Il destino di Qayin
La notte era scesa
in fretta, quel giorno, un po’ per l’inverno che si
intestardiva ad accorciare le ore di luce, un po’ per il
maltempo che copriva il cielo con la sua coltre di nubi grigie.
Marcello sospirò, stringendosi la cintura in vita e seguendo
con lo sguardo insolitamente attento i passi del miliziano che
pattugliava i corridoi. Attese che l’uomo tonasse sullo
scalone principale, dopodiché balzò in piedi nel
fieno del suo giaciglio.
Quella era l’ultima notte che avrebbe passato da prigioniero.
Si affacciò alla stretta finestra che dava sul Tevere,
l’unico rettangolo di luce che aveva su quella che era la
realtà al di fuori del corridoio delle carceri. Un varco tra
la prigionia e la libertà decisamente troppo stretto per un
uomo normale, ma Marcello era di costituzione minuta e in quei mesi
aveva perso parecchio peso. Dopo una settimana passata a rifiutare il
rancio, poi, gli si contavano le costole.
Aveva tanta fame da poter sbranare un’intera mucca, ma si era
ripromesso di non toccare cibo se non una volta libero.
Quanto più silenzioso poteva, si infilò
attraverso il rettangolo di mattoni, sporgendosi sul vuoto della torre
quanto bastava per dirsi ufficialmente evaso.
Ebbe un capogiro quando si azzardò a guardare in basso, ma
si obbligò ad appiattirsi contro il muro tenendo i piedi ben
fissi sul cornicione. Strisciò lungo la parete della torre,
scendendo con estrema cautela verso un’asse sporgente che
dava sul battifredo più basso. Da lì, con una
buona dose di coraggio, si lasciò cadere sul tetto della
costruzione, su cui atterrò di fondoschiena.
Dolorante, si ritirò in piedi.
Nessuno pareva averlo notato.
Si chiese se il miliziano che percorreva il corridoio si fosse
già accorto della sua scomparsa, ma preferì non
indagare oltre.
Diede le spalle al complesso della torre e dei suoi battifredi che per
mesi lo aveva tenuto prigioniero e si tuffò nelle acque
gelide del Tevere, vantando quantomeno un buon talento nel nuoto. Di
certo non si era mai tuffato nei canali veneziani, ma suo padre si era
assicurato di dare a tutta la sua prole un minimo di
capacità di sopravvivenza, insegnando loro a sguazzare nella
laguna. Se fossero caduti dall’imbarcazione mercantile dei
Donà, sarebbero quantomeno rimasti a galla.
Compiaciuto al pensiero dell’unica cosa che Francesco
Donà era stato in grado di insegnargli, Marcello
nuotò più o meno rapidamente fino alla sponda
più vicina.
Una volta tornato con i piedi sulla terra ferma, si liberò
della casacca fradicia e prese a correre, sperando vivamente che la
lurida camicia che gli restava addosso non facesse gola a qualche
brigante con i suoi bottoni d’oro cuciti sui polsini.
Dopotutto, quei ninnoli erano l’unico denaro che aveva.
Non riuscì a capire per quanto tempo corse, ma dalla
campagna riuscì ad addentrarsi in un nodo di strade
insolitamente vive, animate dalla folla che le occupava tra
chiacchiericci e grida di gioia.
Era sera inoltrata ormai, ma lì doveva esserci una festa.
Le vie erano illuminate a giorno da delle lanterne, le case decorate
con nastri e fiocchi. I bambini si rincorrevano tra i cesti di tuberi,
mentre le massaie ridevano ai lati della strada.
Stranito, Marcello allungò il braccio per fermare un uomo.
«Che giorno è, questo?», chiese,
supponendo di essere già intorno alla data del Carnevale.
Il passante gli sorrise.
«Uno di festa!», rispose, cordiale. «Il
secondo dei festeggiamenti per il compleanno del Papa!»
Marcello sospirò sollevato. Dunque, era ancora in tempo per
fare ritorno a Venezia e non perdersi i giochi di Febbraio. Dopo tutto
quel tempo passato ad oziare con la paglia della prigione, il solo
pensiero di poter assistere al Carnevale gli mise addosso una grande
felicità.
