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Autore: Chartraux    26/02/2014    2 recensioni
Louis Parker-Smith è un paroliere decaduto: ventotto anni, un conto in rosso e la vita, per cui ha speso tempo e passione, totalmente rovinata. Non sentendo più scorrere la musica dentro di sé, preferisce affogare nel rimorso dell'incompletezza e della vergogna piuttosto che combattere questo suo silenzio musicale. Però, un giorno uguale a tanti altri qualcuno riuscirà a fare breccia in quel silenzio non voluto e cercherà di far emergere la sinfonia di cui, in realtà, è pieno.
E forse, Louis Parker-Smith, potrà bearsi anche di qualcosa di più.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La simultanea rappresentazione dell’amore
 

 
 
La musica è la rappresentazione sonora, simultanea, del sentimento del movimento
e del movimento del sentimento.
M. Ageev, Romanzo con cocaina
 
 
 
Louis Parker-Smith è un paroliere.
Ha iniziato a scrivere canzoni a dieci anni; all’epoca lo faceva per divertimento.
A sedici anni ha partecipato al Britain's Got Talent dove, accompagnato dalla sua storica chitarra, ha cantato una canzone sull’amore infelice e sulla speranza che questo si tramuti in un allegorico carnevale: è arrivato terzo, ma nonostante ciò ha ottenuto contratti con alcune importanti case discografiche.
Da quel giorno sono passati dodici anni e, a soli ventotto anni, Louis Parker-Smith è decaduto. Le parole non scorrono più dentro le sue dita, nel suo cervello, la musica non si espande come un palloncino pieno di elio e l’ispirazione sembra essere scomparsa come una nuvola di fumo.
Louis Parker-Smith, ventotto anni, un conto in rosso e la vita, per cui ha speso tempo e passione, totalmente rovinata.
 
«E quindi, adesso fai l’insegnante privato di chitarra…» borbotta Rick dall’altro capo del telefono.
Louis sospira, parlare con Rick è sempre difficile: gli pare, ogni volta, di essere davanti ad un giudice con la possibilità, anche se innocente, di essere considerato colpevole di un efferato omicidio. Rick Jackson è suo amico da che ha memoria, hanno frequentato le stesse scuole dalle elementari al college ed, appena presa la laurea, è diventato il suo manager; almeno fino a quando Louis non ha avuto la rovinosa caduta verso l’inferno. A quel punto Rick Jackson è tornato il semplice Rick, pronto ad ascoltarlo e consolarlo in ogni momento, ma non più così propenso a trovargli ingaggi nel mondo musicale, visto che sembra esserci un muro di cemento indistruttibile spesso svariati centimetri ogni volta che ha tentato di proporlo a qualche cantante, casa discografica o anche solo a qualche festa di matrimonio.
«Insegnante di musica» ribatte prontamente sedendosi sul divano «Insegno piano, chitarra e composizione.»
Jackson rimane in silenzio per alcuni istanti, come se volesse dare un valore sincero alle parole dell’amico «Va bene. Hai affittato un piccolo studio?»
«No, lo faccio a casa mia.»
«Ah»
«Rick…»
«Va bene. Mi va bene Louis. Ma ti piace?»
E Louis ci pensa. Pensa se davvero avere quattro bambini tra i sei ed i dieci anni che pigiano i tasti della pianola con sgraziata voglia e noncuranza, se due dodicenni suonano la chitarra sognando il loro futuro da rock star, se una ragazzina di quindici anni canta stonata come una campana solo per far contenta la madre ed un ragazzo di una ventina d’anni studia composizione nel modo più sconclusionato possibile gli rendano il suo nuovo lavoro piacevole.
Ci pensa davvero, e forse per alcuni secondi di troppo, perché Rick lo chiede di nuovo se gli piace e Louis lo ammette «No.»
«LP…»
Louis odia quel tono compassionevole e quel soprannome «Ma va bene comunque, perché ho delle spese da coprire e ho bisogno di qualcuno che veda oltre a ciò che ho visto io negli ultimi anni, nella musica.»
E Rick Jackson comprende, con quella frase detta velocemente ed in un sussurro incoerente, quanto al suo migliore amico manchi la musica; quella musica che lo ha corroso fin dentro all’anima.
«Louis, ascoltami, qualunque scelta tu faccia ti sosterrò; ma se questo non dovesse renderti sereno non credo che…»
«No Rick, sto bene. Non preoccuparti.»
Rick sbuffa «LP, è normale che io mi preoccupi per te. L’ho sempre fatto!»
Louis sussurra un «Lo so» e vorrebbe proseguire per raccontargli quanto la sua vita sia ridotta ad un incontentabile nulla, ma non vuole rovinare la giornata all’amico, che è in America per incontrare un cliente a cui dovrebbe fare da manager ed hanno anche suonato il campanello, quindi, per forza di cose, deve riattaccare. Lo saluta frettoloso e poi va ad aprire la porta. Già sa che la prossima ora con Aiden O’Brien sarà un vero guazzabuglio di note incoerenti.
 
 
Louis controlla di nuovo l’agenda: quel giorno ha prima Denise, la ragazza stonata, poi Aiden O’Brien e, per finire, questo nuovo ragazzo di nome Henry Edwards.
Rilegge quel nome, Altisonante…, un paio di volte, curioso di trovarselo davanti; non è stato il giovane stesso a contattarlo, ma una certa Joy Edwards, presunta sorella o madre di questo. In modo spiccio ma gentile gli ha detto che Henry sarebbe arrivato alle 18 e che parlerà direttamente con lui per quanto riguarda gli orari e la materia delle lezioni che frequenterà ed ha aggiunto, con una punta di orgoglio «Impara in fretta».
Louis arriccia il naso, preoccupato che questo Henry possa essere l’incarnazione del diavolo, o peggio, del Jimi Hendrix del nuovo millennio.
Ma chi me lo ha fatto fare?!, pensa chiudendo l’agenda con forza; Rufus, il suo gatto dal pelo lungo color caramello, alza la testa di scatto e muove le orecchie disturbato dal rumore, gli lancia una lunga occhiata infastidita prima di rimettersi a dormire sul divano.
Il ragazzo ruota gli occhi al cielo, domandandosi il perché ha accettato un animale del genere in casa: ogni giorno è preoccupato di vederlo alzarsi dal divano ed azzannarlo alla gola. Non hanno mai avuto una buona relazione lui e Rufus, nonostante lo abbia trovato in uno scatolone dove piangeva disperato per la fame e per il freddo inglese; lo ha raccolto, portato a casa, asciugato e sfamato. Ma, non sa come, quello che avrebbe dovuto essere un amore idilliaco, pieno di coccole e fusa, si è trasformato in odio reciproco: Rufus non perdeva occasione per fare i suoi bisogni nelle piante – dove puntualmente buttava la terra fuori dai vasi –, gli mordeva i talloni di soppiatto spaventandolo a morte, si sdraiava sempre sui suoi completi puliti lasciando peli ovunque per cui Louis perdeva ore a ripulire tutto per bene e non mancava occasione per rovinare i suoi preziosissimi spartiti.
Purtroppo queste sue piccole ed incomprese ripicche non sono scemate con gli anni. Rufus continua a maledire il suo padrone con quei fastidiosi scherzi che, ormai, Louis non considera nemmeno più; non ne ha voglia, non è dell’umore adatto e soprattutto non gli importa di nulla.
Volge lo sguardo al suo pianoforte a coda, lo trova ancora splendido, lucido, pieno di vita… eppure lui si sente svuotato di ogni sinfonia, melodia, nota che possa riportarlo alla sua vecchia vita e risollevarlo da quella pozza di fango fatta di dolore e tristezza.
La musica, la sua musica, sembra scomparsa…
Scuote la testa e si presta a cercare gli spartiti per Denise, se non ricorda male, la ragazzina, ha detto che adora Adele. Accende il pc e cerca le partiture per chitarra di una Hit più famosa della cantante; quando la trova, la stampa e poi stampa anche il testo. Da un cassetto prende anche dei pentagrammi bianchi, che darà ad Aiden per lavorare su una qualunque canzone stia scrivendo. Poggia il tutto sul tavolino di vetro del salotto e poi raggiunge il pianoforte; allunga le dita sul legno lucido, la freschezza del materiale trapassa la sua pelle… chiude gli occhi e cerca di ascoltare. Ma non ode nulla.
Vorrebbe piangere.
Con stizza prende il telo dal panchetto di legno e ricopre il piano. Nessuno può vederlo. Nessuno deve toccarlo. Quel piano è la sua anima e non è sicuro che dei ragazzini scalmanati e senza la benché minima voglia di possedere la musica possano trovare un modo per aiutarlo.
Prende un sospiro e poi va in cucina a prepararsi una tazza di tè: ha bisogno di rilassarsi.
                                                           
