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Autore: Laylath    22/02/2014    5 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 28. Fiducia tra padri e figli.

 

“Black Hayate vuol dire uragano nero – spiegò Riza, accarezzando l’orecchio del cucciolo – perché è piombato nella mia vita in seguito all’uragano della vostra caccia al fantasma.”
“Insomma sarà un eterno ricordo di quell’imbarazzante storia? – chiese Roy per niente soddisfatto di quanto aveva appena sentito – Non sei un granché con i nomi.”
“A me piace.” annunciò Kain, chiamando il cagnolino che subito corse verso di lui.
Erano passata una settimana da quella fantomatica nottata ed i tre amici erano seduti nella cucina di Riza a godersi un pomeriggio insieme. Il cucciolo si era ripreso davvero bene: quando l’avevano trovato aveva l’aria parecchio trascurata ed era notevolmente magro, ma le cure amorevoli di Riza l’avevano rimesso in sesto con notevole rapidità. In quel momento si stava godendo le attenzioni dei due ospiti che la sua padroncina aveva fatto entrare in casa.
“Tuo padre ha fatto problemi?” chiese Roy.
“No, non credo se ne sia nemmeno accorto: Hayate dorme in camera mia la notte e quando sono fuori mi preoccupo sempre di legarlo in cortile, così non disturba.”
“Oh poverino, ma così sente freddo: è fine gennaio.”
“Tranquillo, gli ho preparato una cuccia calda con una vecchia coperta in un angolo riparato vicino alla cucina. E poi si tratta solo della mattina o per qualche altra occasione. Per il resto sta in casa: è davvero un cucciolo ben educato… vorrei proprio sapere come c’è finito in quel posto.”
“E’ piccolo, sarà sgusciato dentro e nessuno se ne sarà accorto, magari cercava un rifugio per la notte.”
“Che fantasma curioso, eh?” ridacchiò Kain, a cui ora quell’evento faceva sorridere.
“A proposito, l’orgoglio di voi tutti è guarito o ci sono ancora problemi?” chiese Riza con malizia.
“Credo che Vato sia ancora offeso – ammise Roy –  tutto quello che è successo deve averlo umiliato parecchio.”
A quelle parole Kain fece finta di niente, ma si sentì profondamente dispiaciuto perché anche lui aveva notato che il suo amico più grande non era per niente di buon umore e tendeva ad evitare tutti loro.
E se doveva essere sincero c’era anche un’altra cosa che lo lasciava turbato: aveva iniziato a capire che sua mamma non aveva molta simpatia per Roy; quando aveva scoperto che il promotore di tutta la storia del fantasma era stato lui, aveva fatto un’occhiataccia che non avrebbe mai dimenticato. E da quel momento aveva avuto paura di nominare l’amico in sua presenza.
“Kain, i tuoi ti hanno perdonato, vero?” chiese Riza, distogliendolo da quei pensieri.
“Mamma mi ha proibito di mangiare dolci per una settimana, ma eccetto quello e gli sculaccioni che mi ha dato papà è tutto perdonato. Dovresti venire a casa, è tanto che non passi… perché domani non vieni a fare i compiti da me? Così festeggiamo anche la fine della mia punizione con qualche dolce al cioccolato.”
“Va bene, ci vengo con piacere. Mh, Roy a che stai pensando?”
“Sto pensando che tra quattro giorni è il compleanno di Vato – disse lui, inginocchiandosi e giocherellando con la coda del cagnolino che si mise subito a pancia all’aria – e vorrei cercare di fare pace con lui. Ma è difficile: praticamente, eccetto Elisa, non vuole parlare con nessuno.”
“Roy, cerca di capirlo – sospirò Riza che ormai con la fidanzata dell’amico aveva una notevole confidenza e dunque sapeva determinate cose – è sempre stato un ragazzo molto diligente: non gli è mai successo di finire in guai simili, specie a sedici anni. Capisci che è un conto è prenderle a undici come Kain, ma a sedici anni…”
“Io ne ho quindici e Jean quattordici, non vedo che differenza ci sia.”
“E’ un diverso tipo di dignità ferita, secondo me.”
“Sarà, ma io non ci vedo tutto questo problema.”
 
Invece Vato ce lo vedeva eccome il problema, perché quanto era successo l’aveva portato a riflettere con attenzione sul suo rapporto con Roy e con se stesso.
