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Autore: VandasGirls    26/02/2014    1 recensioni
«Ti ho tenuto nascoste molte cose, bambina mia», disse addolorata Lucia Marcelli, portandosi una mano al viso. «Ma ora è giusto che tu abbia una vita migliore. Questa è l’eredità di tuo padre.»
«Io sto bene qui.»
Violante guardò la chiave che sua madre le stava porgendo, senza far nulla per afferrarla. Tutto stava avvenendo troppo rapidamente, senza preavviso alcuno; si sentiva spaventata, stranita. Non voleva saperne nulla.
«Non andrò con Messer d’Alviano da nessuna parte.»

Cinque Assassini figli di Caino, cinque destini mescolati tra loro per raggiungere lo stesso obiettivo.
Genere: Azione, Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bartolomeo d'Alviano, Ezio Auditore, Niccolò Machiavelli, Nuovo personaggio, Volpe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il destino di Qayin

Capitolo settimo





La notte era scesa in fretta, quel giorno, un po’ per l’inverno che si intestardiva ad accorciare le ore di luce, un po’ per il maltempo che copriva il cielo con la sua coltre di nubi grigie.
Marcello sospirò, stringendosi la cintura in vita e seguendo con lo sguardo insolitamente attento i passi del miliziano che pattugliava i corridoi. Attese che l’uomo tonasse sullo scalone principale, dopodiché balzò in piedi nel fieno del suo giaciglio.
Quella era l’ultima notte che avrebbe passato da prigioniero.
Si affacciò alla stretta finestra che dava sul Tevere, l’unico rettangolo di luce che aveva su quella che era la realtà al di fuori del corridoio delle carceri. Un varco tra la prigionia e la libertà decisamente troppo stretto per un uomo normale, ma Marcello era di costituzione minuta e in quei mesi aveva perso parecchio peso. Dopo una settimana passata a rifiutare il rancio, poi, gli si contavano le costole.
Aveva tanta fame da poter sbranare un’intera mucca, ma si era ripromesso di non toccare cibo se non una volta libero.
Quanto più silenzioso poteva, si infilò attraverso il rettangolo di mattoni, sporgendosi sul vuoto della torre quanto bastava per dirsi ufficialmente evaso.
Ebbe un capogiro quando si azzardò a guardare in basso, ma si obbligò ad appiattirsi contro il muro tenendo i piedi ben fissi sul cornicione. Strisciò lungo la parete della torre, scendendo con estrema cautela verso un’asse sporgente che dava sul battifredo più basso. Da lì, con una buona dose di coraggio, si lasciò cadere sul tetto della costruzione, su cui atterrò di fondoschiena.
Dolorante, si ritirò in piedi.
Nessuno pareva averlo notato.
Si chiese se il miliziano che percorreva il corridoio si fosse già accorto della sua scomparsa, ma preferì non indagare oltre.
Diede le spalle al complesso della torre e dei suoi battifredi che per mesi lo aveva tenuto prigioniero e si tuffò nelle acque gelide del Tevere, vantando quantomeno un buon talento nel nuoto. Di certo non si era mai tuffato nei canali veneziani, ma suo padre si era assicurato di dare a tutta la sua prole un minimo di capacità di sopravvivenza, insegnando loro a sguazzare nella laguna. Se fossero caduti dall’imbarcazione mercantile dei Donà, sarebbero quantomeno rimasti a galla.
Compiaciuto al pensiero dell’unica cosa che Francesco Donà era stato in grado di insegnargli, Marcello nuotò più o meno rapidamente fino alla sponda più vicina.
Una volta tornato con i piedi sulla terra ferma, si liberò della casacca fradicia e prese a correre, sperando vivamente che la lurida camicia che gli restava addosso non facesse gola a qualche brigante con i suoi bottoni d’oro cuciti sui polsini. Dopotutto, quei ninnoli erano l’unico denaro che aveva.
Non riuscì a capire per quanto tempo corse, ma dalla campagna riuscì ad addentrarsi in un nodo di strade insolitamente vive, animate dalla folla che le occupava tra chiacchiericci e grida di gioia.
Era sera inoltrata ormai, ma lì doveva esserci una festa.
