Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: _Pulse_    23/02/2014    3 recensioni
«Come hai fatto ad entrare? Ho fatto mettere il chiavistello alla porta».
«Avevo dato per scontato che fosse per la tua sicurezza personale, ora che Moriarty sembra essere tornato sul campo di battaglia. Sono lusingato».
I suoi occhi di ghiaccio brillarono come diamanti nella camera da letto buia, rischiarata soltanto da un fascio di luce lunare, e Molly strinse i pugni lungo i fianchi, cercando di mantenere la calma.
«Sono entrato dalla finestra», spiegò, nonostante fosse l'unica soluzione possibile, a quel punto, e Molly avrebbe potuto – e dovuto – arrivarci da sola.
«Perché sei qui?», gli chiese dopo vari secondi di silenzio, fissandosi direttamente i piedi piuttosto che lasciarsi cogliere in flagrante mentre si sorprendeva del candore della sua pelle, dei muscoli definiti e dei piccoli nei che formavano una specie di costellazione sulla sua schiena longilinea.
«Perché tu invece ti ostini a rimanere qui, a farmi domande di cui conosci già la risposta?».
«Non te l'ho mai chiesto prima».
«Non vuol dire che tu non conosca già la risposta».
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Buonasera! :)
In questa pigra domenica, posto il capitolo cinque sperando di non aver fatto troppe cavolate.
Ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo - vi lovvo tutti - e chi ha semplicemente letto :)
Alla prossima settimana, un bacione!

_Pulse_

 

____________________________________________________________

 

 

 

5.      Night #7

 

Come va il mal di testa?
SH

 
Molly sorrise, dimenticandosi completamente del fastidio che aveva provato quando arrivata al Bart’s le era stato detto che il nuovo stagista aveva sbagliato a registrare i risultati di diversi esami tossicologici, i quali dovevano essere svolti di nuovo.
Aveva avuto voglia di strangolarlo e di urlargli in faccia che lei aveva lavorato duramente per avere quel lavoro, un lavoro che lui prendeva meno seriamente delle serate trascorse in discoteca a sballarsi. (E lo diceva una che giusto la sera prima si era ritrovata così strafatta che Sherlock aveva dovuto riportarla a casa in braccio).

Meglio, grazie. Ma ho ancora dei buchi di memoria.

 

Aspettò per un po’ la risposta di Sherlock, approfittandone anche per andare a prendere una tazza di caffè. Solo quando fu tornata in laboratorio, con gli occhi di nuovo sul microscopio, il suo cellulare suonò. Stava per pescarlo dalla tasca del camice, quando la porta si aprì all’improvviso, rivelando un uomo alto, vestito in modo elegante e con un ombrello portato a mo’ di bastone da passeggio. In due parole: Mycroft Holmes.
Molly lasciò perdere il messaggio e si alzò in piedi, aprendo la bocca nonostante non avesse idea di che cosa dire.

«Stia pure comoda, signorina Hooper», esordì il fratello maggiore di Sherlock, sorridendole in modo freddo. «Anzi, posso unirmi a lei?».

«Certo, io… posso andare a prenderle una tazza di caffè, se vuole».

«Non si disturbi».

Spostò rumorosamente uno sgabello e si sedette accavallando le gambe. Dopodiché posò sul tavolo la cartelletta di pelle che aveva portato con sé, l’aprì e ne estrasse un plico di fogli. Una specie di contratto, da quello che Molly aveva potuto vedere, ma non volle azzardare alcuna ipotesi, nemmeno quando Mycroft spinse il plico sotto i suoi occhi perché lo esaminasse meglio.

«Ho bisogno di una sua firma», le disse, porgendole una raffinata stilografica.

Molly corrugò la fronte, confusa. «Una firma per che cosa?».

«Quello che ha davanti», iniziò a spiegarle pazientemente, «è un accordo di segretezza. Qualsiasi cosa le dirò in questa stanza rimarrà in questa stanza, lei sarà obbligata a non parlarne e se lo farà – e lo verrò a sapere, può starne certa – le conseguenze saranno molto spiacevoli. Tutto chiaro, signorina Hooper?».

Molly lo fissò, scorgendo nei suoi occhi la stessa intelligenza di Sherlock, se non una ancora maggiore, e una risolutezza quasi spietata.
Quell’uomo era abituato a comandare, abituato al fatto che mai nessuno gli andasse contro. Poteva avere il Regno Unito in pugno, poteva avere anche il mondo per quanto le interessava, ma non avrebbe mai avuto lei.

