In questa pigra domenica, posto il capitolo cinque sperando di non aver fatto troppe cavolate.
Ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo - vi lovvo tutti - e chi ha semplicemente letto :)
Alla prossima settimana, un bacione!
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5.
Night
#7
Come
va il mal di testa?
SH
Molly
sorrise, dimenticandosi completamente del fastidio che aveva provato
quando
arrivata al Bart’s le era stato detto che il nuovo stagista
aveva sbagliato a
registrare i risultati di diversi esami tossicologici, i quali dovevano
essere
svolti di nuovo.
Aveva
avuto voglia di strangolarlo e di urlargli in faccia che lei aveva
lavorato duramente
per avere quel lavoro, un lavoro che lui prendeva meno seriamente delle
serate
trascorse in discoteca a sballarsi. (E lo diceva una che giusto la sera
prima
si era ritrovata così strafatta che Sherlock aveva dovuto
riportarla a casa in
braccio).
Meglio,
grazie. Ma ho ancora dei buchi di memoria.
Aspettò
per un po’ la risposta di Sherlock, approfittandone anche per
andare a prendere
una tazza di caffè. Solo quando fu tornata in laboratorio,
con gli occhi di
nuovo sul microscopio, il suo cellulare suonò. Stava per
pescarlo dalla tasca
del camice, quando la porta si aprì
all’improvviso, rivelando un uomo alto,
vestito in modo elegante e con un ombrello portato a mo’ di
bastone da
passeggio. In due parole: Mycroft Holmes.
Molly
lasciò perdere il messaggio e si alzò in piedi,
aprendo la bocca nonostante non
avesse idea di che cosa dire.
«Stia
pure comoda, signorina Hooper», esordì il fratello
maggiore di Sherlock,
sorridendole in modo freddo. «Anzi, posso unirmi a
lei?».
«Certo,
io… posso andare a prenderle una tazza di caffè,
se vuole».
«Non
si disturbi».
Spostò
rumorosamente uno sgabello e si sedette accavallando le gambe.
Dopodiché posò
sul tavolo la cartelletta di pelle che aveva portato con sé,
l’aprì e ne
estrasse un plico di fogli. Una specie di contratto, da quello che
Molly aveva
potuto vedere, ma non volle azzardare alcuna ipotesi, nemmeno quando
Mycroft
spinse il plico sotto i suoi occhi perché lo esaminasse
meglio.
«Ho
bisogno di una sua firma», le disse, porgendole una raffinata
stilografica.
Molly
corrugò la fronte, confusa. «Una firma per che
cosa?».
«Quello
che ha davanti», iniziò a spiegarle pazientemente,
«è un accordo di segretezza.
Qualsiasi cosa le dirò in questa stanza rimarrà
in questa stanza, lei sarà obbligata a non parlarne e se lo
farà – e lo verrò a
sapere, può starne certa – le conseguenze saranno
molto spiacevoli. Tutto
chiaro, signorina Hooper?».
Molly
lo fissò, scorgendo nei suoi occhi la stessa intelligenza di
Sherlock, se non
una ancora maggiore, e una risolutezza quasi spietata.
Quell’uomo
era abituato a comandare, abituato al fatto che mai nessuno gli andasse
contro.
Poteva avere il Regno Unito in pugno, poteva avere anche il mondo per
quanto le
interessava, ma non avrebbe mai avuto lei.
L’anatomo
patologa allontanò da sé l’accordo, poi
incrociò le braccia al petto.
«Non ho
intenzione di firmare nulla perché non
c’è nulla che desidero sapere da lei».
Mycroft
Holmes piegò le labbra in un sorriso sinceramente divertito.
«Mi scusi, ho
ritenuto ovvio un dettaglio e l’ho omesso: ciò che
le dirò riguarda Sherlock».
Molly
sgranò leggermente gli occhi e li posò sulla
stilografica che l’Holmes più
grande aveva appoggiato su quelle pagine dai caratteri minuscoli, pieni
di
clausole ed asterischi.
Sapeva
che avrebbe dovuto rifiutare nuovamente, nella speranza che prima o poi
lo
stesso Sherlock si fosse confidato con lei, ma la preoccupazione e la
paura
vinsero su ogni sua morale.
Con
mano tremante afferrò la stilografica e senza nemmeno
leggere una parola di ciò
che c’era scritto su quei fogli cercò la linea a
cui apporre la propria firma.
