Videogiochi > Assassin's Creed
Segui la storia  |       
Autore: Mirin    25/02/2014    2 recensioni
«Cosa scende con te dalla Francia, Chantal?»
«Quelque chose che desidevra i tesovri di Essio e che ha valicato i Pivrenei per ottenevrli.»
///
«Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.»

Ezio fu spinto nella Confraternita dalla vendetta. Marcello dal nome che gli grava sulle spalle.
Genere: Generale, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claudia Auditore, Marcello Auditore, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Violenza
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La vita è una rosa dove ogni petalo è un'illusione e ogni spina una realtà.
Alfred de Musset
Caino faceva ondeggiare il vino rosso nel suo calice, pensieroso.
«E dunque, la Diable Ange ti ha fermato» nel tono del suo Signore c’era un tono quasi di sardonico divertimento.
«Me l’ha fatta sotto il naso» confermò. Si portò il calice alle labbra e degustò il buon vino delle cantine del Duca: aveva lo stesso colore del sangue. Un sangue che aveva fatto versare ma che invero era scorso dai suoi alleati.

Un uomo la baciò forte sulla bocca e le tastò la coscia, mentre la sbatteva di prepotenza contro un muro della stanza. Con sguardo maniacale le accarezzò il petto rigonfio dopo averle staccato senza troppe cerimonie la toga, con addirittura un rivolo di bava che gli colava dal mento.
«Non siate tvroppo esubevrante, monsieur!» la donna rise, cristallina e divertita.
«Sì, sì, sì» accondiscese l’uomo, morboso «è che adoro le ragazze generose come te, Madeleine.»
La donna sorrise: adorava i tocchi di classe ed usare come pseudonimo Madeleine era uno di questi. Indossare il nome della prostituta più famosa della storia le dava un brivido immenso, sicuramente più intenso di quello che la mano rozza e poco abile della preda adescata le regalava.
«Sciratevi, monsieur. Vi favrò vedevre una cosa che ho impavrato in Spania» mormorò Chantal Foncé, suadente e incantatrice. L’uomo, la bocca stolidamente aperta come quella di un pesce rosso, annuì e le diede la schiena, cosicché Chantal potesse pugnalarlo alle reni con la sua speciale Lama Celata.
«Achèves la dernière étape dans le vide» mormorò, chiudendogli gli occhi.
Secondi dopo, Chantal Foncé scendeva dalla camera del figlio della Guardia Ducale con in mano una pergamena dall’aria ufficiale e un vestito che le dava un’aria nobile. Uscì dall’abitazione principesca e si diresse con aria sfacciatamente superiore verso Piazza della Signoria, senza dimenticarsi di dare tocchi altezzosi alla chioma dorata della sua parrucca.
«Non si entra senza permesso» le guardie incrociarono le alabarde davanti a Chantal.
«¿Cómo os atrevéis bloquear a la doña favorita de Antonio de Altamura?» sbraitò in perfetto accento spagnolo, sventolando davanti ai due soldati il documento « Me mandó para deponer unos documentos en su lugar, una enfermedad lo cogió esta mañana
«Compriendo» dissero i soldati in coro, che in verità non capivano poiché non parlavano lo spagnolo e nemmeno potevano leggere ciò che era scritto sulla carta, dato che anch’esso era in spagnolo. In verità, nient’altro era se non un passo tradotto de la Commedia di Dante per un milite particolarmente amante della cultura, ma Chantal sapeva sfruttare le sottigliezze e i trucchi subdoli meglio di chiunque.
Camminò lungo i corridoi marmorei del Salone dei Cinquecento, vuoto dalle consuete guardie: lospettacolo era fuori, non dentro. L’esecuzione pubblica riuniva sempre una folla di  persone inferocite ed esaltate, quindi le forze armate erano dispiegate all’esterno nel tentativo di contenere le risse che si formavano nel mezzo dei gruppi più agguerriti e fanatici. Chantal sorrise, spogliandosi della seta con un solo gesto. Nel corpetto del vestito teneva
nascosti i suoi abiti da Assassina, che indossò in un paio di secondi, quindi si sfilò la parrucca
bionda dalla testa e si allacciò ai polsi i bracciali d’oro delle sue Lame Celate. Si arrampicò su una
statua di gesso e con un salto aggraziato fuori dalla stretta finestra cadde su uno dei balconi di
Palazzo della Signoria, pattugliato da due guardie appoggiate sul parapetto. Scivolò alle loro
spalle e recise loro la gola con un coltello. Il sangue delle sue vittime si incanalò negli intarsi della
lama e disegnò il simbolo della Confraternita Francese: la chiave, segno di apertura e
conoscenza. Spinse i corpi giù dal parapetto e questi caddero sulla piazza lastricata con uno
schianto di ossa disgustoso. Diede un’occhiata alla scena antistante: un confessore stava
perdonando gli ultimi peccati commessi dal condannato, il quale non pareva ascoltare le parole
del prelato. Le sue labbra recitavano parole che a Chantal parevano “perdonami amore,
perdonami amore”.
Proseguì lungo la balconata ed entrò in una stanza che fungeva da raccordo comunicativo fra le
sentinelle del tetto e quelle interne. A parte la rientranza del muro immediatamente vicino
all’entrata e quella di fronte alla scala a chiocciola, la sala presentava un solo locale aperto,
stretto ed ostico al combattimento, soprattutto per i quattro soldati bardati di corazza che
stavano sotto i gradini e si lamentavano del Moro. Chantal si infilò nell’anfratto buio più lontano
dalla scala ed aspettò che due dei soldati corazzati salissero i gradini, poi si avventò sui due
rimanenti e li sgozzò senza fare rumore. Dalla cintura che portava in vita estrasse alcune lame
sottili quanto foglie, dello spessore di un millimetro, più accuminate e taglienti di qualunque arma
al mondo. Avevano forma ovale che si stringeva in punta, e ciò le faceva assomigliare
tantissimo a delle foglie color ferro, prendevano nome -per l'appunto- dalla loro inconsueta
sagoma: Feuille.
Scagliò le sue Feuilles contro i soldati che avevano appena salito le scale, la snellezza permise
loro di colpire la fessura piccolissima tra il collo e la schiena lasciata scoperta dall’elmo, poi corse lungo il tetto alla ricerca di un buon punto d’osservazione,  le urla si facevano sempre più estatiche, quindi di sicuro l’ora dell’impiccagione era quasi scoccata. Chantal era veloce e si muoveva lesta come una pantera, non incontrò resistenza, perciò si ritrovò al cospetto della scena in meno del tempo sperato. Con la mano libera estrasse ancora il coltello, quello usato per uccidere le due guardie, e calibrò il colpo contro il boia.
Sorrise. «Adieu
 
Marcello si svegliò confuso in una stanza che gli pareva di aver abbandonato di recente. Con un sussulto, riconobbe il rosso veneziano delle pareti come quello utilizzato da zia Claudia per tinteggiare la sua casa.