Ringraziò quindi il buonuomo, riprendendo a camminare con
passo più rilassato per le vie di Roma. Si
prefissò la partenza per Venezia il giorno dopo,
concedendosi una serata di festa e una notte degna di tale nome in
qualche locanda, su un letto vero con delle coperte che non sapessero
di vomito.
Il solo immaginarlo gli fece toccare il cielo con un dito.
Perse qualche ora a vagare tra la folla, incerto sul dove andare ma
ormai sicuro che le guardie non lo stessero seguendo.
Leggiadro, salutava i bambini, parlava con i passanti, si fermava
dinanzi agli spettacoli itineranti degli artisti di strada per
ammirarne la bravura.
Era ancora estasiato da quell’atmosfera di festa, quando le
notò.
In fondo alla piazza, un gruppo di quattro ragazze gridava divertito
agli schizzi d’acqua che un ragazzo un poco più
vecchio buttava loro addosso da una fontana. Qualche passo
più distanti, altri tre ragazzi osservavano la scena con un
sorriso divertito dipinto sul viso.
«Alessandro! Basta!», strillava una delle
fanciulle, avvolta in un grazioso abito azzurro che faceva danzare i
suoi capelli rossi lasciati liberi sulle spalle. «Fa
freddo!»
Una ragazza castana si staccò dal gruppo, prendendo a
camminare in senso opposto a quello di Marcello.
«Andiamo, dovremmo già essere
all’Isola!», esclamò, indicando la
strada. «Se torniamo dopo il coprifuoco, Machiavelli
darà di matto di nuovo!»
Assieme alle ragazze, anche i ragazzi più lontani presero a
seguirla.
«Corella, muoviti!», gridò uno di loro a
quello ancora alla fontana. «Piantala di provarci con Paola!
Sei ubriaco!»
Marcello rimase impalato a guardare il gruppo allontanarsi. Gli
ricordava terribilmente casa, quando Andrea si prendeva cura di lui,
Margherita e Pietro all’uscita dalla Messa pasquale. Quanto
gli mancavano, quei momenti spesi a giocare sui canali assieme ai suoi
fratelli! Si chiese come stessero, se Andrea fosse poi partito per
l’Oriente, se Margherita si fosse maritata. Non gli mancava
poi molto per scoprirlo. L’indomani a quell’ora
sarebbe di certo stato tra le lenzuola calde del suo palazzo sul Canal
Grande.
Scrollando le spalle, imboccò una via laterale.
Dopo tutte le emozioni della sua scalata, del tuffo e della corsa a
perdifiato per le campagne si sentiva stanco e fradicio.
L’aria invernale gli pungeva la schiena e gli faceva venire
voglia di buttarsi su un materasso, magari dinanzi a un bel caminetto
acceso.
Si fermò quindi davanti al portone della prima locanda che
gli capitò a tiro; una vecchia stalla adibita a osteria e
qualche camera messa a disposizione per i viaggiatori senza troppe
pretese.
Reduce dalla prigione, Marcello poteva accontentarsi di qualunque
trattamento gli avesse permesso di dormire al caldo.
Spinse il portone, inspirando a fondo l’aria tiepida che
sapeva di arrosto e vino bollito. Pregustava già il sapore
di quelle deliziose pietanze nel suo stomaco che troppo a lungo era
rimasto asciutto. Varcò la soglia, quindi, chiudendo gli
occhi per permettere al suo naso di guidarlo fino alla cucina. Mosse il
primo passo e andò a sbattere contro il petto di un uomo.
«Donà?!»
Quella voce per poco non gli causò un mancamento.
Ridonando alla vista il suo giusto ruolo, si obbligò ad
aprire gli occhi.
In un momento realizzò la sua sventura.
Non era soltanto un uomo, quello contro cui era andato a sbattere.
Era il Conte di Ladispoli, il Capitano, un tirapiedi dei Borgia e
– cosa che dovette realizzare nell’effimero istante
che passò da quando l’uomo gridò il suo
nome e i suoi soldati gli furono addosso – il suo carceriere.
Di nuovo.
I suoi passi scattanti sulle scale
rimbombarono nel silenzio del salone, così veloci e furiosi
che per una volta parvero quasi dimenticarsi di tutta la discrezione
alla quale erano tanto dediti di solito.
