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Autore: Ely79    23/02/2014    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. - Cap. 30
30

Paul gettò a terra un plico di giornali. Aris gli dava le spalle, raggomitolato tra i piedi dell’immensa scultura. Da diverse notti era preda di uno strano torpore, una mollezza da ubriaco che il tirapiedi ricordava di aver visto spesso in Scorch e occasionalmente su sé stesso.
«Avete fatto scoppiare il caos in città» commentò a mezza voce, rigirando col piede un quotidiano per mettere in luce l’articolo di prima pagina. «Sono tutti impazziti, non si parla d’altro».
Il titolo raccontava a caratteri cubitali della strepitosa iniziativa di Avelan e di come Goundoulakis avesse scelto non solo di assecondarla ma addirittura di rincarare la dose prendendovi parte.
Il busto di Aris vibrò per quelle che sembravano risatine o colpi di tosse.
«Soddisfatto?» mugugnò ancora Paul, spiando un’altra testata dove si sprecavano fiumi d’inchiostro solo per ricordare a tutti che il venti novembre, al Golden Ring di VeloCity, si sarebbe tenuta una grandiosa sfida al di fuori dei Gran Premi ufficiali.
Le ipotesi circa la presenza di nomi noti dei circuiti fioccavano da ogni lato, la ressa degli sponsor cittadini per accaparrarsi il campione di turno avevano solleticato sin dal primo giorno l’interesse di sostenitori e curiosi.
«Ho saputo che Avelan sta contrattando con Gunnar. Lo vuole alle cloche ma quello sta facendo il difficile:  ha il Prix du Nord a dicembre e sta accampando scuse perché vuole concentrarsi sulla messa a punto della Cannonball 17, visto che il russo l’ha costretto a sganciargli la 16.2 per il museo dopo l’ultima gara ufficiale» sbadigliò.
A Paul non interessava granché delle corse di airship, le trovava piuttosto banali, salvo quando vestiva i panni dell’allibratore. In quel caso era tutta un’altra faccenda, specie se c’erano parecchi polli da spennare.
«Bisognerà che ti dia da fare, se non vuoi rimangiarti tutto e farci la figura del coglione» suggerì stiracchiandosi, mentre mescolava parole e gemiti.
Il suo capo non pareva propenso a balzar giù dal trono esibendosi in quelle frecciatine malefiche o sciorinando ordini che l’avrebbero condotto nella peggiori fogne della città.
«Mi devo attivare per far cambiare idea al re degli aerodromi?» azzardò privo di entusiasmo, incrociando le dita nelle tasche affinché quel compito spettasse ad altri.
Aris tacque, sembrava essersi addormentato.
«Beh, allora vado. Ho detto alla donna della mia vita che l’avrei portata a fare colazione a “Le Gâteau Carrousel” prima di portarla a scuola» annunciò, mascherando dietro l’abituale insofferenza il sorriso che gli saliva alle labbra.
Le aveva promesso da tempo quel momento padre e figlia, per il quale non aveva chiesto intercessioni a Goundoulakis: si era dato da fare piazzando diverse partite extra di alcolici e “polveri terapeutiche”, rivenduto gioielli dei quali i proprietari potevano fare a meno e riscosso alcuni “vecchi crediti”, racimolando abbastanza denaro per comprare alla sua bambina ogni ben di Dio, incluso un pasticcino al cioccolato. Dal canto suo, Becky aveva atteso quel mattino con la stessa ansia febbrile di un tossico per la dose, tormentandolo in cerca di conferme ogni volta che le aveva rimboccato le coperte o l’aveva accompagnata alle lezioni di pianoforte e danza, supplicandolo con i soli occhi sgranati di fare in modo che quel desiderio si avverasse senza intoppi.
Dirlo ad Aris era un modo come un altro per ribadire d’aver terminato il proprio turno e di non voler seccature.
Stava per chiudersi la porta alle spalle quando sentì chiamare.
«Clench?»
Imprecò sottovoce, irritato da quello che avrebbe potuto tradursi in un indesiderabile contrattempo. Si costrinse a rimettere la testa nello studio, dove Aris si era alzato. Camminava curvo verso la vetrata, con un’andatura da vecchio decrepito, instabile nonostante il bastone.
«Sì?»