Sapeva benissimo di non essere mai stato una personalità carismatica come il quindicenne, ma il fatto di restare intrappolato nelle sue trame ogni volta gli lasciava un senso d’amaro in bocca.
Eppure lui era più maturo sotto molti punti di vista: conoscenze, età, saggezza, rapporto con le ragazze, anzi con Elisa… c’erano tutti i presupposti per cui fosse lui quello che Roy doveva ascoltare. Ma questo succedeva solo quando al ragazzo faceva comodo; invece, in altre occasioni, come appunto la caccia al fantasma, la sua opposizione era stata annullata, davanti a tutti gli altri, anzi nemmeno considerata.
Senza contare che la presenza di Roy lo stava portando a diversi cambiamenti: prima era sempre chino sui libri, dividendo la sua attenzione tra loro ed Elisa. L’arrivo di Kain non aveva minimamente smussato questo equilibrio, in quanto il bambino si era inserito con estrema delicatezza nei perfetti meccanismi della sua quotidianità.
Ma Roy…
No, Roy non aveva avuto la medesima gentilezza: era arrivato come un uragano, con il suo magnetismo, la sua voglia di essere leader in ogni caso, la sua esigenza di imporsi sugli altri. Fosse stato più grande di lui avrebbe potuto accettarlo con maggiore facilità, ma così…
“Vato, non vieni a fare merenda?” disse Rosie entrando in camera.
“Non ho fame.”
“Anche oggi? Ma che hai?”
Che ho? Secondo te come mi sento dopo che, nemmeno sei giorni fa papà me le ha suonate di santa ragione manco avessi dodici anni?
A quel pensiero un forte rossore gli colorò le guance e lui affondò la testa sul cuscino.
Altro pensiero negativo da aggiungere alla lista: credeva di essere maturo anche per i genitori, ma i fatti avevano dimostrato il contrario. Era da rivedere completamente anche il rapporto con loro… insomma, si era aspettato che suo padre non lo picchiasse, che parlassero come si fa tra persone adulte.
Dopo che ho fatto un’impresa di quel tipo? Da perfetto immaturo?
Sentì la mano della madre che gli accarezzava la nuca, ma non si girò, troppo offeso con il mondo e con se stesso: era dura stare nel delicato limbo tra maturità ed adolescenza.
 
“Ci rivolge a stento la parola, mangia poco, è sempre buttato nel letto senza nemmeno toccare libro – sospirò Rosie sedendo al tavolo di cucina e guardando con tristezza la merenda integra destinata al figlio – proprio non vuole uscire da questa fase.”
“Orgoglio ferito, eh? – commentò Vincent impassibile, levandosi la giacca della divisa e sedendosi accanto a lei – E’ una brutta cosa da affrontare alla sua età, ma lo farà riflettere.”
“Forse non dovevi punirlo in quel modo: non ha più undici anni.”
“Se si è comportato da undicenne discolo non poteva pretendere un trattamento diverso – scosse il capo l’uomo – ha ancora molto da imparare sulla maturità.”
Rosie guardò con tristezza in direzione della camera del figlio, profondamente turbata dal vederlo così. Non era mai successo che tenesse così tanto il broncio dopo una punizione, arrivando persino a snobbare i suoi amati libri.
“Forse dovresti parlare con lui.”
“E congratularmi ancora per quello che ha fatto? Non ci volevo credere… rubare le chiavi del commissariato: non lo pensavo capace di una cosa simile.”
Sì, era ancora arrabbiato con suo figlio, inutile negarlo. Era sempre stato così tranquillo e diligente, anche troppo a volte, ed un simile colpo di testa proprio non se lo aspettava.
“Se non fosse stato con gli altri non l’avrebbe mai fatto.”
“Già, parliamo degli altri: parliamo di Kain che era sotto la nostra responsabilità. E’ un posto tranquillo questo, Rosie, ma se a quel bambino succedeva qualcosa con che coraggio andavamo a dirlo ad Andrew Fury e a sua moglie?”
“Non è successo nulla: non hanno fatto niente di pericoloso se ci pensi.”
“Ah sì? Beh, ringraziando il cielo la pistola che tengo nel cassetto della scrivania l’avevo levata proprio quel giorno perché aveva bisogno di alcune riparazioni. Immagina se uno di quei ragazzi la prendeva anche solo per gioco… l’unica cosa che ha avuto il buonsenso di evitare è stata aprire l’armeria.”
“Non l’avrei mai aperta!” esclamò Vato, dal corridoio con la mano ancora sulla maniglia della porta di camera sua.