«No! Le guardie! Giacomo!» saltò su, tentando di uscire dal letto, ma una mano robusta gli schiacciò il petto.
«Riposa, figlio di un banchiere» borbottò «hai fatto fin troppo, oggi.»
«Enzo?»
 
Marcello vide la bellissima donna spiccare un volo aggraziato, fare una capriola a mezz’aria ed atterrare su un fascio di tende lacere. Dovunque, attorno a lui, spuntarono figure dalle vesti bianche e rosse. Tutte portavano una collana con un ciondolo a forma di chiave, dalle diverse tonalità, e su questo era dipinto uno strano simbolo nero.
«Victoire aux Assassins!» gridavano «Victoire aux Assassins!»
Ben presto, il rumore di ferro sguainato echeggiò dappertutto. Gli Assassini si prepararono a combattere, mentre i Templari ancora cercavano di capire le ragioni di quell’improvviso voltafaccia. Prima che potessero realmente comprendere la gravità della situazione, metà di essi erano morti.
Gli Assassini francesi avevano uno stile di combattimento aggraziato, quasi femmineo, erano un turbine di colori e movimenti, somigliavano a delle farfalle in procinto di attaccarsi ad un fiore ricco di polline. Le loro lame affondavano e sgusciavano via dai petti dei nemici come lo schiudersi delle crisalidi e i fiori di sangue che nascevano sulle loro vesti immacolate sbocciavano nel profumo di un conflitto dimenticato quanto immemore. Erano brutali nella loro gentilezza, sanguinosi nel loro contegno, inflessibili nella loro grazia.
D’improvviso, sentì un dolce profumo accanto a sé. Non si era nemmeno accorto che Chantal Foncé avesse preso parte al conflitto e quasi non vide il suo corpo muoversi mentre accoltellava i due Templari alla gola.
La schiena gli si ghiacciò: era nel bel mezzo delle ostilità. Poteva morire da un secondo all’altro. Desiderava scappare, allontanarsi, ma non gli era concesso muoversi perché era marcato stretto dalle guardie. Chantal gli vorticava attorno come un turbine di petali di rosa, fili di sangue la circondavano senza sfiorarla, la bestialità dei suoi colpi non faceva altro che renderla più bella, più pura nella sua natura selvaggia. Marcello la vide salire sulle ginocchia di un nemico e tagliargli la gola, poi darsi la spinta con i piedi e cadere alle spalle di un altro per conficcargli lo stiletto tra le scapole, dopo con un movimento rotatorio estrarlo dalla schiena di questi per colpire alla pancia un terzo mentre estraeva la Lama Celata e la conficcava sotto il mento del quarto.
Istinto animale, inumanità e armonia erano tutt’uno in lei, era l’acqua che batte sulle rocce durante una tempesta: piacevole e poetica alla vista, così tanto da annullare il pensiero dell’inciviltà dei suoi gesti.
«Tu es survivant» mormorò al suo orecchio, con il suo accento transalpino dalla soave musicalità.
Dove l’aveva già sentito?
«Tu! Sei stata tu a svegliarmi!» boccheggiò Marcello, ma prima che le parole potessero davvero affiorargli alle labbra fu spinto all’indietro, via dalla guerra che infuriava. Fu travolto da un gruppo di persone in fuga che lo trascinava lontano dalla piazza, ma Marcello se ne distaccò: con la coda dell’occhio aveva visto suo cognato scappare dal luogo della battaglia, così si mise a rincorrerlo. Due Templari tentarono di sbarrargli la via, ma Marcello estrasse il coltello dalla cintura e lo piantò nel petto di uno dei due senza ritirarlo, senza fermare la sua corsa. La caviglia gli doleva ma credeva potesse sorreggere il suo peso; fu smentito due minuti più tardi, dove un sonoro schiocco gli annunciò che ormai era persa. Rotolò per terra e sbatté la testa, un rivolo di sangue gli scese lungo il mento.
La sua vista fu accecata da un raggio di sole particolarmente intenso, che pure non gli impedì di notare due guardie Templari che gli si avvicinavano minacciose.

Marcello provò a ritirare la gamba per toccarsi la caviglia, ma un dolore lancinante lo colse e lo costrinse a cadere nelle sue coltri.
«Cosa ci fai qui?» sussurrò con un filo di voce.
«Volevo ringraziare di persona il salvatore della mia Famiglia» ribatté gioviale, una risata stanca nella voce.
«Sei orfano, Enzo.»
«Hai ragione. La nostra Famiglia.»

Enzo Innocenti, il bastardo, correva sui tetti ed osservava la scena sotto di lui. I Confratelli Francesi avevano sguainato le armi contro i Templari e si battevano in modo feroce e violento, gli Italiani invece tentavano di avvicinarsi con scarso successo. Non era proprio messa in preventiva un’occasione di conflitto aperto, ma La Français non perdeva mai una chance per aizzare le fiamme della rivolta.
Eccola là, in mezzo all’orda più caotica e selvaggia, uccidere a destra e a manca con la stessa velocità di un uccello che batte le ali. Era una furia incontenibile, qualcosa di mortalmente bello ed incomprensibile.
«ENZO!» gridò dal basso Saverio, il capitano della guardia di madonna Auditore, «HO BISOGNO DI TE!»
Enzo si gettò con grazia innata giù dal cornicione di una casa, dritto su un tendone che si sfasciò sotto il suo peso. Si rialzò e corse dall’uomo con gli occhi grigi: «che comanda il Mentore?»
«Oggi dovevi incontrarti con una persona per conto di madonna Claudia, non è vero?» chiese, stralunato. Sanguinava da un fianco, ma non appariva troppo grave.
«Sì, però nessuno si è presentato» osservò Enzo, tenendo sottocchio la situazione. Un distaccamento di Templari si era gettato verso i vicoli ad est della piazza, alcuni manti bianchi li inseguivano, ma la battaglia serrata diventava sempre meno agguerrita, complice e causa la caduta di quasi tutti i nemici ostili. Riversi per terra, c’erano anche tanti corpi della sua fazione, ma in piedi c’era ancora gente abile a combattere. Gli adepti prima di Ezio, poi di Ludovico, erano entrati in scena e davano man forte ai loro confratelli; non esistevano barriere linguistiche o di costumi quando si combatteva tutti sotto la bandiera degli Assassini.
«No, qualcuno c’era, ma tu non l’hai notato» ribatté Saverio, parando il colpo di un soldato lanzichenecco che si era spinto contro di loro. E menomale che il Medici avrebbe dovuto preservare il suo popolo!, pensò Innocenti, prima di trapassare la gola del mercenario con il suo gladio.
«Esiste qualcuno in grado di nascondersi alla mia vista?» inorridì lui, prima di scoppiare a ridere: ovvio che no, non esisteva!