Lo guardò raddrizzarsi a scatti, simile ad uno di quegli automi della fiera che predicevano il futuro o facevano giochi di prestigio sbuffando vapore dalle giunture non appena s’infilava un méit nella cassetta ai loro piedi. Gli parve impiegasse una vita intera a ritrovare una postura umana.
«Esiste la velocità perfetta?» domandò, più a se stesso che allo scagnozzo.
Paul ci pensò un istante.
«Sì: quella che ti fa arrivare prima da chi ti aspetta» replicò scocciato, sbattendo la porta.

***

Gli spogliatoi della “Legendary” si tramutavano in un forno durante l’estate: le finestrelle nel locale docce erano a malapena sufficienti a garantire un minimo ricambio d’aria, ma solo se la porta d’entrata era aperta, così come i battenti del portale dell’officina. Approfittando di una capatina in bagno tra un’analisi e l’altra, Clay e Scorch avevano deciso di rimuovere i vetri per dare un minimo di sollievo ai ragazzi. Quando entrarono nella stanza però, un ammasso gibboso e tremolante ansimava rannicchiato sul pavimento tra scatole di latta sparse alla rinfusa.
«Pancake? Che ti prende?» chiamò preoccupato l’ingegnere.
La risposta non somigliava a nulla che avessero mai udito in vita loro. Se il carrozziere si stava ingozzando, lo stava facendo infilandosi il cibo su per il naso.
«Che stai facendo?» domandò Lomann avvicinandosi.
Quello si voltò, gli occhi dilatati a dismisura, la bocca intasata da un boccone troppo grande, il mento lucido di saliva verdastra. Lo stesso viscidume imbrattava le dita con cui stringeva un minuscolo tubo di cartone.
In un istante, il capofficina gli piombò addosso, ribaltandolo sul fianco e spargendo ovunque i resti ammonticchiati del pasto fuori orario. Aveva perso il conto degli avanzi macilenti che avevano trovato sparsi un po’ ovunque per l’officina, ma questi erano diversi, erano pericolosi.
«No! No!» berciò l’omone rotolando sul pavimento.
Si dimenava sulle piastrelle, goffo come una tartaruga sulla spiaggia.
«Che cazzo stai facendo?» gridò Clay afferrandolo per la bretelle della divisa e indicando la polvere ormai sparsa ovunque. «Dimmelo!»
Pancake squittiva e frignava, allungandosi per afferrare i rimasugli. Sputacchiava saliva densa quanto il muco che gli colava dal naso.
«Parla!» gl’intimò furente. «Parla, o giuro che ti ammazzo!»
Il progettista inorridì, raggiunto da un puzzo nauseante. Riconobbe solo in quel momento la polvere verdognola e maleodorante. Era Sglitz o, almeno, era così che l’aveva chiamata PigTail quando Clayton gliel’aveva trovata addosso molti anni prima. Un miscuglio di funghi allucinogeni e derivati chimici di misteriosa  provenienza, reperibile per pochi méit in qualsiasi vicolo della città.
«Del, rispondi!» lo incitò Scorch, sperando che se avesse risposto, l’altro perlomeno l’avrebbe lasciato andare.
«Perché hai quella? Perché l’hai portata qui?» ruggì, ma vedendo che Pancake non gli prestava attenzione, prese a schiacciare le malconce merende sotto la suola degli scarponi.
Niklas lo guardava atterrito, incapace di reagire: non aveva mai visto suo cugino comportarsi a quel modo.
«È roba mia!» piagnucolò Pancake cercando di mettere in salvo la poltiglia, spargendo intorno altro pulviscolo color muschio. «Mi fa bene… mi serve… non mi f-fa in… g-grassare» cantilenò continuando ad ammucchiarlo amorevolmente.
Niklas e Clayton si guardarono increduli. Davvero non si era reso conto d’aver messo su almeno una ventina di libbre buone solo negli ultimi due o tre mesi? Era così sconvolto da quella robaccia da non capire cosa gli stava succedendo?
«Da quanto la prendi?» ringhiò Clay afferrandolo per il colletto della camicia.
Il meccanico si divincolò agitando le braccia e scalciando, costringendolo ad arretrare.
«Da quanto, Pancake?» insisté il progettista, tremando dal voltastomaco.