Cristiano Pagni si buttò sul corridoio, imponendo al suo
fiato di farsi più leggero. Tese l’orecchio in
cerca di un suono, di una risata.
Niente.
«Viola!», chiamò, incrociando le braccia
sul petto mentre riprendeva a correre per tutto il piano.
«Laura!»
Quelle maledette ladruncole gli avevano sfilato il borsello dalla
cinta, giocando per un po’ a passarselo quasi fosse una palla
per poi fuggire a nascondersi chissà dove.
Bel modo, di passare quell’unico pomeriggio che Machiavelli
aveva lasciato loro libero. Davvero divertente.
Si augurò quanto meno che quelle due ragazze si stessero
godendo il loro scherzo, perché a lui tutta quella storia
cominciava a dare noia. Si era prefissato di scendere a Roma e farsi
confezionare una casacca nuova ma ora, senza pecunia, gli era
praticamente impossibile persino lasciare il Covo.
«Viola!», gridò di nuovo, iniziando ad
aprire le porte delle stanze che si affacciavano sul corridoio.
«Viola, Laura, andiamo!»
Aprì la porta del bagno, entrando con aria circospetta.
Quando un odore poco gradevole lo colpì – insieme
ad una visuale di Ezio Auditore concentrato sulla latrina –
sbuffò. Si appoggiò con aria stanca e afflitta
allo stipite della porta, guardando scoraggiato l’impegnato
Mentore.
«Hai visto Violante e Laura? Mi hanno fatto un brutto tiro,
stavolta.»
Ezio lo guardò scocciato, non particolarmente propenso al
dialogo.
«Nemmeno al bagno, posso starmene da solo con i miei
pensieri?»
«Più che con i pensieri, a me sembra che tu stia
cercando intimità con la cena di ieri
sera», commentò il biondo, storcendo il naso.
«Dovresti aprire la finestra.»
Il Mentore gli scoccò un’occhiata seccata,
sospirando rumorosamente mentre spostava lo sguardo sul corridoio.
«Mi sembra ovvio che qui non ci siano né Violante
né Laura», rispose, alzando appena la voce.
«Sono brave a nascondersi; prendilo come un addestramento e
va’ a cercarle di tuo pugno.»
Cristiano esitò un istante, aggrottando la fronte. Istante
che fu sufficiente ad Ezio per incalzare nuovamente: «Su,
va’!»
Il ricciolo uscì, chiudendo la porta con enfasi prima di
riprendere la sua missione personale.
Bell’allenamento, in effetti, visto che Violante e Laura
parevano essersi dissolte nel nulla. Ovviamente non erano al
dormitorio, né nella sala grande. Non erano nelle cucine,
né sul tetto.
Cristiano aveva rovesciato l’Isola Tiberina come un calzino
per localizzarle, ma le due ragazze sembravano essersi dissolte come
fumo.
Improvvisamente, qualcosa attirò la sua attenzione.
Una risata femminile, proveniente dallo studio di Machiavelli.
Sorrise vittorioso, camminando leggero sino alla porta e appoggiando la
mano sul pomello. Non aveva pensato di controllare anche lì.
Violante e Laura avevano davvero scelto il luogo perfetto dove
ritirarsi. Chi mai sarebbe andato a controllare lì dentro?
Fece scattare la serratura e spinse la porta quel poco che bastava per
permettergli di spiare all’interno. Intendeva innanzitutto
accertarsi che Machiavelli non fosse nello studio, magari pronto a
colpirlo con una delle sue fantasiose punizioni. Nel caso la stanza
fosse stata deserta, si sarebbe concesso la licenza di dare
un’occhiata agli armadi per scovare finalmente quelle due
ladre.
Ormai, invitato dalla persistente risatina leggiadra, dava per scontato
di avere la vittoria in pugno.
Si accorse che la voce tanto divertita non apparteneva a Violante
né tantomeno a Laura quando si trovò di fronte
alla chioma ramata di Paola.
Sgranò gli occhi, osservando la ragazza slacciarsi con
grazia i cappi della camicia, lasciando libero il suo seno florido
prima di chinarsi su Machiavelli per strappargli un bacio sulle labbra.
Era seduta sulle sue gambe, gli occhi socchiusi, le dita ferme sulle
spalle dell’Assassino che ricambiava i suoi baci
accarezzandole avidamente la schiena nuda.