«Non c’è cosa meno evidente di ciò che abbiamo ad un palmo dal naso» recitò Saverio «ho bisogno che porti immediatamente quell’uomo al sicuro, io devo tornare a Villa Auditore.»
«Chi cerco?»
«Marcello Auditore, detto Francesco.»
Enzo lo guardò con tanto d’occhi. Marcello? Marcello era vivo?
«Il Duca lo ha dichiarato morto ieri mattina, assieme alla sua famiglia» non poteva crederci. Il cuore gli balbettava nel petto: il suo migliore amico respirava ancora. Marcello Auditore, quel dirittone, il figlio del banchiere, era vivo, si era salvato. Come? Era possibile che i suoi geni di Assassino si fossero palesati in questione di vita o di morte?
«La Fransese ci ha riferito diversamente, alla stessa ora del discorso in piazza del Duca. L’ho visto con i miei occhi assieme alla bambina, Enzo, è vivo, ma non lo resterà a lungo se continui a cincischiare! Corri, trovalo!» gridò Saverio, nel frattempo altri due lanzichenecchi si buttavano su di lui.
Enzo puntò il muro di Tribunale della Mercanzia e vi corse contro. Sfruttando la spinta datosi con la punta dei piedi, compì tre passi in verticale, poi si gettò verso il bordo di una finestra e ne risalì gli infissi prima di infilare le dita nelle fessure tra i mattoni e la calce. Si mosse in orizzontale alla ricerca di una appiglio posto più in alto e l’asta di uno stemma dei Medici ammainato si rivelò per lui di fondamentale importanza. Si lanciò verso di questa, che si abbassò spaventosamente sotto il suo peso, inclinandosi a novanta gradi, quindi vi salì e continuò la sua scalata. Passò vicino ai ventuno stemmi delle Arti di Firenze prima di arrivare sul tetto. Si sporse alla spasmodica ricerca della figura più impacciata di un Assassino, ma in Piazza non c’erano altro che cadaveri, sangue e morte; non contemplava nemmeno l’ipotesi che Marcello potesse essere annoverato tra i caduti, era troppo sveglio per morire in quel modo.
Nel portico di Loggia della Signoria stavano i civili, spaventati e turbati. Molti bambini avevano il viso nascosto nelle gonne delle madri e gli anziani si reggevano sulle spalle degli uomini, i quali guardavano la scena con disgusto misto ad adorazione, quasi esaltazione. Credevano, forse, che questi mercenari dai cappucci bianchi li avrebbero liberati dall’oppressore Medici? Enzo, in quanto fiorentino, si preoccupava anche di questo aspetto, però sapeva che il bambolotto di Carlo V non era la priorità dell’Ordine Italiano; il cuore pulsante degli Assassini d’Italia non era più Firenze, ma la magica Venezia, e la Serenissima, dopo i tanti conflitti con gli spagnoli ed il Papato, non aveva intenzione di inimicarsi nessuno dei due e non contribuiva di certo alla scacciata dei Medici dal nuovo Ducato, fortemente voluto da Leone X e dallo stesso monarca asburgico.
Vide un uomo correre via dalla piazza e lo riconobbe come Giacomo Beccaccia, il figlio del suo Maestro nonché il condannato a morte della giornata. Dietro di lui arrancava una figura in bianco, vistosamente claudicante, la cui corsa venne bloccata da due uomini dei Templari. Enzo stava per entrare in azione, ma l’Assassino fu più veloce di lui nel piantare un coltello nel torace di uno dei soldati senza nemmeno fermarsi, un’azione degna di Ezio Auditore.
Cazzo! Marcello!
Enzo corse parallelamente a lui sul tetto del Tribunale, osservandolo in apprensione: la sua andatura era zoppa, curvilinea, la schiena inclinata e la velocità irrisoria, perlomeno rispetto a quella di cui di solito faceva sfoggio. Proprio quando stava per scendere ed aiutarlo, Marcello si rese protagonista di un’orrenda piroetta a mezz’aria, preceduta dal rumore agghiacciante di ossa rotte: doveva essersi fratturato la caviglia, sicuramente. Ruzzolò in avanti per qualche metro e del sangue iniziò a scorrere lungo la sua tempia, dove si era formata una ferita superficiale. Due Templari si avvicinavano al corpo esanime di Marcello, così Enzo si gettò in picchiata su di loro e li uccise in un solo colpo conficcando la Lama Celata nella nuca di uno ed uno stiletto appuntito nella schiena dell’altro.
Giacomo inciampò e cadde sulla pietra della Piazza, scoppiando in singhiozzi di dolore interiore più che fisico. Enzo lo capiva dalle sue grida disperate: «FLAVIA! FIORELLA! FLAVIA!»
Enzo, disgustato e intriso di odio, si accostò a lui e lo aiutò a rimettersi in piedi.
«Ho ucciso mia moglie» bisbigliò Giacomo, aggrappandosi a lui «ho ucciso mia figlia».
«Fiorella è ancora viva» tuonò con voce fonda «si trova a Villa Auditore sotto le cure di Madonna Claudia Auditore, la sua prozia.»
«La mia bambina è sopravvissuta?» negli occhi di Giacomo c’era quasi un barlume di follia, tanta era la gioia di quel momento.
«Sì. Ed ora dammi una mano a mettere al riparo il suo salvatore.»

«Tu, per tutto questo tempo…» Marcello era senza parole.
Enzo annuì, piano.
«Non credevo che fossi un Assassino» bisbigliò.
«Diciamo che il mio impiego da fruttivendolo è solo uno svago, concessomi da mio cugino coltivatore» chiarì .
«Se non fosse stato per la Fratellanza, a quest’ora sarei già morto. Di fame, di freddo o di canapa» scherzò, negli occhi tristi un passato tanto lontano che Marcello non poteva ricordare.
«I miei genitori furono uccisi dai Templari» gli confessò «ma nessuno me l’aveva mai detto fino a quando non compii dieci anni. Quel giorno, entrai nell’Ordine.»
«Hai trent’anni, ormai» gli fece notare «ed hai sprecato il meglio della tua vita per inseguire una favola.»
«Hai ragione: non mi sono sposato, non ho avuto figli, non mi sono ritirato in campagna» accondiscese Enzo «ho preferito servire, affinché fossero altri a compire questi sogni. L’unica mia consolazione è stata quella favola, come la chiami tu.»
Marcello non aveva le forze per ribattere al sarcasmo nella sua voce. Era stanco, tutto ciò che desiderava era poter finalmente riposare e rifuggire alle tenebre che
circondavano la sua veglia.

«Hai perso il Codice, hai leso alle mie truppe in modo grave e pure mi hai fatto fare una figuraccia contro Francesco» il tono di Carlo d’Asburgo era tremendamente divertito. L’occasione di potersi prendere gioco del suo migliore luogotenente era più unica che rara e di certo lui non se la sarebbe fatta sfuggire. Non era affatto turbato dal disastro combinato da Caino in Italia, ne era intrattenuto.