Le vie erano illuminate a giorno da delle lanterne, le case decorate con nastri e fiocchi. I bambini si rincorrevano tra i cesti di tuberi, mentre le massaie ridevano ai lati della strada.
Stranito, Marcello allungò il braccio per fermare un uomo.
«Che giorno è, questo?», chiese, supponendo di essere già intorno alla data del Carnevale.
Il passante gli sorrise.
«Uno di festa!», rispose, cordiale. «Il secondo dei festeggiamenti per il compleanno del Papa!»
Marcello sospirò sollevato. Dunque, era ancora in tempo per fare ritorno a Venezia e non perdersi i giochi di Febbraio. Dopo tutto quel tempo passato ad oziare con la paglia della prigione, il solo pensiero di poter assistere al Carnevale gli mise addosso una grande felicità.
Ringraziò quindi il buonuomo, riprendendo a camminare con passo più rilassato per le vie di Roma. Si prefissò la partenza per Venezia il giorno dopo, concedendosi una serata di festa e una notte degna di tale nome in qualche locanda, su un letto vero con delle coperte che non sapessero di vomito.
Il solo immaginarlo gli fece toccare il cielo con un dito.
Perse qualche ora a vagare tra la folla, incerto sul dove andare ma ormai sicuro che le guardie non lo stessero seguendo.
Leggiadro, salutava i bambini, parlava con i passanti, si fermava dinanzi agli spettacoli itineranti degli artisti di strada per ammirarne la bravura.
Era ancora estasiato da quell’atmosfera di festa, quando le notò.
In fondo alla piazza, un gruppo di quattro ragazze gridava divertito agli schizzi d’acqua che un ragazzo un poco più vecchio buttava loro addosso da una fontana. Qualche passo più distanti, altri tre ragazzi osservavano la scena con un sorriso divertito dipinto sul viso.
«Alessandro! Basta!», strillava una delle fanciulle, avvolta in un grazioso abito azzurro che faceva danzare i suoi capelli rossi lasciati liberi sulle spalle. «Fa freddo!»
Una ragazza castana si staccò dal gruppo, prendendo a camminare in senso opposto a quello di Marcello.
«Andiamo, dovremmo già essere all’Isola!», esclamò, indicando la strada. «Se torniamo dopo il coprifuoco, Machiavelli darà di matto di nuovo!»
Assieme alle ragazze, anche i ragazzi più lontani presero a seguirla.
«Corella, muoviti!», gridò uno di loro a quello ancora alla fontana. «Piantala di provarci con Paola! Sei ubriaco!»
Marcello rimase impalato a guardare il gruppo allontanarsi. Gli ricordava terribilmente casa, quando Andrea si prendeva cura di lui, Margherita e Pietro all’uscita dalla Messa pasquale. Quanto gli mancavano, quei momenti spesi a giocare sui canali assieme ai suoi fratelli! Si chiese come stessero, se Andrea fosse poi partito per l’Oriente, se Margherita si fosse maritata. Non gli mancava poi molto per scoprirlo. L’indomani a quell’ora sarebbe di certo stato tra le lenzuola calde del suo palazzo sul Canal Grande.
Scrollando le spalle, imboccò una via laterale.
Dopo tutte le emozioni della sua scalata, del tuffo e della corsa a perdifiato per le campagne si sentiva stanco e fradicio. L’aria invernale gli pungeva la schiena e gli faceva venire voglia di buttarsi su un materasso, magari dinanzi a un bel caminetto acceso.
Si fermò quindi davanti al portone della prima locanda che gli capitò a tiro; una vecchia stalla adibita a osteria e qualche camera messa a disposizione per i viaggiatori senza troppe pretese.
Reduce dalla prigione, Marcello poteva accontentarsi di qualunque trattamento gli avesse permesso di dormire al caldo.
Spinse il portone, inspirando a fondo l’aria tiepida che sapeva di arrosto e vino bollito. Pregustava già il sapore di quelle deliziose pietanze nel suo stomaco che troppo a lungo era rimasto asciutto. Varcò la soglia, quindi, chiudendo gli occhi per permettere al suo naso di guidarlo fino alla cucina. Mosse il primo passo e andò a sbattere contro il petto di un uomo.
«Donà?!»
Quella voce per poco non gli causò un mancamento.
Ridonando alla vista il suo giusto ruolo, si obbligò ad aprire gli occhi.