“Non usare quel tono con me, – disse Vincent alzandosi – altrimenti finisci di nuovo nei guai.”
Rosie si alzò in piedi, mettendosi tra i due contendenti: il viso di Vato era rigato di lacrime di rabbia e umiliazione e la smorfia di disappunto era identica a quella del padre.
“Adesso calmatevi tutti e due. Vato, tesoro, perché non ci sediamo a parlarne, mh?”
“Che cosa c’è da parlarne? – chiese lui, scostandosi dalla madre – Tanto,a quanto pare, non sono maturo per certe cose… forse non lo sono per niente dato che non ho mai voce in capitolo, figuriamoci per parlarne!”
“Vato…” lo richiamò il padre.
“Che c’è? Una nuova, preziosa, lezione di vita? Scusa tanto, ma questa volta non ho proprio voglia di ascoltarti.”
Ed ignorando il pericolo che correva dopo una simile sfida a suo padre, guadagnò la porta di casa uscendo senza nemmeno mettersi il cappotto.
Non si preoccupò di dove stava andando: voleva solo allontanarsi da casa e da suo padre, da quella bruciante umiliazione che lo stava consumando come mai era successo. Perché lui che era il più grande si trovava ad essere messo da parte e ad essere trattato come un bambino dai suoi? Dov’erano finiti tutti gli anni in cui aveva dimostrato di meritare la fiducia degli adulti? Dove?
“Ehi, Vato – lo chiamò Heymans, quasi sbattendo contro di lui – stavo per venire da te e…”
“Adesso proprio no…” si scusò brevemente, continuando a proseguire per la sua strada.
Arrivò fino all’uscita del paese, al muretto dove spesso Elisa si metteva in equilibrio, e si accasciò seduto, ignorando il freddo che gli pizzicava il collo dove il maglione terminava.
“Ehi, – fece Heymans, raggiungendolo – ma che hai?”
“Niente… dimostro la mia grande maturità scappando di casa.”
Heymans lo fissò con sorpresa, trovando quell’atteggiamento veramente inconsueto per uno come Vato. Dopo qualche secondo si levò la sciarpa e la mise addosso all’amico, andando poi a sedersi accanto a lui.
“Scappare di casa e perché mai?” chiese.
“Maturità, te l’ho detto…”
“Hai litigato con i tuoi? Eppure mi sono sembrati così tranquilli; non mi dire che sono ancora arrabbiati per quella storia del fantasma.”
“Mio padre sì, se ti può interessare – confessò Vato, trovando un acido conforto nel poter finalmente parlare con qualcuno che l’avrebbe capito – non si fida per niente di me. Accidenti al mio carattere debole, dovevo oppormi subito a quella stupida caccia al fantasma!”
“Roy l’avrebbe fatta lo stesso, lo sai.”
“No, senza chiavi non poteva fare niente… ed io come uno scemo ad aprirgli il commissariato. E Kain… era sotto la mia responsabilità, sotto quella dei miei, e alla fine hai pensato più tu a lui che io.”
Si passò una manica per asciugare le prime fastidiose lacrime: suo padre aveva perfettamente ragione. Non era successo niente, era stata una ragazzata, certo, ma solo per pura fortuna.
No, non importava se lui era il più grande, a quanto sembrava era l’ultima ruota del carro.
“E dai, non fare così. Il fatto che io abbia pensato a Kain è per dei particolari motivi che…”
“Era tutto perfetto, Heymans, capisci? – sospirò Vato – Non avevo molti amici, certo, ma… avevo la fiducia dei miei, Elisa al mio fianco, la stima dei docenti. Adesso non mi riconosco più: il Vato di prima non avrebbe mai commesso una cosa simile.”
“E’ bravo Roy a spingerci a queste cose, vero? Su te e Kain, poi, esercita un carisma tale che proprio ne siete trascinati dentro.” commentò il rosso, abituato com’era ad osservare le cose con imparzialità, persino, anzi soprattutto, all’interno della sua famiglia.
Farlo in quel gruppo di ragazzi era fin troppo semplice.
“Su di te no?” gli chiese Vato in parte invidioso.
“Diciamo che non sono facilmente influenzabile: pare che in questo assomigli molto a mio zio.”
“Io invece da mio padre non ho preso proprio niente: a quanto pare sono un debole, influenzabile persino da chi è più piccolo di me.”
“E dai, adesso non abbatterti: sono sicuro che tuo padre non pensa questo di te.”