Cristiano non riuscì a vedere altro.
In preda al panico, si guardò bene dal fare rumore e chiuse
immediatamente la porta, voltandosi di colpo per dimenticare
l’accaduto.
Sentiva le guance in fiamme e la mente offuscata. La visione che aveva
appena avuto era più che degna del peggiore dei suoi incubi.
Tornò rapido sui suoi passi, chiudendosi nel bagno insieme
al Mentore, che parve quasi sollevato nel vederlo lì di
nuovo.
«Pagni, per fortuna», biascicò infatti,
passandosi una mano sulla fronte. «Mi sono accorto di non
aver nulla con cui pulirmi.»
«Machiavelli», disse solamente il biondo,
guardandolo spiazzato. «Lui è … Cristo,
non pensavo fosse un vero uomo!»
Ezio ridacchiò, grattandosi fiacco una guancia.
«Ogni tanto può sembrare uscito da un sonetto
dantesco, tanto è cencioso e preciso, ma è fatto
anche lui di carne e ossa. Che ha combinato, ora?»
«Si sbatte Paola, suppongo.»
Il Mentore lo guardò, perplesso.
«Tutto qui?», chiese.
Cristiano sbuffò.
«Tutto qui.»
Ezio scoppiò a ridere.
«Se la sta portando a letto da settimane!»,
esclamò, colpendosi la fronte con il palmo aperto della mano
quasi avesse appena ascoltato niente più che una barzelletta
da osteria. «Lo sanno tutti, ormai!»
Cristiano mantenne lo stesso sguardo ed espressione, prima di alzare
gli occhi al cielo ed imprecare.
Uscì di gran carriera dal bagno, lasciando il
Mentore a disperarsi per la mancanza di qualcosa con cui pulirsi,
deciso a parlarne con qualcuno che potesse davvero comprendere il suo
sconforto.
«Corella! Lorenzetti!»
Trovò i due ragazzi intenti a lucidare un paio di stivali
lerci dal fango di quella mattina.
Corella, decisamente brillo e con un calice di vino rosso tra le mani,
raccontava al suo compare di come fosse rovinosamente caduto addosso a
un paio di massaie durante la corsa. Lorenzetti ascoltava in silenzio,
tutto preso a mettere in sesto le sue calzature di pelle.
Quando udirono la voce di Cristiano, entrambi si voltarono verso le
scale.
«Ah!», trillò Corella, alzando il calice
verso il biondo. «Il Principe innamorato! Spallaci mi ha
detto ogni cosa! Vieni qui, vieni qui. Non abbiamo avuto modo di
parlare per bene ultimamente, uhm?»
Cristiano sentì le gote calde, sintomo che dovevano essersi
arrossate, ma decise di non darvi peso. Si sedette fra i due quasi di
prepotenza, sfilando il calice dalle mani dell’amico e
tracannandone il contenuto.
«Non è il momento, Corella. Ci sono cose
più allarmanti di cui discutere.» Rimase un attimo
in silenzio, creando così maggior tensione, prima di
sospirare e buttar fuori: «Ho appena visto i seni di
Paola.»
Bengiamino alzò un sopracciglio.
«Quindi?»
«Vi era la faccia di Machiavelli, fra di essi.»
Corella impallidì, Bengiamino … bé,
difficile dirlo, visto il suo abituale colorito biancastro.
«Tu hai visto cosa?!», gridò il
forlivese, scattando in piedi come una molla. «Ma
… dove? Quando?»
Bengiamino lo zittì prendendolo per la spalla e rimettendolo
seduto sulla panca.
«Sta’ calmo», si raccomandò.
«Non capisci!», gli rimandò contro
Corella. «Ha visto i seni di … Paola! E
c’era la faccia di Machiavelli in mezzo!»
Cristiano annuì energicamente.
«E pareva molto felice.»
«Chi non lo sarebbe?», ribadì
Alessandro, grugnendo sconfortato quando si prese il volto fra i palmi
delle mani. «Dovrei esserci io, in mezzo a quel ben di Dio,
non Machiavelli! Lui non è sposato?!»
Lorenzetti riprese a strigliare gli stivali, scuotendo piano il capo.
Pagni, invece, guardò perplesso verso l’amico
forlivese.
«Da quando questo è un limite?»