L’anatomo patologa allontanò da sé l’accordo, poi incrociò le braccia al petto. 
«Non ho intenzione di firmare nulla perché non c’è nulla che desidero sapere da lei».

Mycroft Holmes piegò le labbra in un sorriso sinceramente divertito. «Mi scusi, ho ritenuto ovvio un dettaglio e l’ho omesso: ciò che le dirò riguarda Sherlock».

Molly sgranò leggermente gli occhi e li posò sulla stilografica che l’Holmes più grande aveva appoggiato su quelle pagine dai caratteri minuscoli, pieni di clausole ed asterischi.
Sapeva che avrebbe dovuto rifiutare nuovamente, nella speranza che prima o poi lo stesso Sherlock si fosse confidato con lei, ma la preoccupazione e la paura vinsero su ogni sua morale.
Con mano tremante afferrò la stilografica e senza nemmeno leggere una parola di ciò che c’era scritto su quei fogli cercò la linea a cui apporre la propria firma.

 

Si era del tutto dimenticata del messaggio che Sherlock le aveva inviato e lo avrebbe letto solo qualche ora dopo, trovandolo in qualche modo profetico e così veritiero da spezzarle il cuore.
 

A volte dimenticare può rivelarsi un vantaggio.

 

***

 

«Oh, Sherlock!», esclamò la signora Hudson non appena si accorse della sua presenza nell’atrio, lo sguardo sollevato verso la rampa di scale.
«Che cos’hai combinato, questa volta?».

«Perché dà per scontato che la colpa sia mia?», domandò atono, prima di salire i gradini due a due, senza aspettare la sua risposta.

Entrò nel proprio appartamento ed ispezionò minuziosamente l’ambiente con gli occhi.

«Sei sempre il solito maleducato, fratello mio. Farmi aspettare per un’ora in questa tana polverosa!».

Il consulente investigativo gettò un’occhiata a Mycroft, seduto sulla poltrona di John – non sapeva in quale altro modo chiamarla – e un potente flashback gli procurò un brivido lungo la schiena.

«Non mi sono mai piaciuti gli indovinelli».

«Impara ad apprezzarli. Perché ti devo una caduta, Sherlock. Te ne devo una».

Chiuse gli occhi, stringendo i denti.
«Devi dirmi qualcosa?», domandò poi al fratello, spazientito e a disagio. «Si tratta delle novità che aspettavo?».

«Ebbene, ne ho una», rispose, tirando fuori dalla valigetta di pelle un tablet sottilissimo. «Ma io la chiamerei “conferma”, piuttosto. Dai un’occhiata, coraggio».

Sherlock si avvicinò ed afferrò il tablet. Mycroft aveva aperto l’ultimo post di un blog dalla grafica piuttosto femminile, rosa e con tanto di gattini: il blog di Molly. Lesse ciò che aveva scritto in quel lontano 2 Aprile e le sue parole, nonostante non le avesse mai pensate davvero, furono dolorose come mille minuscoli tagli cosparsi di sale. Ciò che lo distrusse completamente però, ciò che Mycroft voleva che vedesse, fu il primo ed unico commento, lasciato meno di settantadue ore prima.

«La signorina Hooper è una persona troppo gentile, troppo innocente, per meritarsi questo. Non ti permetterò di farle del male. Di fare del male a qualcun altro», disse Mycroft quasi con tenerezza, alzandosi per guardare il fratello minore dritto negli occhi. «Sai cosa dobbiamo fare, per la sua sicurezza».

Sherlock, con gli occhi inspiegabilmente lucidi, faticò a trovare la voce. «Lei non accetterà mai, lei…».

«Potrei averle già dato un incentivo. Forse non sarà abbastanza per convincerla ad accettare, ma per iniziare mi è sufficiente che stia lontana da te».

Mycroft fissò il fratello cercando di capire che cosa gli attraversasse la mente e ciò che intuì lo lasciò vagamente confuso e… stupito
Trattenne un sospiro amareggiato, conscio di una sua grande mancanza: poteva proteggere tutte le persone che stavano vicine a Sherlock, ma non poteva proteggerlo da se stesso in alcun modo.

«Mi dispiace», disse e cercò di mostrare che ciò che diceva era vero, ma in ogni caso sarebbe stata fatica sprecata: Sherlock non era lì, al momento.

