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Autore: RobynODriscoll    24/02/2014    8 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fu la notte tra il 18 e il 19 Febbraio 1512. Lo ricordo come fosse ieri...la pioggia batteva sulle nostre teste mista a neve, scivolava sugli elmi dei soldati, incollava al volto i cappucci di noi pochi Assassini tra le loro fila. Gaston aveva ordinato ai suoi uomini di togliersi gli stivali, i piedi nudi avrebbero avuto una maggior trazione sul terreno. Fummo noi, però, ad arrampicarci sulle mura gelate del Castello, e ad aprire dall'interno la porta del soccorso per loro.

I bresciani avevano avuto la pessima idea di ribellarsi al controllo francese. Il loro condottiero, Luigi Avogadro, si era schierato con Venezia; così facendo, aveva implicitamente dichiarato di appoggiare il Papa. Gaston, che aveva presidiato Bologna fino a quel momento, vi lasciò trecento lancieri, quattromila fanti e venti tra i migliori Assassini (tra cui Ugo e mio padre) a scaldare il suo posto di comando, e si precipitò a recuperare il suo avamposto. Il mio gruppo – guidato da mia madre, e composto da Martino, me e un buon manipolo di adepti della sede romana – aprì loro la strada all'interno della città.

Ciò che non avevamo preventivato, fu la strage che ne conseguì.

I fanti di Guascogna e i lanzichenecchi (pessima, pessima razza: i mercenari più spietati che io abbia mai incontrato) saccheggiarono la città per i successivi cinque giorni, massacrando migliaia di civili. Provammo a fermare lo scempio, i miei compagni ed io, ma era come tentare di arginare le acque di un fiume in piena con le mani.

«Lasciate che sfoghino i loro istinti» disse Vanni, osservando la carneficina dagli spalti che avevamo appena conquistato. «Sono uomini d'arme, sopportano la vita del soldato solo per questo. Fa parte della loro ricompensa.»

«E qual è la ricompensa dei morti ammazzati?» ringhiai, il volto deformato da una maschera di orrore.

Avvertii la mano di mia madre sul braccio, e cercai di placarmi. Tuttavia, la serenità di mio fratello mi sconcertò, mentre diceva:

«Dovresti saperlo, Bianca. Giochiamo una partita a scacchi. Bisogna sacrificare dei pezzi per vincere.»

Faticavo a tollerare la sua retorica templare; faceva così poco parte di ciò che ero, di ciò in cui credevo. Se non ci fosse stata Rosa presente, forse avrei ribattuto ancora; invece, decisi di lasciar perdere. Mi domandai se un giorno il potere mi avrebbe cambiata, se sarei diventata anche io cinica fino a quel punto. Decisi allora, con le orecchie piene di grida di innocenti e gli occhi colmi di morte, che se e quando fosse accaduto avrei appeso la lama celata al chiodo.

Salvammo chi potemmo, facendoli fuggire nelle campagne. Sistemammo personalmente qualche soldato troppo pronto ad alzare le gonne di povere innocenti non consenzienti, e riuscimmo perfino a farlo passare per un incidente. Oltre a quegli atti di giustizia sommaria, non potevamo nulla. Avevamo le mani legate. Andare contro Gaston apertamente significava perdere l'appoggio dei templari ribelli...mi chiesi in quanto tempo, invece, avremmo perso la nostra anima.

Ebbi la risposta che cercavo quando, il quarto giorno di saccheggio, Ermes Bentivoglio mi prese da parte nei corridoi del Castello. Aveva l'aria di un cospiratore, si guardò intorno prima di parlarmi.

«Abbiamo la moglie di Ventura Fenarolo.»

«Chi?» replicai, infastidita.

«Non hai sentito? E' quello che si è nascosto nella cripta della Chiesa del Carmine. Ci crederesti che a tradirlo è stato il suo cane? L'ha seguito, e si è messo ad abbaiare come un ossesso! Bestia stupida e primitiva, ha segnato la fine del suo padrone.» Un sorriso da gatto si disegnò sul volto di Ermes. Io repressi a stento un brivido.

«Perché dovrebbe interessarmi vedere la moglie di quest'uomo?»

«Il suo nome è Eleonora. Da nubile, si chiamava Ordelaffi.»

I nervi si tesero d'istinto. Il dolore è un arco troppo facile da incordare.

«Gaston l'ha malmenata per bene, ti avverto. Non è uno spettacolo piacevole.»

«Perché? Pensavo che fosse una dei vostri.»

«Un tempo, sì...prima di venderci ai Veneziani, e con loro al Papa. Gaston non perdona i traditori.»

«E vuoi che sia io a perdonarli?»

«Al contrario. Voglio regalarti mezz'ora con lei, in segno della nostra rinnovata alleanza. Cosa farai con questa mezz'ora, dipende da te.»

Inspirai, profondamente, per non ringhiargli contro che avrei gradito avere una mezz'ora del genere anche con lui. Ma mi trattenni, ripetendomi che avevamo bisogno di quell'alleanza. Con in volto un cipiglio scuro, entrai nella cella dove Eleonora Ordelaffi Fenarolo1 era rinchiusa, chiudendomi la porta alle spalle.

C'era solo un pertugio stretto, da cui penetrava una luce fioca. Faceva un freddo dannato.

Lei era in un angolo, le ginocchia abbandonate in una posa che voleva disperatamente conservare un po' di dignità, nonostante le torture. Gli abiti un tempo signorili erano strappati, slabbrati, sudici di sangue, sudore e Dio sa quali altri umori. Eppure, le spalle che poggiavano contro il muro della cella parevano ancora forti, ancora fiere.

Eleonora era bella come una statua. Non importava quanto avessero piagato il suo corpo e spezzato il suo spirito; quella pallida perfezione ancora si irradiava dal suo volto ovale, sotto la patina di devastazione.

Vide la mia cappa bianca, il cappuccio. Le labbra si tirarono in un ghigno amaro.

«Sei qui per finirmi, Assassina?»

«Sono qui per parlarti. Nient'altro.»

Mi chinai sulle ginocchia, e staccai dalla cintura una fiaschetta con dell'acqua. Gliela avvicinai alla bocca. Lei prese un sorso avido, senza fermarsi a chiedersi se fosse veleno. Forse, avrebbe voluto che lo fosse. Avrebbe abbreviato la sua agonia.

Quando si fu dissetata poggiò la testa all'indietro, contro il muro. Sembrò gustare il sapore dell'acqua, per qualche istante.

«Di cosa vuoi parlare? La mia città è in rovina, le mie ricchezze spogliate e i miei progetti distrutti. Non c'è nulla che non abbia detto a Gaston. Non ho informazioni da darti.»

«Ce n'è una sola che mi preme.» La guardai. Non riuscivo a provare la rabbia che avrei voluto, di fronte a quel corpo già troppo scempiato. «Nove anni fa, tu hai ordito un complotto che ha portato alla morte di tuo padre e di tuo fratello maggiore. Voglio sapere perché l'hai fatto.»

I suoi zigomi si contrassero; le palpebre chiuse tremarono.

«Cosa ti importa?»

«Importa, perché Nicola Ordelaffi è sopravvissuto a quell'agguato. Ed è diventato uno dei nostri.»

Lei voltò il viso, di scatto. «E' qui?»

«No.» Perché mi guardava con tanta incredula gioia, ora? Credevo odiasse Nicola. Perché volerlo morto, altrimenti...? «Rispondimi, ti prego.»

«Devi fargli sapere dove sono. Devi dirgli che venga...oh, Dio. Nicola è vivo? Allora ho ancora una speranza...»

«Ascolta...»

«No, non che mi salvi, non pretenderei questo...dopo quello che gli ho fatto...ti supplico, io voglio solo chiedergli perdono, prima che Gaston mi...»

Un accesso di tosse le scosse il petto. Aspettai che finisse, poi le presi la mano piagata.

Cosa avevo fatto? Le avevo resuscitato un fratello, e ora dovevo ucciderglielo di nuovo dopo due parole.

«Eleonora, ascoltami. Purtroppo...non potrà venire. Nicola ci ha lasciati poco più di un anno fa. Durante una missione.» Deglutii. «Con onore, sacrificandosi per i suoi ideali.»

Lei serrò le labbra. La luce nei suoi occhi scemò piano. Li vidi farsi di nuovo di vetro.

«E' morto, dunque?»

«Sì.»

Il mento di Eleonora si inclinò sul petto. Le lacrime le rigarono il volto. Trascorse un tempo infinito, prima che parlasse ancora; la sua voce sembrò provenire da una grande distanza.

«Io...non sapevo cosa avessero in mente Ermes e mio marito. Credimi, Assassina. E' così. Ero giovane, ero ingenua...ma il Padre della Comprensione conosce il mio cuore, e sa che amavo entrambi i miei fratelli, con tutta l'anima. Sapevo delle discordie tra mio padre e Ventura...Nicola si schierò subito, ed io non potevo fare altro che sostenere mio marito. E' il dovere di una moglie, dopo tutto...e anche Giacomo, il minore dei miei fratelli, mi seguì. Mi avrebbe seguito ovunque, povero caro.» Strinse gli occhi. «Maledetta me, per aver creduto a quel cane che ho avuto la disgrazia di sposare. Quando Ventura mi ha detto che si sarebbe preso cura della faccenda...te lo giuro, io non sapevo...e quando ho saputo ho cercato di strappargli la faccia con queste unghie. Ma era troppo tardi. Troppo tardi.»

Continuava a piangere, silenziosamente. Senza singhiozzi. Un sussulto avrebbe potuto spezzarla.

«Lui era diventato...un Assassino, quindi?»