Si
era del tutto dimenticata del messaggio che Sherlock le aveva inviato e
lo
avrebbe letto solo qualche ora dopo, trovandolo in qualche modo
profetico e
così veritiero da spezzarle il cuore.
A
volte dimenticare può rivelarsi un vantaggio.
***
«Oh,
Sherlock!», esclamò la signora Hudson non appena
si accorse della sua presenza
nell’atrio, lo sguardo sollevato verso la rampa di scale.
«Che
cos’hai combinato, questa volta?».
«Perché
dà per scontato che la colpa sia mia?»,
domandò atono, prima di salire i
gradini due a due, senza aspettare la sua risposta.
Entrò
nel proprio appartamento ed ispezionò minuziosamente
l’ambiente con gli occhi.
«Sei
sempre il solito maleducato, fratello mio. Farmi aspettare per
un’ora in questa
tana polverosa!».
Il
consulente investigativo gettò un’occhiata a
Mycroft, seduto sulla poltrona di
John – non sapeva in quale altro modo chiamarla – e
un potente flashback gli
procurò un brivido lungo la schiena.
«Non
mi sono mai
piaciuti gli indovinelli».
«Impara
ad apprezzarli.
Perché ti devo una caduta, Sherlock. Te ne devo
una».
Chiuse
gli occhi, stringendo i denti.
«Devi
dirmi qualcosa?», domandò poi al fratello,
spazientito e a disagio. «Si tratta
delle novità che aspettavo?».
«Ebbene,
ne ho una», rispose, tirando fuori dalla valigetta di pelle
un tablet
sottilissimo. «Ma io la chiamerei
“conferma”, piuttosto. Dai un’occhiata,
coraggio».
Sherlock
si avvicinò ed afferrò il tablet. Mycroft aveva
aperto l’ultimo post di un blog
dalla grafica piuttosto femminile, rosa e con tanto di gattini: il blog
di
Molly. Lesse ciò che aveva scritto in quel lontano 2 Aprile
e le sue parole,
nonostante non le avesse mai pensate davvero, furono dolorose come
mille
minuscoli tagli cosparsi di sale. Ciò che lo distrusse
completamente però, ciò
che Mycroft voleva che vedesse, fu il primo ed unico commento, lasciato
meno di
settantadue ore prima.
«La
signorina Hooper è una persona troppo gentile, troppo
innocente, per meritarsi
questo. Non ti permetterò di farle del male. Di fare del
male a qualcun altro»,
disse Mycroft quasi con tenerezza, alzandosi per guardare il fratello
minore
dritto negli occhi. «Sai cosa dobbiamo fare, per la sua
sicurezza».
Sherlock,
con gli occhi inspiegabilmente lucidi, faticò a trovare la
voce. «Lei non
accetterà mai, lei…».
«Potrei
averle già dato un incentivo. Forse non sarà
abbastanza per convincerla ad
accettare, ma per iniziare mi è sufficiente che stia lontana
da te».
Mycroft
fissò il fratello cercando di capire che cosa gli
attraversasse la mente e ciò
che intuì lo lasciò vagamente confuso
e… stupito.
Trattenne un sospiro amareggiato, conscio di una sua grande mancanza:
poteva
proteggere tutte le persone che stavano vicine a Sherlock, ma non
poteva
proteggerlo da se stesso in alcun modo.
«Mi
dispiace», disse e cercò di mostrare che
ciò che diceva era vero, ma in ogni
caso sarebbe stata fatica sprecata: Sherlock non era lì, al
momento.
Mycroft
era andato via. Non sapeva quando, esattamente, e non gli interessava.
Aveva
preso la sua decisione e non sarebbe stato facile, per niente, ma era
la cosa
più giusta da fare. Per la prima volta – e sperava
con ogni fibra del proprio
corpo che fosse anche l’ultima – doveva dar ragione
a suo fratello.
«Sherlock?».
Il
detective si voltò verso la signora Hudson, ferma sulla
soglia del salotto. La
sua espressione triste lo confuse e prima che potesse chiederle che
cosa fosse
successo, una goccia d’acqua salata gli bagnò le
labbra dischiuse. Chinò il
viso e si passò una mano sulla guancia, trovandola umida.
Una lacrima. Aveva
versato un’unica lacrima, sola come si sarebbe sentito lui.