 

Mycroft era andato via. Non sapeva quando, esattamente, e non gli interessava.

Aveva preso la sua decisione e non sarebbe stato facile, per niente, ma era la cosa più giusta da fare. Per la prima volta – e sperava con ogni fibra del proprio corpo che fosse anche l’ultima – doveva dar ragione a suo fratello.

«Sherlock?».

Il detective si voltò verso la signora Hudson, ferma sulla soglia del salotto. La sua espressione triste lo confuse e prima che potesse chiederle che cosa fosse successo, una goccia d’acqua salata gli bagnò le labbra dischiuse. Chinò il viso e si passò una mano sulla guancia, trovandola umida. Una lacrima. Aveva versato un’unica lacrima, sola come si sarebbe sentito lui.

 

***

 

«Sherlock ha ucciso Charles Augustus Magnussen, gli ha sparato in testa. Ora capisce perché non posso permetterle di vivere con lui? È per la sua sicurezza».

Molly posò la fronte sulle ginocchia, stringendo ancora un po’ il cuscino tra le braccia, e si sforzò perché le parole di Mycroft Holmes lasciassero spazio al silenzio nella sua testa. Invano.

Aveva sentito parlare dell’improvvisa sparizione del magnate dei giornali, ne avevano parlato tutti e tutti avevano esposto le loro teorie al riguardo, lei compresa: aveva sempre pensato che avesse deciso di farsi una bella vacanza ai tropici, isolato dal resto del mondo. Mai, mai avrebbe osato pensare che Sherlock lo avesse ucciso. Solo immaginare il suo Sherlock impugnare la pistola con l’intento di spegnere una vita la faceva tremare da capo a piedi, col cuore che le batteva dolorosamente nella cassa toracica.

Mycroft in realtà non le aveva spiegato i dettagli, come per esempio il perché Sherlock avesse preso una decisione così drammatica, né Molly aveva voluto saperli.

Ciò che il detective aveva fatto era orribile ed imperdonabile, eppure il suo cuore non avrebbe mai smesso di dirle che lo Sherlock che lei conosceva non l’avrebbe mai fatto se non ci fosse stato un motivo più che valido, qualcosa che lui aveva ritenuto più importante del suo stesso futuro, della sua stessa vita. E questo le bastava per perdonarlo, per credere ancora in lui, per amarlo.

A quel punto non riuscì più a trattenere le lacrime e si morse le labbra per attutire almeno un po’ i singhiozzi.

Aveva promesso a Mycroft che ci avrebbe pensato, che presto avrebbe deciso che cosa fare, ma già mentre faceva quella promessa sapeva esattamente come si sarebbe comportata.

O Mycroft Holmes non conosceva suo fratello, oppure conosceva la sua versione precedente, quella che non aveva ancora incontrato John, l’uomo che con la sua amicizia era riuscito a renderlo migliore.

Lei lo conosceva. Lei riusciva a capirlo, la maggior parte delle volte.
Lei sapeva che il matrimonio di John e il suo addio a Baker Street erano stati duri colpi per Sherlock, che si era sentito abbandonato e che aveva provato paura di fronte alla solitudine.
Lei sapeva che Sherlock non le avrebbe mai fatto del male, non volontariamente. Ma che anzi avrebbe cercato di proteggerla da tutto e tutti, anche sacrificando se stesso. Era così che faceva, quando si affezionava a qualcuno.
Lei sapeva che non avrebbe retto ad un altro abbandono, che aveva bisogno di qualcuno accanto per andare avanti; che ne era diventato dipendente, in qualche modo.

Per questo non l’avrebbe mai lasciato solo.
Le parole di Mycroft non avevano fatto altro che rinforzare ciò che provava per lui, l’avevano convinta definitivamente che se c’era una cosa che non avrebbe mai fatto – nemmeno se questo avesse voluto dire soffrire, affrontare mille pericoli o andare all’inferno – era proprio quella di non allontanarlo da sé. Sempre se… beh, se Sherlock l’avesse voluta al suo fianco.

 

***

 

Sherlock aprì la porta e per un attimo ebbe paura che Molly avesse ripreso a mettere il chiavistello. Non trovandolo, entrò nell’appartamento e si tolse la sciarpa mentre si incamminava verso il salotto, immerso nel buio se non fosse stata per la luce azzurrognola della televisione.