«E' scampato per miracolo all'agguato di Ermes e tuo marito. Ha rinnegato i templari, è venuto a cercare il nostro Mentore e gli ha chiesto protezione e aiuto.»

«Chiedere aiuto ai nemici, quando gli amici tradiscono...è così da lui, rischiare il tutto per tutto.» Un'ombra di sorriso, prima che mi guardasse di nuovo. «Dimmi...almeno un po', in questi nove anni...è stato felice?»

La mia voce non mi sembrava la mia, tanto suonava lontana e flebile nella cassa toracica. «Sì. Aveva una donna, e un figlio adottivo. Ha lasciato in loro un grande vuoto. L'ha lasciato in tutti noi.» Inspirai forte. «Tu non hai voluto sapere, né vedere l'ovvio. Sei stata cieca, Eleonora Ordelaffi...ma ringrazio di questo, perché il tuo tradimento ha portato Nicola sulla mia strada. La mia vita non sarebbe stata la stessa se non l'avessi conosciuto.»

Tentai di cacciare indietro il pensiero che forse, in quel momento, qualcuno pensava lo stesso di Vanni, e degli errori miei e dei miei genitori che l'avevano spinto ad allontanarsi da Monteriggioni e dalla Fratellanza. Capii di colpo cosa Ermes voleva farmi comprendere, e quella consapevolezza fu accompagnata insieme da irritazione e amarezza. Il mio fratello traditore l'aveva detto così chiaramente, l'ultima volta che ci eravamo parlati...Vanni stava percorrendo la strada giusta per lui, era circondato dalle persone che amava e che lo apprezzavano per ciò che era. Noi, i suoi nemici, avevamo ucciso alcuni dei loro. Loro, i miei nemici, avevano ucciso alcuni dei nostri. Entrambi gli schieramenti avevano commesso atrocità nei confronti degli altri, a loro modo. Non c'era un punto che avrebbe potuto cambiare quel percorso e, anche se ci fosse stato, nessuno di noi due sarebbe davvero voluto tornare sulle proprie scelte. Adesso lo sapevo.

Eleonora non si preoccupò di asciugarsi le lacrime. Mi guardò, con occhi di vetro. «Gli volevi bene, dunque.»

«Era uno dei miei migliori amici.»

«Cosa faresti per proteggere il suo sangue?»

Mi tirai un po' indietro, come se quella domanda fosse un'aggressione fisica.

«Mi dispiace. Non intercederò per te.»

«Non è per me. E' per i miei figli.» Ora il pianto si era cristallizzato sul suo bellissimo volto. «Gaston vuole estinguere la mia stirpe traditrice, e non esiterà a fare loro del male. Li ho fatti nascondere nei sotterranei del mio palazzo, quando l'attacco è iniziato. A lui ho detto che sono morti nel saccheggio, con Giacomo e il resto della famiglia...ma non mi crede. Li sta cercando. Li stanerà, e me li ucciderà davanti.» Inghiottì un singulto. «Non ho più nessuno al mondo a cui affidarli...salvali. Per mio fratello...se davvero gli volevi bene. Fallo per lui.»

Serrai forte i pugni. Bambini innocenti. Nipoti di Nicola...non potevo lasciarli alle grinfie di Gaston. Potevo fidarmi di quella donna? Era moribonda, certo, e distrutta. Era una madre che implorava pietà. Ma aiutarla era un grosso rischio. Non potevo permettermi di inimicarmi i miei riluttanti alleati fin dal principio.

Vedendo la mia esitazione, Eleonora incalzò:

«Il maggiore ha dodici anni. E' nato quando questa follia non aveva ancora distrutto la mia famiglia...l'ho battezzato Nicola, come suo zio, ma in famiglia lo chiamiamo Nicolò.» I suoi occhi si misero nei miei. Dio, erano grigi, metallici...come quelli dell'uomo il cui ricordo mi stava gettando addosso, per convincermi a salvare i bambini. «Guido invece ha otto anni. Resterai sorpresa per quanto gli somiglia...dicono che è la mia copia. Ed io somiglio a lui...ti prego, portali via dalle grinfie di Gaston. Portali al sicuro. Sei la loro unica speranza...la mia unica speranza...»

Le presi la mano. Non so perché. Fatico ad affrontare la disperazione di chi sta per morire...tuttavia, stringendo le dita di Eleonora, era come se potessi stringere quelle di suo fratello, che non avevo potuto confortare nel momento più buio prima della fine.

«D'accordo. Hai la mia parola, mi occuperò dei tuoi figli.»

La mia parola, ultimamente, era un pegno che mi trovavo sempre più spesso a dare. Dovevo imparare a vivere per rispettarla, e renderla una merce di scambio onorevole. Avrei iniziato da quel gesto.

 

Andammo, Martino ed io, a cercare i bambini nei sotterranei del palazzo dei Fenarolo. O, almeno, di ciò che restava in piedi. Mentre scendevamo nello scantinato con le torce sfrigolanti tra le mani, un serpente mi mordeva lo stomaco al pensiero che erano laggiù da giorni ormai, con pochi viveri e la sola compagnia dei topi. E faceva così freddo...li avremmo trovati vivi?

Martino mi rivolse un'occhiata, fece un cenno con il capo. Alla fine del corridoio, un' ombra si era spostata.

«Potete uscire» dissi. «Non siamo qui per farvi del male.»

Silenzio tremante. Un singhiozzo, poi un rabbioso shhhh. Ancora silenzio.

«Nicolò, Guido» chiamò Martino, abbassando la fiaccola. «C'ha mannato vostra madre. Potete fidavve.»

«Non vi avvicinate!»

La voce tremava, ma tentava di essere spavalda. Oscillava tra le note acute dell'infanzia e i colori più scuri della prima adolescenza. Proveniva da una nicchia nel muro, dove un tempo doveva risiedere una statua o una giara.

Martino ed io ci scambiammo uno sguardo. Lui poggiò la fiaccola in un sostegno nel muro, e si fece avanti, le mani aperte e bene in mostra. «Guardame, regazzì. Nun so' armato.

«State lontani, altrimenti...»

«Non ci muoveremo, Nicolò. Ma tu vieni fuori. Guardaci, e poi decidi se stiamo dicendo la verità.»

Un respiro singhiozzante, e poi un no strozzato. Sentii il grattare delle suole sul pavimento.

Il ragazzino che apparve nella luce della torcia aveva i lineamenti tirati, i capelli castani gli spiovevano sul viso umidi e spettinati. Era sporco, di certo disidratrato, ma conservava una luce inconfondibile negli occhi grigi. Incrollabile orgoglio. Riconoscevo quello sguardo.

Stringeva un pugnale con entrambe le mani, e lo puntava dritto di fronte a sé. Dietro di lui, dopo qualche istante, si nascose un'altra figuretta, più piccola, più magra. Intravidi una zazzera bionda alla luce delle torce.

«Come possiamo fidarci di voi?» domandò Nicolò, con un tono già troppo adulto. Per un attimo ricordai me stessa, un animale in gabbia alla corte dei Borgia, disperatamente protesa nel cercare di proteggere il mio fratellino in un covo di scorpioni.

Martino rimase immobile, ma io mi slacciai gli antibracci e li feci cadere a terra. Con gesti misurati, deposi ogni arma: la fusciacca con i pugnali da lancio, le sacche delle bombe fumogene, la spada. Mi sentivo più leggera, e più vulnerabile. Quasi come doveva sentirsi quel ragazzino ora.

Il mio compagno mi rivolse uno sguardo, poi sospirò, prima di fare lo stesso. «Si c'attacano qua sotto semo nei guai» bofonchiò, ma sapevo che aveva capito perché stessi facendo quel gesto.

«Noi abbiamo deposto le armi. E' il tuo turno, Nicolò.»

Il ragazzino bruno serrò i denti. Le mani gli tremavano intorno all'elsa del pugnale. Voleva crederci. Non poteva.

«Perché non è venuta nostra madre, a prenderci?»

La voce di Guido emerse, limpida, dalle spalle del fratello. Mi sarei aspettata più paura da parte sua; c'era quasi una sfida, invece, in quelle parole.

Mi umettai le labbra. «Non poteva.»

«Non lo capisci, cretino? La mamma è morta» sibilò Nicolò «E questi due sciacalli vogliono farci la pelle!»

«Sì» dissi «vostra madre è morta.»

«Bianca...» intervenne Martino, di fronte all'improvviso impallidire dei bambini. Il sospetto e la paura che quella terribile eventualità fosse reale non erano bastate ad attutire il colpo. Lo sconcerto e il rifiuto fiorirono sul volto di Guido, le lacrime bruciarono su quello di Nicolò. Ma nessuno dei due distolse gli occhi da noi.

Piccoli guerrieri coraggiosi, fin da allora.

«Non voglio mentirvi. Siete grandi per capire. C'è stata una battaglia terribile, là sopra, da cui vostra madre è riuscita a proteggervi nascondendovi qui. Ora: avete intenzione di rendere vano il suo sacrificio scappando e finendo nelle mani di persone che vi faranno del male, oppure verrete con noi, come lei voleva?»

Avvertivo un velato rimprovero nello sguardo di Martino; eppure, sapevo che non c'era tempo per la dolcezza, ora. Quei bambini erano stati per giorni nascosti come animali braccati, e come tali si comportavano. Una carezza sarebbe sembrata un'aggressione ai loro occhi, una pietosa bugia sarebbe stata vissuta come un inganno letale. Lo sapevo. Ero stata al loro posto. La cosa migliore che potevo fare era presentare loro la nuda verità, per quanto crudele fosse.