***
«Sherlock
ha ucciso
Charles Augustus Magnussen, gli ha sparato in testa. Ora capisce
perché non
posso permetterle di vivere con lui? È per la sua
sicurezza».
Molly
posò la fronte sulle ginocchia, stringendo ancora un
po’ il cuscino tra le
braccia, e si sforzò perché le parole di Mycroft
Holmes lasciassero spazio al
silenzio nella sua testa. Invano.
Aveva
sentito parlare dell’improvvisa sparizione del magnate dei
giornali, ne avevano
parlato tutti e tutti avevano esposto le loro teorie al riguardo, lei
compresa:
aveva sempre pensato che avesse deciso di farsi una bella vacanza ai
tropici,
isolato dal resto del mondo. Mai, mai avrebbe osato pensare che
Sherlock lo
avesse ucciso. Solo immaginare il suo
Sherlock impugnare la pistola con l’intento di spegnere una
vita la faceva
tremare da capo a piedi, col cuore che le batteva dolorosamente nella
cassa
toracica.
Mycroft
in realtà non le aveva spiegato i dettagli, come per esempio
il perché Sherlock
avesse preso una
decisione così drammatica, né Molly aveva voluto
saperli.
Ciò
che il detective aveva fatto era orribile ed imperdonabile, eppure il
suo cuore
non avrebbe mai smesso di dirle che lo Sherlock che lei conosceva non
l’avrebbe
mai fatto se non ci fosse stato un motivo più che valido,
qualcosa che lui
aveva ritenuto più importante del suo stesso futuro, della
sua stessa vita. E questo
le bastava per perdonarlo, per credere ancora in lui, per amarlo.
A
quel punto non riuscì più a trattenere le lacrime
e si morse le labbra per
attutire almeno un po’ i singhiozzi.
Aveva
promesso a Mycroft che ci avrebbe pensato, che presto avrebbe deciso
che cosa
fare, ma già mentre faceva quella promessa sapeva
esattamente come si sarebbe
comportata.
O
Mycroft Holmes non conosceva suo fratello, oppure conosceva la sua
versione
precedente, quella che non aveva ancora incontrato John,
l’uomo che con la sua
amicizia era riuscito a renderlo migliore.
Lei
lo conosceva. Lei riusciva a capirlo, la maggior parte delle volte.
Lei
sapeva che il matrimonio di John e il suo addio a Baker Street erano
stati duri
colpi per Sherlock, che si era sentito abbandonato e che aveva provato
paura di
fronte alla solitudine.
Lei
sapeva che Sherlock non le avrebbe mai fatto del male, non
volontariamente. Ma
che anzi avrebbe cercato di proteggerla da tutto e tutti, anche
sacrificando se
stesso. Era così che faceva, quando si affezionava a
qualcuno.
Lei
sapeva che non avrebbe retto ad un altro abbandono, che aveva bisogno
di
qualcuno accanto per andare avanti; che ne era diventato dipendente, in
qualche
modo.
Per
questo non l’avrebbe mai lasciato solo.
Le
parole di Mycroft non avevano fatto altro che rinforzare ciò
che provava per
lui, l’avevano convinta definitivamente che se
c’era una cosa che non avrebbe
mai fatto – nemmeno se questo avesse voluto dire soffrire,
affrontare mille
pericoli o andare all’inferno – era proprio quella
di non allontanarlo da sé. Sempre
se… beh, se Sherlock l’avesse voluta al suo
fianco.
***
Sherlock
aprì la porta e per un attimo ebbe paura che Molly avesse
ripreso a mettere il chiavistello.
Non trovandolo, entrò nell’appartamento e si tolse
la sciarpa mentre si
incamminava verso il salotto, immerso nel buio se non fosse stata per
la luce
azzurrognola della televisione.
Molly
era rannicchiata sul divano e aveva un cuscino stretto al petto, mentre
la
coperta di lana in cui si era avvolta era caduta a terra.
Toby
si aggirava inquieto intorno al tavolino, come se stesse pensando a
qualcosa da
fare per aiutare la sua padrona, ma si allontanò non appena
si accorse della
presenza del detective.
Quest’ultimo
si avvicinò ed osservò Molly dall’alto
per una dozzina di secondi, poi si piegò
per raccogliere la coperta e dopo avergliela sistemata addosso si
sedette
accanto a lei, lasciando che una mano indugiasse sulla sua gamba.