«Rimedierò al mio errore, ve lo prometto, Vostra Maestà» Caino sorseggiò il suo vino con sguardo assente. Se Chérie aveva portato via i documenti, come mai era rimasta a Firenze? La sua priorità era quella di tenerli il più lontano possibile dalle loro mani, eppure aveva corso il grave rischio di non procurare loro una sistemazione più sicura rimanendo in Italia al solo fine di infliggere una sconfitta incerta fino alla sua conclusione ai Templari. Perché?
Le risposte potevano essere varie. Un trucco? Una trappola? Una vendetta? Una provocazione? O forse… lui aveva sbagliato i calcoli?
Aveva cercato i documenti in tutta l’abitazione e si era persino preso il disturbo di drogare gli Auditore -uccidere nel caso della madre, che gli era sembrata un po’ troppo sveglia-, aveva svolto un lavoro da certosino, era più che certo che la casa fosse sgombra dalle carte di cui tanto necessitavano. E se non fosse stata Chérie a portarle via, ma gli stessi Auditore? Nessuno sapeva quando di preciso i Templari sarebbero giunti, quindi avrebbero dovuto agire per tempo. Come uno stupido si era mosso in modo superficiale, senza soffermarsi a riflettere, troppo preso dal timore di venire scoperto per poter osare di più.
Aveva voluto lanciare un messaggio agli Assassini incendiando l’abitazione, cosa che gli si era ritorta contro, visto l’esito delle sue gesta in Italia. Ora la Chiave si era allontanata di diversi passi ed ancora più soffocata nelle mani ansiose dei suoi rivali.
«Di cosa ti occuperai adesso, Jacques?» Carlo passeggiava quietamente verso l’uscita della grande sala. Era un uomo che amava prendersi i propri tempi, poiché in quelli i frutti avevano la capacità di maturare e diventare succosi; non c’era gusto nel spolpare una preda magra, era molto meglio banchettare con le carni di un maiale grasso.
«L’Originale di Leonardo è un altro pezzo molto importante nella corsa alla Mela di Eva» mormorò Caino, gli occhi che sciabordavano i colori della bella Toledo notturna.
«Tienilo lontano dalle mani di Michelangelo» suggerì Carlo d’Asburgo con una risatina soppressa «potrebbe dargli fuoco.»
Caino sorrise: «Non oserebbe mai rubarmi il mestiere.»
 
L’estate morente risorse in un autunno freddo e pungente mentre Marcello Auditore rimaneva a letto, fermo ed immobile sotto imperioso comando di zia Claudia, che ad ogni sua richiesta di movimento lo freddava con un’occhiata assassina -la zia era una di quelle persone che aveva la professione incollata addosso.
Era settembre inoltrato, quando finalmente poté muovere i primi passi. Si sentiva un pulcino appena uscito dall’uovo, camminava in modo strano, soprattutto a causa di quello stivaletto da deambulazione in cui il cerusico l’aveva costretto.
«È medicina francese, di alta qualità.»
«Sentito, messer Francesco? Il buon uomo dice il vero, ora non mettete su il broncio, per carità divina!»
Passeggiava attorno al laghetto artificiale nel giardino, osservava le oche prendere il volo verso sud, meta calda e lontana. Sentiva anche il suo pensiero iniziare a volteggiare nel vento, ritrovandosi a rimuginare su fatti accaduti nel breve passato.
Il suo breve faccia a faccia con Giacomo non era stato dei più felici, complice il fatto che Enzo avesse vuotato il sacco sulla cospirazione avvenuta la sera dell’attentato. Se si era fratturato la caviglia per l’empatia nei confronti del cognato, adesso avrebbe volentieri spezzato a lui qualche osso, a mani nude. Vendere ai mercenari la propria famiglia per aver salva la vita? Marcello non lo concepiva.
Sarebbe morto, morto, piuttosto che lasciarsi sfuggire una parola di bocca.
Ed era ciò che Marcello aveva gridato a Giacomo quello stesso mattino prima di uscire.
«DANNATO FIGLIO DI PUTTANA!» si era slanciato contro il cognato con tutto l’impeto, dandogli un pugno al lato del viso e facendogli sputare sangue «HAI VENDUTO TUA MOGLIE AI MERCENARI, PEZZO DI STERCO? VIGLIACCO, VILE, TRADITORE, LURIDO SORCIO! NEMMENO I CANI AVREBBERO IL CORAGGIO DI SBRANARE LE TUE LURIDE CARNI PERMEATE DI INFAMIA!»
Lo aveva ridotto ad un ammasso di brandelli umani, prima che Enzo potesse soltanto avvicinarsi per staccarlo da lui. Solo in quel momento, Marcello si era reso conto che Fiorella li stava guardando con le guance rigate di lacrime.
Sospirò. Era stato troppo avventato, non aveva affatto pensato a Fiorella. La sua adorata nipote aveva perso la madre nell’incendio, Flavia, ed in quel momento aveva appena ritrovato il padre, che per quanto ignobile e sleale, era comunque un genitore. Lui non comprendeva a fondo la figura paterna, non ne aveva mai beneficiato in tutta la sua vita -Ezio si era dimostrato distante, non lo aveva coccolato come con Flavia, ed inoltre era morto prima che potesse insegnargli a radersi da solo-, però almeno capiva l’affetto che Fiorella provava per Giacomo, lo stesso che lui nutriva per Sofia.
Che fare, allora? Fiorella aveva bisogno di suo padre, anche se suo padre era un traditore. Oh, lo odiava così tanto! Se solo non ci fosse stata la bambina di mezzo, lo avrebbe trapassato da parte a parte!
Questo pensiero rapì Marcello verso un’altra ansia: Enzo.
Non appena saputo che messer Francesco non si sarebbe unito all’Ordine, Innocenti era uscito fuori dai gangheri.
«È LA TUA STRADA, NON PUOI TIRARTI INDIETRO!» aveva esclamato, furioso.
«Non commetterò gli errori di Ezio. Non mi sacrificherò per qualcosa che non vale» aveva affermato Marcello, serafico.
«Non mordere la mano che ti ha nutrito, Auditore» Enzo era scuro in volto.
«Fino a qualche giorno fa non sapevo che cosa fosse in realtà Ezio Auditore!» Marcello scoprì i denti: non voleva in alcun modo essere accoppiato a quell’essere, tantomeno per il cognome che sfortunatamente condividevano.
«Un uomo migliore di suo figlio, ecco cos’è stato» Enzo lo lasciò con la glacialità e l’amarezza che ha una bufera di neve in un giorno di festa.
Dopo che Claudia gli aveva rivelato le grandi abilità in combattimento di Enzo -quando l’Auditore le aveva confessato di desiderarlo come insegnante-, Marcello sperava di poter beneficiare del suo addestramento, ma essendoci in corso tale diatriba gli pareva assurdo chiedergli il suo aiuto poiché egli si sarebbe di certo rifiutato.
