto davanti a loro.
Lei rimase a osservarlo allontanarsi, mentre per l’ennesima
volte le lacrime premevano presuntuose per scorrerle sulle guance.
In uno sprizzo di determinazione, decise che non era il momento di
abbandonarsi a certe infantilità. Non era più una
bambina, lo aveva dimostrato quando aveva lasciato la bottega a Firenze
per raggiungere gli Assassini. Doveva cominciare a comportarsi come una
di loro.
Raggiunse Bengiamino con un paio di balzi, tirandolo per il mantello
per attirare l’attenzione, dopodiché riprese a
camminare al suo fianco.
Di quella serata, cominciata così bene ma finita a dir poco
in tragedia, voleva al più presto dimenticare ogni memoria.