Aiden O’Brien è appena andato via. Adora ed odia quel ragazzino al tempo stesso: mette passione nello studio, ma non ha la concentrazione per portarlo a termine. Si perde sempre in un bicchiere d’acqua ed intavola discorsi che non hanno mai una fine! Solitamente, quei sessanta minuti, si suddividono in venticinque fatti di musica e gli altri di chiacchiere. Ed a Louis non dispiace; gli piace il rumore delle parole desuete o fin troppo moderne uscire dalle labbra di quel irlandese scalmanato.
Ma questo lo rende sempre, sempre!, stanco alla fine dei loro incontri.
Prende un respiro profondo, consapevole che a breve conoscerà, quello che ancora non sa se è o meno un diavolo, Henry Edwards.
Il campanello suona e Louis si dirige all’ingresso e, con cautela, apre la porta.
Ed il suo cuore si ferma.
C’è un ragazzo davanti alla porta, avrà la sua età più o meno; è alto, davvero alto per uno come Louis che a stento ha superato il 170 centimetri. Le spalle sono larghe, le gambe lunghe e snelle; i capelli sembrano una massa di boccoli disordinati e gli occhi, Dio Mio!, sono la cosa più bella che Louis abbia mai visto! Sembrano smeraldi, ma è quasi sicuro di poter vedere altre tonalità nascoste dietro a quelle iridi verdi bosco.
«Ciao!» saluta il ragazzo sulla veranda lasciando un Louis ancora più sconvolto dalla voce roca e calda che esce dalle sue labbra.
«Ciao…» sussurra quasi. Non è ancora convinto di non star vivendo un sogno.
«Ho chiamato per le lezioni» continua con questo tono entusiasta che manda Louis in crisi.
«Lezioni?»
«Uhm, sì. Per imparare a suonare la chitarra.» questa volta il tono si incrina di un poco, come se avesse sbagliato persona a cui rivolgersi, controlla di nuovo il nome sul citofono e poi sorride ancora «Sono Henry Edwards!»
E, beh, Louis è sicuro di avere un principio di infarto.
«Henry Edwards?»
«Sì!»
«…è stata tua madre a chiamarmi?»
Henry ridacchia e Louis Parker-Smith è tentato di chiamare un’ambulanza perché il suo cuore non può reggere ancora per molto a tutta quella meraviglia che è Henry Edwards.
«In realtà era mia sorella! Ma non preoccuparti, non le rivelerò che hai creduto fosse la mamma.»
«Uhm… beh, grazie?»
Henry ride ancora e Louis si rende conto di quanto idiota debba sembrare; si sposta verso sinistra e con un gesto gli comunica di entrare in casa. Henry fa come gli è stato detto.
«Ehm, Henry Edwards» inizia Louis accompagnandolo in salotto e indicandogli la poltrona libera dai peli di Rufus «vuoi qualcosa da bere?»
«Oh, no, ti ringrazio.»
Louis non sa cosa dire, le parole si sono sciolte nella sua gola e non sa bene dove stanno finendo… quel ragazzo è così bello da tramortirlo.
«Uhm, ok. Allora Edwards »
«Chiamami Henry, per favore. Abbiamo più o meno la stessa età.»
Louis sorride «Ok, allora tu chiamami Louis.» le fossette sul viso di Harry si fanno più profonde ed il sorriso più largo «Ok.»
«Allora Henry, tu vuoi imparare a suonare la chitarra, quindi? Tua sorella non mi ha detto molto.»
«Sì! Voglio imparare a suonare la chitarra.»
«E come mai?»
Le sopracciglia di Henry si aggrottano un poco e Louis si rende conto dell’ennesima figuraccia in quei dieci minuti «Nel senso,» riprende per sistemare il danno non voluto «che di solito è raro avere degli adulti a lezione; generalmente sono bambini o ragazzini, ma non superano mai i quattordici anni.»
«Ed è… un problema?» domanda curioso Henry, con la paura di una risposta positiva.
«Oh no, certo che no! Lo chiedevo solo perché il cervello di un bambino è più plastico di quello adulto ed imparano più velocemente.»
Henry si umetta le labbra, facendo quasi arrossire Louis, «Quindi, potrei metterci più tempo di un dodicenne ad imparare a suonare…»
«Potresti, ma non è detto. Magari sei talmente portato da andartene di qui in meno di tre mesi.» ridacchia Louis.
Le labbra di Henry Edwards si allargano ancora di più «Beh, se è così, lo spero.»
Il sorriso di Louis non muta, ma una strana sensazione alla bocca dello stomaco si fa sentire, è qualcosa di sconosciuto e non è certo di volerne scoprire il nome.
Però vuole sapere perché Henry è da lui, ad imparare qualcosa per cui non è davvero portato, quindi chiede: «Perché vuoi imparare a suonare la chitarra?»
Le gote di Henry si imporporano un poco, gli occhi diventano ancora più luminosi e le dita si intrecciano tra di loro, come a voler cercare sostegno e poi risponde con semplicità, con talmente tanta dolcezza da fargli tremare le ginocchia: «Devo suonare per una persona.»
E la speranza di Louis crolla in un istante.
 