Come fare, dunque? Cosa fare?
Sentiva la testa più gonfia di un pallone, l’allettamento gli aveva dato troppo tempo per pensare ed al contempo così poco. Non aveva ancora metabolizzato la morte di Flavia e Sofia, non gli pareva ancora vero che non fossero più con lui. Spesso si svegliava in un bagno di sudore, quasi stesse ancora nel fuoco rovente. La voce di Flavia gli arrivava ovattata alle orecchie, fumo di un pensiero, fumo di un ricordo arso dalle fiamme. La mattina scivolava fuori dal letto per andare a svegliare Fiorella, ma lei dormiva stretta al petto del padre.
Era solo.
Possibile che il cappuccio lo avesse già segnato? O forse il fatto che lui era segnato lo aveva spinto a trovare riparo sotto di esso?
Rientrato nella dimora, la sua attenzione fu catturata da una conversazione ostentatamente silenziosa al piano di sopra.
Salì la scala a chiocciola di soppiatto e spiò dalla fessura della porta lo studio di Claudia: Cesare Beccaccia, Enzo e sua zia stavano parlando fitto fitto.
Marcello si pose in ascolto.
«Dunque sapevate già di Carlo V» Cesare disse.
«Jean-Paul ci ha riferito tutto tramite un suo subordinato qualche giorno prima del processo in piazza» confermò Claudia.
«Chi? La puttana?» il tono di Cesare era irriverente e spregiudicato.
«Chiunque fosse, non cambia il contenuto veritiero ed importantissimo dell’informazione» lo freddò madonna Auditore, altera «hai avuto conferma dei tuoi sospetti?»
«Sì» mormorò «il caro Alessandro è in combutta con Napoli. Vuole invadere la Toscana per farne un unico regno.»
«Non potrà!» Enzo era scandalizzato.
«Oh, lo farà» ribatté Cesare «se avrà i Lanzichenecchi al suo fianco, dubito che possa mai fallire. Il Re è d’accordo: un solo regno, un solo problema. Arezzo non è intenzionata a far passare le sue truppe, ma fintantoché Firenze non la supporta, è da considerarsi persa.»
«Aretino dov’è? A farselo venire duro con quelle porcherie che lui chiama sonetti?» Enzo sputò, sprezzante.
«Non possiamo contare su un solo uomo per salvare la città, Enzo» Claudia cerco di farlo venire a più miti consigli.
«Bene, allora parto subito per Arezzo!» saltò su Innocenti.
«Tu non ti muovi di qui!» Claudia era infuriata «ho bisogno di te a Firenze!»
«Perché? Avete tutta la protezione necessaria, voi e il popolo!» rispose Enzo, frustrato.
«Io sì, e pure i fiorentini. Marcello no» Claudia era gelida, dopo l'accusa velata nelle parole del suo Guerriero.
«Marcello? Il fratello di madonna Flavia Auditore?» Cesare era sospettoso «credevo che se ne occupasse mia nuora.»
«Non può più» c'era un estremo dolore nelle parole di Enzo.
Marcello ricordava che un vecchio pettegolezzo li voleva amanti in una relazione segreta -per quanto possa essere segreta una relazione giovanile-, prima che Flavia scoprisse di essere incinta. Sparsa la voce secondo la quale lei era da sempre innamorata di un altro uomo, sposò il figlio del vicino Cesare, messer Giacomo.
Cesare era ereditiere di una straordinaria ricchezza, ma Giacomo, diseredato dal padre quando Fiorella aveva un anno, era stato depennato dal testamento per aver messo incinte due gemelle appena sedicenni, entrambe di ottima famiglia borghese. Non appena Sofia ebbe saputo di questa cosa, Marcello dovette trattenerla per i gomiti affinché non si scagliasse contro il genero. Straccione, morto di fame e pidocchioso taccagno, Marcello provava solo tenerezza nei suoi confronti: un tale personaggio non era niente di meno che un verme strisciante, era compito di un buon cristiano proteggere gli indifesi.
«Cos'è accaduto a madonna Flavia? E a sua madre, la splendida Sofia?» Cesare era allibito.
«Incendio» la "o" finale della parola venne inghiottita dalla voce di Cesare: «Come può Caino averli trovati? Scelsero appositamente la collocazione, mio padre ed Ezio, in modo che fosse invisibile, ma non isolata.»
«La regina dei boschi, soprattutto da giovane, canta» Claudia era sardonica.
Marcello singhiozzò: pura genialità.
La beccaccia era un uccello diurno, conosciuto appunto come "regina dei boschi", un semplice quanto intelligente gioco di parole.
«Flavia e Sofia, morte? Le nostre migliori Assassine? Per colpa di quel bastardo?» era chiaro come il sole che Cesare, ad una risposta affermativa, avrebbe attraversato la stanza ed ucciso il figlio maggiore.
«Così va il mondo. O almeno, il mondo alla fine del mondo» negli occhi di Claudia era spuntata una lacrima, ben nascosta dalla traccia di cinismo al limite del cattivo gusto nella sua voce.
Era visibile dal solo volto di Cesare l'astio e la vergogna ribollenti nel suo sangue.
«Lo ucciderò, lo ucciderò! Giuro su Dio che stavolta non-» «Fermatevi, messer Cesare.»
Marcello era entrato nella stanza, sbarrando il passo all’uomo che tentava di uscire.
«Marcello!» esclamò spiazzata la donna «nel nome del Signore, avresti anche potuto riposarti ancora, ti sei da poco ripreso!»
«No» la contraddisse, veemente «non sopporto più di stare incatenato. Credevo che fossimo d’intesa, zia.»
Claudia lo guardò con aria di sfida: «non appartieni a questo tipo di riunioni, messer Francesco
«Né accetto che una banda di sovvertitori parli di me alle mie spalle» ringhiò «se avete qualcosa da dire, ditela a me.»
«La solita arroganza» rise sprezzante Cesare «sei rimasto lo stesso figlio di un banchiere.»
«E voi non siete da meno in quanto arroganza, Cesare Beccaccia» soffiò sul suo volto «a causa della vostra stirpe, la mia si è quasi spenta.»
«Se mi lasciassi passare, non esiterei a mettere fine alla mia stirpe» Cesare lo guardò dritto negli occhi, nascosti nell’ombra del cappuccio.
«Non voglio che Giacomo venga compromesso in modo alcuno» Marcello chiarì a denti stretti.
«Come puoi dire questo? Lui vi ha venduti ai Templari!» sbottò Cesare. La mano inguantata del Beccaccia si chiuse attorno al lembo di stoffa che avvolgeva il petto di Marcello e lo tirò verso di sé.
«Decido io come vedermela con la mia famiglia, sei pregato di non intrometterti» mormorò mortifero.