Spesso pensiamo che i bambini siano creature diverse da noi, meritevoli di cure e protezione, ma non di rispetto. E' un tremendo errore. Si tratta di piccoli adulti, da aiutare a crescere e da guidare attraverso le asprezze della vita, finché non saranno in grado di farcela da soli. Schermandoli dal dolore facciamo loro soltanto più male.

«Nun dovete avecce paura, piccolè. Ce prenneremo cura de voi» aggiunse Martino, spezzando il lungo silenzio. Notai che il pugnale nelle mani di Nicolò si era abbassato.

«Chi siete?»

«Mi chiamo Bianca, e lui è Martino. Siamo amici di vostro...della vostra famiglia» risposi «Per prima cosa vi porteremo via da qui, da qualcuno che si occuperà di voi finché la guerra non sarà finita.»

«Quando finirà?» sussurò Guido.

«Non lo so. Ma faremo in modo che voi ne rimaniate lontani. E' una promessa.»

Fu allora che Guido uscì dal rifugio sicuro delle spalle di suo fratello maggiore. Nicolò gli afferrò il braccio, ma lui lo scostò con sdegno. Camminò verso di noi; guardò Martino con lieve diffidenza, poi rivolse gli occhi grigi su di me.

Dio, il dolore, il rimpianto di rivedere Nicola in quegli occhi. La dolcezza di sapere che il suo sangue era ancora vivo, in quei ragazzini.

Lentamente, Guido alzò il mignolo nella mia direzione. «Le promesse vere si fanno così. Altrimenti le puoi spezzare.»

La sua voce seria mi strappò un sorriso. «Hai ragione.» Mi sedetti sui talloni, per avere gli occhi alla sua stessa altezza. Intrecciai il mio mignolo al suo. «Guido Fenarolo, io ti prometto che vi affiderò a una persona che vi amerà, vi proteggerà e vi insegnerà tutto quello che dovete sapere. Se vengo meno a questa promessa...»

«Mangerò vermi tutti i giorni a colazione» suggerì il bambino. Trattenni a stento una risata, e così fece Martino.

«Sì, mangerò vermi tutti i giorni a colazione. E a pranzo, e a cena.» Con la mano libera, rimisi a posto una bionda ciocca scompigliata. Lui accettò il contatto, senza fiatare. Immobile, come per saggiare se il mio tocco gli avebbe fatto del male. Decise, alla fine, che non ero pericolosa.

Martino tese il palmo aperto verso Nicolò, con un sorriso rassicurante.

«A regazzì, mo m'o dai quer pugnale? Hai sentito 'a signora, magnasse tutti quelli vermi me pare 'na minaccia sufficiente, no?»

Nicolò apparve ancora titubante, ma poi vide Guido stringersi al mio fianco, in cerca di un calore che per troppi giorni non aveva più sperato di ricevere. Suo fratello si fidava di noi, e al maggiore dei piccoli Fenarolo non restava molta scelta. Lasciò il pugnale nella mano di Martino, dalla parte del manico.

«Bravo 'r mio guerriero» sorrise il mio compagno; quindi, si slacciò la cappa, e la avvolse intorno alle spalle magre del ragazzino. «E mo annamo a cercà quarcosa da magnà, e de li vestiti puliti. Che ne dite?»

Non potevamo portare i figli di Ventura Fenarolo al Castello; riuscimmo a farli uscire dalle mura, riparammo in un cascinale di campagna presidiato dagli uomini agli ordini di mia madre e vi restammo giusto il tempo di rifocillarli, e pianificare il viaggio. Giustificare la nostra assenza sarebbe stato semplice: Rosa avrebbe detto a Gaston che Martino ed io li avevamo preceduti sulla strada del ritorno verso Bologna. Se la spiegazione non fosse bastata, avrebbe lasciato intendere che avevamo avuto una discussione riguardo al massacro dei bresciani, e che a seguito di quello scontro avevo deciso di andarmene per non intralciare la missione e l'alleanza. Era qualcosa che avrei verosimilmente fatto, dopo tutto, e Gaston si aspettava sicuramente una certa resistenza da parte mia. Forse, l'intero saccheggio non era stata che una provocazione, per vedere fino a che punto i suoi nuovi alleati assassini avrebbero tollerato i suoi metodi. Quella serpe amava imporre la propria via, e una spina mi tormentava il cuore al pensiero che non ci fossimo opposti con più forza.

Un gioco di scacchi. Così l'aveva chiamato Vanni. Un doloroso compromesso, era stata la definizione di mia madre. Mentre cavalcavo, con Guido in sella davanti a me che poggiava il capo addormentato contro il mio petto, provai il bisogno di stringere più forte le braccia intorno al suo corpo esile. E pregai – sì, ne ho ancora la forza alle volte – che quell'orrendo conflitto finisse con la mia generazione. Volevo mantenere la mia promessa a Guido, e tenere quei bambini lontani dalla guerra. Volevo regalare loro un futuro diverso da quello che attendeva me e i miei compagni.

La nostra destinazione non era affatto Bologna. Portammo i bambini a Firenze, per poi venire reindirizzati dagli assassini locali poco fuori dalla città, in un cascinale che non mi fu troppo difficile rintracciare.

Inutile dire che Diamante non si dimostrò entusiasta di trovarmi lì, nel suo nido segreto.

Indossava camicia e brache quando la raggiungemmo. Si stava allenando nell'aia, insieme ad un ragazzone slanciato che stentai a riconoscere come Oreste. Santo cielo, quanto erano trascorsi in fretta gli anni. Doveva averne diciassette, ora. Era praticamente un uomo.2

Mentre ci avvicinavamo, osservai i suoi movimenti veloci, precisi. Aveva un fisico magro, slanciato; le lunghe braccia compivano movimenti puliti, netti, mentre cercava di penetrare le difese di sua madre con un pugnale stretto in mano. Anche senza osservare il volto di Guido, avvertii subito il mozzarsi del suo respiro, e capii che quel giovane uomo che si addestrava con tanta dedizione aveva subito conquistato un posto nella mente del bambino, come modello da imitare.

Fu Oreste il primo a notarci, da lontano. Si fermò, ansimante, e alla richiesta di spiegazioni della madre ci indicò. Diamante si volse, la treccia nera le schioccò sulla schiena per quel movimento brusco. Le sue braccia si incrociarono al petto, e la sua migliore espressione inquisitoria ci accolse.

«Bianca Auditore...ti credevo a Bologna, a quest'ora. Ezio sa che sei qui?»

Accennai ad un sorriso. «Anche per me è un piacere rivederti, Maestra. E per rispondere alla tua domanda: non ho il permesso di mio padre, ma in compenso ho quello di mia madre. Posso restare qui a giocare con te lo stesso?»

Lei rispose con una mezza risata, ma c'era scetticismo nel suo sguardo mentre squadrava i bambini. Oreste non fiatò.

«Il viaggio deve essere stato lungo, e scommetto che avete un sacco di spiegazioni da darmi. Coraggio, entrate.» Sfiorò appena il braccio del figlio. «Oreste si occuperà dei cavalli.»

L'ospitalità della Volpe fu spartana, ma, dopo tutti quei giorni di viaggio insieme a dei ragazzini denutriti e stanchi, un tagliere di pane e formaggio sembrava un banchetto da re. La Maestra offrì il suo letto ai bambini, e quasi ordinammo loro di andare a dormire; non lo dicemmo a voce alta, ma loro intuirono comunque che si sarebbe discusso del loro futuro. Ci ubbidirono, troppo stanchi e gravati per protestare. Martino disse che li avrebbe seguiti, per raccontare loro qualche storia divertente che li aiutasse a dormire. Io capii che voleva lasciarci contrattare in pace, e lo ringraziai con lo sguardo.

Una volta che la porta fu chiusa alle spalle del mio compagno e dei bambini, Diamante poggiò i gomiti sul tavolo, e mi guardò con diffidenza da sopra le mani intrecciate. Il movimento aveva messo in vista la catenina che portava al collo, da cui pendeva l'anello di Nicola.

«Ora, siccome dubito che tu e quello scellerato di un romano vi siate messi a raccogliere orfani di guerra a caso lungo il tragitto, dimmi chi sono i ragazzini e perché li hai portati qui.»

Per tutta risposta, mi rilassai di più contro lo schienale della sedia. «C'è una sola risposta per entrambe le domande, e scommetto che hai già capito. Coraggio, Diamante...il più piccolo è praticamente la sua copia.»

Lo sguardo di lei vagò sul tavolo. «E' vero.» Una lunga pausa. «Lui...» scosse il capo. «Non mi aveva mai detto di avere...»

«...dei nipoti. Figli di sua sorella.»

Gli occhi viola si sgranarono, per un momento. Strinse le labbra quasi fino a sbiancarle. «Templari, dunque.»

«Sono ragazzini, hanno perso tutto, e non sanno niente della nostra guerra. Lascia le bandiere a noi adulti, loro sono soltanto innocenti.»

«E per quale motivo pensi che dovrei tenerli qui con me?»

Inarcai le sopracciglia. «Andiamo. Non dirmi che non ti importa.»

«Perché dovrebbe? Non sono sangue del mio sangue. Senza contare che averli qui potrebbe essere un pericolo.»

«Pericolo? La loro famiglia non esiste più, i loro nemici li credono morti. Tu sei la cosa più simile a un parente che abbiano al mondo.»

Distolse lo sguardo. Si alzò, per andare a riempire la caraffa di vino all'otre. Il liquido scuro gorgogliò gaiamente contro le pareti di ceramica. «Questi giochetti non attaccano con me, Bianca. Il ricatto morale potrà funzionare con i tuoi genitori, ma io sono di un'altra pasta.»

«Il tipo di pasta che lascerà i nipoti del suo uomo al loro destino?»

«Nicola non li vedeva da anni.»