«Da quando dovrebbe lasciare spazio a noi giovani, ecco da
quando!», ribatté Corella, ormai distrutto dalla
notizia. Si tirò debolmente fino al tavolo e si
versò dell’altro vino, buttandolo giù
tutto d’un fiato. «Capisco molte cose, amici
miei», considerò allora. «In effetti
Paola non è mai stata troppo in nostra compagnia,
ultimamente.»
Bengiamino sbuffò.
«Questo perché le fissavi continuamente i seni e
la mettevi a disagio.»
Il forlivese annuì.
«O, più semplicemente»,
ribatté. «Perché aveva da fare con
Machiavelli!»
«Bel partito però, questo dobbiamo
concederglielo», disse Cristiano, inclinando il capo.
«Si è garantita un posto nei meravigliosi cinque,
così. Chi direbbe mai di no a Machiavelli?»
«Sembra una storia già sentita»,
infierì Corella, sogghignando. «Anche una certa
bolognese si è infilata tra le lenzuola di qualcuno che sta
in alto, se non erro.»
Bastarono quelle parole a far passare il buon umore a Pagni.
Si alzò di scatto, mormorando qualcosa riguardo il troppo
vino che rende stupidi, prima di ritirarsi dentro al Covo.
Corella rise.
«Suscettibile, uhm? L’amore rende più
stupidi del vino.»
«Guardate quanto
è bella Roma!»
Il fracasso delle grida di Corella copriva gli scoppi fragorosi dei
fuochi che, come ogni anno, venivano sparti in cielo per celebrare il
compleanno del Pontefice.
«Ci penserà la Farnese, a festeggiarlo. Potevano
risparmiarsi tutto questo trambusto!»,
decretò Laura, seduta accanto a suo fratello.
A pochi metri dal gruppo, Violante la guardò, trovandosi
pienamente d’accordo, prima di riabbassare gli occhi sotto di
sé. Con le gambe a ciondoloni nel vuoto, seduta
sull’ultimo anello del Colosseo insieme agli altri, la
bolognese non si sentiva affatto in vena di controbattere in alcun modo.
Erano saliti fin lassù per festeggiare la serata libera e si
erano ritrovati in mezzo alla celebrazione per il Pontefice. Tanto
valeva bere e godersi ugualmente la vista.
Di tutto il gruppo che quella sera si era presentato a cena, soltanto
lei, Chiara, Laura, Bengiamino, Cristiano e Corella avevano voluto
uscire per festeggiare.
A dirla tutta lei stessa se ne sarebbe stata volentieri a recuperare
ore di sonno, ma Chiara aveva insistito tanto ed era stato praticamente
impossibile dirle di no.
Per cui, erano arrivati fin lì carichi del vino che era
rimasto nelle cantine e si erano trovati un posto in prima fila per lo
spettacolo del Pontefice. Fuochi artificiali provenienti dalla Cina, a
giudicare dai colori sgargianti che illuminavano a giorno il cielo
scuro della città.
«Mi chiedo perché gli altri non siano voluti
venire», considerò d’un tratto Chiara,
stringendosi nel mantello verde che si era portata per ripararsi dal
freddo pungente.
«Semplice!», trillò Corella,
già palesemente ubriaco. «Spallaci aveva da
accudire il suo piccolo …»
«Fiore di Maggio», suggerì prontamente
Laura.
«Fiore di
Maggio!», ripeté il forlivese. Si
alzò in piedi e prese a muovere il bacino, scolandosi anche
l’ultimo sorso di vino che aveva nel bicchiere.
«Fiore di Maggio, ma dico io! Che nome, per un
cavallo!»
Cristiano rischiò di soffocare con il vino, facendone uscire
un po’ addirittura dal naso.
«Menti!», gridò, quando fu in grado di
parlare di nuovo. «Quale depravato chiamerebbe
così una povera bestia?»
«Te l’ho detto: Spallaci!», insistette
Corella, barcollando verso di lui sorretto solo da buone intenzioni. Si
appoggiò alla sua spalla, parlando con tono cospiratorio.
«Scommetti che l’ha chiamato così sua
madre? Dopotutto, quella donna gli regge anche l’uccello
quando piscia, secondo me!»
Risero tutti, cosa che diede a Corella la forza per rimettersi ben
dritto sulle gambe.