“Non hai visto com’era arrabbiato.”
“E tu non hai visto mia madre, allora. La adoro, per carità, ma mi ha fatto vedere le stelle per dieci minuti buoni… ma poi si fa pace, è normale.”
“Non è normale… io non ho mai visto mio padre così.”
“Capisco che magari ce l’abbia con te perché in fondo siamo andati alla stazione di polizia, ma…”
“Ho rubato le sue chiavi, ho fatto entrare dei ragazzi in quel posto, con tutti i pericoli del caso. E sai la cosa peggiore? Per tutto il tempo io ero consapevole che stavo facendo un errore, ma non riuscivo a fermarmi.”
“Non puoi pretendere di essere perfetto… guarda me, anche io dicevo che era sbagliato, ma c’erano gli altri: non potevo lasciarli soli, mi riferisco a Jean e Kain.”
“Heymans, la verità è che non mi riconosco più da un po’ di tempo a questa parte… e non sono sicuro di esserne pienamente soddisfatto. Mi sembra di regredire invece di andare avanti.”
“Perché giochi con noi invece di leggere o studiare?”
“Anche per questo, lo ammetto. Un paio di mesi fa non mi sarebbe mai passato per la testa di reagire così contro mio padre e di scappare di casa.”
“E che è successo un paio di mesi fa?”
“Ho stretto amicizia con Roy.” fu la laconica risposta.
Heymans annuì con un sospiro.
“Ti riaccompagno a casa?”
“No – scosse il capo – ti dispiace se resto solo? Sul serio, non è per te, ma ho bisogno di pensare.”
“Va bene – annuì Heymans, alzandosi e capendo il suo stato d’animo – la sciarpa me la puoi ridare domani a scuola. Solo, promettimi che torni a casa, va bene?”
“Va bene.”
 
“E dai, ragazzino, come mai non riesci ad avvicinarti di più?” rise James, tenendo lontano il figlio con una mano, mentre questi cercava di colpirlo: un gesto identico a quello che Jean faceva con la sorella.
“Non vale!” rise il ragazzo, cercando di aggirare l’ostacolo, ma la mano del padre sulla fronte continuava a tenerlo lontano dal bersaglio.
Decisamente Jean, al contrario di Vato, non aveva problemi con suo padre: quella storia era ormai vecchia di una settimana ed era stata archiviata tra le innumerevoli follie che aveva commesso nel corso degli anni. Sotto questo punto di vista padre e figlio non erano tipi da serbare rancore ed il fatto che ora stessero improvvisando una lotta nel salone di casa ne era un’ampia dimostrazione.
Con una rapida rotazione, Jean riuscì finalmente a liberarsi e scattò all’indietro con una risata.
“Ah, ci stiamo facendo furbi.”
“E adesso? Come la mettiamo?” chiese il ragazzo, rimettendosi in posizione di combattimento.
“Va bene, figliolo – James si mise in posizione per pararlo – attacca pure!”
“Attacco al gigante!” gridò Jean buttandosi a capofitto contro di lui.
Finirono entrambi a terra, il giovane tra le braccia del genitore il quale continuò a parare quei giocosi pugni sullo stomaco e sul torace. Alla fine, con un ultima risata esausta, Jean si abbandonò sul petto paterno, beandosi della mano che gli arruffava i capelli dorati.
“Non so chi di voi è il più infantile.” commentò Angela entrando nella stanza seguita da Janet.
“Stavo solo facendo fare un po’ di sano allenamento a questo demonio –  spiegò James, senza abbandonare quella posizione – e tu vieni qui a darmi un bacio, bellissima paperotta bionda.”
 Janet trotterellò immediatamente accanto a loro e si chinò per dare il bacio sulle labbra dell’uomo.
“Allora, splendore, – le strizzò l’occhio – secondo te chi ha vinto?”
“Jean, perché tu sei a terra e lui è sopra di te.” sentenziò la bambina senza alcun dubbio.
“Sembra così, vero? Ma ora guarda che succede!”
E con una mossa rapida si rimise eretto e rovesciò Jean sulla schiena.
“Non vale! Non ero pronto! Non ero pron… no, il solletico no!”
“Intanto sei al tappeto, visto Janet? Papà vince sempre.”
“Janet, da brava vieni – la richiamò Angela – non volevi aiutarmi a preparare la verdura per i minestrone di stasera?”
“Arrivo mamma.”