«Quale differenza fa? Credi che, se lui fosse qui, li avrebbe scacciati perché non li vedeva da anni? Io penso che se ne sarebbe preso cura, invece. Solo che non può più farlo. Tu puoi.»

Fu allora che Diamante si voltò. Una furia a malapena contenuta le tirava i lineamenti. «Se credi che sia così semplice, perché non lo fai tu? Tu hai accettato di portarli con te, tu hai deciso del loro destino.» Prese il mio bicchiere, nervosa, e lo riempì fino all'orlo, poggiandolo di nuovo di fronte a me con un tonfo sordo. «Assumiti questa responsabilità, crescili come fratelli minori, o come figli, se vuoi. Non scaricarmi addosso i fardelli che tu hai accettato, Bianca Auditore, non sei più una bambina.»

Non persi la calma, e presi un sorso del vino che mi aveva versato. Lo gustai lentamente. «Sappiamo entrambe che non sono la persona più adatta per farlo.»

Diamante era rimasta in piedi, la brocca a mezz'aria. «E cosa renderebbe me la persona più adatta?»

«Hai già cresciuto uno splendido figlio, e Nicola ti amava. Mi sembrano due ottime ragioni.»

La vidi irrigidire i lineamenti, e restare per un attimo immobile, una statua di sale di fronte alla mia espressione granitica. Attesi. E quell'attesa ebbe la sua ricompensa, perché la vidi sedersi, poggiare la brocca, e guardare a terra, rigirando tra l'indice e il pollice l'anello che portava attaccato alla catenina. Non avevo mai visto La Volpe capitolare a quel modo, e, devo ammetterlo, mi dava una sorda soddisfazione essere la causa di quella resa.

La voce le uscì roca. «Il conflitto sta per scoppiare. E' già iniziato. Oreste smania da mesi per prendervi parte...»

«Questo ti darebbe un'ottima scusa per lasciarlo a casa, ed evitargli di conoscere il sapore del sangue ancora per un po'.»

«Te lo ricordi che hai ucciso la tua prima vittima quando eri più giovane di lui, sì?»

Scossi il capo, scacciando il lieve brivido al ricordo di quella guardia sui tetti di Firenze. Per me, quell'uomo senza nome sarebbe sempre stato più importante di mille alfieri templari. «Non durante una guerra di queste dimensioni. E' troppo giovane per tutto questo...ed io penso che anche tu dovresti restare qui.»

Lei rise, sprezzante. «Cos'è, oggi hai deciso di giocare a fare la mammina?»

«Pensaci. Se ti succedesse qualcosa, chi si prenderà cura di Nicolò e Guido? E Oreste, chi lo guiderà? E' troppo giovane per diventare la nuova Volpe. Senza contare che, se perderemo gli avamposti del Nord, avremo bisogno di validi generali che restino a contrastare il Papa.» Sentii le mie labbra tirarsi in un sogghigno amaro. «Su, Maestra, non dirmi che non avevi già pensato a tutto questo. Lo sai che ho ragione. Di nuovo.»

Diamante mi fissò a lungo, prima di versarsi una generosa quantità di vino. Bevve in un solo sorso, e poggiò il bicchiere con poca grazia. «Dannazione a te. Quando sei diventata così simile a tuo padre?»

Il mio sorriso si ammorbidì un poco.

«Resterai, quindi?»

«Ho bisogno di tempo. Per pensare.»

«Ti daremo tutto il tempo di cui hai bisogno. Martino ed io togliamo il disturbo già da ora...se non ti dispiace, vorrei salutare Oreste, prima di partire.»

Quando mi alzai in piedi, mi trovai inaspettatamente il polso chiuso tra le sue dita. Aveva uno sguardo strano. Fragile.

«Ascolta. Sarà un massacro di proporzioni epiche, come non ne abbiamo ancora visti. Tutto ciò che abbiamo vissuto fino ad ora, a confronto, è stata una passeggiata in un campo di fiori. Bianca...» I suoi occhi nei miei. Seri. Preoccupati. «Sei una giovane donna ormai, ma non sei molto più vecchia di mio figlio dopo tutto. Ho visto troppi allievi come te...giovani, pieni di dedizione e di ideali...» inghiottì a vuoto «...morire troppo presto, e nei modi più atroci. Ho perso troppe persone a cui tenevo.» Quando posai l'altra mano sulla sua, Diamante mi parve di nuovo la donna premurosa che mi aveva tenuto stretta a sé, il giorno in cui avevo temuto di aver perso Martino per sempre. «Se io ho dei motivi per restare da parte, tu ne hai ancora di più. E' questo il momento per fare un passo indietro. Dopo sarà troppo tardi.»

Le sorrisi, e sentii sincera dolcezza salirmi al volto e tendermi le guance. «Anch'io ti voglio bene, Maestra. E non preoccuparti per me. Me la caverò. Come sempre.»

 

***

 

Il dispaccio di mio padre ci raggiunse tramite una recluta quando avevamo già varcato il valico tra gli Appennini: dovevamo incontrare zia Claudia a Piacenza, e da lì avremmo preso una barca per viaggiare lungo il Po. La nostra destinazione era Ravenna; avremmo dovuto viaggiare in incognito, come una famiglia di mercanti, perché la nostra missione era pericolosa e fondamentale. Mio padre ci aveva infatti assegnato il compito di recuperare da Giovanni De' Medici, asserragliato nella città insieme ai papalini, importanti informazioni riguardo lo schieramento nemico, che sarebbero state preziose per i nostri alleati francesi. Entrambi Martino ed io fummo perplessi dalla scelta di zia Claudia come terza compagna: tuttavia, ne capivamo le ragioni. La zia era una donna di cinquantun anni, dall'aspetto assolutamente rispettabile. Il fatto che non avesse quasi mai partecipato alle missioni attive la rendeva priva di cicatrici; io, con adeguati abiti femminili e un soggolo, avrei potuto celare in parte l'unico segno che mi restava in viso, la striscia bianca che ancora mi tagliava le labbra. Martino sarebbe passato per la nostra guardia del corpo, un mercenario magari. Di certo, il modo in cui la zia trattava il mio compagno era terribilmente simile al fare sprezzante con cui, alle volte, ancora si rivolgeva alle persone che riteneva di rango inferiore.

Rivisto con gli occhi di oggi, quel viaggio fu un susseguirsi di scambi esilaranti tra Claudia e Martino. All'epoca, ricordo che vivevo con non poco nervosismo i loro alterchi costanti, a malapena camuffati dietro la nostra falsa identità; non si trattava di un innocuo punzecchiarsi tra di noi come al solito, dopo tutto. C'era in gioco molto di più.

La fortuna ci aiutò, quella volta: arrivammo a Ravenna quasi indenni. C'erano stati un paio di episodi, nel nostro viaggio lungo il fiume, che ci avevano costretti a scoprire le nostre vere identità e lasciarci dietro un paio di cadaveri di guardie troppo zelanti. C'erano state le suppliche dei contadini che stavano fuggendo dalle campagne devastate, ci offrivano i loro pochi averi per salire sulla barca con noi e andare...ovunque, in qualsiasi luogo che l'avanzata delle truppe francesi non avesse ancora devastato. Riuscimmo ad aiutare qualcuno. Non tutti, dannazione. Non tutti.

Entrare in città fu più facile del previsto. La zia aveva con sé un lasciapassare procuratole da nientepopodimento che Giovanni De' Medici in persona. Sul documento era attestato che si trattava di un nostro parente – un cugino, a quanto pare – e che le guardie cittadine avevano l'ordine di scortarci, con la massima urgenza e cautela, al convento di San Francesco, presso cui il cardinale si era ritirato in contemplazione e preghiera.

«Davvero, eminenza?» ammiccò zia Claudia non appena lo vide, nel chiostro «Un convento francescano? Non si addice molto al vostro ruolo.»

Guardai l'uomo dalla corporatura massiccia che ci osservava, benevolo, nel suo manto purpureo. Capii subito cosa la zia intendesse: aveva una pesante croce d'oro che pendeva sul petto, e anelli scintillanti alle dita – in netto contrasto con la semplicità delle mura che ci circondavano. Il suo volto era tondo, ben pasciuto, e gli occhi sembravano gentili. Non poteva avere ancora quarant'anni.

Quando la zia gli ebbe sfiorato l'anello cardinalizio con le labbra, l'uomo le baciò le guance con affetto. Mi chiesi se fosse una recita a beneficio delle guardie che ci avevano scortati, o se davvero fossero così in confidenza. Dopo tutto, la personale sicurezza di Giovanni De' Medici era stata assicurata dalle pianificazioni dei miei zii, negli anni che avevano trascorso a Roma.

«Claudia, cugina cara» sorrise lui «Mi sono mancati i tuoi rimproveri.»

Sì, decisamente, il cardinale conosceva la zia e i suoi modi di fare.

Quindi, i suoi occhi scuri si posarono su di me. Aprì le braccia, gioviale.

«E questa è la tua figliola? Giusto Cielo, non la vedo da quando era una bambina! Vieni qui, piccola mia, fatti salutare come si deve.»

Mi inchinai rispettosamente, e, di fronte a un Martino che celava a malapena il divertimento, il cardinale non mi permise di baciare l'anello. Mi avvolse invece in un abbraccio del tutto inaspettato. «Sei davvero diventata una splendida dama!» disse a voce alta. Io rimasi un po' rigida nell'abbraccio, e tentai di sorridere.

«Vi ringrazio, Eminenza...»

«Finalmente ci incontriamo» sussurrò Giovanni nel mio orecchio, ed io avvertii un tono assolutamente diverso da quello bonaccione che aveva usato fino ad ora. Un suono calmo, sicuro, serio.

