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Autore: Mikirise    22/02/2014    2 recensioni
"(…)ma anzi, pensò lucidamente che, in effetti, Rojo era il nome d'arte che faceva al caso suo, visto che gli ricordava i lunghi capelli di sua madre, gli alberi dalle foglie rosse che crescevano accanto alla sua vecchia casa, l'Italia, i pomodori, la Spagna ed infine Antonio, anche se non volle subito ammetterlo. Ed il rosso era il colore della passione, la stessa che lo portava a dipingere senza mai stancarsi né annoiarsi. Dovette ammettere che tutto quello che il rosso gli ricordava era parte integrante di lui, che lo rappresentava nella migliore maniera e che mai nulla gli sarebbe calzato a pennello come il rosso. Furono questi i pensieri che passarono per la testa di Romano quando disse “R come Rojo” girando la testa verso Antonio."
Ispirato a "L'amore ai Tempi del Colera", tenevo a dirlo data la recente scomparsa di Gabriel García Márquez.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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2. La presa del pennello

Sotto L'albero di pesco



Cesare Vargas aveva vissuto la sua vita come solo un uomo pieno di energia e di amore avrebbe potuto vivere.

Viaggiò per il mondo, lo conobbe, lo conquistò. Eppure era solo un professore, si era detto Romano mentre ascoltava la biografia del nonno. Insegnava qualche cosa riguardante le scienze umanistiche, per quanto ne sapeva il ragazzino, oratoria? Filosofia? Scienze politiche? La verità era che ogni volta la sua versione sull'insegnamento era diversa. Una volta insegnava storia, una matematica, a volte arrivava a dire che era insegnante di astrofisica e a quel punto Romano smise di dare per oro colato le parole di quel vecchiaccio, sapendo che non era riuscito ad aiutarlo in un semplice calcolo nei suoi compiti a casa. Insomma, agli occhi di Romano, Cesare Vargas era un cazzaro e, come avrebbe detto sua madre se fosse stata ancora viva, era un cazzaro di qualità, ossia le sparava belle grosse. Ma la caratteristica principale di Cesare Vargas, che non passò inosservata dal bambino, era che, come lui, era stato allontanato e dimenticato dalla sua famiglia.

Nonostante questo particolare, Cesare Vargas era un uomo felice. Insegnava col sorriso sulle labbra, suonava una chitarra nel parco ed amava parlare con le persone che incontrava.

Quando, il 3 Luglio del 1985, vide nell'aereoporto suo nipote Romano, con una gomma in bocca, un broncio adorabile e le braccia incrociate, rivide in lui suo figlio Bruno, quando ancora giocava nel giardino della loro vecchia casa, sognando di diventare un soldato, e pensò che in un modo o nell'altro sarebbe riuscito a salvare almeno suo nipote da quel circolo vizioso di sensi di colpa e dolore. Si ripromise di trattare Romano non come un nonno, ma come un padre, con la stessa rigidità, le stesse aspettative e la stessa attenzione, non lasciando che il bambino abbandonasse la retta via e che mai nella sua vita si sentisse solo. Si ripromise di prepararlo per la strada che avesse voluto intraprendere e di appoggiarlo in tutto e per tutto.

Dal canto suo, Romano non aveva alcuna aspettativa sul nonno, anzi. Lo immaginava come un vecchio stupido ed abbastanza ingenuo, per aver abboccato così facilmente alle scuse del padre per mandarlo via. Quando un giorno Cesare Vargas morì, il suo unico legame familiare rimasto era Romano, che, tra le sue dignitose lacrime, con lo sguardo puntato in alto, disse di non aver mai cambiato la sua opinione su di lui, nonostante avesse imparato con gli anni a qualificare gli aggettivi stupido ed ingenuo in maniera positiva. Dovette; se non per affetto, per gratitudine, perché Cesare Vargas ed il suo carattere, nel bene e nel male, gli avevano regalato un luogo sicuro dove vivere e crescere, una casa, che gli era venuta a mancare con la morte di Laura Donati.

Ci volle poco tempo a Cesare per inquadrare Romano. Riconobbe in lui il carattere irrequieto del padre e la bellezza della madre, la lingua tagliente e senza filtri tipica del suo vecchio paese di campagna, ed il talento per la pittura ed il disegno che da nessun altro poteva venire, se non da se stesso.

Romano disegnava come se fosse un adulto, nei suoi momento di noia, nascondendo i suoi schizzi a chiunque volesse vederli. Un giorno Cesare lo incontrò mentre bruciava i suoi disegni, con un ringhio rabbioso, quasi provasse odio per quelli. Il nonno aveva cercato di fermarlo, ma Romano aveva già appallottolato i fogli e li aveva gettati nel camino, per poi allontanarsi correndo verso la sua stanza, quasi fosse stato spaventato dal suo stesso gesto.