«Molly»,
sussurrò il suo nome per svegliarla.
L’anatomopatologa
sollevò appena le palpebre ed assottigliò gli
occhi, cercando di
focalizzare ciò che la circondava. Incrociando quelli di
Sherlock, si mise
lentamente seduta e senza mai interrompere il contatto visivo
posò una mano su
quella di lui, ancora sul suo ginocchio.
Stranamente,
Molly aveva le mani calde. Erano calde, piccole e delicate. Sherlock
ricambiò
la stretta e rimpianse l’aver notato l’irritazione
delle sue guance, le borse
sotto agli occhi, il rossore dei suoi occhi: Molly aveva pianto per
quello che
Mycroft le aveva detto, perciò aveva pianto per colpa sua.
Avrebbe
voluto prenderle il viso tra le mani, accarezzarlo ed abbracciarla,
stringerla
così forte da farla diventare una parte di lui, ma Molly lo
aveva intrappolato
coi suoi occhi scuri, con le sue piccole mani.
«È
a causa sua, vero? I tuoi incubi, sono a causa di quello che
è successo con
Magnussen», disse a bassa voce, avvicinandosi un
po’ a lui.
Sherlock
abbassò gli occhi, trovandosi senza parole.
Aveva sperato fino all’ultimo che
Mycroft non avesse realmente sfruttato il proprio asso nella manica, ma
l’aveva
fatto, e senza pensarci su due volte.
Molly
ora sapeva che era un assassino, sapeva che quelle mani che lei stava
stringendo erano macchiate di sangue, eppure non aveva intenzione di
lasciarle
andare.
Perché
il piano di Mycroft non stava funzionando? Perché Molly non
aveva paura di lui,
non ne era disgustata, non lo odiava né lo allontanava come
avrebbe fatto
qualsiasi persona normale?
«No,
non come credi tu», rispose, decidendo di essere sincero.
Quella poteva essere
la sua ultima opportunità. «Quando sono entrato
nell’ufficio di Magnussen e mi
hanno sparato: è questo che rivivo nei miei incubi. Rivivo
tutto quello che ho
provato, quello a cui ho pensato ad un passo dalla morte».
«Ma
tu non sei morto, Sherlock».
«No»,
sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso ironico,
«e devo ringraziare
te, per questo».
Sherlock
lesse sul suo viso la sorpresa e lo sbigottimento, ma non le permise di
fare
domande, aggiungendo subito: «Nei miei incubi
c’è Moriarty. Mi invita a morire,
mi dice che non devo averne paura».
«Ma
ora è tutto passato, tu stai bene e lui non
c’è».
«Lo
sai che non è vero. Lo sai benissimo».
Fu
il turno di Molly ad abbassare gli occhi e volle anche ritirare le mani
per
stringersi le braccia intorno alle gambe, come protezione, ma Sherlock
glielo
impedì, stringendole ancora più saldamente.
«Avresti
dovuto dirmelo, Molly. Perché non l’hai
fatto?». Chinò il viso e con le nocche
le sollevò il mento, in modo che i loro occhi si fondessero.
«Perché?».
«Perché
ne ero terrorizzata».
«E
pensavi forse che ignorarlo avrebbe risolto la situazione?».
«Hai
ragione, i demoni vanno affrontati», disse, abbassando gli
occhi sulle loro
mani ancora unite per poi sollevarle tra i loro visi. «E a
volte non lo si può
fare da soli».
Sherlock
sentì qualcosa rompersi all’interno del suo corpo,
qualcosa di inconsistente ma
di tanto reale quanto le pulsazioni del cuore o i tessuti che
permettevano
l’estensione dei polmoni.
Quello
che suggeriva Molly andava contro la decisione che aveva preso a
malincuore al
221B di Baker Street. Non poteva tornare indietro, non poteva davvero.
Per
quanto meraviglioso, era un sogno destinato ad andare in frantumi, una
follia,
un rischio che non poteva correre. Perché aveva messo troppe
volte in gioco la
vita dei suoi amici e non voleva che accadesse mai più,
qualsiasi sarebbe stato
il costo da pagare.
Per
questo le lasciò le mani e si diresse in silenzio verso la
camera da letto.
***
Molly
si girò e rigirò nel letto per almeno
un’ora, prima di prendere una decisione.