«Andiamo, mie care. Vi ho fatto assegnare le stanze con la vista più bella. L'accoglienza di questi buoni frati è umile, ma ho fatto portare qui buona parte dei miei arredi, e il mio cuoco personale penserà a sfamarci, non temete. Non saremo alla mercè delle elemosine dei buoni Ravennati, altrimenti dovremmo digiunare stasera!»

Gettai appena un'occhiata al mio compagno, che era rimasto in un angolo, a guardarci in attesa di istruzioni. Giovanni De' Medici si voltò, in quel momento, come se si fosse ricordato di lui solo ora.

«Ah, sì. Certo. Ragazzo, grazie dei tuoi servigi. Questo è per dimostrarti la mia riconoscenza.»

Gli mise in mano un ducato3 d'oro, che Martino accettò con un ottimo falso sorriso compiacente. «Dio vi benedica, Eminenza.»

«Usalo per divertirti...ma non troppo, mi raccomando! I buoni monaci cenano presto: rientra prima del tramonto, se vuoi avere qualcosa di caldo nello stomaco.»

Con il bacio rituale all'anello del cardinale, il mio compagno si congedò. Quando mi passò accanto, gli strinsi brevemente la mano. Sapevo che Giovanni De' Medici gli aveva appena dato un'ottima scusa per andare a carpire qualche informazione aggiuntiva nelle taverne della città. Era armato di tutto punto, non avevo di che temere. Tuttavia, non ero mai del tutto tranquilla quando si allontanava dal mio sguardo.

Lui mi rassicurò con un cenno del capo. Prima di partire avevamo previsto l'eventualità di doverci dividere, e avevamo convenuto di trovarci al Compieta, alla Basilica di San Francesco. Sarebbe andato tutto bene.

 

Giovanni De' Medici non aveva mentito, quando aveva detto di essersi portato dietro gran parte dei suoi arredi preziosi. Avevo sentito della sua fama di amante dell'arte, ma non immaginavo certo di trovare arazzi, dipinti e tendaggi damascati in quella che avrebbe dovuto essere la cella di un uomo di Dio, e parevano invece gli appartamenti di un principe.

«Sul serio, Giovanni. Perché scandalizzare quei poveri francescani con tutto questo?» disse zia Claudia, scrutandosi intorno con aria critica. «Avresti potuto alloggiare insieme al Papa, al Palazzo Apostolico.»

L'uomo eruppe in una risata calda. «La lepre che fa la tana in nido di serpi può dire addio al sonno per sempre, non trovi? No, preferisco osservare Sua Perfidia dalla mia distanza di sicurezza. E poi, certo, qui c'è quella piccola faccenda di Dante che mi piacerebbe tanto risolvere.»

Sobbalzai, nervosa come ogni volta che si parlava del Sommo Poeta. «Quale piccola faccenda?» mi intromisi, senza preoccuparmi se mi fosse consentito partecipare alla conversazione. Gli occhi del cardinale si posarono, sorridenti, su di me.

«Sono un grande ammiratore dell'Alighieri, mia giovane amica. E' un onore per me risiedere accanto alla chiesa che ha dato l'addio alle sue spoglie mortali.»

«Spoglie che vuoi riportare a Firenze, immagino4» precisò zia Claudia, con le labbra arricciate in una specie di sorriso.

Giovanni De' Medici si strinse nelle spalle. «Quando potrò tornare nella nostra amata città, le ossa del Sommo torneranno con me, te lo garantisco.»

«E perché non gli consentite di riposare in pace, invece?»

Non so da dove mi fossero uscite quelle parole. Sapevo poco della storia del poeta che aveva nascosto il Serpente a palazzo Bentivoglio, ma ciò che avevo appreso dalla tomba delle donne della sua vita – Gemma Donati e Beatrice Portinari – mi aveva fatto intendere quanta sofferenza ci fosse dietro quella trama che mi era ancora così oscura.

Per tutta risposta, il cardinale mi sorrise, comprensivo.

«Mia cara amica, non credo che l'Alighieri se ne lamenterà. Non c'è niente dall'altra parte, dimentichi? Il suo spirito è già in pace, le ossa non sono che ossa. Non servono più a lui, ma in compenso sono un simbolo possente per chi ancora vive. Un simbolo di gloria per la nostra città natale...e in ultimo, anche per l'Ordine.»

Non chiedetemi perché, quando lo guardai versare del vino in una coppa pensai a un leone: maestoso, tranquillo perché conosce i confini del proprio regno – ma pronto a diventare molto pericoloso, nel caso qualcuno minacci questi confini. Giovanni De' Medici era un potenziale grande uomo, che le circostanze non avevano ancora spinto a rivelarsi per ciò che era davvero. Mi piacque, istintivamente. Se i nostri piani fossero stati realizzati senza intoppi, non avremmo avuto solo un burattino dell'Ordine sul seggio di Pietro, ma un uomo capace che marciava sotto la nostra bandiera.

«Forse hai ragione però, tutta questa bellezza di cui amo circondarmi mi sta dando alla testa...dopo tutto, lo ciel poss'io serrare e disserrare5...ma solo ufficiosamente, per ora!» rise il cardinale, pacatamente. Ci indicò lo stemma che aveva portato con sé da Bologna, che stava appeso sul suo scrittoio. Due chiavi incrociate, il simbolo del legato papale. Era il titolo che, da pochi mesi, il cardinale aveva ricevuto: la sua sede si trovava a Bologna, prima che i francesi la conquistassero, costringendo i papalini a ripiegare in Romagna.

Il cardinale tese a Claudia la prima coppa di vino. Ne riempì un'altra per me, ed una, piuttosto generosa, per se stesso.

«Ed ora, signore, basta parlare di amenità. Abbiamo poco tempo prima di cena, e troppe cose di cui discutere.»

 

Discutemmo a lungo, ve lo assicuro: di strategie, numero di uomini che sarebbero arrivati a dare manforte a Giulio II, posizione degli eserciti papalini, debolezze e punti di forza, sospetti sui primi esperimenti di Della Rovere nell'uso del Serpente. Discutemmo fino a che non arrivò l'ora per il sontuoso banchetto che Giovanni De' Medici aveva fatto preparare al suo cuoco personale; anche quando fummo di nuovo calati nei nostri ruoli, però, una sottile agitazione non mi lasciò mai le membra. Si stava facendo buio, là fuori.

Fu dopo il Compieta, quando zia Claudia e il cardinale fecero cenno di ritirarsi, che espressi il desiderio di restare raccolta in preghiera nella Basilica di San Francesco un po' più a lungo. Normalmente il Cardinale assisteva alla funzione in una piccola cappella privata nel convento, ma quel giorno aveva fatto un'eccezione per la nostra visita, con la scusa di mostrarci la splendida chiesa guidata dai suoi umili, gentili confratelli.

Mia zia comprese il motivo della mia richiesta senza chiedere. Martino non era ancora tornato. Giovanni De' Medici lodò la mia pietà, e mi diede la sua benedizione. I frati non obiettarono.

Il sacrestano fu l'ultimo a lasciarmi, qualche tempo dopo. Rimase a rispettosa distanza, mi domandò se davvero me la sentissi di rimanere da sola. Doveva chiudere il portone principale, ma mi avrebbe lasciato aperta la porta che dava sul chiostro del convento, quando fossi voluta rientrare. Gli sorrisi con gentilezza, e domandai se mi potesse lasciare un lume. L'uomo acconsentì. I suoi passi si allontanarono lentamente, lasciandomi avvolta dal silenzio.

Dieci minuti. Gli avrei dato soltanto dieci minuti, prima di uscire a cercarlo.

Attendere non è mai stato il mio forte, lo sapete bene. Per questo, presi la candela che il gentile frate mi aveva lasciato, e mi dedicai ad esplorare la chiesa.

Era una costruzione semplice come il culto che ospitava. Un paio di cappelle affrescate, ma decorate con gusto contenuto: niente a che fare con i grandiosi affreschi a cui associavo abitualmente l'idea di edificio religioso. Per certi versi, mi ricordava la nostra piccola chiesa a Monteriggioni.

Mi spinsi a scendere le scale che portavano alla cripta: il cancelletto non era stato chiuso a chiave. Rischiarai la volta, dentro cui riposava l'arca di Dante...e fui sorpresa di trovarla immersa in una buona spanna d'acqua.6

Acqua, in una cripta? Davvero?

Mi azzardai a muovere un passo dentro quello spazio così raccolto. Le mie raffinate calze di seta si inzupparono subito, e così l'orlo della mia gonna. Non mi importava. Volevo conoscere Dante, quell'uomo di cui avevo sentito soltanto parlare. Avevo letto i suoi versi e le sue lettere, avevo saputo delle sue donne: una templare, Beatrice, e un'assassina, Gemma. Avevo tenuto tra le mani la sua eredità così gelosamente custodita, il Serpente. Ora la sua effigie era di fronte a me, incisa nel marmo. Il profilo aquilino, la mano pensosa adagiata sul mento, lo sguardo perso in un libro.7 Così diverso da me. Così profondamente connesso alla mia storia.

Provai il bisogno di poggiare la mano sul sarcofago. Con un mezzo sorriso, mi trovai a ripetere le parole che poco prima Giovanni De' Medici aveva rivolto a me.

«Finalmente ci incontriamo.» Lasciai che le dita corressero sul freddo marmo. «Ho sempre voluto conoscerti...anche se sono quasi certa che in vita fossi di un'antipatia assurda! Ma poco importa. Sono diventata amica di Veronica, dopo tutto.»