In un momento realizzò la sua sventura.
Non era soltanto un uomo, quello contro cui era andato a sbattere.
Era il Conte di Ladispoli, il Capitano, un tirapiedi dei Borgia e – cosa che dovette realizzare nell’effimero istante che passò da quando l’uomo gridò il suo nome e i suoi soldati gli furono addosso – il suo carceriere.
Di nuovo.








I suoi passi scattanti sulle scale rimbombarono nel silenzio del salone, così veloci e furiosi che per una volta parvero quasi dimenticarsi di tutta la discrezione alla quale erano tanto dediti di solito.
Cristiano Pagni si buttò sul corridoio, imponendo al suo fiato di farsi più leggero. Tese l’orecchio in cerca di un suono, di una risata.
Niente.
«Viola!», chiamò, incrociando le braccia sul petto mentre riprendeva a correre per tutto il piano. «Laura!»
Quelle maledette ladruncole gli avevano sfilato il borsello dalla cinta, giocando per un po’ a passarselo quasi fosse una palla per poi fuggire a nascondersi chissà dove.
Bel modo, di passare quell’unico pomeriggio che Machiavelli aveva lasciato loro libero. Davvero divertente.
Si augurò quanto meno che quelle due ragazze si stessero godendo il loro scherzo, perché a lui tutta quella storia cominciava a dare noia. Si era prefissato di scendere a Roma e farsi confezionare una casacca nuova ma ora, senza pecunia, gli era praticamente impossibile persino lasciare il Covo.
«Viola!», gridò di nuovo, iniziando ad aprire le porte delle stanze che si affacciavano sul corridoio. «Viola, Laura, andiamo!»
Aprì la porta del bagno, entrando con aria circospetta.
Quando un odore poco gradevole lo colpì – insieme ad una visuale di Ezio Auditore concentrato sulla latrina – sbuffò. Si appoggiò con aria stanca e afflitta allo stipite della porta, guardando scoraggiato l’impegnato Mentore.
«Hai visto Violante e Laura? Mi hanno fatto un brutto tiro, stavolta.»
Ezio lo guardò scocciato, non particolarmente propenso al dialogo.
«Nemmeno al bagno, posso starmene da solo con i miei pensieri?»
«Più che con i pensieri, a me sembra che tu stia cercando intimità con la cena di ieri  sera», commentò il biondo, storcendo il naso. «Dovresti aprire la finestra.»
Il Mentore gli scoccò un’occhiata seccata, sospirando rumorosamente mentre spostava lo sguardo sul corridoio.
«Mi sembra ovvio che qui non ci siano né Violante né Laura», rispose, alzando appena la voce. «Sono brave a nascondersi; prendilo come un addestramento e va’ a cercarle di tuo pugno.»
Cristiano esitò un istante, aggrottando la fronte. Istante che fu sufficiente ad Ezio per incalzare nuovamente: «Su, va’!»
Il ricciolo uscì, chiudendo la porta con enfasi prima di riprendere la sua missione personale.
Bell’allenamento, in effetti, visto che Violante e Laura parevano essersi dissolte nel nulla. Ovviamente  non erano al dormitorio, né nella sala grande. Non erano nelle cucine, né sul tetto.
Cristiano aveva rovesciato l’Isola Tiberina come un calzino per localizzarle, ma le due ragazze sembravano essersi dissolte come fumo.
Improvvisamente, qualcosa attirò la sua attenzione.
Una risata femminile, proveniente dallo studio di Machiavelli.
Sorrise vittorioso, camminando leggero sino alla porta e appoggiando la mano sul pomello. Non aveva pensato di controllare anche lì.
Violante e Laura avevano davvero scelto il luogo perfetto dove ritirarsi. Chi mai sarebbe andato a controllare lì dentro?
Fece scattare la serratura e spinse la porta quel poco che bastava per permettergli di spiare all’interno. Intendeva innanzitutto accertarsi che Machiavelli non fosse nello studio, magari pronto a colpirlo con una delle sue fantasiose punizioni. Nel caso la stanza fosse stata deserta, si sarebbe concesso la licenza di dare un’occhiata agli armadi per scovare finalmente quelle due ladre.