***
 
Le lezioni di Louis ed Henry nei trenta gironi successivi al loro primo incontro, sono state otto, due alle settimana; Louis è rimasto colpito dal ragazzo ventiseienne dagli occhi verdi, ha scoperto che non aveva tutti i torti quando ha pensato che potesse essere il Jimi Hendrix del nuovo millennio: Henry Edwards è portato. Portato a sentire, a percepire, toccare la musica senza paura di rimanere scottato. La vive, la assapora e la ingloba come se facesse parte di se stesso. E Louis ama tutto quello. E lo odia.
Si ritrova in quel ragazzo di soli due anni più piccolo che mette tutto di sé, ogni minima parte di sé, in quella che lui chiama la “Cosa più grande di me”; Louis ancora non ha ben capito a cosa si riferisca quando gli dice quelle cinque parole con sguardo divertito. E non è nemmeno certo di volerglielo chiedere. Louis ha paura di Henry.
In senso lato, è ovvio, ha paura del suo essere così felice in ogni piccola cosa, così ottimista, così simpatico e così dedito alle note che li circondano in quei sessanta minuti in cui si trovano a leggere spartiti ed a pizzicare le corde della chitarra acustica.
Ha paura di poter scendere ancora più in basso, Louis, sconvolto dall’apparizione sensazionale di questa giovane promessa della musica e dell’amore.
Perché Parker-Smith lo ha compreso: Henry Edwards è fatto di amore. Lo prende e lo dona come se fosse una semplice caramella; ed è davvero questo che spaventa Louis: il trovarsi risucchiato in qualcosa più grande di lui e che non ha mai saputo gestire.
Quindi ha preso le sue precauzioni, fatte di sorrisi di circostanza, di saluti obbligati, di gesti calcolati. Nulla di più, nulla di meno. Solo quanto basta per tenerlo a debita distanza.
Se Henry gli pone delle domande cerca sempre di sviare la questione o, al massimo, di non rispondere mai in modo preciso che possa mettere a nudo la sua incoerenza e la sua vigliaccheria.
Ed è per quello che quando, alla undicesima lezione, Henry Edwards gli domanda «Che fai di bello stasera?» lui risponde con un semplice «Sono impegnato.» freddo e distaccato.
Non ne è sicuro, ma gli è sembrato che il sorriso di Edwards si fosse irrigidito. Non gli importa, preferisce che tra loro rimanga tutto sul piano professionale e basta; non ha bisogno di altre incertezze ed insicurezze, la sua vita ne è già piena anche senza la presenza di questo ragazzo tutto boccoli, fossette e sorrisi.
Eppure, i diciassette minuti successivi a quella domanda, gli sono sembrati i più difficili di tutta la sua vita: non sa come gestirli e non sa come porre rimedio a quel velo di dispiacere che è apparso nelle iridi verdi smeraldo di Henry Edwards.
Ma passa oltre, Louis, e fa finta di nulla; continua ad insegnargli gli accordi in assoluto silenzio.
Quando i diciassette minuti finiscono, raggiungendo i sessanta complessivi della lezione, raccoglie gli spartiti, i plettri, la chitarra e poi accompagna Henry all’ingresso; i saluti sono semplici e quasi freddi, Edwards gli fa un cenno col capo anziché il solito sorriso a trentadue denti e poi apre la porta.
«Henry?»
Gli occhi verdi si spalancano un poco, prima che un enorme sorriso si apra sul suo viso pallido «Aiden! Ciao!»
«Che ci fai qui?» chiede il ragazzino biondo abbracciando l’altro «Quando sei tornato?»
«Un paio di mesi fa.» risponde scompigliandogli i capelli «Cielo come sei cresciuto!»
«È un anno che sei sparito, è ovvio che sono cresciuto!» ridacchia il più giovane abbracciandolo di nuovo.
Louis si sente decisamente fuori posto e non riesce a capire quella strana e fastidiosa fitta alla base dello stomaco che si è fatta sentire appena O’Brien ha abbracciato Edwards. Si schiarisce la gola con un colpetto di tosse per riavere l’attenzione su di sé e, quando gli occhi azzurri di Aiden e quelli verdi di Henry lo guardano incuriositi e un poco infastiditi, si sente davvero idiota.
«Scusate, non volevo disturbarvi,» inizia con tono serio «ma Aiden avrebbe lezione, quindi…»
«Sì, hai ragione» dice Henry dando una pacca sulla spalla di Aiden «Forza, vai dentro.»
«Ma, Henry!» piagnucola Aiden.
«Su su, verrò a trovarti a casa, così saluterò anche i tuoi genitori.»
«Ci conto!» sorride il ragazzino mentre vede Henry allontanarsi e la porta chiudersi con un po’ più forza del normale; il ragazzo posa lo sguardo su Louis che sembra lievemente scocciato.
«Quindi…» inizia con un sorriso divertito «Henry fa lezione con te?»
«Con lei, Aiden. Quante volte ti ho detto che con gli adulti devi usare un tono più rispettoso?!»
«Sì sì, va beh. Quindi: Henry fa lezione con lei
Louis aggrotta le sopracciglia, ha sempre detestato la curiosità di Aiden O’Brien, ma detesta ancora di più il fatto che quel ragazzino petulante non smetta di fare la stessa domanda fino a che non trova risposta, quindi decide di accontentarlo «Così pare.» si limita a dire alzando le spalle.
Aiden saltella fino al divano ed afferra carta e penna.
Louis lo raggiunge con due bicchieri pieni d’acqua. È un rito prepararli perché sa quanto Aiden parli e quanto questo gli secchi la gola...
Il ragazzino picchietta la matita sui fogli ancora bianchi e poi sussurra divertito «Henry fa lezione con lei!»
Louis alza un sopracciglio, non riesce a capire tutto il suo entusiasmo.
«Henry è tornato!» dice Aiden capendo la curiosità del suo insegnante di composizione.
«Suppongo sia un bene.»
«Certo che lo è! È sparito per così tanto tempo che stavo iniziando a preoccuparmi!»
Parker-Smith inclina un poco il capo sulla destra e lo guarda con interesse, tutto quel mistero lo sta incuriosendo, talmente tanto da perdere per un attimo la sua maschera di asociale menefreghista: «Dov’era andato?»
Aiden lo guarda, con occhi spalancati: in quasi sei mesi che studia con Louis, mai una volta quest’ultimo gli ha posto domande su qualcosa o qualcuno di sua spontanea volontà.
E Louis, capendo il danno a cui ha dato vita, ritratta subito, sperando di ricucire il tutto «Fa finta che non ti abbia detto nulla.»
«Oh no.» ribatte prontamente il giovane con un sorriso splendente sulle labbra e gli occhi azzurri vispi «Adesso è obbligato ad ascoltare tutto quello che so!»
Il maestro alza lo sguardo al cielo e si schiaffa una mano in fronte: sa che i prossimi cinquantasei minuti saranno di chiacchiere inconcludenti.
 
Louis è sdraiato sul divano con le cuffie nelle orecchie mentre sta ascoltando l’ultimo singolo di Robbie Williams. È riuscito a spodestare Rufus che, probabilmente notando il volto preoccupato del suo padrone, lo ha lasciato fare senza emettere un “Miao” scocciato.
Le mani intrecciate sono dietro la testa, le gambe dritte e le punte dei piedi toccano appena il bracciolo; quello che O’Brien gli ha detto quel pomeriggio continua a ronzargli nella testa…
«Sai, Henry abitava nel mio stesso palazzo. Quando ero piccolo giocava con me, poi è diventato il mio babysitter» ha ridacchiato Aiden arrossendo un poco «e poi il mio migliore amico. Anche se la differenza di anni è abbastanza – insomma Louis, sono sei anni, mica brustolini! – quando ha compiuto i venticinque anni è successa una cosa molto strana… è scomparso. Ha lasciato una lettera ad Alexandra, sua madre, dicendo che doveva andare a Londra e poi, beh, dopo un anno – che, ok, erano solo sette mesi! – è tornato!» ed a nulla è valsa la domanda successiva di Louis dove gli chiedeva il motivo per cui fosse andato a Londra; nemmeno Aiden lo sapeva.
Quindi, Louis, è ancora più confuso del solito. E questa volta la musica non centra niente. Questa volta la musica sembra un collante, un nastro biadesivo che ha collegato le loro vite, i loro prossimi passi; perché, per quanto ne dica, Louis è incredibilmente attratto da tutto quello che è Henry Edwards.
Perché sì, vorrebbe tornare ad essere il ragazzo felice e spensierato che sentiva la musica fin dentro le ossa.
Rufus salta sul bracciolo e lo guarda quasi arcigno in una chiara richiesta di sloggiare dal suo baldacchino preferito; Louis arriccia il naso, ma come al solito fa quello che gli chiede – ordina – il gattone dal pelo lungo. Si alza, ripone il lettore mp3 sul tavolino di vetro e va in cucina a farsi un tè caldo; ha bisogno di schiarirsi le idee.
 