Trattenni a stento un sogghigno al pensiero dell'espressione che avrebbe fatto la mia consorella a quel punto. Irritata per la punzecchiata, o lusingata per essere stata paragonata all'Alighieri? Probabilmente avrebbe detto che una capra come me non era degna di frequentare persone di qualità come loro due. E avrebbe avuto ragione. Ma non ditele che gliel'ho detto, vi prego.

«Lo sapevo. Nun posso lasciatte du' minuti che te trovo a civettà co' 'n artro!»

Quasi mi fece cadere la candela dalle mani, dannazione a lui! Mi voltai di scatto, illuminando Martino appoggiato allo stipite dell'ingresso della cripta. Sembrava in perfetta forma. Mi ero preoccupata per niente.

«Sapevo che c'hai 'n debole pelli omini attempati, Biancarè...ma addirittura morti!» mi prese in giro, con un mezzo sorriso.

Replicai inarcando un sopracciglio. «E' colpa tua. Sei in ritardo, e io odio aspettare. Ho dovuto arrangiarmi con quel che offriva il convento...in tutti i sensi.»

Lui scoppiò a ridere, un suono che riverberò tra le pareti. Gli feci segno di tacere mentre mi veniva incontro, e per incoraggiarlo a non fare altro rumore lo baciai con entusiasmo.

«Di' ciao alla signora, nonnè» ridacchiò, rivolto al sarcofago «mo t'a porto via e nun la rivedi più!»

«Idiota» sorrisi. «Ero preoccupata davvero.»

Lui mi accarezzò il viso. «Me dispiace. So qua, adesso.»

Ci prendemmo del tempo per passeggiare nel chiostro del convento, mano nella mano. I buoni frati dormivano sereni, a quell'ora. Non temevamo di essere visti.

«E ora puoi dirmi cosa ti ha trattenuto tanto a lungo?»

«Gnente. Me so' sortanto mosso co' cautela. 'sti ravennati so' diffidenti, nun se sbottonano mica facirmente...nun so' riuscito a sapè morto, li ho solo fatti 'ncazzà.»

«Dimmi che non hai ingaggiato una rissa, ti prego.»

«Pe' chi m'hai preso? Faccio diplomazia de seconno nome!» Martino si strinse nelle spalle, con una luce divertita negli occhi. «Però, ecco...potrei averne stesi un paio che me stavano a seguì 'n un vicolo. Mica potevo condurli ar convento, no? Nun volemo sospetti tra li piedi.»

«Sei certo che non ce ne fossero altri?»

«Certissimo.»

«E cosa ti fa essere così sicuro?»

«Bià, ne so quarcosa de 'nzeguimenti. So salito su li tetti e ho fatto fuori li artri appostati pe' spiamme. Nessuno m'ha visto entrà ner convento, t'o ggiuro.»

Lo abbracciai, forte, trattenendo a malapena un sospiro che voleva buttare via tutta l'ansia covata in quelle ore. «Cosa devo fare con te, Martino 'Diplomazia' Semeraro?»

«Mah, nun saprei. Sposame. Così, pe' dirne una.»

Alzai gli occhi nei suoi, con una vaga aria di scherno che mi stendeva il viso. Non poteva dire sul serio. «E' una proposta?»

«Sì.»

La serietà di quell'unica sillaba mi mozzò il fiato. Era l'ultima cosa che mi aspettavo.

«Vuoi che ci sposiamo qui? Ora?»

Martino si portò la mia mano sul cuore, con aria fintamente pensosa. «No, nun proprio ora ora...dovemo svejà 'n frate, prima.»

Sapeva che quando mi sorrideva a quel modo non potevo dirgli di no; tuttavia, tentai una pallida difesa:

«Non vorresti una cerimonia con tutti i tuoi fratelli? E magari anche tuo padre, e i miei genitori. Dovrebbe esserci Lisabetta che sparge i fiori in chiesa...»

«Je vojo bene, a tutti loro. Ma semo noi due che ce dovemo sposà, no? Co' bona pace de li artri, serviamo solo io e te.»

Era quasi irreale. Io, Bianca Auditore, convinta che il matrimonio non fosse che un contratto, stavo discutendo con il mio uomo se sposarci su due piedi, oppure al nostro ritorno a casa. Eppure, in entrambi i casi, era bello pensare all'idea. Sull'orlo della fine, come ci trovavamo, il pensiero di sposarci aveva il sapore di qualcosa che comincia. «Hai paura per la battaglia? E' per questo?»

Martino abbassò gli occhi sulle nostre mani unite, accarezzando il dorso della mia con il pollice.

«Se c'è 'na cosa che ho imparato, Bià, è che nun vojo avecce de' rimpianti. Che duri 'n ora, 'n giorno o cento anni, er resto de la vita mia lo vojo passà co' te.» Ammiccò. «Ovviamente, punto su li cent'anni, eh. Sempre che me sopporti pe' tutto 'sto tempo!»

Non potei trattenere un sorriso, con il fiato spezzato per l'emozione. Era uno di quei momenti in cui avrei voluto che il mio abbraccio fosse sufficiente a dirgli quello che stavo provando. Non ero mai stata brava con le parole d'amore; per questo, sperai che Martino potesse sentire ciò che volevo dirgli attraverso la mia pelle.

«D'accordo, allora. Facciamolo.»

Uno splendido sorriso illuminò il suo volto. «Ma che, davero? M'hai detto de sì?»

Risi piano, sulle sue labbra. «Sì. Ti ho detto di sì.»

 

***

Ovviamente, zia Claudia sbuffò, protestò, si dichiarò totalmente contraria. Non si poteva mica organizzare un matrimonio in dieci minuti. Non volevo un bell'abito come l'aveva avuto Veronica? Cielo, quelle due cosette semplici che aveva portato con sé non erano proprio l'ideale.

«Non importa, indosserò la divisa da assassino.»

«Tu...cosa?»

«E' l'abito più importante tra quelli che ho con me, non ne vorrei un altro.» Le strinsi la mano. «Zia, vi prego. E' già tutto deciso. Martino sta parlando con il cardinale proprio ora...»

«Avete scomodato addirittura il cardinale! In piena notte! Razza di teste calde...perché non potete aspettare che torniamo tutti quanti a Monteriggioni? Quest'estate, magari, nella chiesa dove si sono sposati i tuoi genitori...d'accordo, il nostro prete non è sempre esattamente lucido, ma è un brav'uomo e sarà felice di...»

«Zia...non sappiamo se torneremo tutti quanti a Monteriggioni, quest'estate.»

Lei mi guardò, gli occhi dilatati, progressivamente più lucidi. Sapevo che aveva capito.

Sospirò profondamente, e in quel sospiro mi sembrò che inghiottisse un fiotto di pianto. «Dammi almeno il tempo di acconciarti quei capelli. Dei nastri, qualche fiore. Questo almeno posso farlo, sì?»

Le sorrisi, commossa. «Certo. Mi piacerebbe molto.»

Seguì una buona mezz'ora di estremo fermento per zia Claudia, che dentro di sé ancora stava lottando per accettare la decisione che Martino ed io avevamo preso. La sua battaglia mentale si riflettè nei movimenti secchi delle dita mentre mi acconciavano i capelli, li raccoglievano, domavano ogni ciocca per renderla un nodo grazioso e perfetto, quasi una continuazione dei nastri che aveva scucito dai nostri abiti di rappresentanza e delle semplici margherite che aveva rubato dal chiostro. Staccò ad una ad una le perle che ornavano la sua retina per capelli, le infilò nelle forcine come tocco finale. Mi passò della tintura rosata sulle labbra e sulle guance, e usò della polvere di antimonio per evidenziare le mie ciglia e le sopracciglia. Infine, fece un passo indietro, per ammirare con aria critica il proprio lavoro. Inclinò un poco il capo. Sembrava soddisfatta, ma suonò immensamente triste quando mormorò:

«Santo cielo, Bianca...chi lo dirà a tuo padre?»

«Chi mi dirà cosa

La voce ci sorprese alla finestra, e se non fossimo state preparate a quelle sue entrate in scena così inusuali e drammatiche avremmo urlato entrambe.

Non avrei dovuto essere così sorpresa, dopo tutto. Ezio Auditore da Firenze aveva il dono di apparire sempre quando avevo più bisogno di lui.

Ci disse brevemente che arrivava da Bologna, per annunciarci che le truppe di Gaston avevano quasi raggiunto Ravenna, e gli eserciti spagnoli erano stati avvistati poco lontano. Dovevamo andarcene dalla città al più tardi all'alba, per raggiungere i nostri alleati: la battaglia avrebbe avuto inizio prima del previsto.

E poi, quando ebbe finito quel resoconto, mi rivolse una lunga occhiata, da capo a piedi.

«Ma prima spiegami perché ti stavi preparando per un ricevimento a quest'ora di notte, e con addosso la divisa di assassino.»

La zia alzò le mani, scosse la testa e si diresse in un angolo della stanza. Perfetto. Avrei dovuto spiegargli tutto, senza il suo sostegno. Non importava. Potevo farcela.

Cercai di suonare calma e sicura. Ne ero perfettamente in grado, soprattutto quando sapevo di essere nel giusto. Dopo tutto, non avevo praticamente convinto l'inossidabile Diamante ad accogliere i nipoti di Nicola e a restare fuori dalla guerra? Quanto poteva essere più difficile persuadere mio padre che sposarmi in segreto, di lì a dieci minuti, era la migliore delle scelte che avessi mai fatto?

Ezio ascoltò, in silenzio, con grande serietà. Annuì ad ogni passaggio saliente della mia argomentazione, e quando infine tacqui disse:

«Perfetto. A parte il fatto che non do il mio consenso.»

«Padre!»

«Il ragazzo non mi ha chiesto il permesso, mi pare.»