Ormai, invitato dalla persistente risatina leggiadra, dava per scontato di avere la vittoria in pugno.
Si accorse che la voce tanto divertita non apparteneva a Violante né tantomeno a Laura quando si trovò di fronte alla chioma ramata di Paola.
Sgranò gli occhi, osservando la ragazza slacciarsi con grazia i cappi della camicia, lasciando libero il suo seno florido prima di chinarsi su Machiavelli per strappargli un bacio sulle labbra.
Era seduta sulle sue gambe, gli occhi socchiusi, le dita ferme sulle spalle dell’Assassino che ricambiava i suoi baci accarezzandole avidamente la schiena nuda.
Cristiano non riuscì a vedere altro.
In preda al panico, si guardò bene dal fare rumore e chiuse immediatamente la porta, voltandosi di colpo per dimenticare l’accaduto.
Sentiva le guance in fiamme e la mente offuscata. La visione che aveva appena avuto era più che degna del peggiore dei suoi incubi.
Tornò rapido sui suoi passi, chiudendosi nel bagno insieme al Mentore, che parve quasi sollevato nel vederlo lì di nuovo.
«Pagni, per fortuna», biascicò infatti, passandosi una mano sulla fronte. «Mi sono accorto di non aver nulla con cui pulirmi.»
«Machiavelli», disse solamente il biondo, guardandolo spiazzato. «Lui è … Cristo, non pensavo fosse un vero uomo!»
Ezio ridacchiò, grattandosi fiacco una guancia.
«Ogni tanto può sembrare uscito da un sonetto dantesco, tanto è cencioso e preciso, ma è fatto anche lui di carne e ossa. Che ha combinato, ora?»
«Si sbatte Paola, suppongo.»
Il Mentore lo guardò, perplesso.
«Tutto qui?», chiese.
Cristiano sbuffò.
«Tutto qui.»
Ezio scoppiò a ridere.
«Se la sta portando a letto da settimane!», esclamò, colpendosi la fronte con il palmo aperto della mano quasi avesse appena ascoltato niente più che una barzelletta da osteria. «Lo sanno tutti, ormai!»
Cristiano mantenne lo stesso sguardo ed espressione, prima di alzare gli occhi al cielo ed imprecare.
Uscì di gran carriera dal  bagno, lasciando il Mentore a disperarsi per la mancanza di qualcosa con cui pulirsi, deciso a parlarne con qualcuno che potesse davvero comprendere il suo sconforto.
«Corella! Lorenzetti!»
Trovò i due ragazzi intenti a lucidare un paio di stivali lerci dal fango di quella mattina.
Corella, decisamente brillo e con un calice di vino rosso tra le mani, raccontava al suo compare di come fosse rovinosamente caduto addosso a un paio di massaie durante la corsa. Lorenzetti ascoltava in silenzio, tutto preso a mettere in sesto le sue calzature di pelle.
Quando udirono la voce di Cristiano, entrambi si voltarono verso le scale.
«Ah!», trillò Corella, alzando il calice verso il biondo. «Il Principe innamorato! Spallaci mi ha detto ogni cosa! Vieni qui, vieni qui. Non abbiamo avuto modo di parlare per bene ultimamente, uhm?»
Cristiano sentì le gote calde, sintomo che dovevano essersi arrossate, ma decise di non darvi peso. Si sedette fra i due quasi di prepotenza, sfilando il calice dalle mani dell’amico e tracannandone il contenuto.
«Non è il momento, Corella. Ci sono cose più allarmanti di cui discutere.» Rimase un attimo in silenzio, creando così maggior tensione, prima di sospirare e buttar fuori: «Ho appena visto i seni di Paola.»
Bengiamino alzò un sopracciglio.
«Quindi?»
«Vi era la faccia di Machiavelli, fra di essi.»
Corella impallidì, Bengiamino … bé, difficile dirlo, visto il suo abituale colorito biancastro.
«Tu hai visto cosa?!», gridò il forlivese, scattando in piedi come una molla. «Ma … dove? Quando?»
Bengiamino lo zittì prendendolo per la spalla e rimettendolo seduto sulla panca.
«Sta’ calmo», si raccomandò.
«Non capisci!», gli rimandò contro Corella. «Ha visto i seni di … Paola! E c’era la faccia di Machiavelli in mezzo!»