«Buongiorno Louis!» saluta Henry la mattina dopo, con un sorriso radioso sulle labbra ed un paio di caffè di Starbucks in una mano ed una busta di carta nell’altra.
Louis sbatte le palpebre per due volte di fila, perplesso, stupito ed un po’ scioccato da quella visione, o sogno, perché di certo non può essere la realtà! Lui è Henry Edwards, il ragazzo che ha sempre trattato con indifferenza e diffidenza.
La persona per cui non può provare nient’altro che del semplice rispetto per la sua bravura musicale e per la sua gentilezza.
«Henry?»
«No, sono David Beckham!» ridacchia «Mi fai entrare?» chiede con gentilezza alzando i bicchieri di carta e la busta.
«Uhm… ok. Va bene. Ma non fare caso al disordine.»
Henry si guarda attorno e non vede nulla, non c’è del disordine in quella casa ed è certo che non potrebbe mai essercene: Louis è un maniaco dell’ordine, deve avere il controllo delle situazioni e dei momenti che potrebbero mandarlo in crisi. Lo ha capito Henry, ha letto ogni nota, ogni virgola ed ogni sfumatura di quel ragazzo che gli fa da insegnante ed ha bisogno di scoprire ancora di più, ha bisogno di farlo cedere per comprendere fino a che punto può spingersi per riportarlo in un mondo più stabile.
«Come mai sei qui?» gli chiede Louis sbadigliando ed infilandosi un maglioncino, sono a metà novembre e la sera prima ha quasi nevicato a Bradford.
«Per fare colazione!»
Louis spalanca gli occhi «Come?»
Henry apre il sacchettino e tira fuori due muffin al mirtillo «Colazione Lou! Cos’è, non dirmi che non mangi la mattina» ipotizza quasi sconvolto dando un morso al dolcetto tra le sue mani.
«No, uhm… io mangio di solito. E il caffè?»
«Latte macchiato con due  bustine di zucchero, giusto?»
Louis strabuzza gli occhi, si passa i palmi delle mani sui jeans perché hanno iniziato a sudare «Come lo sai?»
«Me lo hai detto una volta.»
L’insegnante abbassa lo sguardo al pavimento, quella mattina ha indosso un paio di scarpe da ginnastica blu scuro; se lo ricorda il giorno in cui ha detto qual è il suo caffè preferito, ma era stato più di un mese fa ed era certo che Henry non vi avesse prestato attenzione. Eppure…
Eppure eccolo lì, un mese e mezzo dopo, con un latte macchiato ed un muffin al mirtillo solo per lui. Si umetta le labbra e poi prende il bicchiere col caffelatte e ne beve un sorso; ogni tanto, con la coda dell’occhio guarda Henry. Ancora si chiede il perché sia lì ed il perché gli abbia portato la colazione;  “Forse”, pensa, “vuole chiedermi qualche favore”.
Alza la testa di scatto «Mi hai chiamato Lou?» chiede con una punta di incomprensione nella voce.
Henry lo guarda, confuso, ma Louis è certo di notare le sue gote arrossarsi un poco «Uhm… io… l’ho fatto?»
«Credo di sì.»
«Ed ho, ehm, sbagliato?»
Louis ci pensa, ci pensa davvero ed a lungo perché nota gli occhi di Henry Edwards riempirsi imbarazzo ed è sicuro che vorrebbe correre via da lì, da lui. Scuote la testa allora, per cercare di non ferirlo come sempre «No. È che è la prima volta che qualcuno mi chiama così, quindi…»
«Se è un problema non lo faccio più! Lo giuro!»
«No Henry, non è un problema. Non sono abituato a soprannomi.»
«Posso farti abituare?»
Louis lo guarda continuando a non capire tutta quella voglia che ha Henry di creare un contatto diverso da quello che c’è già.
Ma osservando quegli occhi verdi, luminosi e liquidi, quel sorriso tutto fossette e denti bianchi perfetti, quella gentilezza e dolcezza che gli riempiono il viso, può solo rispondere «Puoi provarci.»
Ed è certo che il già enorme e luminoso sorriso di Henry sia diventato più ampio e più sfavillante.
 
 
***
È quasi fine novembre, l’aria è diventata più fredda mentre il cielo più cupo; il meteo ha previsto una tempesta degna di un film horror per quel weekend e Louis non ha davvero voglia di uscire di casa. Però ha promesso ad Aiden di andare a vederlo esibirsi alla festa della parrocchia a cui è iscritto; Louis Parker-Smith non è credente. I suoi genitori – padre inglese e madre francese, cattolici entrambi – lo hanno battezzato da piccolo, ma ricorda perfettamente di essersi impuntato, appena ha avuto la facoltà di decidere da sé, di non frequentare più le messe. È stata una delusione sia per sua madre che per suo padre, lo ha capito da subito, eppure la religione non riusciva a mantenerlo in contatto coi suoi ideali. Se inizialmente andava a messa, i suoi genitori dovevano ringraziare solamente la signora Berry ed il suo organo; Louis rimaneva incantato per minuti interminabili mentre ascoltava le note un po’ gracchianti uscire da quei grandi tubi di metallo. Ma quando il prete è venuto a mancare, il sostituto ha iniziato a diminuire i momenti cantati per dare più spazio a litanie noiose. E quello è stato il punto di arrivo di Louis. All’età di tredici anni ha puntato i piedi ed ha convinto i genitori a non portarlo più in chiesa: ha vinto quella battaglia ricevendo sguardi biechi, sgridate e la confisca della sua amata chitarra per ben due mesi, ma da allora non è più entrato in una chiesa se non per partecipare a delle cerimonie.
Quindi avrebbe un altro motivo, oltre al tempo, per non uscire di casa.
Ode un rumore sordo alle sue spalle, si gira di scatto notando Rufus mentre salta giù da un mobile della sala e girare attorno al posacenere di vetro che gli era stato regalato dalla sua ex fidanzata. Alza le spalle, quasi felice che il suo gatto malefico abbia rotto una cosa che da tempo voleva buttare, se non nel pattume, almeno in cantina!
Si avvicina lentamente, non vuole spaventare Rufus, ha notato che è di pessimo umore, e non ci tiene a trovarsi la giaccia a strisce.
L’animale alza la coda, la testa e raddrizza le orecchie, poi quasi saltellando contento del suo operato, lascia la sala.
Louis prende scopa e paletta e pulisce il pavimento dai pezzi di vetro dicendosi che, appena tornerà dall’esibizione di Aiden O’Brien, userà per sicurezza la scopa elettrica.
Il campanello suona e lui si stupisce: era certo di non aver nessun appuntamento quel pomeriggio.
Poggia la scopa e la paletta in un angolo e poi si dirige verso la porta «Chi è?» domanda per sicurezza; nonostante la sua sia una delle villette più belle e nuove del quartiere, non dispone né del videocitofono né dell’occhiolino per guardare sulla veranda.
Ma quando sente una voce calda, roca e conosciuta dire «Henry!», spalanca la porta con tale forza da farla quasi sbattere contro il muro.
Louis osserva prima il sorriso – tutto fossette e denti bianchi – di Henry, poi la sua mano sulla maniglia: sa di aver appena fatto un’altra figuraccia.
Mugugna qualcosa di incomprensibile ed Henry lo guarda ridacchiando.
«Come mai qui?» chiede per cercare di rimediare al suo solito comportamento idiota.
«Sono venuto per portarti da Aiden!»
«Come?» è perplesso, giura di non ricordarsi di avergli chiesto di fargli da chauffeur.
«Aiden mi ha chiesto di venirti a prendere; era certo al settantanove per cento che non ti saresti mosso di casa. Invece devo proprio dirgli che questa volta ha toppato!» esulta indicando l’abbigliamento finto casual che il suo insegnante indossa «Andiamo a sentire Aiden, dai!» e lo afferra per entrambi i polsi, tirandolo fuori dall’abitazione.
Louis è davvero sorpreso. Mai si sarebbe aspettato una scena del genere, mai si sarebbe sognato questa vicinanza quasi coatta con Henry Edwards.
Anzi, gli sembra tutto molto strano visto che continua a rapportarsi con Henry come al solito, con frasi e sorrisi di circostanza e cercando di prestargli sempre poca attenzione, quindi, in teoria, il suo studente avrebbe dovuto allontanarlo. Invece fa tutto il contrario: più cerca di mettere distanze più Henry fa un passo verso di lui.
Louis continua a non sapere come doversi comportare; ma per quel pomeriggio decide di lasciar perdere, di andare da Aiden, applaudirlo e di tornare in casa, barricandosi dentro e cercando di rinchiudere Rufus in una delle tante stanze.
 