Molly era rannicchiata sul divano e aveva un cuscino stretto al petto, mentre la coperta di lana in cui si era avvolta era caduta a terra.
Toby si aggirava inquieto intorno al tavolino, come se stesse pensando a qualcosa da fare per aiutare la sua padrona, ma si allontanò non appena si accorse della presenza del detective.
Quest’ultimo si avvicinò ed osservò Molly dall’alto per una dozzina di secondi, poi si piegò per raccogliere la coperta e dopo avergliela sistemata addosso si sedette accanto a lei, lasciando che una mano indugiasse sulla sua gamba.

«Molly», sussurrò il suo nome per svegliarla.

L’anatomopatologa sollevò appena le palpebre ed assottigliò gli occhi, cercando di focalizzare ciò che la circondava. Incrociando quelli di Sherlock, si mise lentamente seduta e senza mai interrompere il contatto visivo posò una mano su quella di lui, ancora sul suo ginocchio.
Stranamente, Molly aveva le mani calde. Erano calde, piccole e delicate. Sherlock ricambiò la stretta e rimpianse l’aver notato l’irritazione delle sue guance, le borse sotto agli occhi, il rossore dei suoi occhi: Molly aveva pianto per quello che Mycroft le aveva detto, perciò aveva pianto per colpa sua.

Avrebbe voluto prenderle il viso tra le mani, accarezzarlo ed abbracciarla, stringerla così forte da farla diventare una parte di lui, ma Molly lo aveva intrappolato coi suoi occhi scuri, con le sue piccole mani.

«È a causa sua, vero? I tuoi incubi, sono a causa di quello che è successo con Magnussen», disse a bassa voce, avvicinandosi un po’ a lui.

Sherlock abbassò gli occhi, trovandosi senza parole. 
Aveva sperato fino all’ultimo che Mycroft non avesse realmente sfruttato il proprio asso nella manica, ma l’aveva fatto, e senza pensarci su due volte.

Molly ora sapeva che era un assassino, sapeva che quelle mani che lei stava stringendo erano macchiate di sangue, eppure non aveva intenzione di lasciarle andare.
Perché il piano di Mycroft non stava funzionando? Perché Molly non aveva paura di lui, non ne era disgustata, non lo odiava né lo allontanava come avrebbe fatto qualsiasi persona normale?

«No, non come credi tu», rispose, decidendo di essere sincero. Quella poteva essere la sua ultima opportunità. «Quando sono entrato nell’ufficio di Magnussen e mi hanno sparato: è questo che rivivo nei miei incubi. Rivivo tutto quello che ho provato, quello a cui ho pensato ad un passo dalla morte».

«Ma tu non sei morto, Sherlock».

«No», sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso ironico, «e devo ringraziare te, per questo».
Sherlock lesse sul suo viso la sorpresa e lo sbigottimento, ma non le permise di fare domande, aggiungendo subito: «Nei miei incubi c’è Moriarty. Mi invita a morire, mi dice che non devo averne paura».

«Ma ora è tutto passato, tu stai bene e lui non c’è».

«Lo sai che non è vero. Lo sai benissimo».

Fu il turno di Molly ad abbassare gli occhi e volle anche ritirare le mani per stringersi le braccia intorno alle gambe, come protezione, ma Sherlock glielo impedì, stringendole ancora più saldamente.

«Avresti dovuto dirmelo, Molly. Perché non l’hai fatto?». Chinò il viso e con le nocche le sollevò il mento, in modo che i loro occhi si fondessero. «Perché?».

«Perché ne ero terrorizzata».

«E pensavi forse che ignorarlo avrebbe risolto la situazione?».

«Hai ragione, i demoni vanno affrontati», disse, abbassando gli occhi sulle loro mani ancora unite per poi sollevarle tra i loro visi. «E a volte non lo si può fare da soli».

Sherlock sentì qualcosa rompersi all’interno del suo corpo, qualcosa di inconsistente ma di tanto reale quanto le pulsazioni del cuore o i tessuti che permettevano l’estensione dei polmoni.

Quello che suggeriva Molly andava contro la decisione che aveva preso a malincuore al 221B di Baker Street. Non poteva tornare indietro, non poteva davvero. Per quanto meraviglioso, era un sogno destinato ad andare in frantumi, una follia, un rischio che non poteva correre. Perché aveva messo troppe volte in gioco la vita dei suoi amici e non voleva che accadesse mai più, qualsiasi sarebbe stato il costo da pagare.