Cristiano annuì energicamente.
«E pareva molto felice.»
«Chi non lo sarebbe?», ribadì Alessandro, grugnendo sconfortato quando si prese il volto fra i palmi delle mani. «Dovrei esserci io, in mezzo a quel ben di Dio, non Machiavelli! Lui non è sposato?!»
Lorenzetti riprese a strigliare gli stivali, scuotendo piano il capo.
Pagni, invece, guardò perplesso verso l’amico forlivese.
«Da quando questo è un limite?»
«Da quando dovrebbe lasciare spazio a noi giovani, ecco da quando!», ribatté Corella, ormai distrutto dalla notizia. Si tirò debolmente fino al tavolo e si versò dell’altro vino, buttandolo giù tutto d’un fiato. «Capisco molte cose, amici miei», considerò allora. «In effetti Paola  non è mai stata troppo in nostra compagnia, ultimamente.»
Bengiamino sbuffò.
«Questo perché le fissavi continuamente i seni e la mettevi a disagio.»
Il forlivese annuì.
«O, più semplicemente», ribatté. «Perché aveva da fare con Machiavelli!»
«Bel partito però, questo dobbiamo concederglielo», disse Cristiano, inclinando il capo. «Si è garantita un posto nei meravigliosi cinque, così. Chi direbbe mai di no a Machiavelli?»
«Sembra una storia già sentita», infierì Corella, sogghignando. «Anche una certa bolognese si è infilata tra le lenzuola di qualcuno che sta in alto, se non erro.»
Bastarono quelle parole a far passare il buon umore a Pagni.
Si alzò di scatto, mormorando qualcosa riguardo il troppo vino che rende stupidi, prima di ritirarsi dentro al Covo.
Corella rise.
«Suscettibile, uhm? L’amore rende più stupidi del vino.»




«Guardate quanto è bella Roma!»
Il fracasso delle grida di Corella copriva gli scoppi fragorosi dei fuochi che, come ogni anno, venivano sparti in cielo per celebrare il compleanno del Pontefice.
«Ci penserà la Farnese, a festeggiarlo. Potevano risparmiarsi tutto questo trambusto!»,  decretò Laura, seduta accanto a suo fratello.
A pochi metri dal gruppo, Violante la guardò, trovandosi pienamente d’accordo, prima di riabbassare gli occhi sotto di sé. Con le gambe a ciondoloni nel vuoto, seduta sull’ultimo anello del Colosseo insieme agli altri, la bolognese non si sentiva affatto in vena di controbattere in alcun modo.
Erano saliti fin lassù per festeggiare la serata libera e si erano ritrovati in mezzo alla celebrazione per il Pontefice. Tanto valeva bere e godersi ugualmente la vista.
Di tutto il gruppo che quella sera si era presentato a cena, soltanto lei, Chiara, Laura, Bengiamino, Cristiano e Corella avevano voluto uscire per festeggiare.
A dirla tutta lei stessa se ne sarebbe stata volentieri a recuperare ore di sonno, ma Chiara aveva insistito tanto ed era stato praticamente impossibile dirle di no.
Per cui, erano arrivati fin lì carichi del vino che era rimasto nelle cantine e si erano trovati un posto in prima fila per lo spettacolo del Pontefice. Fuochi artificiali provenienti dalla Cina, a giudicare dai colori sgargianti che illuminavano a giorno il cielo scuro della città.
«Mi chiedo perché gli altri non siano voluti venire», considerò d’un tratto Chiara, stringendosi nel mantello verde che si era portata per ripararsi dal freddo pungente.
«Semplice!», trillò Corella, già palesemente ubriaco. «Spallaci aveva da accudire il suo piccolo …»
«Fiore di Maggio», suggerì prontamente Laura.
«Fiore di Maggio!», ripeté il forlivese. Si alzò in piedi e prese a muovere il bacino, scolandosi anche l’ultimo sorso di vino che aveva nel bicchiere. «Fiore di Maggio, ma dico io! Che nome, per un cavallo!»
Cristiano rischiò di soffocare con il vino, facendone uscire un po’ addirittura dal naso.
«Menti!», gridò, quando fu in grado di parlare di nuovo. «Quale depravato chiamerebbe così una povera bestia?»