«Credevo che fosse stato eliminato dall’albero genealogico. E vi ricordo che Fiorella Auditore è figlia di mia sorella, quindi fa parte della mia famiglia, pertanto è mio compito decidere quale debba essere la sua educazione. Voglio che rimanga col padre, sotto la tutela di madonna Claudia, e che tutte le sue passioni artistiche, quando sarà grande, vengano assecondate» Marcello spinse via Cesare e voltò le spalle al terzetto.
«Tutti i bambini dovrebbero crescere con i propri genitori» disse «non lascerò che anche su Fiorella venga impresso il marchio sanguinoso della solitudine.»

Atterrò di schianto su un tetto di tegole, che non cedette per miracolo. Rotolò lungo lo spiovente e si rialzò facendo leva sulle braccia, dandosi contemporaneamente la spinta per ricominciare a correre. Arrivò sul cornicione e spiccò un salto per raggiungere il ballatoio del palazzo di fronte, che attraversò e dal quale si lanciò per arrivare ad una scala. La salì e si ritrovò su uno degli edifici abitativi più alti di Firenze, dotato di una copertura piana di calce senza marsigliesi.
Da quel punto, l’aria della città era più limpida e celeste, portava il profumo del pane e dei pini, di tutto ciò che è autunno. Flavia gli aveva rivelato della sua esistenza, quando lui aveva quattordici anni. Diceva di salire lassù ogni volta che aveva da pensare, che quell’atmosfera trasparente la aiutava a schiarirsi le idee.
Marcello non aveva mai avuto molto su cui riflettere, nei precedenti venti anni di vita. Era sempre stato un ragazzo gioviale, allegro, un eterno fanciullo, la filosofia del carpe diem lo aveva accompagnato durante tutto il suo cammino. Si rendeva conto però che da quel momento non poteva più permettersi di giocare, in ballo c’erano grandi cose, e doveva iniziare ad allenare le spalle se aveva intenzione di reggerle. Caino era davanti ai suoi occhi, non sapeva che aspetto avesse, eppure riusciva a figurarselo; Saverio lo aveva definito “un pazzo”, eppure era un pazzo potente e con un arsenale indicibile dalla sua parte. Ciononostante, Marcello non pensava ad altro che alla sua vendetta: la morte di Caino era l’unica cosa che avrebbe riportato equilibrio nella sua vita, e non si sarebbe fermato mai, anche a costo di seguire gli ordini di quella Setta che lui tanto odiava.
Erano forti, forti abbastanza da poterlo addestrare.
«È forse questo un comune ritrovo di voi Auditore?» una voce echeggiò alle sue spalle.
Marcello si voltò, repentino, e fece scattare la Lama.
«Oh» mormorò «sei solo tu.»
Enzo Innocenti alzò un angolo della bocca. Quel figlio di un banchiere!
«Non mi è particolarmente piaciuto il modo in cui ci hai abbandonati, stamane» gli confessò, avvicinandosi alla sua figura.
«Scommetto che Cesare ha dato di matto.»
«Oh, avresti dovuto vederlo. Era furioso.»
«Perché me ne sono andato di punto in bianco o perché io sono riuscito a spaccare la faccia a quel bastardo di Giacomo?» chiese Marcello.
Enzo parve ponderare la risposta, prima di esalare: «entrambe.»
«Lo immaginavo» sorrise.
«Mi è piaciuto quello che hai detto prima di andartene, invece» riprese «è stato molto bello.»
«È solo quello che penso» ribatté asciutto «non ricamarci sopra.»
«Secondo madonna Auditore, sei molto cambiato in questi giorni» Enzo non parve ascoltarlo «per me, invece, non lo sei affatto.»
Un ghigno amaro si fece strada sul volto di Marcello.
«Da quant’è che ci conosciamo, Auditore? Sei anni?» chiese Enzo, retorico.
«Più o meno, credo di sì» rispose incerto.
«In questi sei anni sei sempre stato una gran bella testa calda. Un donnaiolo, un bevitore, un incosciente, uno scavezzacollo, un dirittone, un approfittatore, un codardo, ed un vero marrano» elencò Enzo, che ad ogni aggettivo aggiungeva un dito alzato «però mai un irresponsabile.»
Marcello osservò la Firenze che gli si stagliava davanti, si interrogava su cosa Enzo avesse voluto dire. Lui era il mas, non il vir.
«Per quanto fossi un mascalzone, non sei mai stato un cattivo. Sei buono, e i buoni sono destinati alla grandezza. Per te era solo questione di tempo.»
«Non la penso in questo modo. Ciò che mi spinge ad andare avanti, oltre al desiderio di proteggere Fiorella, è quello di vendicare la morte di mia madre e mia sorella» le punte tristi delle chiese di Firenze nel loro immacolato candore gli ispiravano cupi pensieri.
«La nobiltà d’animo è ciò che ti rende forte, è ciò che ti renderà invincibile» Enzo sorrise.
Marcello con la coda dell’occhio lo vide arretrare fino al limite estremo del tetto, poi cominciare a correre.
Prima che capisse le sue intenzioni, avvertì la sua grande mano scontrarsi con la sua schiena, spingendolo di sotto. Marcello gridò, pallido di paura.
Però quella sensazione di libertà…
E quell’incredibile senso del potere che scorreva nelle vene…
Enzo fece una giravolta a mezz’aria, così Marcello lo imitò senza pensare.
Il vento nei capelli lo faceva galleggiare come una bolla, senza peso.
Il sibilo dei vestiti sferzati dall’aria tagliente echeggiava come il rumore infernale di mille spade, ma non ne aveva paura.
Libero. Potente. Leggero. Impavido.
La sua schiena si scontrò contro un provvidenziale mucchio di fieno, proprio mentre Enzo atterrava al suo fianco. Lo sentì scoppiare in una grassa risata, teneva le mani incrociate sullo stomaco.
«PERCHÉ DIAVOLO STAI RIDENDO, SEI FUORI DI TESTA? POTEVAMO MORIRE!» le mani di Marcello non tremavano.
«Buon sangue non mente, figlio di un banchiere» Enzo ancora sghignazzava «e va bene, che un altro Auditore venga a succhiare il mio latte intriso di sapere e conoscenza assassina.»
Marcello arrossì: «La zia ha…?»
«Interceduto tra me e te, sì» confermò, spazzandosi gli abiti con una mano ed offrendola all’altro per alzarsi.
«Allora mi insegnerai a difendermi?» nei suoi occhi brillava una luce di gioia quasi infantile.
Enzo sorrise. Aveva già visto quella scena, tanto tempo prima.
«Allora mi insegnerai a difendermi?» negli occhi di Flavia brillava una luce di gioia quasi infantile. E del resto era normale, quella davanti a lui era poco più che una bambina.
«Va bene, figlio di un banchiere.»
«Va bene, fiorellino.»