Finalmente si decise ad alzare il testone sudato dal pavimento.
«Un po’…» biascicò, dondolandolo da un lato all’altro.
«Da quanto?» ripeté ancora Scorch.
«M-mesi… boh. Tanti… sempre» e prese a sghignazzare. «Non sa di niente. È tutto buono. È buona… come me… io sono buono. Quelli là fuori… l-ladri… figli di puttana… b-bastar-rdi m-alati».
Detto ciò, tornò a racimolare il prezioso tesoro, incurante della sporcizia che vi si mescolava. Ansimava sibilando come un aerostato bucato.
«Cosa facciamo? Non può restare qui in questo stato» osservò sottovoce Niklas.
Vedere Pancake rovinato dal proprio vizio gli provocava un terrore sordo, la consapevolezza d’essere stato in quelle stesse condizioni a causa dell’alcol.
«No. Non può» concordò gelido.
Deglutì a fatica, spingendo nello stomaco un peso colossale. Rigido, si accostò a Pancake, e dopo averlo osservato pieno di disgusto, gli rifilò una pedata tra le scapole che lo mandò prono sul malsano monticello.
«Fuori di qui, tu e quella merda. Sparite» decretò spazzando col piede gli aloni sparsi intorno.
Dopo un primo attimo di confusione, sembrò che Pancake si fosse reso finalmente conto di quel che stava accadendo. Il volto oblungo si contorse minaccioso.
«Tu non sia cosa stai facendo!» ghignò dondolando sulla schiena nel tentativo di raddrizzarsi.
«Lo so benissimo. Vattene, Delmar».
Quello riuscì faticosamente a trascinarsi bocconi sul pavimento, sbuffando, piagnucolando e imprecando.
«Sei un bastardo traditore! Io sono come te, non puoi farlo! Io, non loro! Stronzo!» gridò stridulo cercando di gettarsi su di lui.
Niklas provò a bloccarlo ma finì contro il muro mentre il carrozziere barcollava in avanti, mancando l’obbiettivo e raggiungendo ventre a terra la porta.
«Vattene subito!» tuonò Clay muovendo un passo verso di lui.
Lo scarpone da lavoro impattò con tanta violenza da riecheggiare sulle pareti dello spogliatoio.
«Non farti rivedere mai più» intimò, calciandogli contro una delle scatole.
Pancake si rimise in piedi artigliando gli stipiti, stringendo al petto il contenitore, e fissò il capofficina in cagnesco per lunghi istanti. I mantici delle spalle si alzavano e abbassavano con tale foga da far sussultare ogni balza di carne sotto gli abiti macchiati di saliva e cibarie. Delmar “Pancake” Parker era nulla più che un’ampia chiazza d’olio usato vaporizzata nel varco illuminato dal sole. Infine, sputò a terra e girò sui tacchi.
Clayton, furibondo, prese a pugni gli armadietti. Rimase appoggiato agli sportelli, le nocche piantate nel metallo ammaccato quasi a volerlo perforare, la testa incassata nelle spalle. Quasi non respirava.
Niklas seguì Pancake all’ingresso e rientrò solo quando la sua ombra tremolante scomparve alla vista, inghiottita dalla calura di Amyngton Boulevard. Improvvisamente l’aria negli spogliatoi si era fatta di piombo.
«Sei sicuro che fosse l’unica soluzione? Vuoi che vada a parlargli?» disse piano, poco convinto della sua stessa proposta.
Clay scivolò sulle ginocchia, lasciando cadere le braccia. Rimase così per diverso tempo, muto, i denti serrati con tanta forza da stridere. Aveva tollerato molte cose, tante, troppe forse. Dalle bottiglie di alcolici alle peggiori volgarità alle scazzottate senza senso; dai ritardi cronici alle continue richieste di aumenti o anticipi ai furtarelli di materiale. Aveva chiuso un occhio persino sulla “signorina” che aveva sorpreso nel magazzino ricambi con Ozone, ma la droga era qualcosa che non poteva accettare.
Un improvviso velo d’angoscia calò su di lui mentre il gomito mandava fitte dolorose a tutto il braccio.
«Va’ a dire a Charlotte di preparare i documenti per il licenziamento in tronco» esalò infine.
A Scorch occorse qualche istante per rendersi conto di non aver immaginato la richiesta.