Il piccolo concerto di Aiden si è concluso già da una ventina di minuti; Louis si è ritrovato a pensare che quel ragazzo sia davvero portato per diventare una prossima star – più in una boy band che in una rock band, ma dettagli – mentre lo sentiva intonare inizialmente un paio di canzoni dei The Pogues (Fairytale of New York prima e successivamente Love you 'Till the End), Float dei Flogging Molly e Helter Skelter e Sunday Bloody Sunday degli U2 ed ha concluso la scaletta irlandese con una versione acustica If you could see me now dei The Script. Ha fatto una piccola pausa per riprendere fiato ed ha deciso di terminare il suo piccolo concerto con alcune canzoni “vecchio stampo” inglesi che hanno solo marcato il suo accento irlandese.
Ed ora Louis è fermo in un angolo della piccola sala parrocchiale, con un bicchiere di Guinness tra le mani e la consapevolezza di voler tornare subito a casa. Durante il concertino Henry si è accomodato accanto a lui ed ha seguito entusiasta il suo amico nella produzioni di quelle canzoni solitamente poco conosciute; ha applaudito ed urlato con foga alla fine di ogni brano ed è salito sul palco appena Aiden ha posato la chitarra per abbracciarlo. Louis ha guardato tutto quell’affetto con indifferenza; almeno fino a che qualcuno da fondo sala, non ha urlato “Bacio! Bacio! Bacio!” ed Henry ha effettivamente baciato Aiden. Era un bacio a stampo e per nulla sincero, uno scherzo dettato dal momento tanto che il ragazzino biondo ha riso tenendosi la pancia prima di pulirsi la bocca con la manica della felpa.
Ma adesso, Henry, è stato preso d’assalto da amici, parenti, conoscenti e tutto il resto del clan irlandese da una parte, per scambiare saluti, abbracci e chiacchiere dove, ne è certo, sta spiegando il perché ha abbandonato il paese senza il minimo saluto.
Louis sospira guardando la bevanda scura dentro quel bicchiere di plastica; se potesse vorrebbe affogarci dentro.
Non gli piace stare lì, non per la musica tradizionale di sottofondo, per l’ospitalità esagerata, il chiacchiericcio concitato e nemmeno per l’enorme numero di piatti con le patate, ma piuttosto perché non riesce a trovare un significato della sua presenza in quel luogo.
Non è portato per conoscere nuove persone, e quindi nemmeno ci prova, ma soprattutto non sa cosa abbia sperato di poter fare con Henry. Niente di sessuale, per carità! Ma almeno due chiacchiere sulle scelte musicali di Aiden ed il suo accento irlandese che rovina la poesia di Let It Be dei Beatles. Ed invece è ancora là Henry: bacia, mangia, abbraccia, beve, saluta, ride, sospira, parla, arrossisce attorniato da quel gruppo di individui che sembrano essere la sua seconda famiglia; fa tutto il possibile per rimanere ancorato a quelle persone invece che tornare da lui.
Louis lo ha capito.
Poggia il bicchiere sul tavolo più vicino e si dirige verso l’ingresso; cerca il suo cappotto sommerso da tanti altri e poi lo infila aprendo il portone di metallo dalle maniglie antipanico.
Il vento freddo gli graffia il viso, rabbrividisce a quel contatto. Si chiude la lampo e solleva il bavero per ripararsi il più possibile.
Si guarda attorno spaesato; la chiesa non è situata su una delle strade principali, è certo che non passeranno molti taxi a quell’ora, decide quindi di camminare fino al prossimo svincolo per trovarsi sulla “via maestra”. Non avendo un earl grey a portata di mano, la seconda cosa che lo aiuta a pensare è una bella camminata. Infila le mani nelle tasche della giaccone e si incammina piano, a testa bassa.
Henry è una bella persona, pensa mordendosi il labbro inferiore rendendosi conto che non gli ha detto nulla, che non ha salutato e che lo ha abbandonato senza davvero un valido motivo. Si sente in colpa, si sente meschino e davvero stronzo per aver attuato quel comportamento ancora più chiuso e schivo del normale. Non ha ben compreso come mai si sia trasformato dal Dottor Jekill a Mr. Hide, ma lo ha fatto ed è più che sicuro che Henry non si presenterà martedì sera alla solita lezione di chitarra.
Si sente male Louis, un groppo in gola rallenta il suo respiro mentre gli occhi si inumidiscono; con una mano si copre il volto fermando così il probabile pianto, e poi si piega sulle ginocchia, abbassando il più possibile il capo e cercando di prendere dei respiri profondi. Erano anni che non aveva un principio di attacco di panico e non è nemmeno sicuro del perché gli sia venuto in quel momento.
I suoni si attutiscono, il respiro affannato sembra calmarsi e Louis si sente un po’ meglio, ma non abbastanza per raggiungere la strada principale.
Cerca il cellulare nella tasca dei pantaloni per chiamare il servizio di taxi, ma viene afferrato con forza per un braccio e sollevato.
«Lou?» dice Henry con una punta di panico nella voce; i suoi occhi verdi sono spaventati «Che c’è? Stai male?»
Louis lo guarda, gli occhi ancora liquidi fissano un punto inesistente dietro i ricci ribelli che, per quella sera, sono compressi in un berretto di lana; vede qualche ciocca castana apparire sotto quel grigio che non lo valorizza.
Sospira e poi risponde «Adesso sto meglio.»
«Ti ho visto uscire, ho creduto abbandonassi la festa…» sussurra abbassando un poco lo sguardo.
Sì. Me ne sarei voluto andare subito. Avrei voluto mollare tutto appena Aiden ha concluso il concerto. Avrei voluto urlare al mondo che quello non è il posto per me. Ma tu eri così sereno che non me la sono sentita… Si stupisce Louis nel pensare a queste frasi sconclusionate che premono per uscire dalla sua gola, ma non le rivela, non può rivelare questo nuovo segreto proprio ad Henry; allora ingoia a vuoto e risponde «Sono uscito per prendere un po’ d’aria…»
«Non stai bene, quindi?» domanda di nuovo Henry Edwards stringendo ancora un poco il braccio di Louis.
«Adesso mi sento meglio. Stavo per chiamare un taxi, quindi…»
«Ti porto a casa.» ribatte subito Henry.
«No, rimani. Ti stai divertendo.»
«E tu non ti senti bene.»
«Non importa, non preoccuparti.»
«Louis» dice Henry con voce e sguardo serio «A me importa.»
E Louis sente qualcosa che si scioglie nel suo stomaco, sente del calore spandersi dalla pancia sino a salire sul suo viso; sente il labbro inferiore tremare, lo ferma coi denti. Ma i suoi occhi, si rende conto, non possono mentire a lungo. Ed Henry lo capisce, perché allenta la presa al braccio e scende a prendergli una mano, la stringe delicatamente «Louis» sussurra piano avvicinandosi al suo orecchio «mi voglio preoccupare.»
Che sia “di te”, “per te” o “con te”, Louis non lo ha capito, ma è abbastanza per farlo piangere. Henry gli accarezza la testa, un sorriso dolce e premuroso si apre sul suo volto e rafforzando un poco la stretta alla mano, lo conduce fino alla sua macchina per riportarlo a casa. Louis gliene è grato; si vergogna già abbastanza e preferirebbe che la banda degli O’Brien al completo non lo veda in quella condizione.
 