Cesare si rese conto che i disegni di Romano avevano una costante: il rosso ed il verde che s'intrecciavano. Si rese conto che, in tutti i suoi disegni, il bambino disegnava la madre e, nel ritrovarla nei suoi pensieri, cercava di distruggere la sua immagine, come se in quel modo potesse cancellare il suo ricordo ed il dolore che esso portava con sé. I suoi gesti erano guidati da sentimenti inconsci che sorprendevano lo stesso Romano ed il nonno si rese conto che doveva fermare quel comportamento distruttivo del nipote.

Lo portò a Parco de los Angeles, ogni giorno, ogni pomeriggio e lo invitò a disegnare tutto quello che vedeva. Romano era restio e, la prima volta che aveva preso la matita che Cesare gli aveva dato e il blocco di fogli bianchi, disegnò in maniera non naturale, seduto con le gambe incrociate e la testa china. Disegnò solo il prato, poi strappò il foglio e disse al nonno che voleva tornarsene a casa.

Col tempo, Romano iniziò a disegnare con molta più naturalezza, in diverse posizioni, con diverse matite e colori a pastello. Quando si stufava, si sdraiava sul prato accanto al nonno che leggeva e guardava il pesco sotto cui si erano seduti, immerso nei suoi pensieri e non si rendeva conto che, a volte, Cesare prendeva i suoi disegni e l'infilava nella sua ventiquattrore da insegnante, per conservare l'arte del nipote che altrimenti sarebbe andata distrutta da lui stesso.

Un giorno Romano rotolò verso il nonno e, con aria annoiata, disse che quando era in Italia, con Laura, dipingeva sempre, che magari non era neanche troppo bravo a dipingere ma che gli piaceva un sacco farlo. Cesare gli disse che esistevano corsi di disegno e pittura e che, se avesse voluto, avrebbe potuto inserirlo e avrebbe potuto seguire quelle lezioni, e magari un giorno, chissà, sarebbe diventato un grande pittore o comunque un grande artista e lui si sarebbe potuto vantare di avere un nipote importante. Romano aveva incrociato le mani dietro la nuca, senza distogliere lo sguardo dal pesco, e non aveva detto né si né no, che Cesare aveva imparato a capire essere la risposta più entusiasta che il nipote gli avrebbe mai dato in tutta la sua vita.

Romano iniziò a frequentare i corsi, incoraggiato dal nonno che gli ripeteva sempre che aveva un grande talento, ma che senza impegno ed una buona guida sarebbe valso nulla.

Il bambino riusciva a mettere l'anima in ogni suo dipinto, ma, confessò Jeanne d'Arc, l'insegnante del corso, a Cesare, nessuno oltre a lei e Romano vedeva i risultati delle pennellate sulla tela, perché il bambino distruggeva le sue creazioni in pochi minuti; in più, continuò Jeanne, rappresentava un dolore che normalmente, guardando il dipinto di un bambino, non doveva esserci.

"Ha talento, non posso dire il contrario" diceva settimanalmente a Cesare "ma questa volta, professore, ha scelto un ragazzo incredibilmente problematico. Mi preoccupa il suo blocco emotivo. Non ha legato con nessun altro bambino del corso, quando gli si avvicinano sembra voler lottare contro di loro. E secondo me, distrugge i suoi quadri perché si vergogna dei suoi sentimenti. La madre è morta da ormai anni, giusto? Romano però sembra non avergli dato ancora il suo addio"

"Che dovrei fare secondo te, Jeanne?"

La ragazza faceva spallucce "Sta facendo tutto quello che deve essere fatto." a quel punto si mordeva il labbro inferiore incrociando le braccia e guardando verso Romano che aspettava Cesare fuori dall'edificio, con aria scocciata. "Farò quello che mi ha chiesto e cercherò di salvare il salvabile, per il resto, penso di dover imparare più io da quel bambino di quello che potrei insegnargli"

Jeanne d'Arc, dovette ammettere Romano già prima della morte di Cesare Vargas, era stata una sorella maggiore per lui ed un punto di riferimento femminile. Jeanne non assomigliava per niente a Laura Donati, era una ragazza giovane, felice, con una famiglia enorme, tante sorelle, tanti fratelli e un'immensità di cugini; al contrario di Laura, e di tutte le ragazze con cui entrò in contatto Romano, era una ragazza calma, paziente e molto comprensiva. Aveva i capelli dorati corti e gli occhi blu, mentre Romano ricordava perfettamente i capelli lunghi e rossi della madre ed i suoi occhi dello stesso colore del caffè. Jeanne, tuttavia, aveva lo stesso sorriso di Laura, lo stesso modo di ridere e di canticchiare a bassa voce e trovava sempre il tempo per parlare con Romano, per scompigliargli i già disordinati capelli e congratularsi dei disegni che poi il bambino buttava via.