«Clay, pensaci bene. Siamo oberati di lavoro, non possiamo permetterci di perdere uno dei ragazzi, anche se ha fatto girare i coglioni a chiunque» obbiettò esterrefatto.
Conosceva bene la scarsa inclinazione al perdono di suo cugino – lui era uno dei pochi privilegiati a goderne - , ma mai e poi mai si sarebbe aspettato una manovra tanto drastica: quando aveva licenziato PigTail l’aveva scaraventato oltre i cancelli, non prima di avergli urlato nelle orecchie ogni possibile insulto e rampogna almeno una dozzina di volte. Con Pancake si era mostrato molto più cattivo, severo, indisponente, spietato. Irragionevole.
«Mai stato così sicuro di quel che ho fatto come lo sono ora» grugnì passando le mani sulla faccia prima e sulla testa rasata poi. «La squadra deve funzionare, non incepparsi di continuo per un ingranaggio difettoso. Anche se non sappiamo più come fare per star dietro a tutte le consegne. Ci inventeremo qualcosa, parleremo ad Avelan. Ne usciremo, siamo in gamba. I migliori. Quello che mi pesa è doverlo dire ad Iron quando tornerà dallo sfasciacarrozze, ma non potevo... non potevo. Tu mi capisci, vero?»
L’altro inspirò profondamente e annuì greve, mentendo. A lui non era mai toccato licenziare nessuno, dato che quando aveva avuto il comando erano stati i dipendenti ad andarsene per disperazione. Poteva solo immaginare quanto fosse difficile allontanare uno come Pancake, che faceva parte della vecchia guardia, anche di fronte ad una scoperta come quella.
«Le dirò di prepararli subito».

***

Gli occhioni azzurri di Lilijana lo fissavano da un tempo indefinito. L’aveva affiancato di soppiatto e si era chinata in avanti, mettendo volutamente in vista la profonda scollatura dell’abito, nella speranza di strappare almeno un commento
«Adam?» chiamò sottovoce.
Lui tacque, sprofondato nella poltrona, le mani giunte all’altezza del volto e l’attenzione calamitata dagli articoli sparsi sulla scrivania.
Cosa vi siete messi in testa? Che volete fare? Che senso ha tutto questo? si domandava scorrendo avanti e indietro le righe vergate dai cronisti, tutti concordi sulla grandiosità della sfida.
Qualcosa gli sfuggiva. Il coinvolgimento di entrambi, che ora arrivavano a spalleggiarsi dopo anni trascorsi in una guerra silenziosa, era a dir poco allarmante.
«Lascialo in pace» l’ammonì Vivian, torva. «Sta pensando».
Lilijana sbuffò con forza, scompigliando la ciocca di capelli che ricadeva sull’orecchio di Adam. L’uomo rimase immobile, insensibile al gesto che di solito l’avrebbe condotto ad una risata divertita e alla supplica di rifarlo.
«È per quello che sono preoccupata. Quando sta in silenzio così tanto…» mormorò giocherellando nervosamente con la cascata bionda che le ricadeva sulle spalle.
Le donne uscirono dallo studio, sistemandosi nella nicchia di fronte alla porta lasciata socchiusa. Quando Avelan aveva annunciato la gara per celebrare la posa della prima pietra del museo, sul volto di Adam era comparsa un’ombra. Il senso di quel gesto non l’aveva incantato com’era accaduto per la popolazione: aveva scorto qualcosa nell’annuncio e nelle sue immediate conseguenze, che andava molto al di là della scintillante impresa pubblicitaria.
Arrovellarsi su tali questioni era fuori della loro portata ed assolutamente inutile, giacché Adam le avrebbe messe a parte delle sue elucubrazioni al momento opportuno. Così, Vivian decise di portare la conversazione su argomenti utili a passare il tempo, in attesa che la situazione si smuovesse.
Lilijana portava sulla mano sinistra un anello d’argento che ricopriva due falangi quasi per intero e parte del dorso, tanto era lungo. La dimensione non era frutto di un vezzo o della creatività dell’artista, bensì di una motivazione pratica: premendo un bottoncino nascosto, la lamina istoriata ruotava, simulando la parte superiore dell’arma. Tuttavia, erano mesi che la collega cercava di sostituirlo con un arnese degno di quel nome e delle capacità offensive che gli si attribuiva.