La Villa di Claudia era stata costruita a modello della vecchia Villa Auditore di Monteriggioni.
Un enorme ed imponente edificio, raggiungibile tramite una fila di scale di quasi cinquanta gradini, si stagliava in una zona riparata di Firenze, a poco dal centro della vita cittadina, Piazza della Signoria.
Il cortile esterno era diviso in due da una strada di ciottoli che conduceva alla porta di legno a due battenti, sulla quale il simbolo della Famiglia era dipinto in rilievo con grande cura. Il primo locale che accoglieva l’ospite era un atrio dal pieno gusto rinascimentale, in marmo pregiatissimo e legno di betulla. Alle pareti erano appesi quadri di ben noti artisti fiorentini ed europei, tra cui quelli di un certo Giovan Battista di Jacopo, ora in Francia alla corte di Francesco I. A sinistra c’era l’ingresso aperto per la Sala delle Arti, dove Claudia poteva dar vita a tutti i suoi capricci da mecenate, mentre a destra una porta chiusa segnalava l’entrata riservata nel sancta sanctorum della Villa, dove erano conservati gelosamente tutti gli atti, i possedimenti e le risorse economiche di Claudia: era la Stanza del Tesoro, sorvegliata ventiquattr’ore su ventiquattro da una coppia di guardie bardate di corazza. Una sontuosa scala portava al piano superiore, sede delle stanze del Capitano Saverio Bianchi e di alcuni membri speciali della Guardia. Un’altra scala a chiocciola di ferro battuto al piano terra si avvitava fino ad arrivare al terzo piano della Villa -altrimenti raggiungibile dal secondo piano grazie ad un’ulteriore scalone di marmo-, sede dello Studio di madonna Auditore e di altre camere che non potevano essere visitate se non grazie a speciali permessi -come una piccola targa di ottone non mancava di sottolineare, la quale recitava “accesso riservato”-; un lunghissimo corridoio, ai cui capi c’erano altri gruppi di guardie armate alla leggera, portava ad un enorme cortile interno, circondato da alte mura, che era segretamente il campo di addestramento degli Assassini.
Un secondo fabbricato di materiale ignifugo e resistente fungeva da deposito ed armeria, una delle più grandi di Firenze, un atto di arrogante sfida di Claudia Auditore nei confronti del tiranno Alessandro de’ Medici.
Al tramonto, Marcello Auditore ed Enzo Innocenti salivano a Villa Auditore, dopo un’intera giornata passata tra i tetti di Firenze; Enzo aveva voluto mettere alla prova le abilità di scalatore di Marcello, che con il piede offeso aveva dovuto saltare, correre, arrampicarsi e fare acrobazie per compiacere il suo nuovo maestro. Marcello avrebbe tanto voluto riposarsi, ma non voleva sembrare debole ad Enzo, il quale nonostante i dieci anni a sfavore pareva fresco come una rosa.
La luce arancione bagnava la figura di una bambina che stava nel prato, sotto il distratto ed intristito sguardo del padre. Innocenti affrettò il passo per entrare nell’abitazione, Marcello si fermò a guardare Fiorella.
Ricordava che Fiorella amava i fiori. Ogni volta che tornava dal mercato, le portava sempre un mazzo di margherite bianche, le sue preferite. Lei squittiva ed iniziava subito ad intrecciarle.
Adesso la bambina sedeva in una macchia di fiori campestri, ma non li toccava. Non li guardava.
Teneva lo sguardo fisso sul rosso del calar del sole, una manina grassoccia sulla bocca e l’altra poggiata lungo il fianco. Una viola si posava sul suo vestito dai colori pallidi ed i lunghi ricci neri le cadevano sulle spalle piccole, mentre lei osservava la discesa del disco scarlatto come se questi fosse d’improvviso il suo più grande interesse.
Giacomo teneva le mani sotto il mento ed osservava Fiorella con sguardo assente.
«Non dovrà accaderle nulla» sibilò Marcello al padre, che gli prestò un’attenzione smunta «ti lascerò vivere soltanto perché tu possa prenderti cura di lei in mia assenza. Ma compi un solo passo falso e ti reciderò la gola, lo giuro sulla memoria della moglie che hai ucciso.»
«Continuerai a tenere questa spada di Damocle sulla mia testa per sempre? Potrebbe servire a qualcosa dirti che brucerò per sempre nelle fiamme per questa mia irrimediabile colpa?» sussurrò Giacomo. Sembrava sincero.
«Fa’ sì che torni ad amare la bellezza» rispose Marcello «ed un giorno avrai diritto al riscatto che agogni.»
«Sarà fatto, messer Francesco. Lo giuro sul mio onore.»
«Giuralo su qualcosa che vale.»
Giacomo lo guardò negli occhi, una scintilla di vita nelle iridi verdi.
«Sull’onore degli Assassini.»
Marcello chiuse gli occhi. Onore ed Assassino erano due parole che non coincidevano, nella sua mente. Un Ordine senza Dio e senza legge non era qualcosa da poter definire “onorevole”, ma sapeva che l’opinione comune era molto diversa, quindi accettò il voto di Giacomo come valido.
Lanciando un ultimo sguardo alla bambina non più bambina, anche l’Auditore varcò la soglia della Villa.
Enzo sedeva sulla scalinata di marmo, in sua attesa. Aveva una mela in mano, presa certamente dal cesto di frutta posato sul tavolino, e le dava piccoli morsi.
«È dissetante» disse a Marcello, invitandolo a servirsi. Marcello prese a sua volta una mela e la morse, il suo succo si spanse generoso nella sua gola e gli ridiede un minimo di energia.
«Avrai bisogno di forze, per compiere l’ultimo passo. Noi lo chiamiamo “il battesimo del fuoco”» gli spiegò Enzo «è una pratica che va avanti dall’inizio dell’Ordine e tutti gli iniziati che passano per questa via, quella di venire introdotti agli Assassini tramite un membro anziano, devono sottoporvisi.»
«Io non sono un Assassino, Enzo» affermò Marcello con durezza, scoccandogli un’occhiata gelida.
«Hai ragione. Non condividi il nostro Credo, ma condividerai parte della nostra forza» esclamò Claudia. Marcello si girò e la vide appoggiata alla balaustra del piano superiore, scrutarlo con sguardo divertito «è giusto che noi testiamo le tue capacità»
«E in cosa consistite questo battesimo del fuoco?» chiese Marcello, che pure non era capace di non dimostrarsi ostile.
«Per ogni iniziato, la prova è diversa. La tua è… interessante» disse madonna Auditore, maliziosa.
Marcello si sentì molto meno sicuro e diede un altro morso alla mela.
Enzo lo condusse lungo il corridoio di marmo al terzo piano e poi giù, al cortile interno.
La via dalla Villa all’Armeria era segnalata da fiaccole le cui fiamme si smuovevano nell’aria fredda.