«E Paola!», esclamò, sposandosi di nuovo
verso Bengiamino. «Paola che pensa ai bisogni di Vossignoria
Machiavelli anziché a quelli dei suoi baldi
compagni!»
Si sporse un po’ troppo in avanti, ma Lorenzetti lo
afferrò in tempo per un lembo della blusa, riportandolo a
sedere sui sassi del Colosseo prima che precipitasse nel vuoto.
«Non ci credo!», strillò Laura, portando
le braccia sulle spalle di suo fratello. «Con
Machiavelli?!»
«Esattamente», confermò Corella,
facendosi improvvisamente triste. Buttò il bicchiere nel
vuoto dinanzi a sé, fermandosi ad ascoltare il rumore del
vetro andare in frantumi quando raggiunse il terreno. «E con
me, si chiude tragicamente anche la seconda storia d’amore
della nostra combriccola! Dico bene, Cristiano?»
«Tu non hai mai avuto una storia d’amore,
Corella», ribatté il biondo, impegnato nel
tentativo di distrarre l’attenzione da sé. Ci
riuscì quando tutti presero a ridacchiare. «O devo
per caso ricordarti Paola non t’ha mai guardato?»
Laura scostò lo sguardo mentre Bengiamino sospirava,
rassegnato.
«Di chi è la prima storia
d’amore?», domandò stranita Chiara,
riportando l’attenzione laddove Pagni pareva non volerla.
Corella rise a gran voce, buttandosi contro Bengiamino per sporgersi
verso la più giovane del gruppo.
«Ma del nostro bel Principe e della signorina bolognese che
stasera se ne sta in disparte!», trillò, alzando
un braccio nella direzione di Violante. Sorrise beffardo e
rubò il bicchiere di vino a Chiara, tracannandolo senza
pietà fino all’ultima goccia per poi sollevarlo.
«Un brindisi agli innamorati che non si sentono
ricambiati!»
E si ributtò addosso a Bengiamino, mentre questi si limitava
a sospirare con fare sempre più rassegnato.
Violante scrollò il capo, guardando verso il cielo romano
con un sorrisetto colmo di imbarazzo e divertimento.
Tra le attenzioni del Mentore, di Cristiano e di Spallaci, ormai non
aveva tempo di far altro se non guardarsi le spalle da loro. Mentre le
prime erano molto benaccette e le ultime alquanto sgradite, per
Cristiano era diverso. Viola si era sempre sentita molto in sintonia
verso di lui e non sapeva come atteggiarsi al fine di non incrinare i
loro rapporti.
Vincevano quasi sempre grazie al loro grande affiatamento, sarebbe
stato un crimine rovinare le cose.
«A parte questo», riprese in un istante Corella,
alzandosi di nuovo in piedi con fare annoiato. «Il vino
è finito. Per le strade c’è festa,
chissà, magari assieme a una damigiana decente
troverò anche qualche fanciulla disposta a farmi dimenticare
Paola!»
Si posizionò dove meglio poté e spiccò
un salto nel vuoto, atterrando nell’unico covone di fieno che
c’era sotto di loro.
Laura scattò in piedi, trascinando suo fratello con
sé.
«Veniamo anche noi!», esclamò, a
metà tra il preoccupato e l’ansioso.
Dopo che i fratelli Lorenzetti si furono esibiti a loro volta in un
elegante salto, a Chiara non restò che fare lo stesso,
raccogliendo l’ampio mantello nei pugni minuti prima di
lasciarsi cadere e implorare i suoi compagni di aspettarla.
Violante li guardò sfilare via, divertita e allo stesso
tempo rassegnata.
Corella non sarebbe mai cresciuto.
Sentì i passi leggeri di Cristiano alle sue spalle, insieme
agli occhi del giovane sulla sua nuca e fu come se, per un istante, lui
non si volesse staccare da lei. Una visione da Amor Cortese, insomma.
Per fortuna, Cristiano tenne ogni commento per sé.
«Tu non vai?», domandò invece, sedendosi
poi accanto a lei.
«Qui c’è pace, perché
rovinarmi la serata?»
«Non sembravi molto in vena di festeggiamenti».
Il biondo dondolò in piedi nel vuoto, scrutando a sua volta
i cieli di Roma.