«Il tirapugni l’hai preso? Non mi pare di avertelo ancora visto» domandò, guardandola agitarsi sul minuscolo divanetto.
«No. Sembrano tutti usciti da una ferramenta! Sono orribili! Delle porcherie indegne persino dei furfantelli di New Homes!» piagnucolò strattonando nervosamente le vaporose balze di tulle della minigonna.
«Dovresti fartelo fare» suggerì sedendole accanto, ora che le aveva fatto posto.
«I gioiellieri mi guardano male quando lo chiedo» si lamentò candidamente, poggiando i gomiti sulle ginocchia e prendendo il viso tra le mani.
Vivian si sforzò di non sgranare gli occhi oltre il limite d’una discreta sorpresa.
«Tu hai… chiesto a dei gioiellieri… di fartene uno?»
Poteva solo immaginare la faccia dei malcapitati di fronte alle richieste da picchiatore di quella figuretta angelica. Nessuno avrebbe mai pensato che dietro quell’apparenza eterea e capricciosa potesse celarsi la figlia prediletta ed aspirante erede di un assassino di stato della Federazione Prussiana, detentore di un generoso carnet di omicidi illustri.
«Più di una volta! Quando sono educati mi chiedono se non preferirei degli orecchini di brillanti o un braccialetto, quegli sciocchi! Non posso difendere Adam con un filo di perle! E poi, come lo dovrei usare? Se lo uso come laccio si spezza! È fragile! E non chiude bene le vie respiratorie, lascia un minimo di spazio per l’aria! E gli uncini degli orecchini sono piccoli e deboli, van bene solo se li pianti nell’occhio del tuo avversario, non nel suo collo: non fanno abbastanza danni!»
Nonostante molte altre ragazze al servizio di Adam vantassero curriculum analoghi a quello di Lilijana, lei era la sola a sbandierare con tanto orgoglio le sue doti di criminale mancata. Persino Vivian, che aveva trascorso l’adolescenza tra risse e corse clandestine in una personale ribellione ai cliché della società, evitava di mettere in piazza quelle credenziali così poco lusinghiere. E nonostante ciò, era stato proprio grazie a queste che Mac Gregor l’aveva scovata e scelta per essere una delle sue collaboratrici.
«Mie dolcissime colombelle, proprio voi cercavo!» esclamò Adam spalancando in quel momento le porte con un gesto esageratamente teatrale.
Dell’uomo cupo di poco prima non c’era più alcuna traccia: avevano di fronte un giovanotto sorridente, che gonfiava il petto e i cui occhi chiari brillavano di spensieratezza. Per la foga la camicia era sfuggita dalla cinta e oscillava floscia come una bandiera senza vento.
Scattarono in piedi, pronte ad esaudire ogni sua richiesta.
«Mi sento oppresso da queste quattro mura e, soprattutto, particolarmente generoso. Che ne dite se vi accompagno a fare un po’ di spese selvagge nel Core?» domandò stringendo il nodo del foulard, producendosi in una smorfia ammiccante che non lasciava spazio a dinieghi.
Vivian levò gli occhi al cielo, assordata dai gridolini di giubilo della collega che gli era saltata al collo.

***

Choncho scese dall’omnibus a pochi passi da casa. Il sole era basso sull’orizzonte e illuminava la corpulenta figura di sua madre, china nell’orticello. Inspirò a fondo, inghiottendo il rospo, ormai rassegnato a fare l’ambasciatore al posto del capofficina. La superò bofonchiando un saluto e prese posto sui gradini della veranda.
«Che pasa, niño?» domandò lei, intuendo il suo malessere anche senza guardarlo.
A disagio, Wilmar sfilò la bandana, massaggiando tatuaggio della Beata Vergine.
«Mamá…» iniziò, girando la testa quasi parlasse alla recinzione.
Maria raddrizzò lentamente la schiena e le ginocchia doloranti. Raggiunse barcollando il figlio improvvisamente ammutolito e gli sedette accanto. Il coriandolo e il timo spargevano un profumo intenso dalla cesta, mescolandosi all’odore della terra che ancora le impiastricciava i piedi nudi. Sulla strada passavano airship da trasporto lente e scalcagnate, di ritorno dai campi e dai cantieri edili.