«Te l’ho detto: Spallaci!», insistette Corella, barcollando verso di lui sorretto solo da buone intenzioni. Si appoggiò alla sua spalla, parlando con tono cospiratorio. «Scommetti che l’ha chiamato così sua madre? Dopotutto, quella donna gli regge anche l’uccello quando piscia, secondo me!»
Risero tutti, cosa che diede a Corella la forza per rimettersi ben dritto sulle gambe.
«E Paola!», esclamò, sposandosi di nuovo verso Bengiamino. «Paola che pensa ai bisogni di Vossignoria Machiavelli anziché a quelli dei suoi baldi compagni!»
Si sporse un po’ troppo in avanti, ma Lorenzetti lo afferrò in tempo per un lembo della blusa, riportandolo a sedere sui sassi del Colosseo prima che precipitasse nel vuoto.
«Non ci credo!», strillò Laura, portando le braccia sulle spalle di suo fratello. «Con Machiavelli?!»
«Esattamente», confermò Corella, facendosi improvvisamente triste. Buttò il bicchiere nel vuoto dinanzi a sé, fermandosi ad ascoltare il rumore del vetro andare in frantumi quando raggiunse il terreno. «E con me, si chiude tragicamente anche la seconda storia d’amore della nostra combriccola! Dico bene, Cristiano?»
«Tu non hai mai avuto una storia d’amore, Corella», ribatté il biondo, impegnato nel tentativo di distrarre l’attenzione da sé. Ci riuscì quando tutti presero a ridacchiare. «O devo per caso ricordarti Paola non t’ha mai guardato?»
Laura scostò lo sguardo mentre Bengiamino sospirava, rassegnato.
«Di chi è la prima storia d’amore?», domandò stranita Chiara, riportando l’attenzione laddove Pagni pareva non volerla.
Corella rise a gran voce, buttandosi contro Bengiamino per sporgersi verso la più giovane del gruppo.
«Ma del nostro bel Principe e della signorina bolognese che stasera se ne sta in disparte!», trillò, alzando un braccio nella direzione di Violante. Sorrise beffardo e rubò il bicchiere di vino a Chiara, tracannandolo senza pietà fino all’ultima goccia per poi sollevarlo. «Un brindisi agli innamorati che non si sentono ricambiati!»
E si ributtò addosso a Bengiamino, mentre questi si limitava a sospirare con fare sempre più rassegnato.
Violante scrollò il capo, guardando verso il cielo romano con un sorrisetto colmo di imbarazzo e divertimento.
Tra le attenzioni del Mentore, di Cristiano e di Spallaci, ormai non aveva tempo di far altro se non guardarsi le spalle da loro. Mentre le prime erano molto benaccette e le ultime alquanto sgradite, per Cristiano era diverso. Viola si era sempre sentita molto in sintonia verso di lui e non sapeva come atteggiarsi al fine di non incrinare i loro rapporti.
Vincevano quasi sempre grazie al loro grande affiatamento, sarebbe stato un crimine rovinare le cose.
«A parte questo», riprese in un istante Corella, alzandosi di nuovo in piedi con fare annoiato. «Il vino è finito. Per le strade c’è festa, chissà, magari assieme a una damigiana decente troverò anche qualche fanciulla disposta a farmi dimenticare Paola!»
Si posizionò dove meglio poté e spiccò un salto nel vuoto, atterrando nell’unico covone di fieno che c’era sotto di loro.
Laura scattò in piedi, trascinando suo fratello con sé.
«Veniamo anche noi!», esclamò, a metà tra il preoccupato e l’ansioso.
Dopo che i fratelli Lorenzetti si furono esibiti a loro volta in un elegante salto, a Chiara non restò che fare lo stesso, raccogliendo l’ampio mantello nei pugni minuti prima di lasciarsi cadere e implorare i suoi compagni di aspettarla.
Violante li guardò sfilare via, divertita e allo stesso tempo rassegnata.
Corella non sarebbe mai cresciuto.
Sentì i passi leggeri di Cristiano alle sue spalle, insieme agli occhi del giovane sulla sua nuca e fu come se, per un istante, lui non si volesse staccare da lei. Una visione da Amor Cortese, insomma.
Per fortuna, Cristiano tenne ogni commento per sé.