«Avrete pur immaginato che l'idea ci sarebbe passata per la testa, prima o poi. Andiamo, so che avete stima di lui, e gli volete bene. Di quale altro permesso avremmo bisogno?»

Ezio non aveva l'aria di avermi ascoltato. Mi guardò, grave. «Lascia che faccia due chiacchiere con questo aspirante sposo segreto.»

«Padre, ascoltate!»

La mano ferma di zia Claudia mi strinse il braccio. Lo sguardo nei suoi occhi scuri mi chiedeva di lasciarlo fare.

«Dove posso trovare Martino, Bianca?»

Mi umettai le labbra.

«Nelle stanze del Cardinale De' Medici. Gli sta chiedendo di celebrare la cerimonia.»

Non avevo nemmeno finito la frase, che Ezio era già uscito dalla stanza.

Zia Claudia mi tenne il braccio intorno alle spalle. «Meglio che lo abbia saputo ora. Se gli aveste confessato tutto a fatto compiuto si sarebbe inferocito.»

«Credete che gli farà del male?»

«Ah, non essere sciocca.» Ma non suonava convinta.

Fu un'attesa che mi parve infinita, durante la quale camminai per ogni centimetro agibile del pavimento della stanza. Zia Claudia cercava di consolarmi, ricordandomi quanto fossero belli i campi intorno a Monteriggioni d'estate, e descrivendo lo splendido banchetto che avrebbero organizzato per noi quando fossimo tornati, tutti, e quanto ci saremmo divertiti durante i festeggiamenti, sarebbero durati almeno tre giorni, forse anche qualcuno di più visto che era un evento eccezionale, la figlia del signore del borgo che si sposa...

Poi, la porta si aprì.

Ezio entrò con un'espressione indecifrabile. Mi diressi verso di lui a grandi falcate, fermandomi a un passo dal suo volto.

«Allora?»

«Allora cosa?»

Gli studiai le mani. «Non è stato versato del sangue. E il resto del convento sta ancora dormendo, quindi non avete gridato troppo forte.»

«Non ce n'è stato bisogno. E' stata una discussione molto civile.»

Mi sentivo fremere per l'agitazione. «Padre, vi giuro che se l'avete fatto fuggire troverò il modo di vendicarmi. E sarà tremendo.»

Fu allora che il sorriso da gatto – che odiavo e amavo allo stesso modo – si aprì sul suo volto, tra la barba screziata di grigio e bianco. «Ti aspetta nella basilica. Sei fortunata, figlia mia...al contrario di te, Martino sa cosa sia il rispetto. Si è scusato così tanto per l'affronto che stava per farmi...avresti dovuto vederlo, sembrava un cane bastonato quando mi ha supplicato di concedergli la tua mano comunque. Ah, è stato divertente spaventarlo un po', in fondo. Alla fine ho dovuto dargli la mia benedizione, mi faceva pena.» Inclinò un poco il capo. «E poi, certo, non ho potuto non considerare anche quell'altra piccola faccenda.»

«Quale, altra piccola faccenda?»

Ezio mi accarezzò la guancia. Delicatamente. Come se avesse paura di rovinarmi il trucco...o forse, di farsi male.

«Mi costa ammetterlo, Bianca, non sai quanto...ma quel ragazzo ti ama da morire. Si prenderà buona cura di te.»

Sentii le parole che non aggiunse. Come ho cercato di fare io fino ad ora.

Lo abbracciai, forte. Non capiva che il mio amore per Martino non sarebbe stato mai in competizione con l'amore – infinito, indissolubile, indiscutibile - che provavo per lui.

«Sono così contenta che siate qui» mormorai. E lo ero davvero.

Attraversammo in silenzio il colonnato deserto del chiostro. Che strano viaggio per una sposa. Zia Claudia camminava alle mie spalle, mio padre davanti a me. Una processione breve e silenziosa. Niente grida di bambini che spargono fiori, niente sole toscano sulla pelle. Una tenue luna romagnola rischiarava appena l'oscurità. Niente cortei infiniti di parenti e compaesani, solo due delle persone che più amavo al mondo accanto a me per sostenermi mentre varcavo un'altra soglia fondamentale della mia vita. Niente amici al mio fianco. Solo un abito che nessun altra sposa avrebbe voluto indossare, a ricordarmi che facevo parte di qualcosa, e non sarei mai stata sola.

Uscimmo in strada, costeggiammo un piccolo giardino, e raggiungemmo il sagrato della chiesa. Il cardinale aveva aperto di nuovo la porta, serrata dall'interno fino a poco prima. Intravedevo la sua figura e quella di Martino all'altare. Zia Claudia mi diede un bacio sulla guancia, poi attraversò la navata per raggiungerli. Sarebbe stata uno dei nostri testimoni.

Ezio si voltò verso di me. Mi guardò attraverso la semioscurità per un lungo momento; poi sollevò il cappuccio d'aquila sull'acconciatura a cui la zia aveva lavorato tanto duramente. Baciò la mia fronte.

«Cerchiamo di tenere in piedi almeno mezza tradizione, che ne dici?»

«Voi, parlate di tradizioni? Forse devo ricordarvi che avete convissuto con la mamma per più di dieci anni prina di sposarla.»

«Che c'entra, lo sai che non devi prendermi come esempio.» Si strinse nelle spalle, per poi offrirmi il braccio. Io vi poggiai sopra la mano. Muovemmo il primo passo verso l'ingresso della chiesa.

«A proposito della mamma...meglio non dirle niente di tutto questo. Quest'estate, quando torneremo a Monteriggioni, organizzeremo un bel matrimonio-farsa, con tutte le noiosissime tradizioni del caso. Così nessuno potrà lamentarsi di non esserci stato. Non ti sembra un'idea incredibilmente brillante?» Ammiccò. «Non c'è da meravigliarsi, dopotutto: viene da me.»

Sapevo che stava scherzando per alleggerire la tensione, e non sapete quanto ne avessi bisogno in quel momento. Sorrisi di cuore. «Siete davvero borioso quando vi impegnate.» Mi fermai proprio sulla soglia della chiesa, per baciargli la guancia. «Grazie, papà.»

Poi, guardai avanti. Verso Martino, splendido nella sua divisa da iniziato, che teneva le mani dietro la schiena per non mostrare quanto le stesse torturando. Il mio uomo. Il mio futuro. Ogni ansia sparì quando incontrai i suoi occhi quasi neri. Ogni volta che mi sentivo spersa o insicura, quelle iridi che conoscevo come il paesaggio del mio cuore riuscivano a ricordarmi quale fosse il mio posto nel mondo. I miei passi lungo la navata da quel momento in poi furono sicuri, consapevoli. Ero nel posto giusto, al momento giusto, e ad attendermi all'altare c'era l'unica persona che avrei mai voluto vedere a quel posto.

Erano passati otto anni da quando un ragazzino spaccone aveva chiamato a gran voce il capo dell'Ordine degli Assassini, a Monteriggioni, sulla scalinata che conduce a Villa Auditore. Al primo sguardo, avevo pensato che fosse un arrogante pieno di sé; poi, avevo creduto che fosse semplicemente un buffone superficiale. Con il tempo, avevo imparato a conoscere la sua anima fatta di saggezza, coraggio e fragilità insospettabili, e ora mi sembrava una parte così inestricabile della mia che faticavo a riconoscerne i confini. Lui era il cuore, era il fuoco, era il profumo di vita che avevo rincorso da sempre. Era tutto ciò che mi rendeva completa.

La notte tra il 3 e il 4 Aprile 1512, alle rispettive età di venticinque e ventitré anni, Martino ed io ci sposammo, nella basilica di San Francesco a Ravenna. Fu un rito breve, alla luce di una candela soltanto che rischiarava uno spazio semplice, spirituale. A celebrare fu l'allora cardinale Giovanni de' Medici, destato nel cuore della notte, tanto che a tratti, tra una parola di latino e un'altra, sbadigliava. Come anelli, usammo due dei ninnoli preziosi che il cardinale portava sempre alle dita, e che ci regalò generosamente. Il mio abito fu la divisa di assassino, il mio velo il cappuccio con il becco d'aquila. La mia lama celata, come un osso aggiuntivo che facesse parte ormai della mia persona, mi stava al braccio, non come uno strumento di morte, ma come un segno del mio orgoglio di guerriera. A volte le spose si mascherano da gran dame che, nella vita, non sono. Io non ne sentivo il bisogno. Anche nella notte del mio matrimonio, non avevo intenzione di rinunciare ad essere me stessa.

In quel momento smisero di esistere guerre, ideologie e missioni. La morte che ci attendeva sul campo di battaglia distolse lo sguardo per un momento, e sorrise per noi sotto il suo cappuccio nero. Di scherno, o di tenerezza, non so dirlo; ma almeno per quella notte ci fece il favore di non ricordarci della sua presenza.

 

La prima notte di nozze (o meglio, le poche ore che ne restavano) la consumammo negli appartamenti che un cardinale incredibilmente comprensivo aveva voluto cederci. Aveva destato i suoi servi, fatto cambiare le lenzuola, fatto portare per noi frutta, dolci, ogni genere di leccornia. Non so esattamente dove abbia dormito, per quelle ore. Forse si è semplicemente ritirato con mio padre e zia Claudia per pianificare le mosse successive. Dopo tutto, non mancava molto alla nostra partenza. Il condottiero spagnolo Raimondo de Cadorna aveva intercettato gli eserciti di Gaston de Foix. La battaglia sarebbe scoppiata presto, poco lontano da Ravenna. Avevamo solo poche ore di pace, prima che tutto avesse inizio.

Il sorgere del sole era vicino, riconoscevo il cielo color pece con le sue stelle argento crudele. Brillavano forte fuori dalla finestra. Ma non volevo pensare all'alba, non ancora.