Louis ha pianto per tutto il tragitto in auto; Henry non sa come sia riuscito a trattenere i singhiozzi, è stato un pianto silenzioso, più che altro fatto di qualche mugugno sporadico, di qualche sospiro per riprendere fiato e tirate su col naso. Henry è preoccupato.
Sin dalla prima volta che ha visto Louis, dietro la porta di quella villetta in periferia, ha notato nascoste nelle iridi azzurre una malinconia così potente da mandarlo K.O. senza nemmeno il tempo di terminare un round. Louis è la persona più triste sulla faccia della terra, ha pensato questo quando il suo insegnante di chitarra gli ha chiesto se volesse davvero imparare a suonare, ma non ha ancora capito bene il perché. Ha fatto qualche ricerca su internet un paio di lezioni dopo averlo incontrato, perché continuava a mostrare quella tristezza anche se cercava di tirargli su il morale con qualche battuta idiota o qualche curiosità musicale del momento – chiamatisi gossip – ed ha scoperto che Louis Parker-Smith è lo stesso Louis Parker-Smith che ha scritto una delle canzoni più belle che abbia mai ascoltato e che canticchia da sedici anni a questa parte. Era adolescente Henry quando ha sentito per la prima volta la voce di Louis al Britain’s God Talent; era una voce dolce, tenera, magari un po’ acuta ma nel complesso splendida che cantava parole piene di speranza e su una rappresentazione allegorica dell’amore. Se lo ricorda bene Harry, perché ha convito sua madre a comprargli il singolo uscito nei negozio nemmeno un mese dopo la fine del talent show.
E lo ha ancora in casa, in bella mostra vicino allo stereo.
La musica di Louis Parker-Smith lo ha fatto innamorare ancora di più di tutte le sfaccettature, chiare e scure, che una melodia propone.
Perché la musica può portare tanta gioia tanto quanto dolore.
Ed ora, sedici anni dopo, Henry Edwards ha visto il lato peggiore della musica: sembra diventato un inferno per il più promettente paroliere di tutti i tempi.
Sospira piano quando vede il viale dove è situata la casa di Louis, rallenta e poco dopo si ferma proprio di fronte al vialetto che porta alla villetta.
Louis ha smesso di piangere, almeno in apparenza, perché dai suoi occhi continuano a scendere lacrime silenziose. Henry esce dall’auto e fa il giro, apre la portiera all’altro ragazzo e lo aiuta ad uscire per accompagnarlo fin dentro.
Gli prende una mano e la intreccia alla sua, chiude la macchina con il pulsante elettronico e poi cammina lentamente verso la casa; non sono più di una ventina di passi, eppure gli sembra che un enorme peso stia piegando le spalle di Louis che, più si avvicina, più abbassa il capo.
Ed il cuore di Henry si stringe in una desolata proposta di aiuto.
Sono arrivati sulla veranda, ma Louis sembra non accorgersene.
«Lou» sussurra piano Henry per non spaventarlo «posso prendere le chiavi di casa?»
Louis non risponde, ma Edwards è quasi certo che abbia fatto un cenno positivo col capo; lascia la sua mano e fruga nelle tasche del cappotto, trovando ciò che gli serve al primo colpo. Infila la chiave nella toppa e poi apre la porta.
«Permesso» dice per abitudine, ma quando vede il volto sconsolato di Louis guardare dentro la casa buia, comprende quanto quel ragazzo sia davvero disperato. Ha lo sguardo perso puntato sul fondo della stanza, dove il pianoforte a coda è situato coperto da un telo come se fosse un vecchio catorcio.
E quando Louis entra in casa, Henry decide che non lo può abbandonare, non adesso.
Entra con lui e richiude la porta alle sue spalle e poi accende la luce illuminando l’intero e grande salotto; con gesti dolci lo aiuta a togliersi il cappotto e lo appende nel ripostiglio accanto alla porta d’ingresso prima di rifare lo stesso gesto per sé e di accompagnare il proprietario sul divano. Lo fa sedere e gli circonda le spalle con un braccio.
È la prima volta che lo tocca in quel modo e si rende conto di quanto Louis sia magro. Certo, è piccolo di per sé, ma è davvero troppo magro. Se aveva trovato la sua barbetta affascinante all’inizio, ora si rende conto che l’ha fatta crescere solo per nascondere il volto scavato e per catalizzare l’attenzione di un qualunque interlocutore sulle sue labbra e sui suoi occhi.
Non vuole provare pietà per Louis, Henry, perché non se la merita; ma la preoccupazione, oh, quella sì invece.
«Come va, Louis?» domanda, cercando di ottenere un qualunque contatto.
Louis si pulisce gli occhi con le maniche del maglioncino di cashmere, si soffia il naso prendendo un fazzoletto di carta che Henry gli passa e poi fa un respiro profondo chiudendo gli occhi per alcuni istanti.
Quando li riapre Henry è sconvolto. Non sa come sia accaduto, non sa da quanto Louis sia così disperato da mettere ogni volta, ogni giorno una maschera che lo fa sembrare un egoista indifferente ed insopportabile, ma  a quanto pare è una cosa che gli riesce davvero bene, perché ora, Louis Parker-Smith, ha lo stesso volto di ogni giorno pronto a parlare poco e di nulla e senza convinzione.
Ed Henry è quasi deluso di ciò, perché ha davvero pensato – sperato! –, in quei dieci minuti di pianto silenzioso di aver cambiato qualcosa.
«Adesso va meglio.» risponde laconico «Vuoi qualcosa da bere?»
Henry si morde l’interno delle guance «Uhm… no, io pensavo…» ma non finisce la frase perché vede qualcosa di marrone chiaro correre forsennatamente per il salotto e saltare tra di loro. Fa un urletto sconcertato preso in contropiede, perché, davvero, non ha mai visto quella cosa enorme e pelosa in quella casa.
«Ma cosa…?» guarda attentamente mentre i suoi occhi verdi si spalancano un poco «È un gatto!»
Louis rotea gli occhi «A quanto pare…»
«Perché non l’ho mai notato in due mesi che vengo qui?» chiede seriamente curioso.
Il padrone alza le spalle «Non gli piace la gente e nemmeno la musica, quindi si nasconde in camera da letto.» Louis da un’occhiataccia al micione che sta osservando Henry già da troppo tempo «Si chiama Rufus e ti consiglio di non-»
Ma rimane scioccato, altamente scioccato, quando vede Rufus emettere delle fusa e saltare sulle ginocchia di Henry in una posa che urla «Ti prego, metti le tue mani sulla mia testa, tra le orecchie, nel pelo ed accarezzami tutto!»
«Ma guarda com’è carino!» dice eccitato Edwards iniziando a fargli i grattini sotto il collo.
Louis spalanca la bocca «Brutto gattaccio infame!» digrigna tra i denti mentre vede la libidine sul muso dell’animale ed il sorriso divertito di Henry.
«Che bel gattone! Sei proprio un bel micione, eh, Rufus?!» cantilena il ragazzo muovendo le dita tra il pelo morbido e lungo del gatto che fa delle fusa rumorose quanto un trattore.
«Vuoi portartelo a casa?»
Henry lo guarda aggrottando le sopracciglia «Cosa?»
«Sì, dai, portatelo a casa. A me non importa.» dice facendo spallucce ed alzandosi per andare in cucina.
Ma il tono secco che usa fa capire ad Henry che di Rufus gli importa eccome; appoggia il gatto per terra, che emette dei miagolii infastiditi, poi raggiunge il suo maestro di chitarra.
«Che succede Louis?»
L’altro lo guarda perplesso «Niente, perché?»
«Perché dovrei portarmi a casa Rufus?»
«Perché preferisce stare con te che con me.» dice serio, senza mezzi termini.
Il cuore di Henry fa una capriola, sente un magone formarsi nella sua gola che non è certo di poter ingoiare. Si avvicina lentamente a Louis, non vuole spaventarlo: sa che scapperebbe e si rifugerebbe dietro a parole scortesi che non vorrebbe certamente dire.
«Louis» lo chiama, di tutta la dolcezza di cui è capace; Louis non si sposta, lo aspetta. Allunga le braccia e prende le mani tra le sue; sono molto più piccole e morbide, piene di calli causati da innumerevole parole scritte e prove fatte di melodie e corde tese di nylon «Lou»
«Uhm?»
«Non voglio portarmi a casa Rufus, è tuo.»
«Ma preferisce te a me.»
«Ma io preferisco te a lui.»
Henry nota gli occhi di Louis spalancarsi un poco ed il suo splendido azzurro cielo d’estate farsi più luminoso.
«Cosa?»
«Io preferisco te a lui.» ripete avvicinandosi ancora di più; ormai sono così vicini che i loro respiri si mescolano e le loro pelli si fondono.
Ma Louis, fa un passo indietro «Non è vero.»
«Lou, è davvero così.» ribatte calcando la voce su quel “davvero”.
«No. Non è così, tu lo sai, io lo so! Questa è solo un’altra menzogna!» alza la voce Louis, di un paio di ottave; Henry lo guarda spaesato «Quale menzogna?»
«Tutto questo. Io non ti interesso davvero, Henry. È solo per ora, per questo momento, solo perché sono più debole, ma non ti interesserò domani quando tornerai a renderti conto che sono solo uno scribacchino fallito e con un buco nel petto grande quanto una casa!»
Henry si avvicina di nuovo e gli prende i polsi; li afferra con forza, ma con quella dolce delicatezza che riesce a trasmettere la calma a Louis «Louis, cerca di aprire gli occhi: io sono qui. E non intendo andarmene ora.»
«Ed invece lo farai, perché quando ti accorgerai che ti ho corroso, che sono riuscito a fare marcire la musica che hai dentro, mi lascerai come tutti gli altri!»
Henry lo strattona per riavere l’attenzione sulla sua voce «Louis, ascolta: tu mi importi. Mi piaci! Sei una delle persone più fantastiche che esistano ed io non posso lasciarti andare, non a queste condizioni!»
«Ma la tua musica si perderà!»
«Perché non riesci a capire, Louis? La musica e l’amore coesistono; non possono fare a meno l’una dell’altra, non puoi scindere le due cose.»
Louis trattiene il respiro per un secondo, ma poi cerca di divincolarsi dalla presa di Henry e ribatte «Dannazione Henry, quando capirai che io non sono fatto per queste cose?!»
Ed Henry non capisce davvero a cosa si riferisca, se all’amore, se credere di nuovo alla musica o se stare con lui, ma a questo punto, ormai, vuole giocare il tutto per tutto.
«Louis Parker-Smith» sospira piano, avvicinandosi docilmente ed abbassando il viso fino ad avere gli occhi allo stesso livello di quelli dell’altro, lascia la presa da un polso ed appoggia la mano di nuovo libera sul petto di Lou, proprio dove c’è il cuore «da qualche parte, assopita qui dentro, c’è ancora la musica che tu pensi di aver perso. Si è solo nascosta, forse perché stanca di quello che la circonda e di quello che davvero non poteva avere, ma è lì. È ancora lì. E tu devi avere fede, devi credere in qualcosa, in qualcuno, e sono sicuro che la ritroverai e che sarà più bella di prima.»
Gli occhi di Louis si inumidiscono, le labbra tremano e lo sa che non può nascondersi ancora per molto «Come fai a saperlo?»
Henry sorride dolce con l’altra mano prende quella di Louis e la appoggia sul proprio petto, esattamente sul cuore «Perché lo sento qui.»
E Louis esplode. Esplode in un pianto disperato, fatto di dolore e paura e speranza e desiderio di ricominciare; Henry lo abbraccia, gli risulta facile visto quanto gli pare piccolo in quel momento il suo Louis. Lo stringe, lo culla, lo ascolta mentre continua ad emettere suoni incoerenti che gli sanno di libertà.
Con le labbra gli bacia la testa, nascondendo il naso tra i suoi capelli bagnati dall’umidità, gli bacia le sopracciglia, la fronte, gli occhi per asciugare e contenere un po’ di quel dolore insopportabile e poi gli prende il viso tra le sue mani grandi e calde «Louis?»
Il ragazzo non risponde, singhiozza solo.
«Vorrei poterti strappare da tutto quel male che ti sta corrodendo… Posso farlo?»
Lou lo guarda, i suoi occhi vedono solo sfuocato, come se fosse immerso in una piscina profonda, ma nota un luccichio verde speranza in mezzo a tutta quella poltiglia che è la sua vita.
«Puoi provarci.» risponde solo prima di perdersi in un bacio che lo sorprende.
Non ha nulla di quello che pensava di trovare nel bacio tra lui ed Henry Edwards; è fatto di piacere, di promesse, di risate future e di momenti creati solo per loro.
Trova tutto quello emozionante. Lo trova speciale, un porto sicuro in cui approdare. Gli piace come Henry lo sta facendo sentire.
E forse, si trova a pensare, potrei davvero farci l’abitudine.
 