Su tutte le facciate dell’Armeria, una pianta di rosa rampicante si avvitava fino al tetto. L’unica parte non coperta dai rami spinosi della pianta era la grande porta, che serviva alle guardie ed agli Assassini per portare dentro e fuori le armi.
Marcello aveva un orribile presentimento.
«Rosa!» dichiarò Saverio, che stava vicino alla via costeggiata di fiaccole.
«Rosa» ribadì Cesare, un sorriso sardonico nascosto nell’ombra.
«Rosa» mormorò Claudia «regina d’inganni e tessitrice di amori proibiti. Cosa ci viene in mente, d’altronde, quando pensiamo alla rosa? La bellezza.»
«Eppure non ci vedo alcuna bellezza in quelle lunghe spine» deglutì Marcello.
«Per giungere alla felicità si passa per il dolore» ribatté Enzo «anche se spesso non si smette mai di soffrire.»
«Spina etiam grata est si spectatur rosa, disse un noto scrittore latino» continuò, mentre lentamente attraversava quel corridoio nella luce sempre più buia «e noi aspettiamo il fiorire di questa rosa da immemori tempi.»
«Tutti noi abbiamo camminato tra i rovi. Il nostro sangue ha colorato i petali dei tanti fiori che abbiamo lasciato sbocciare, e la pace che cerchiamo si trova alla fine della lunga via che attraversiamo dall’origine dell’Universo.»
«Ciò che ti chiediamo di fare, Francesco, è attraversare quella via di sofferenza. Alla fine, troverai la rosa» disse Saverio «e ce la mostrerai.»
Non puoi farcela!, gridò il mas.
E perciò tenterai sempre più duramente, affermò il vir.
Marcello si avvicinò circospetto all’edificio, tremava di freddo e paura. La sua mano si chiuse attorno ad un pugno di spine, iniziando a sanguinare subito copiosamente.
La ritirò di scatto ed osservò i lunghi sfregi procuratisi per il contatto: ogni esitazione era fatale, fermarsi equivaleva alla morte.
È una sfida impossibile, te ne rendi conto?, diceva il mas.
È una sfida, te ne rendi conto?, diceva il vir.
Marcello afferrò una manciata di spine con entrambe le mani, poi altre, poi altre ancora. I bracci della rampicante non davano sostegno ai suoi piedi, si spezzavano non appena applicava un po’ di pressione per sollevarsi: non era mai al sicuro, era sempre esposto ai pericoli, stava a lui fuggire o affrontarli senza cadere.
Come può il dolore non piegarti?, chiedeva il mas.
Come puoi piegarti al dolore?, chiedeva il vir.
Marcello afferrò una delle poche rose non tagliate dai manutentori. Essa s’impregnò all'istante del suo sangue, ma gli forniva una dolce anestesia: il conforto giunge nei momenti più insperati da coloro che più di tutti si dimostrano coriacei alla sofferenza.
Fermati, lo implorava il mas.
Ora o mai più, lo spronava il vir.
Si sentì scivolare e quindi si aggrappò in modo più saldo alle spine che teneva nel pugno: anche se sono malvagi, anche se ispirano sofferenza, anche se più di tutto fanno colare lacrime e sangue, i ricordi sono l’unica cosa confortante a cui sai di poterti attaccare.
Perché lo stai facendo?, gli domandava il mas.
Perché è l’unica scelta che hai, rispondeva il vir.
Le sue dita insensibili si aggrapparono a qualcosa che non gli lacerava la pelle. Aprì gli occhi -quando li aveva chiusi?- e si accorse di aver scalato l’intero palazzo.
Come?, chiese il mas.
Con la tua forza, rispose il vir.
Salì sul tetto e vide uno spettacolo che gli allargò il cuore: in ogni angolo, rose damasco spandevano il loro delizioso profumo. Il rumore del sangue che cadeva a terra in piccole gocce seguiva i suoi passi verso la concentrazione maggiore di fiori. Tra di essi, spuntava una sola rosa bianca. Marcello si tirò la manica oltre la mano, che si sporcò di rosso, e colse quell’esemplare di bellezza indescrivibile: tra tanti esempi di effimere paci, come le paci umane, ne esiste una universale, che un giorno troverà risurrezione come il Sole che dopo tutte le notti torna a sorgere.
Per cosa combatti?
Lo vedo già, nipote mio. Vedo già quel giorno.
Nel buio, Marcello giurò di aver sentito un aquila gridare.
Corse lungo il tetto.
Per cosa resisti?
Sei un grande uomo, Marcello Auditore. Non te ne scordare mai.
Piegò le ginocchia.
Per cosa vale la pena la pena vivere?
È la tua strada, non puoi tirarti indietro.
Spiccò un salto a braccia aperte.
Per cosa vale la pena sentire qualcosa nel cuore?
Un nome non vi fa padvrone, monsieur Mavrscello. Un nome non vi favrà vostvro padvre.
Libero. Potente. Leggero. Impavido.
Marcello Auditore non aprì gli occhi.
Non li aveva mai chiusi.
ladie’s a gentleman! (author’s corner)
7690.
“Non mi ridurrò più a scrivere un capitolo di dieci pagine!”
Infatti l’ho scritto di undici. La coerenza, Ladie, la coerenza.
Ok, qui non è successo un granchè, nel vero senso di trama. Certo, abbiamo scoperto che Enzo è un Assassino, che TUTTI sono Assassini, però alla fine di concreti avvenimenti ce ne sono pochi, questa è l’introduzione al prologo, che dal prossimo capitolo entrerà nel vivo con la difesa di Arezzo.
Questo capitolo l’ho scritto “più lentamente” degli altri poiché ho passato una settimana in crociera -fuck yeah!-, nella quale ho comunque scritto (nei due giorni in cui non siamo scesi a terra e nei quali il pomeriggio non c’era NULLA da fare) le cose essenziali per la trama, che ho finalmente delineato in modo completo. Di personaggi storici ce ne sono un bel po’ da sfruttare, certo, pochi rispetto al vero Assassin’s Creed, ma inizieranno tutti a comparire dal primo vero capitolo di Diari di un onesto Assassino (contrassegnato, assieme ai capitoli facenti parti dello stesso gruppo, dalla dicitura La Ricerca), anticipato da alcune parti di prologo.
Ah, ma quanto è figo il “Requiescat in pace” di Chantal?
Ringrazio Bianca per l’aiuto con il francese e Francesca per l’aiuto con lo spagnolo, prima di chiudere vi accludo un altro paio di immagini:
Prestavolto di Caino 1, Prestavolto di Caino 2, dovete ovviamente immaginarlo con i capelli neri, purtroppo non ho trovato di meglio.
Chiave della Confraternita Francese.
Amore imperituro ai lettori e venerazione ai recensori.
Kiss,
la vostra SCONVOLTA PER MIDNIGHT DEI COLDPLAY Ladie.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: Mirin