Mille domande parvero passargli per la testa in quel momento, ma
nessuna trovò il coraggio di uscire dalla sua bocca sottile,
appena arricciata dall’odore di vino che tutte le bottiglie
che Corella aveva portato fin lassù.
«Ti trovo strana, ultimamente. Come se qualcosa ti stesse
togliendo il sonno», le confidò. Tirò
su col naso un paio di volte, ma non osò voltarsi a
guardarla. «Che cos’hai, Viola?»
Lei, per un attimo, prese in considerazione l’idea di
parlargli di ciò che aveva udito, ma poi ci
ripensò. Senza dar nulla a vedere sul viso, sorrise appena,
voltandosi verso di lui.
«Con tutti i pensieri che abbiamo per il capo, tu dormi
sereno? Non sappiamo del nostro destino, né di cosa ci
riserva il domani. Semplicemente, sento molto la competizione di questo
periodo.»
Non era del tutto errato; Machiavelli sembrava nato per
metterli sotto pressione.
«Non avrai problemi ad essere scelta», le rispose
Cristiano, alzando le spalle con fare pacato. «Sei di certo
più in gamba della maggior parte di noi e il Mentore ti
guarda con occhio di riguardo.» Sospirò,
congiungendo le mani in grembo. «Non dovresti sentirti in
competizione proprio per nulla, Viola. Non è questo che Ezio
si aspetta da noi. Se davvero vogliamo provare a essere una famiglia,
dovremmo dirci tutto e fidarci l’uno dell’altro,
non trovi?» Si prese un momento per pensare a ciò
che stava per dire, alzando lo sguardo sugli ultimi fuochi artificiali
che, oltre il Tevere, illuminavano il cielo di Roma. «Avete
tutti i vostri segreti, qui, le vostre piccole confidenze che
chissà perché non volete condividere con gli
altri. Questo non è essere una famiglia.»
«Perché, tu non hai segreti,
Cristiano?», la ragazza si voltò di scatto,
piccata. «Cosa so di te, in fondo? Che sei di Ferrara. Il tuo
cognome. Ami le mele e il vino toscano. Altro non mi è dato
sapere visto che tu sei il primo a guardarsi bene dal
parlare!»
Solo al culmine di quella sfuriata, la giovane si rese conto della
grinta che aveva usato.
Si morse le labbra, prima di abbassare gli occhi sotto di
sé, adocchiando un covone di paglia. Poteva semplicemente
andarsene, stanca di sentirsi fare la morale da tutti.
Però qualcosa la fece rimanere.
«Ho sentito qualcosa, un paio di settimane fa. Non credo
però che ad Ezio farebbe piacere sapere che la voce si
è sparsa.»
Cristiano si fece improvvisamente più serio, alzando la mano
per poggiarla sopra quella di Violante.
La guardò con tanta tenacia che i suoi occhi color del cielo
parvero fiammeggiare, per un istante.
«Che cosa hai sentito?», le chiese, preoccupato.
«Parlamene; deve essere senz’altro una notizia
struggente. Posso vedere come ti sta logorando, Viola.»
Lei prese un respiro profondo, decisa a dirglielo. Attese ancora
qualche istante, valutando i pro e i contro di quella decisione, prima
di afferrare Cristiano per il colletto della camicia con fare
minaccioso.
«Che rimanga tra noi due e il Colosseo, chiaro?»
Fissò i suoi occhi sino a che no percepì che
poteva del tutto fidarsi. Lo lasciò quindi andare,
abbassando nuovamente lo sguardo. «Maria ha detto
ad Ezio che ha sentito due Templari parlare fra loro. Tra di noi, al
Covo, vi è una spia. Che sia un apprendista o un Assassino,
non lo sa nemmeno il Mentore.»
«Se al Covo ci fosse una spia, Volpe l’avrebbe
già scovata e le avrebbe tagliato la gola davanti a
tutti», rispose Cristiano, alzando le spalle con fare
indifferente. «Andiamo, Maria avrà anche le sue
buone referenze, ma non è del tutto sana di mente.
Avrà inventato la cosa per attirare l’attenzione
su di sé.»
Pareva crederci davvero, con tutta quella noncuranza che aveva messo
nella sua frase, ma di colpo la sua espressione disinteressata si
tramutò in un sorriso di scherno.