 
Louis apre gli occhi, piano, senza fretta; li sente appiccicosi e le palpebre gli paiono pesanti, poi, li spalanca mentre si alza a sedere sul letto. Si porta una mano sul viso, massaggiandosi le tempie; prova le stesse sensazioni dei postumi da sbornia, ma sa per certo che non ha bevuto. Non lo fa più da quella volta che ha dato fuoco ai suoi spartiti tre anni addietro, dopo il primo rifiuto di una casa editrice – era andato in un bar vicino a casa, da solo, e non ricorda nulla dopo il terzo bicchiere di whisky.
Si guarda attorno e non nota nulla di strano, forse solo un buon profumo di uova strapazzate e pancetta, ma è certo che siano i vicini. Eppure, tutto quello che è accaduto la sera precedente è ancora vivido nella sue memoria, come se fosse stato marchiato a fuoco.
Henry Edwards lo ha baciato.
Lo ha baciato due volte.
Emette un gemito che non ha veramente senso, è un misto tra lo sconvolto e l’eccitato.
«Ben svegliato!» la voce di Henry si insinua nelle sue orecchie e Louis alza il volto; lo vede lì, sulla porta della propria camera con un sorriso splendente e tutto fossette, le mani nelle tasche dei pantaloni e con quei suoi stivaletti vintage che sono tornati di moda.
Lou sente il volto andargli a fuoco, è certo di essere arrossito sino alla punta dei capelli, quindi l’unica cosa che riesce a fare è nascondere la sua vergogna dietro i palmi. Farfuglia un «mi dispiace» quasi incomprensibile, ma quando ode i passi di Henry avvicinarsi sa che quelle due parole sono state percepite in modo chiaro.
«Louis» sussurra Henry sedendosi sul letto accanto a lui, gli prende le mani e le toglie dal suo viso; sorride, perché il viso pieno di imbarazzo di Louis è la cosa più tenera che abbia mai visto. «Va tutto bene Lou.»
«Non è vero...»
«Perché dici questo?» gli accarezza un ginocchio e poi gli lascia un bacio sulla guancia più vicina.
Parker-Smith rimane in silenzio alcuni istanti, cercando una risposta che non trova «Non lo so.» dice con un tono scosso «È che… insomma Henry, il mio discorso ti è entrato da un orecchio ed è uscito dall’altro?»
Edwards si umetta le labbra e poi gli sorride sul collo, «Insomma Louis, la risposta che ti ho dato io invece l’hai dimenticata con una notte di sonno?»
Louis ridacchia «No, la ricordo.»
«Bene, meglio così.»
Lou prende un respiro profondo, guardando nelle iridi verdi di Henry, non è sicuro di conoscerne il motivo, ma gli era mancata quella speranza luminosa che può vedere nei suoi occhi «E adesso cosa devo fare?» domanda preoccupato. Henry lo ha messo in una posizione scomoda: le sue giornate, il suo modo di vivere, la sua routine, ha subito una brusca virata ed è certo di non sapere affrontare questa nuova situazione.
Henry sorride abbracciandolo «Adesso facciamo colazione, anzi, è più un brunch, poi io vado al lavoro mentre tu farai una bella doccia, ascolterai la tua playlist preferita e dopodiché prepari la lezione di Aiden e degli altri ragazzi che hai oggi.»
Il padrone di casa ci pensa un po’ su, allunga le braccia e si appiglia al maglione di lana dell’altro; gli piace il calore che emana il corpo di Henry ed il profumo intriso nei suoi vestiti.
Sospira staccandosi e poi si passa una mano sotto il mento e decide che sì, deve radersi «Mi piace il tuo piano per la giornata.»
«Davvero?»
«Sì, davvero.»
Il sorriso di Henry si allarga illuminandosi ancora di più «Bene! Oggi devi assolutamente rilassarti! E stasera verrò a trovarti!»
«Promesso?»
«Promesso.»
Louis prende Henry per il bavero del maglione e lo tira su di lui, nel letto. Henry ride divertito da quel momento, si rende conto che il suo maestro di chitarra si è finalmente aperto un poco alla normalità, non nascondendo più il suo sorriso meraviglioso che ha visto solo una volta, la sera prima, dopo averlo cullato, baciato sino allo sfinimento, coccolato, accarezzato. Erano stesi sul letto, in un abbraccio dolce e delicato, Louis aveva la testa poggiata nell’incavo tra il collo e la spalla e dopo avergli detto un «grazie» sentito, si è sporto su di lui e gli ha sorriso.
Esattamente come in quel momento.
Ed Henry pensa di essere l’uomo più felice della terra.
«Adesso devo andare Lou. Ci vediamo stasera.»
«Ok.» gli lascia un bacio rapido sulle labbra «A stasera.»
 