“E allora, piccolo furfante – constatò James come rimase solo col figlio – vedo che ci siamo ripresi completamente dalla bravata della settimana scorsa… mi fai faticare a tenerti a bada” non c’era alcuna componente di rimprovero nella voce dell’uomo.
“Se ti riferisci al sedere a strisce, scommetto che a Roy ancora fa male!”
“Bel furfante anche quello là. Non sapevo fosse tuo amico.”
“Mh, è una specie di amico, tutto qui.” disse Jean guardando con aria distratta una trave del soffitto.
“Ci litigavi così bene che mi sa che ti piace parecchio, eh?”
A quelle parole Jean rimase a riflette e con un leggero fastidio notò che suo padre aveva ragione. Dopo quella sera disastrosa lui e Roy non si erano più evitati a scuola ed avevano iniziato ad instaurare uno strano rapporto fatto di botta e risposta. Era come se il moro avesse completamente abbandonato quell’aria di presunta superiorità per dimostrarsi finalmente il ragazzo normale che era: una cosa che Jean non aveva potuto fare a meno di apprezzare.
“Diciamo che sta iniziando a scendere dal suo piedistallo.”
“Siete un bel gruppetto di scavezzacollo, non c’è che dire… ovviamente portali a casa quando vuoi.”
“Sempre che Roy non abbia paura di te – sogghignò Jean – credo che il ricordo della tua cintura ancora lo faccia sudare freddo.”
 
Freddo.
Iniziava a fare troppo freddo, o meglio, iniziava a sentirlo dentro le ossa.
Vato alzò leggermente lo sguardo, interrompendo la posizione rannicchiata che aveva assunto da quando Heymans l’aveva lasciato. Vide che ormai era diventato buio e dunque era ovvio che sentisse tanto gelo.
Era caduto in uno stato di torpore tale che non si ricordava nemmeno cosa aveva pensato durante tutto quel tempo: sentiva solo una disperata esigenza di tornare a casa.
Casa voleva dire calore, l’abbraccio di sua madre, qualcosa per far passare quel freddo intenso che nemmeno la sciarpa di Heymans riusciva a tenere lontano.
Si alzò in piedi e fu costretto a sostenersi al muretto: il fatto di aver mangiato poco a pranzo, aggiunto al freddo che aveva certamente preso, gli aveva provocato un forte senso di vertigine. Fortunatamente dopo qualche secondo riuscì a muoversi senza troppe conseguenze, anche se sentiva tutto il suo corpo estremamente irrigidito e freddo…
Proprio quella sensazione non riusciva a passare.
Principio di congelamento? Non lo sapeva… ma era strano, in fondo non stava nemmeno nevicando.
E allora perché?... perché sto tremando…?
Per quanto non avesse percorso una grande distanza da casa sua, arrivarci fu un’impresa davvero stancante. Anche come giunse davanti alla porta e mise la mano sulla maniglia si sentì incredibilmente debole e per un attimo pensò di non avere le energie necessarie per tirarla giù ed entrare.
“Mamma…” chiamò con esitazione quando riuscì a fare qualche passo all’interno della casa.
“Vato? – chiamò Rosie arrivando di corsa dalla cucina – Vato! Tesoro… oddio, amore mio, sei gelato.”
Come la donna si accostò a lui, il ragazzo la strinse in una morsa di ferro: mamma, calore, protezione, sicurezza… tutti concetti che gli passavano per la mente impazzita.
Mamma… mamma, ti prego… fai andare via questo freddo.
“Piccolo mio… piccolo mio, ma che ti succede? – mormorò la donna accarezzandogli i capelli – Eravamo così preoccupati, sei stato via per ore, senza coprirti poi. Tuo padre è andato a cercarti…”
Proprio in quel momento la porta si aprì di nuovo e Vincent entrò.
“E’ tornato? Vato… figlio mio.”
“E’ freddissimo.”
Il ragazzo non capì molto di quello che stava succedendo: sentiva solo i suoi genitori che continuavano a chiamarlo, accarezzandogli i capelli, levandogli i vestiti ormai freddi, sistemandogli una coperta sulle spalle.
Fu solo in minima parte che si accorse di venire sistemato sul divano, davanti al fuoco, ma come quel calore iniziò a farsi sentire, il suo corpo reagì con un forte tremito, tanto che sua madre dovette aiutarlo per fargli bere una tazza di brodo bollente.