Per questo le lasciò le mani e si diresse in silenzio verso la camera da letto.

 

***

 

Molly si girò e rigirò nel letto per almeno un’ora, prima di prendere una decisione.

Sherlock era andato nella camera degli ospiti di sua spontanea volontà, senza nemmeno augurarle la buonanotte, e Molly era andata a dormire a stomaco vuoto, accartocciato come una pallina di carta straccia con l’inizio di una storia scritta e riscritta ma che, incurante di ogni tentativo, non avrebbe mai avuto un lieto fine.

Bussò piano alla porta e l’aprì, domandando a bassa voce: «Sherlock, sei sveglio?».

«Uhm», mugugnò lui.

Molly si sentì autorizzata ad entrare e si chiuse la porta alle spalle, poi si avvicinò al letto e non senza un po’ di timore sollevò le coperte per potersi sdraiare al suo fianco.

«Tuo fratello mi ha proposto un trasferimento negli Stati Uniti, lo sapevi?», esordì rompendo il silenzio, gli occhi rivolti verso il soffitto.

«No».

«Pensi che dovrei prenderlo in considerazione?».

«È la soluzione migliore».

«Non ti ho chiesto questo, Sherlock. Ti ho chiesto se pensi che dovrei prenderlo in considerazione».

Molly osservò le spalle del detective sollevarsi un poco mentre respirava profondamente.

«Penso che dovresti. Saresti più al sicuro, faresti nuove esperienze, nuove conoscenze, e chissà, magari deciderai che là ti piacerà più di Londra».

Molly serrò le labbra e gli diede le spalle, rannicchiandosi su un fianco.
Si era illusa ancora una volta: Sherlock non avrebbe mai ammesso di aver bisogno di qualcuno, tantomeno di lei.

«Credi davvero che Moriarty sia vivo, allora?», gli chiese, scoprendo una certa freddezza nella propria voce.

Ciò che aveva detto l’aveva offesa: come poteva pensare che avrebbe potuto preferire un altro ospedale al Bart’s? Come poteva pensare che avrebbe potuto amare una città degli USA più di quanto amasse Londra? Come poteva pensare che si sarebbe rifatta una vita facilmente, sentendo la mancanza di tutte le magnifiche persone che conosceva, compreso lui? E soprattutto avrebbe dovuto essere a conoscenza che nessun posto era abbastanza lontano né sicuro se Moriarty era davvero ancora vivo.

«Non lo so».

«Eri di fronte a lui, quando si è sparato».

«L’hai appurato di persona, quanto sia facile inscenare la propria morte se si dispone dei mezzi e delle persone giuste».

«Ma lui si è sparato, Dio mio!».

«Era furbo, era intelligente…».

«Tu di più, Sherlock».

Il consulente investigativo si girò, o meglio, Molly lo sentì spostarsi sotto le coperte ed ebbe la sensazione che le stesse fissando le scapole lasciate scoperte dalle spalline sottili della canotta che indossava.

«Molly, giuro che non gli permetterò di avvicinarsi di nuovo a te», sussurrò, infinitamente serio.

Il cuore iniziò a batterle più forte nel petto, così forte che nel silenzio ebbe paura che Sherlock riuscisse a sentirlo.

«Al matrimonio di John avevi detto che non avresti più fatto giuramenti in vita tua».

«Ogni tanto – raramente – dico delle stupidaggini anche io».

Molly si voltò, senza più provare imbarazzo, e come lei trovò Sherlock sorridente.

«Se andassi a prendere il cellulare e ti registrassi mentre lo ripeti?», gli chiese, inarcando un sopracciglio in modo sbarazzino.

«No», esclamò facendo schioccare le labbra, prima di lasciarsi andare ad una risata gutturale.

L’anatomopatologa sospirò e fece per alzarsi e tornare nella sua camera da letto, ma Sherlock le afferrò il polso, costringendola a guardarlo negli occhi.
«Per questa notte, affrontiamo insieme i nostri demoni».

Molly ci rifletté su qualche istante, poi ritornò sotto alle coperte ed abbracciò il cuscino, rivolgendogli un breve sorriso prima di chiudere gli occhi.
«Per questa notte», specificò sottovoce, come se in cuor suo non sperasse che ce ne sarebbero state altre.

   
 
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