Sherlock
era andato nella camera degli ospiti di sua spontanea
volontà, senza nemmeno
augurarle la buonanotte, e Molly era andata a dormire a stomaco vuoto,
accartocciato come una pallina di carta straccia con l’inizio
di una storia
scritta e riscritta ma che, incurante di ogni tentativo, non avrebbe
mai avuto
un lieto fine.
Bussò
piano alla porta e l’aprì, domandando a bassa
voce: «Sherlock, sei sveglio?».
«Uhm»,
mugugnò lui.
Molly
si sentì autorizzata ad entrare e si chiuse la porta alle
spalle, poi si
avvicinò al letto e non senza un po’ di timore
sollevò le coperte per potersi
sdraiare al suo fianco.
«Tuo
fratello mi ha proposto un trasferimento negli Stati Uniti, lo
sapevi?», esordì
rompendo il silenzio, gli occhi rivolti verso il soffitto.
«No».
«Pensi
che dovrei prenderlo in considerazione?».
«È
la soluzione migliore».
«Non
ti ho chiesto questo, Sherlock. Ti ho chiesto se pensi che dovrei
prenderlo in
considerazione».
Molly
osservò le spalle del detective sollevarsi un poco mentre
respirava
profondamente.
«Penso
che dovresti. Saresti più al sicuro, faresti nuove
esperienze, nuove
conoscenze, e chissà, magari deciderai che là ti
piacerà più di Londra».
Molly
serrò le labbra e gli diede le spalle, rannicchiandosi su un
fianco.
Si
era illusa ancora una volta: Sherlock non avrebbe mai ammesso di aver
bisogno
di qualcuno, tantomeno di lei.
«Credi
davvero che Moriarty sia vivo, allora?», gli chiese,
scoprendo una certa
freddezza nella propria voce.
Ciò
che aveva detto l’aveva offesa: come poteva pensare che
avrebbe potuto
preferire un altro ospedale al Bart’s? Come poteva pensare
che avrebbe potuto
amare una città degli USA più di quanto amasse
Londra? Come poteva pensare che
si sarebbe rifatta una vita facilmente, sentendo la mancanza di tutte
le
magnifiche persone che conosceva, compreso lui? E soprattutto avrebbe
dovuto
essere a conoscenza che nessun posto era abbastanza lontano
né sicuro se
Moriarty era davvero ancora vivo.
«Non
lo so».
«Eri
di fronte a lui, quando si è sparato».
«L’hai
appurato di persona, quanto sia facile inscenare la propria morte se si
dispone
dei mezzi e delle persone giuste».
«Ma
lui si è sparato, Dio
mio!».
«Era
furbo, era intelligente…».
«Tu
di più, Sherlock».
Il
consulente investigativo si girò, o meglio, Molly lo
sentì spostarsi sotto le
coperte ed ebbe la sensazione che le stesse fissando le scapole
lasciate
scoperte dalle spalline sottili della canotta che indossava.
«Molly,
giuro che non gli permetterò di avvicinarsi di nuovo a
te», sussurrò,
infinitamente serio.
Il
cuore iniziò a batterle più forte nel petto,
così forte che nel silenzio ebbe
paura che Sherlock riuscisse a sentirlo.
«Al
matrimonio di John avevi detto che non avresti più fatto
giuramenti in vita tua».
«Ogni
tanto – raramente
– dico delle
stupidaggini anche io».
Molly
si voltò, senza più provare imbarazzo, e come lei
trovò Sherlock sorridente.
«Se
andassi a prendere il cellulare e ti registrassi mentre lo
ripeti?», gli
chiese, inarcando un sopracciglio in modo sbarazzino.
«No»,
esclamò facendo schioccare le labbra, prima di lasciarsi
andare ad una risata
gutturale.
L’anatomopatologa
sospirò e fece per alzarsi e tornare nella sua camera da
letto, ma
Sherlock le afferrò il polso, costringendola a guardarlo
negli occhi.
«Per
questa notte, affrontiamo insieme i nostri demoni».
Molly
ci rifletté su qualche istante, poi ritornò sotto
alle coperte ed abbracciò il
cuscino, rivolgendogli un breve sorriso prima di chiudere gli occhi.
«Per
questa notte», specificò sottovoce, come se in
cuor suo non sperasse che ce ne
sarebbero state altre.