“Ho freddo – riuscì a mormorare – freddo…”
“Piccolo genio, certo che hai freddo – sussurrò Vincent, avvolgendolo meglio nelle coperte e frizionandogli le braccia – cosa pensi che succeda a stare fuori con questo tempo senza coprirti bene? Se ti viene l’influenza sarà più che normale…”
“No – scosse il capo lui – non deve… non sono influenzabile.”
“Rosie vai a prendere un’altra coperta, coraggio. Ehi, figliolo, che è questa storia dell’essere influenzabile?”
“E avevo ragione… non esistono! Non esistono i fantasmi!”
“Sei in pieno delirio, eh?” constatò Vincent mettendogli una mano sulla fronte.
“Papà… papà, ti giuro che torno ad essere quello di sempre… non levarmi la tua fiducia.”
“Ma quando mai ti ho levato la fiducia? Non piangere adesso, stai tranquillo…”
Come poteva stare tranquillo se il mondo gli stava crollando addosso? Letteralmente, perché non era normale che le pareti della casa si muovessero in modo così strano. Forse era meglio chiudere gli occhi, non pensarci più: sarebbe stato sicuramente meno stancante di… di una caccia al fantasma.
 
“Davvero Vato ha la febbre alta? – chiese Ellie il giorno dopo – Poverino, ma succede in questa stagione.”
“Elisa mi ha detto che ieri ha preso molto freddo: a quanto pare è uscito senza coprirsi.” annuì Riza.
“Che imprudente. Mi auguro che tu ti sia coperta bene per venire qui.”
“Stia tranquilla, signora.” sorrise la ragazza, perfettamente al caldo nel suo maglione pesante e con la gonna di lana.
Lei e Kain stavano facendo i compiti in salotto: nonostante avessero programmi completamente diversi trovavano molto piacevole la reciproca compagnia in questi momenti. Quando c’era l’amica, Kain la aspettava per fare i compiti che altrimenti avrebbe svolto di primo pomeriggio: trovava che studiare assieme a Riza avesse un gusto del tutto particolare. Non che avesse bisogno d’aiuto, ma gli faceva enormemente piacere poterle annunciare che aveva terminato qualche problema o esercizio: era una strana forma di appagamento emotivo vedere il suo sorriso orgoglioso e sentire la sua voce che si complimentava con lui.
Aveva scoperto che anche la sua amica se la cavava nello studio, anche se non era eccezionale come lui: purtroppo però, se incontrava qualche difficoltà non poteva aiutarla perché non era ancora arrivato ai suoi programmi.
“Non ti torna il problema?” chiese, vedendola assumere un’espressione contrariata.
“No, ed è la quarta volta che ci provo.”
“Fai vedere – e si sporse sul tavolo per dare una sbirciata al libro – eh? Ma che cosa sarebbe?”
“Trigonometria. Si inizia alle superiori, tu ancora non la fai.”
“Cavolo, pare difficilissima… seno, coseno... non ho mai sentito queste cose in vita mia.”
“Ah, proprio non riesco a venire a patti con questa materia, eppure con la geometria piana non me la cavo male: se domani mi chiama alla lavagna per correggere questi problemi saranno guai.”
Kain la fissò con tristezza per qualche secondo, non sapendo come aiutarla, ma poi gli venne una brillante idea:
“Possiamo chiedere a papà di darci una mano. Lui è ingegnere e queste cose le capisce benissimo.”
E senza darle tempo di ribattere prese il suo quaderno e il suo libro e saltò giù dalla sedia.
“Ma sta lavorando.” protestò Riza, seguendolo con timore verso lo studio di Andrew.
“Oh, tranquilla, vedrai che ti aiuterà volentieri.” la rassicurò il bambino, bussando discretamente prima di entrare.
Quella sicurezza di Kain spiazzò completamente la ragazza.
Non era mai stata nello studio di Andrew ed entrarci con una simile facilità la destabilizzò: una cosa simile con suo padre non se la sarebbe mai permessa. Con apprensione guardò il signor Fury che stava lavorando al tavolo da disegno e sussultò interiormente nel constatare che la concentrazione non era molto dissimile a quella mostrata da suo padre.
“Papa?” chiamò Kain, accostandosi a lui.
E Riza temette inconsapevolmente che il bambino ricevesse un’occhiataccia o che gli venisse intimato di andare via.
“Puoi aspettare due minuti, Kain?” chiese Andrew, facendogli un cenno con la matita.
“Certamente.” sorrise con tranquillità il bambino, facendo cenno a Riza di raggiungerlo per osservare il lavoro dell’uomo.