«O forse è gelosa di te e sta progettando di
incolparti!»
Violante parve fin troppo stupita da quel ragionamento.
Guardò Cristiano alzando le sopracciglia, prima di farsi
appena sospettosa.
«Perché dici questo?»,
domandò, spostando la mano da quella del ragazzo.
«Maria potrà anche essere gelosa, ma ama
l’Ordine più di qualsiasi altra cosa. Sicuramente
più dell’attenzione di Ezio. Non lo metterebbe di
certo a rischio per una bravata del genere!»
Cristiano scoppiò in una risata prorompente, dondolando sul
muro dov’era seduto.
«Andiamo, Viola! Ti sto solo prendendo in giro!»,
esclamò, portandosi una mano al viso per asciugarsi con fare
teatrale quella che poteva essere una lacrima dovuta alle troppe
risate. «Accidenti, sei così nervosa!»
Calmò il suo divertimento, ricomponendosi con
rapidità mentre la osservava sbuffare. Silenzioso, le
passò il braccio attorno alle spalle.
«Cerca di non pensarci, va bene?»,
mormorò, guardandola negli occhi. «Non
è affar nostro, metterci a cercare le spie. Se Ezio non ci
ha informati, di certo non la reputa una cosa così
grave.»
Questo la bolognese doveva concederglielo; non c’era poi
molto da spifferare, visto che il reclutamento di adepti era come
l’addestramento dei soldati romani: un dato di fatto.
Si appoggiò appena contro Cristiano, contrastando la brezza
serale che le faceva accapponare la pelle del viso e del collo.
«Forse hai ragione, ma se la cosa peggiorerà
dovremo vederci chiaro.»
«Se la cosa peggiorerà, ci penseremo quando
verrà il momento.»
Cristiano la strinse a sé, schioccandole un bacio sui
capelli castani lasciati liberi dal cappuccio. Le sorrise, pizzicandole
appena la spalla.
«Non ti crucciare più,
d’accordo?»
Lei rispose al sorriso, ammorbidendo l’espressione e
rasserenandosi.
Aveva ragione Cristiano: non aveva senso crucciarsi così
tanto per nulla.
Appoggiò il capo alla spalla del ferrarese, guardando verso
il cielo romano, finalmente libero da luci e fuochi. La
città stava per scivolare nuovamente nel sonno, lasciando la
strada libera a loro due per poter tornare al Covo senza venir visti da
alcuno.
Rimasero a lungo in quella posizione, fermi a fissare Roma
addormentarsi dopo una serata di festa, immobili anche quando i loro
compagni passarono per la strada sottostante cantando a squarciagola
chissà quale ballata.
Cristiano si scostò all’improvviso ma con
dolcezza, lasciando che Violante potesse alzarsi prima che lui facesse
lo stesso.
«Credo sia ora di rientrare», biascicò,
tenendo lo sguardo puntato su di lei.
Non le lasciò esattamente il tempo di rispondere,
né di scostarsi quando mosse un passo avanti.
Con un movimento fluido ma elegante, le strinse il polso, avvicinandosi
quel che bastava per farle sentire addosso il suo respiro lieve.
Schiuse appena le labbra, mentre le goti gli si arrossavano leggermente
nel buio della notte.
Poi, con lentezza e raffinatezza, perse ogni indugio e si
chinò sul viso di Violante.
La giovane rimase in un primo momento spiazzata, raggelata
nell’imbarazzo. Poi, sentendo un poco di audacia crescerle
nel petto, chiuse gli occhi ricambiando il bacio del biondo e lasciando
che le sue dita affondassero tra quei ricci morbidi e chiari.
Sentì lo stomaco capovolgersi dentro di lei mentre il cuore
aumentava inspiegabilmente di un battito. Smise di pensare e si
lasciò guidare, ma Cristiano non si spinse oltre.
Si staccò dalle sue labbra con imbarazzo, indugiando un poco
per guardarla negli occhi e sorriderle timidamente prima di sciogliere
definitivamente ogni abbraccio.
«Andiamo», mormorò, arrossendo sotto il
suo sguardo.
Si avvicinò al punto da cui qualche ora prima Corella si era
lanciato e le tese la mano.
Assieme, saltarono nel vuoto.