«Tu non vai?», domandò invece, sedendosi poi accanto a lei.
«Qui c’è pace, perché rovinarmi la serata?»
«Non sembravi molto in vena di festeggiamenti».
Il biondo dondolò in piedi nel vuoto, scrutando a sua volta i cieli di Roma.
Mille domande parvero passargli per la testa in quel momento, ma nessuna trovò il coraggio di uscire dalla sua bocca sottile, appena arricciata dall’odore di vino che tutte le bottiglie che Corella aveva portato fin lassù.
«Ti trovo strana, ultimamente. Come se qualcosa ti stesse togliendo il sonno», le confidò. Tirò su col naso un paio di volte, ma non osò voltarsi a guardarla. «Che cos’hai, Viola?»
Lei, per un attimo, prese in considerazione l’idea di parlargli di ciò che aveva udito, ma poi ci ripensò. Senza dar nulla a vedere sul viso, sorrise appena, voltandosi verso di lui.
«Con tutti i pensieri che abbiamo per il capo, tu dormi sereno? Non sappiamo del nostro destino, né di cosa ci riserva il domani. Semplicemente, sento molto la competizione di questo periodo.»
 Non era del tutto errato; Machiavelli sembrava nato per metterli sotto pressione.
«Non avrai problemi ad essere scelta», le rispose Cristiano, alzando le spalle con fare pacato. «Sei di certo più in gamba della maggior parte di noi e il Mentore ti guarda con occhio di riguardo.» Sospirò, congiungendo le mani in grembo. «Non dovresti sentirti in competizione proprio per nulla, Viola. Non è questo che Ezio si aspetta da noi. Se davvero vogliamo provare a essere una famiglia, dovremmo dirci tutto e fidarci l’uno dell’altro, non trovi?» Si prese un momento per pensare a ciò che stava per dire, alzando lo sguardo sugli ultimi fuochi artificiali che, oltre il Tevere, illuminavano il cielo di Roma. «Avete tutti i vostri segreti, qui, le vostre piccole confidenze che chissà perché non volete condividere con gli altri. Questo non è essere una famiglia.»
«Perché, tu non hai segreti, Cristiano?», la ragazza si voltò di scatto, piccata. «Cosa so di te, in fondo? Che sei di Ferrara. Il tuo cognome. Ami le mele e il vino toscano. Altro non mi è dato sapere visto che tu sei il primo a guardarsi bene dal parlare!»
Solo al culmine di quella sfuriata, la giovane si rese conto della grinta che aveva usato.
Si morse le labbra, prima di abbassare gli occhi sotto di sé, adocchiando un covone di paglia. Poteva semplicemente andarsene, stanca di sentirsi fare la morale da tutti.
Però qualcosa la fece rimanere.
«Ho sentito qualcosa, un paio di settimane fa. Non credo però che ad Ezio farebbe piacere sapere che la voce si è sparsa.»
Cristiano si fece improvvisamente più serio, alzando la mano per poggiarla sopra quella di Violante.
La guardò con tanta tenacia che i suoi occhi color del cielo parvero fiammeggiare, per un istante.
«Che cosa hai sentito?», le chiese, preoccupato. «Parlamene; deve essere senz’altro una notizia struggente. Posso vedere come ti sta logorando, Viola.»
Lei prese un respiro profondo, decisa a dirglielo. Attese ancora qualche istante, valutando i pro e i contro di quella decisione, prima di afferrare Cristiano per il colletto della camicia con fare minaccioso.
«Che rimanga tra noi due e il Colosseo, chiaro?» Fissò i suoi occhi sino a che no percepì che poteva del tutto fidarsi. Lo lasciò quindi andare, abbassando nuovamente lo sguardo.  «Maria ha detto ad Ezio che ha sentito due Templari parlare fra loro. Tra di noi, al Covo, vi è una spia. Che sia un apprendista o un Assassino, non lo sa nemmeno il Mentore.»
«Se al Covo ci fosse una spia, Volpe l’avrebbe già scovata e le avrebbe tagliato la gola davanti a tutti», rispose Cristiano, alzando le spalle con fare indifferente. «Andiamo, Maria avrà anche le sue buone referenze, ma non è del tutto sana di mente. Avrà inventato la cosa per attirare l’attenzione su di sé.»