La ragazza si accostò timidamente al tavolo da disegno, avendo cura di mettersi in una posizione dove non disturbasse e iniziò a fissare affascinata la maestria con cui quel progetto, dalle strane forme geometriche, veniva modificato da semplici tratti di matita. Aveva sempre immaginato che quei lavori di precisione fossero altamente noiosi, ma c’era una strana bellezza nell’osservare la sicurezza di quella mano che tracciava le linee, destreggiandosi abilmente con le squadrette.
Andrew non mostrò di essere disturbato dalla presenza di quel piccolo pubblico, ma allo stesso tempo non li escludeva. Era come se desse loro la possibilità di vedere come procedeva il lavoro, spostando ogni tanto il braccio per permettere di osservare meglio quanto era stato appena disegnato.
Fu quasi con dispiacere che Riza si accorse che aveva terminato.
“Allora, che cosa succede?” chiese Andrew con un sorriso, girando lo sgabello verso i due ragazzi.
“Non volevo disturbarla…” iniziò lei che, con quell’uomo aveva minor confidenza rispetto che con Ellie. Ed il paragone con suo padre la rendeva ancora più timorosa.
“Riza ha qualche problema con questi esercizi – la interruppe Kain con disinvoltura – e si chiedeva se potessi darle una mano.”
“Non si deve disturbare se…”
“Fai vedere: trigonometria, eh? Che cosa non capisci, signorina?”
Il cenno ad avvicinarsi fu così spontaneo e gentile che Riza non poté fare a meno di andare accanto a quell’uomo e indicargli con timidezza cosa non tornava.
“La cosa migliore per fartelo capire è mostrartelo – e con esperte mosse staccò il progetto cui stava lavorando dal tavolo da disegno e lo passò al figlio – Kain, posalo sulla scrivania, per favore. Noi adesso prendiamo un altro foglio bianco e ci disegniamo un cerchio… prendi la matita, piccola Riza, disegnalo tu e poi inizia a dividerlo in quattro, va bene?”
A quella richiesta Riza si sentì impazzire… e se sbagliava? Stava parlando con un ingegnere che magari pretendeva assoluta precisione per queste cose, più di quel bisbetico del suo insegnante.
“Beh, che è quest’esitazione? Hai paura che ti sgridi se sbagli? – le chiese Andrew, vedendola così esitante. Sorrise e le sistemò una ciocca di capelli biondi prima di avvicinarla a sé e prenderle la mano con cui teneva la matita – Coraggio, facciamolo insieme… dai, un po’ più ampio, ne abbiamo di spazio con questo foglio, e chiudiamolo, perfetto.”
A Riza non era mai successo di avere un contatto così ravvicinato con un maschio grande, meno che mai con suo padre. Si sorprese a sbirciare il viso tranquillo di Andrew Fury, intravedendovi la grande somiglianza che c’era con Kain, specie ora che indossava gli occhiali. Forse perché lo vedeva di meno rispetto ad Ellie e al figlio, forse perché lei un padre ce l’aveva, ma non aveva mai instaurato la stessa confidenza che aveva con il resto della famiglia…
Eppure il contatto con quella mano era così rassicurante, la guidava nella scrittura delle formule senza forzarla, solo accompagnandola con estrema gentilezza.
“Vedi che le sai le cose? Le stai scrivendo tu le formule, mica io… facciamo un passo avanti e prova a dirle.”
“Raggio è uguale alla distanza da O a C – iniziò con esitazione, indicando con la matita i due punti in questione – seno è la distanza da B a C…”
“Che stanno facendo?” chiese Ellie entrando e accostandosi a Kain.
“Lezione di trigonometria.”
La donna fissò con attenzione le due figure che le davano le spalle, notando la lieve timidezza della ragazzina che si abbinava perfettamente al sorriso tranquillizzante di Andrew, mentre la incoraggiava a dire la nuova formula.
Ancora una volta si sentì stringere il cuore: adorava quella bambina, vederla così assieme ad Andrew le fece desiderare ancora di più che fosse sua figlia… loro figlia.
Perché un simile tesoro deve avere un padre che non la considera nemmeno?
 
“Trentanove e mezza, mi sa che questo compleanno lo passi a letto, fiocco di neve.”
“Trentanove e mezza…” sospirò il ragazzo riadagiandosi nei cuscini e sentendo ogni singolo grado di quella febbre da cavallo. Gli sembrava impossibile aver provato freddo meno di un giorno prima: adesso si sentiva esplodere dal caldo, tanto che scostò di colpo le coperte.