«Pancake non lavora più con noi. Clay l’ha cacciato» disse infine.
«Per la lite?»
«No. Dice… dice che si drogava. L’ha beccato negli spogliatoi con della roba strana. Gli ha detto di levarsi dai piedi, che non lo vuole più vedere. Nunca más
1».
Nonostante conoscesse Pancake da più di dieci anni e con lui avesse condiviso moltissimo, ora non poteva fare a meno di domandarsi chi fosse la persona con cui aveva lavorato negli ultimi tempi.
«Mamá, io credo che non tornerà. Non verrà a chiedere scusa, è troppo fuori di testa» proseguì scrollando le spalle tarchiate. «Clay ha detto a me di dirtelo perché ci sta male e non sapeva come fare».
La donna sospirò cupa e prese a sgranare i fagioli. I legumi cadevano con tonfi leggeri nella canestra, grani di un rosario vegetale.
«Sai, quando nella nona puntata della quarta stagione Felix se n’è andato…»
«Mamá, por favor!» piagnucolò, avvilito dall’ennesimo paragone con la soap opera.
«Quando Felix se n’è andato,» riprese imperterrita, «Justina si è disperata. Pensava che il mondo sarebbe finito senza di lui e invece è arrivato Peter».
«Ma se quel coglione non la caga neanche!» sbottò Choncho. «Ieri ha anche negato di essersela scopata! Ma se gliela da ogni cinque puntate! L’ultima volta l’hanno fatto sulla terrazza dove c’era il party e Delora li ha pure visti! Bisogna essere proprio malati per…»
Si bloccò di fronte alla sorpresa di sua madre, colpita dall’improvvisa attenzione per quella serie che si vantava d’aver sempre detestato. In realtà non mentiva: la disprezzava in maniera viscerale, tuttavia aveva scoperto d’apprezzare Fernanda Barbero, l’attrice che impersonava Milù, la cugina imbranata e sognatrice di Justina. Non l’aveva detto a nessuno perché l’idea di doversi rimangiare, anche in minima parte, gli anni di insulti rivolti a “Le Porte di Backfield Road” lo faceva vergognare a morte.
«Comunque, una partenza può essere dolorosa ma non significa che sia un male» concluse Maria passandogli un braccio attorno alle spalle.
Wilmar si lasciò andare contro il suo petto.
«È mio amico, mamá. Mi ha spiegato lui le saldature e io gli ho fatto vedere come si pulivano i martinetti. Ci prestavamo gli attrezzi. Bevevamo insieme all’“Archituono”!»
Nonostante avesse trentaquattro anni, in quel momento si sentiva un bambino, totalmente incapace di comprendere il mondo che aveva intorno. Odiava sentirsi stupido ma ancor più odiava non aver notato che qualcosa non andava nel Bidone. Da buon cristiano riteneva suo dovere aiutare il prossimo e non essere riuscito a tenervi fede lo addolorava.
«Anche Justina pensava che Felix fosse su gran amor, ma non era così. Puede suceder, es la vida y la vida sigue
2» ribatté dolcemente.
Choncho si alzò, sprofondando le mani nelle tasche. Il sole era calato dietro le palazzine dove abitava Clay. Strisciò un piede sulle mattonelle sconnesse del vialetto, schiacciando un fagiolo ruzzolato fuori della cesta.
«No es la misma cosa
3. Lì basta chiudere il contratto all’attore e finisce tutto. Esce uno, entra un altro, non cambia niente, sono solo facce. Del non è sparito, è qui in città. E non si può sostituire» sbuffò abbattuto.


1 Nunca más: in spagnolo "Mai più".
2 Puede suceder, es la vida y la vida sigue: in spagnolo "Può succedere, è la vita e la vita va avanti"
3 No es la misma cosa: in spagnolo "Non è la stessa cosa"


Writer's Corner
Ben arrivata a Mizzy!
Grazie a Shade Owl, pheiyu, Wild_Demigods, Akainu magma, blood_mary95, maddampini, Ernesto507, LibertyStyle, Heven Elphas, tortuga1, vita17, TheWhiteDoll, AleGritti92, VersoLUniverso, John Spangler, Aurelianus, windshadeMorphineJ, Niki12, Nana Punk.
   
 
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