Pareva crederci davvero, con tutta quella noncuranza che aveva messo nella sua frase, ma di colpo la sua espressione disinteressata si tramutò in un sorriso di scherno.
«O forse è gelosa di te e sta progettando di incolparti!»
Violante parve fin troppo stupita da quel ragionamento. Guardò Cristiano alzando le sopracciglia, prima di farsi appena sospettosa.
«Perché dici questo?»,  domandò, spostando la mano da quella del ragazzo. «Maria potrà anche essere gelosa, ma ama l’Ordine più di qualsiasi altra cosa. Sicuramente più dell’attenzione di Ezio. Non lo metterebbe di certo a rischio per una bravata del genere!»
Cristiano scoppiò in una risata prorompente, dondolando sul muro dov’era seduto.
«Andiamo, Viola! Ti sto solo prendendo in giro!», esclamò, portandosi una mano al viso per asciugarsi con fare teatrale quella che poteva essere una lacrima dovuta alle troppe risate. «Accidenti, sei così nervosa!»
Calmò il suo divertimento, ricomponendosi con rapidità mentre la osservava sbuffare. Silenzioso, le passò il braccio attorno alle spalle.
«Cerca di non pensarci, va bene?», mormorò, guardandola negli occhi. «Non è affar nostro, metterci a cercare le spie. Se Ezio non ci ha informati, di certo non la reputa una cosa così grave.»
Questo la bolognese doveva concederglielo; non c’era poi molto da spifferare, visto che il reclutamento di adepti era come l’addestramento dei soldati romani: un dato di fatto.
Si appoggiò appena contro Cristiano, contrastando la brezza serale che le faceva accapponare la pelle del viso e del collo.
«Forse hai ragione, ma se la cosa peggiorerà dovremo vederci chiaro.»
«Se la cosa peggiorerà, ci penseremo quando verrà il momento.»
Cristiano la strinse a sé, schioccandole un bacio sui capelli castani lasciati liberi dal cappuccio. Le sorrise, pizzicandole appena la spalla.
«Non ti crucciare più, d’accordo?»
Lei rispose al sorriso, ammorbidendo l’espressione e rasserenandosi.
Aveva ragione Cristiano: non aveva senso crucciarsi così tanto per nulla.
Appoggiò il capo alla spalla del ferrarese, guardando verso il cielo romano, finalmente libero da luci e fuochi. La città stava per scivolare nuovamente nel sonno, lasciando la strada libera a loro due per poter tornare al Covo senza venir visti da alcuno.
Rimasero a lungo in quella posizione, fermi a fissare Roma addormentarsi dopo una serata di festa, immobili anche quando i loro compagni passarono per la strada sottostante cantando a squarciagola chissà quale ballata.
Cristiano si scostò all’improvviso ma con dolcezza, lasciando che Violante potesse alzarsi prima che lui facesse lo stesso.
«Credo sia ora di rientrare», biascicò, tenendo lo sguardo puntato su di lei.
Non le lasciò esattamente il tempo di rispondere, né di scostarsi quando mosse un passo avanti.
Con un movimento fluido ma elegante, le strinse il polso, avvicinandosi quel che bastava per farle sentire addosso il suo respiro lieve. Schiuse appena le labbra, mentre le goti gli si arrossavano leggermente nel buio della notte.
Poi, con lentezza e raffinatezza, perse ogni indugio e si chinò sul viso di Violante.
La giovane rimase in un primo momento spiazzata, raggelata nell’imbarazzo. Poi, sentendo un poco di audacia crescerle nel petto, chiuse gli occhi ricambiando il bacio del biondo e lasciando che le sue dita affondassero tra quei ricci morbidi e chiari.
Sentì lo stomaco capovolgersi dentro di lei mentre il cuore aumentava inspiegabilmente di un battito. Smise di pensare e si lasciò guidare, ma Cristiano non si spinse oltre.
Si staccò dalle sue labbra con imbarazzo, indugiando un poco per guardarla negli occhi e sorriderle timidamente prima di sciogliere definitivamente ogni abbraccio.
«Andiamo», mormorò, arrossendo sotto il suo sguardo.
Si avvicinò al punto da cui qualche ora prima Corella si era lanciato e le tese la mano.
Assieme, saltarono nel vuoto.



   
 
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