“No, non prendere freddo – scosse il capo Rosie, rimettendogliele addosso – adesso ti porto un bicchiere di acqua zuccherata, va bene?”
“Dammi la medicina, non ce la faccio più!” protestò lui.
"La puoi prendere solo dopo che avrai mangiato: manca ancora mezz’ora buona al pranzo.”
“Ho perso un intero giorno di scuola… accidenti.”
“Contane anche altri quattro: per il resto della settimana scordati di alzarti di mettere il naso fuori da camera tua senza il mio permesso.”
“Ma fra tre giorni è il mio compleanno.”
“Se la febbre ti cala tra domani e dopodomani i tuoi amici potranno venire a casa, va bene? – concesse lei, accarezzandogli la fronte per poi deporvi un bacio – Il mio bellissimo fiocco di neve… diciassette anni, non mi sembra vero. E’ davvero passato così tanto da quando ti cullavo per farti addormentare?”
“E dai, mamma, non lasciarti andare alla nostalgia.” arrossì lui.
“No? – sospirò lei, prendendogli il viso tra le mani e constatando quanto fosse uguale a Vincent – eppure non ne posso fare a meno, piccolo mio. Uh, bussano alla porta: torno subito.”
Vato sospirò e si passò una mano sui capelli sudati: fra tre giorni compiva diciassette anni ed era a letto trattato come un bambino in preda alla febbre. Acqua zuccherata, medicine, sua madre che aveva ripreso a chiamarlo fiocco di neve e che lo vezzeggiava come se avesse cinque anni… chissà, magari alla porta era Elisa che gli diceva che era meglio se tornavano solo amici.
“Solo un paio di minuti, signora, promesso…” disse una voce, prima che la porta si aprisse.
“Ciao Heymans.” si sorprese.
“Ciao – sorrise il rosso accostandosi al letto – che faccia…”
“Trentanove e mezza di febbre: a stare al freddo come uno scemo ci si becca l’influenza. A proposito, ti devo ancora ridare la sciarpa: è lì sopra la sedia. Mamma l’ha anche lavata.”
“Fatta pace con i tuoi?” chiese lui, laconico, mentre riprendeva l’indumento.
“Sì, direi di sì. Forse ho fatto davvero pietà a mio padre quando sono letteralmente crollato sul divano.”
“Parlo sul serio.”
“Pace fatta, te lo assicuro, diciamo che stamattina abbiamo avuto occasione di parlare parecchio sulla questione della maturità e della fiducia. Gli ho promesso di dimostrarmi degno di lui.”
“Ottima cosa, – annuì Heymans – comunque sono venuto anche a portarti questo. E’ il libro di strategia che ti dovevo prestare da tempo.”
“Grandioso, almeno avrò qualcosa da leggere quando la testa me lo consentirà.”
“E su Roy che mi dici?”
Il volto di Vato si fece leggermente teso.
“Non lo so, non ci ho ancora parlato…”
“Sei ancora convinto che questi drastici cambiamenti siano dovuti a lui?”
“In parte sì, ma con questa febbre non è che rifletta con lucidità. Per ora… per ora la cosa importante è aver chiarito con i miei, soprattutto con papà.”
“Capisco. Beh, risolverete non appena guarisci; adesso vado, mi attendono a casa ed è meglio che tu non ti stanchi troppo.”
“Heymans…”
“Sì?”
“Tra te e Jean sei tu quello calmo… come si fa a gestire una persona che è caratterialmente più forte di te?”
“Non prendere me e Jean come esempio – scosse il capo lui – siamo qualcosa di completamente differente per parlare di uno col carattere più forte dell’altro ed inoltre abbiamo un legame troppo profondo. Però per rispondere alla domanda che mi hai fatto… credo che la cosa migliore sia far capire a Roy che l’amicizia consiste anche nell’ascoltare l’altro, non agire sempre per i propri comodi.”
“E lo capirà? A volte le cose che noi diamo per scontate a lui non interessano nemmeno.”
“Se ci tiene a te direi di sì. Ci vediamo presto…”
“Tra tre giorni è il mio compleanno – gli ricordò Vato – mia madre ha detto che se sto meglio potrò invitare gli amici a casa… se tu e Jean volete passare sarò felice di vedervi, tanto Elisa vi terrà aggiornati sulle mie condizioni.”
“Riferirò.”
  
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