«Se poco poco mi' fratello prete se 'mpara cos'abbiamo fatto io e te 'n un convento, je pija 'n corpo» ridacchiò Martino, baciandomi la spalla mentre mi protendevo per prendere una focaccina al miele dal tavolinetto imbandito. Eravamo entrambi stesi sulla pancia, le braccia incrociate sotto il viso rivolto ai piedi del letto, le gambe aggrovigliate tra le coperte e i cuscini, mentre sceglievamo con quali di quei deliziosi cibi ristorarci dopo la grande fatica compiuta.

«Quando mio padre verrà a sapere che hai un fratello prete, il colpo prenderà a lui.»

Gli portai alle labbra una di quelle deliziose focaccine che sembravano chiamarci con il loro colore dorato – Dio, ne avrei mangiate a bizzeffe, e di solito non impazzisco per i dolci. Lui si premurò di leccare via ogni traccia di miele dalle mie dita.

«Be', che c'è? Magari 'n giorno Petruccio mio ce diventa Papa. Nun sarebbe mica male.»

«Per carità. Già questo candidato Papa mi sembra abbastanza complicato da gestire.»

Martino rigirò l'anello d'oro, con una lucida pietra nera, che ora stava al mio anulare sinistro. Il cardinale era stato perplesso quando gli avevo chiesto di poter usare proprio quello come fede, diceva che non gli sembrava abbastanza grazioso. Non sapeva quale importanza avesse per me l'onice nera. «E' stato gentile, però.»

«Sì, è gentile...ma quel genere di gentile che può trasformarsi facilmente in un fammi uno sgarbo e ti farò pentire di essere nato. Capisci cosa intendo?»

Lui riflettè qualche istante, e infine annuì. Mi baciò il palmo della mano. «C'abbiamo ancora 'n ora, forse due. Te prego, basta pallà de politica.»

«Sei tu che hai iniziato.»

«Ah, no, io pallavo de famija. Anzi, se volemo dì 'a verità vera, quanno ho cominciato...» Mi baciò il polso, e poi l'interno del braccio «...pallavo de sesso.»

Risi, catturando le sue labbra in un bacio. «Ssssssh...non dire quella parola in un convento!»

«Però posso fallo, ner convento? Vojo dì...ancora?»

Trattenni un'altra risata. «Basta, scellerato. Ti bruceranno sul rogo per eresia.»

Martino mi baciò ancora. «Perché ho fatto 'r dovere mio co' mi moje? Vojo dì, mica vivemo più ner peccato. Mo semo 'n regola, nun ce possono dì gnente.»

Che strano effetto sentirglielo dire. Mia moglie.

Fu il mio turno di prendergli la mano, per studiare l'anello d'argento con l'agata bianca che era diventato la sua fede8. Sotto quel ninnolo era nascosta la bruciatura della sua iniziazione all'Ordine.

«Me sa che c'hai raggione, marito. Nun ce possono dì gnente

Lui sgranò gli occhi. Mi guardò fisso per qualche istante.

«Hai parlato romano?»

«Ho parlato romano.»

«Nun farlo più, te prego.»

«Perché?»

Mi baciò con tanto impeto che finii su un fianco, e lentamente mi trovai a rotolare sulla schiena, mentre lui mi si stendeva addosso in una maniera dannatamente seducente.

«Perché sennò» spiegò, affannato, sulle mie labbra «te zompo addosso...» Un altro bacio. «E nun c'avemo tempo...»

«Dopo tutto, stai solo compiendo il tuo dovere di marito...»

«Biancarè...fa' la brava, su...» Un bacio ancora, e poi lui sembrò compiere il grande sforzo di trattenersi. Si soffermò a guardarmi in silenzio, accarezzandomi il viso, i capelli da cui pendeva ancora qualche fiore scomposto. C'era già un chiarore grigiastro nell'aria. Dannazione...il sole stava sorgendo. Avrei avuto voglia di piangere, ma non lo feci. Ci sarebbero state altre notti come quella. Avevamo tutto il nostro futuro davanti.

«Guarda 'n po', è l'alba» sorrise Martino, tracciando con i pollici i solchi accanto alle mie labbra. «Buon compleanno, core mio.»

Un nodo mi strinse il petto. Non avevo realizzato, ma era vero...proprio quel giorno compivo ventitré anni. Lo guardai, in quel momento, e la tenerezza che provavo quasi mi lacerava la pelle.

«Di' la verità, l'hai fatto apposta per evitare di dimenticarti l'anniversario?»

«Nun te se po' nasconde gnente, eh?»

«Sei un idiota. Ti amo.»

La sua fronte si appoggiò alla mia.

«Sei 'na serpe. Te amo pure io.»

Buffo. Ci penso solo adesso, ma in effetti fu da quel giorno in poi che Martino permise ai suoi ricci neri, lentamente, di ricrescere.

Veronica aveva ragione. L'amore, quello che provava per me e quello che aveva riacquistato per se stesso, aveva permesso anche a lui di guarire dalle ferite del passato.

Eravamo pronti a guardare avanti, ora.

Insieme.

Per la vittoria.


Note

1Sto improvvisando su questo punto. Ventura Fenarolo è un nobile bresciano realmente esistito, che secondo l'aneddotica delle cronache ha davvero fatto quella fine terribile (anzi, ha cercato di suicidarsi per non farsi prendere dai soldati francesi, e ha ripetuto il gesto, questa volta con successo, in fase di processo). Ignoro se avesse una moglie e quale fosse il suo nome reale.

2Ops, nel capitolo precedente ho commesso un grossissimo errore affermando che Oreste ha ancora 13 anni...quella è l'età che ha nel tardo 1507, quando Bianca lo incontra per la prima volta! Ora, nel 1512, deve averne almeno diciassette. Ho corretto l'erroraccio, perdonatemi!

3Leggo (http://www.treccani.it/enciclopedia/il-rinascimento-societa-ed-economia-il-lavoro-la-ricchezza-le-coesistenze-monete-e-banche-nel-secolo-del-ducato-d-oro_(Storia-di-Venezia)/) che il ducato veneziano era diventato una delle monete più diffuse in Italia in quel periodo.

4Della diatriba sulle spoglie di Dante ho appreso qualcosa quando sono andata in visita a Ravenna, quest'estate. Per un approfondimento, vi rimando a questo articolo: http://www.andreadelprincipe.it/Dante_Alighieri/spoglie_dante.html

5Parole che Dante, nel 27esimo canto dell'Inferno (quello di Guido da Montefeltro, uno dei miei preferiti) mette in bocca a Bonifacio VIII.

6La cripta è costruita sotto il livello del mare: ancora oggi il livello dell'acqua si alza o si abbassa a seconda delle maree. All'epoca il sarcofago di Dante non si trovava lì: era nel chiostro del convento, ma trovavo più significativo inserirlo nella Basilica.

7 http://it.wikipedia.org/wiki/File:Dantes_tomb_01.jpg

8Vistoso, concordo, ma è pur sempre l'anello di un cardinale...e mi piaceva la specularità delle due pietre. Tanto per non farvi pensare a qualcosa di eccessivamente femminile...sto pensando a una cosa del genere: http://i00.i.aliimg.com/wsphoto/v0/1180739654/New-Arrivals-Vintage-Cool-Men-Women-Unisex-316L-Stainless-Steel-Statement-font-b-Ring-b-font.jpg. Con montatura un pelo più rinascimentale però XD
Ora mi sorge il dubbio che la fede da uomo esistesse, nel Rinascimento. So per certo che nell'Inghilterra dell'800 solo la donna aveva l'anello...Vabbè, eventualmente concedetemi un'altra licenza poetica. Mi piace questa cosa dei loro due anelli complementari.


NdBlackFool

Eh, già. Domani sarà il quarto anniversario da quando ho iniziato a pubblicare BCP, e mi sembrava opportuno festeggiare con il tanto sospirato matrimonio tra Bianca e Martino. Curiosità: all'inizio, la presenza di Ezio al matrimonio segreto non era prevista. Poi, mi sono ricordata una cosa importante: al di là delle battaglie, dei tradimenti, dei doppi e tripli giochi, delle profezie e delle tresche varie..."Bianca come il Peccato" è nata per essere (e spero lo sia ancora) la storia dell'amore tra un padre e una figlia. Perciò, ho forzato l'arrivo di Ezio nella trama, un po' replicando quelle sue apparizioni improvvise alla finestra che mi facevano sorridere nei primi capitoli. Spero di cuore che abbiate apprezzato questa scelta. Io mi sono commossa non poco, sia per quei due babbuini che finalmente si sono promessi amore eterno, sia per i nipoti di Nicola che danno una continuità al suo sangue. E' stato un capitolo di transizione, ma emotivamente mi ha dato molto.
Nel prossimo appuntamento con Biancarè&Co, dobbiamo prepararci a incontrare ancora una volta Vanni, De Foix ed Ermes Bentivoglio; sto valutando se far rientrare in campo un ricostruito Drappo Rosso, quindi Odette e D'Arcy potrebbero unirsi alla grande battaglia. Siamo alle porte di Ravenna, sempre più vicini a quella che alcuni storici hanno definito una "Pasqua di Sangue". Agamennone e Veronica (non è un grande spoiler, credo lo immaginiate tutti) si uniranno ai nostri per affrontare a testa alta la profezia delle stelle. Di cui, finalmente, udiremo il responso. Il nostro pazzo arciere vivrà?  
A tra un mese, con il capitolo 47 (che, se tutto procede come deve, sarà il terz'ultimo di BCP O.O T_T *_* ): "11 Aprile 1512". Grazie per essere passati di qui!

   
 
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