Un giorno, quando Jeanne si sentì abbastanza in confidenza con Romano, lo prese per il braccio prima che lui potesse distruggere l'ennesima tela rappresentante sua madre e gli chiese di non buttare via ore del suo lavoro.

Il bambino allora iniziò a piangere, senza riuscire a contenersi, senza capire il perché, con le lacrime che non aveva pianto da due anni ormai. Pianse di nuovo per sua madre, che Jeanne gli ricordava tanto nei suoi modi di essere. Pianse per Feliciano, che ogni tanto gli mandava lettere con enormi sgorbi incisi sopra, che dovevano essere parole e lettere a detta del fratellino. Pianse per l'abbandono del padre. Pianse le lacrime che non pianse all'aeroporto per aver abbandonato la sua casa e la sua Italia. Pianse disperatamente, senza guardare negli occhi Jeanne, che l'abbracciava maternamente e gli accarezzava i capelli dolcemente.

Quando i suoi singhiozzi cessarono, Jeanne gli disse che piangere non era una vergogna e non lo era nemmeno il suo dolore. Gli disse che i suoi quadri erano lui stesso ma che distruggendoli non avrebbe distrutto il suo di dolore. La prima reazione di Romano fu sbuffare, asciugarsi le lacrime, allontanarsi dalla ragazza ed andarsene, col suo zaino in spalla.

Jeanne d'Arc aveva già capito che sarebbe stato impossibile per Romano manifestare serenamente i suoi sentimenti, desiderava però che li accettasse, almeno per non vedere quel bambino corrodersi la sua anima innocente e buona. Seppe che Romano aveva accettato di lasciar andare la madre, non dal suo comportamento, che rimase chiuso ed aggressivo, non dalle sue parole, che rimasero incisive e maleducate. Lo vide dalla sua tela.

Romano aveva dipinto con lentezza, senza sorridere, ma serenamente. Una volta finito, per la prima volta, fece due o tre passi indietro, inclinò leggermente la testa e, più per abitudine che per altro, alzò il pugno, come se volesse distruggere il quadro. Ma si fermò. Abbassò la mano e rimase fermo davanti al suo dipinto. Jeanne si avvicinò a lui e sorrise. Per la prima volta da quando lo conosceva, Romano aveva dipinto qualcosa di diverso dalla madre. "È bellissimo" gli disse toccandogli la spalla.

Romano trasalì al tocco, ma non distolse lo sguardo dal quadro rappresentante un uomo addormentato, con un libro in mano, sotto un pesco. Il bambino non era stupido e nemmeno Jeanne, per mentire sul soggetto. Quell'uomo era Cesare Vargas, con tanto di bava alla bocca, come Romano lo vedeva durante i loro pomeriggi insieme, con un misto di critica ed affetto. "Voglio regalarlo al nonno" mormorò.

"Ne sarà felicissimo" sorrise Jeanne. "Cosa fai?"

"Firmo" Romano prese il pennello più fino che aveva, lo intinse nel colore rosso e tracciò una R, senza aggiungere altro. All'inizio voleva scivere il suo nome intero, ossia Romano Lovino Vargas, ma aveva iniziato a scrivere troppo a destra nel quadro e non sarebbe entrata nemmeno la metà del suo primo nome. Mai avrebbe immaginato che alcuni anni dopo R sarebbe stato interpretato come Rojo, da un ragazzo che sarebbe stato molto importante per lui in tutta la sua vita.



Note dell'autore

Scompaio e a volte ricompaio, come se stessi affogando! Ma continuo ad essere viva, eggià.

Mi sono resa conto che sembra quasi una tradizione far comparire Antonio nel terzo capitolo o dopo il terzo capitolo…sarà, ma in realtà è una scelta totalmente casuale…

La scelta di far comparire Jeanne d'Arc prima ancora di Francis invece è stata una scelta più che meditata, freddamente calcolata! E non sarà l'unico personaggio che graviterà intorno alla storia di Romano e, udite udite, si avrà l'elenco intero in poco tempo, più o meno.

Ringrazio chi ha deciso di seguire la storia e chi l'ha recensita! Grazie mille e spero di avere altre vostre notizie, mie sicuramente ne avrete. Aggiornerò sabato prossimo, giurin giurello!

Abbraccione spirituale, tanto amore e cuoricini!

  
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