***
 
Sono passati quindici giorni da quando Henry Edwards è riuscito a fare breccia nella coltre oscura che racchiudeva l’anima di Louis Parker-Smith; quindici giorni di tranquillità, emozioni condivise e sensazioni dimenticate.
Henry rimaneva fino a tardi tre volte alla settimana, le altre quattro andava via prima di cena perché «Ho il coprifuoco. Sai, con due donne in casa, sono loro che comandano!» rispondeva divertito ogni volta che Louis cercava di convincerlo a rimanere da lui. Le prime volte che Louis ascoltava questa risposta rideva divertito della cosa, ma andando avanti non riesce a trovare un senso logico a quelle parole: Henry ha ventisei anni, è maggiorenne e vaccinato quindi può decidere della sua vita.
«Quindi, pensi che ti dica una bugia?» domanda Rick dall’altro capo del telefono. Louis, alla settima volta che Henry gli ha rifilato quella “scusa” ha chiamato il suo amico solo per avere un confronto di pensieri… non vuole pensare male del suo Henry, ma è certo che qualcosa non quadri.
«Non lo so, è che… Rick, cerca di capire, a me sembra davvero una banalissima scusa per non stare con me.» brontola con una punta di tristezza mentre intinge la bustina di earl grey nell’acqua bollente.
«Ma da quello che mi hai raccontato, Henry mi sembra la persona più sincera sulla faccia della terra! Che motivo avrebbe di mentirti?»
Louis si umetta le labbra e poi inizia a mordicchiare quello inferiore; non sa se rivelare il suo pensiero a Rick Jackson, perché è certo che gli farà una filippica interminabile su quanto siano alti i suoi castelli di carta. Ma non riesce a tenersi questo pensiero dentro, perché è difficile da sopportare e perché vuole davvero che Rick lo rimproveri del suo modo di pensare sciocco e vigliacco.
«E se per caso sta con un altro?»
Se all’inizio era preoccupato della reazione del suo migliore amico, ora lo spaventa di più il suo silenzio.
«Rick?»
Rick tossicchia quasi imbarazzato prima di rispondergli con un «L’ho pensato anch’io».
Il corpo di Louis si contrae in un sussulto quasi doloroso, come se quella piccola frase lo avesse colpito come un pugno in pieno volto. Aveva sperato davvero che Jackson gli dicesse qualcosa del tipo “No, è solo una tua stupida fantasia!”, “Sei scemo?! Dopo tutto quello che ha fatto per te, come può mentirti così?” o anche “Louis, sei proprio un artista disagiato!”; ma il suo amico non gli ha detto nulla di tutto ciò, ha solo, non volente, confermato una sua ipotesi.
E Louis ha paura, una fottuta paura che quei quindici giorni di speranza, serenità ed affetto, si trasformino velocemente in una dolorosa buca piena di rovi e spine…
«Louis?» lo chiama preoccupato l’amico dall’altro capo del telefono.
«Ci sono…»
«Louis, se davvero hai paura di… questa cosa, perché non gli chiedi spiegazioni?»
Il paroliere sbatte le palpebre due volte di fila, sa che Rick ha ragione, ma conosce benissimo la sua vigliaccheria che, a breve, prenderà il sopravvento.
«Pensi che dovrei?»
«Saresti felice se ti mentisse?»
«No.» risponde subito, con una velocità inusuale.
Rick sospira e Louis sa che a breve chiuderanno la comunicazione «Allora ti consiglio di prendere in mano le redini della situazione. Non voglio che ti illuda, Louis, non sarei di nuovo capace di tirarti fuori da quella prigione, che ti eri già costruito attorno, un’altra volta…»
E questo scuote Louis; lo fa in modo brutale e doloroso, perché stava sperando di aver aperto la gabbia della sua anima e di essere fuggito da quel luogo senza ripensamenti. Eppure, quelle parole dette forse troppo facilmente dal suo migliore amico, lo hanno sconvolto. Non vuole ricadere in quel limbo, Louis, non ci pensa nemmeno. Ma non è sicuro di riuscire a mantenere quella tranquillità, perché gli è stata donata proprio da Henry e se dovesse capire, notare che è stata tutta una montatura, una presa in giro, allora non sa come potrebbe affrontare la situazione.
Si porta una mano al petto, sente il proprio cuore battere preoccupato.
«Va bene, lo farò.»
«Bene. E tienimi aggiornato. Ah, fra una ventina giorni torno a Bradford, così festeggiamo il tuo compleanno insieme!»
«Sì, grazie Rick.»
«Figurati.» e detto questo, mette giù.
Non sa come prendere tutte quelle informazioni e decisioni, non è nemmeno certo che riuscirà davvero a telefonare ad Henry e chiedergli se lo sta o meno prendendo in giro.
Forse, si dice, più che telefonare è meglio chiederglielo di persona.
 
Non è riuscito a chiedergli “quella cosa” – come l’ha rinominata mentalmente Louis – per due sere di fila, con Henry che è stato lì per ore a chiacchierare di quanto gli piacessero i Ramones ed i nuovi singoli indie del momento, di quanto gli piacesse suonare la chitarra e di quanto Louis fosse bello. E sentendo tutti quegli elogi, Louis non è proprio riuscito a porgli la domanda che, molto probabilmente, avrebbe cambiato la loro relazione.
In realtà, Louis, non ha ben chiaro che cosa sono o se c’è una relazione di qualunque tipo tra di loro; è certo che sono diventati amici quantomeno, ma non è sicuro che possano essere qualcosa di più. Dopotutto, Henry, non gli ha detto niente per chiarire questo dubbio – ed ovviamente lui non ha chiesto spiegazioni.
Ma quella sera Henry ha chiamato dicendo che non poteva venire perché doveva per forza rimanere a casa ed allora Louis ha perso la pazienza: Henry non gli ha dato alcuna motivazione. Dopo avergli chiesto per tre volte la ragione di quella decisione, e ricevendo sempre e solo una risposta inconcludente, Louis ha chiuso la comunicazione senza un saluto, senza un bacio a schiocco e senza nemmeno fargli finire la frase.
È arrabbiato, per la prima volta è arrabbiato con qualcuno che non sia se stesso o che non comprenda la musica; è arrabbiato con Henry e basta.
E allora prende sciarpa e cappotto, stizzito sale sulla sua Mini Cooper e si dirige a casa di Edwards; sa dove abita, lo ha accompagnato un paio di volte. E si rende conto che non lo ha mai invitato ad entrare. Non lo ha mai fatto scendere nemmeno dalla macchina mostrandogli il vialetto con la siepe di sempreverde.
Louis si morde il labbro inferiore mentre sente gli occhi inumidirsi; si passa un braccio sul volto, per ricacciare indietro le lacrime che potrebbero rovinare il discorso pieno di frustrazione che pronuncerà a breve.
Mentre pensa ai pro ed ai contro della probabile discussione con Harry, non si rende conto di essere arrivato a destinazione; gira l’angolo ed intravede la casa a due piani – una classica, alta e stretta villetta inglese – di color bianco panna.
Sospira un po’ meno afflitto notando tutte le luci accese, in questo modo sa che Henry c’è – o almeno lo spera.
Scende dalla macchina, trema per l’aria fredda che l’ha colpito a tradimento, dopo un paio di passi apre il cancelletto arrugginito pensando che, se il suo studente glielo permetterà, in primavera gli darà una mano di antiruggine e poi una di bianco donandogli un restyling necessario; alza un sopraciglio notando in mezzo al giardinetto, chiazzato di quello che resta della scorsa nevicata, un triciclo rosa, uno slittino del medesimo colore – le previsioni hanno detto che nevicherà di nuovo a Natale – ed altri giocattoli.
E più si avvicina più una strana ansia lo riempie. Sente i piedi pesanti ed il cervello continua a ripetergli di tornare indietro, in auto, a casa da Rufus e di lasciare perdere tutto: il discorso, la sua vita, Henry Edwards.
Ma è il suo cuore che sembra davvero intenzionato a fargli sbattere la faccia sulla più dura realtà che gli si sia presentata davanti.
Prende un respiro profondo e poi bussa.
E aspetta.
Sente dei rumori affrettati e la voce di Henry urlare «Arrivo!», ma sente anche qualcos’altro, una risata sottile, diversa.
Infantile.
Ingoia a vuoto quando la porta si apre ed il sorriso splendente di Henry si trasforma in un’espressione di paura mista a stupore; sposta il volto di pochi gradi sulla sinistra dove, in braccio al ragazzo, c’è una bambina, con i capelli chiari e mossi in boccoli scompigliati, con degli occhi grandi e curiosi, la pelle candida e le guancie paffute. La bimba lo osserva, allunga le manine verso di lui e gli sorride e lui capisce, perché quelle fossette sono un marchio di fabbrica.
Louis guarda l’altro negli occhi e sa già che è tutto finito così, senza che debba parlare davvero, la bambina che Henry tiene in braccio ne è la prova inconfutabile.
Le lacrime si sono ripresentate e decide quindi di non rendersi ridicolo, di non urlare, di non dire nulla, ma di tornare semplicemente a casa e di buttare all’aria quel poco di sollievo che è riuscito ad ottenere in quei venti giorni con Henry Edwards.
Si volta e si dirige verso la Mini che lo attende a pochi metri, le sue mani sono strette in pugni e non gli importa sentire il proprio nome essere pronunciato dalle labbra di Henry; non gli importa davvero. In quel momento, l’unico rumore che riesce ad udire e distinguere è quello del suo cuore che si sta sfaldando.
Preme il pulsante della chiave ed entra in auto, si chiude dentro perché vede Henry, Con la bambina!, avvicinarsi frettolosamente; infila la chiave nella toppa e gira. Non aspetta nemmeno che le luci si accendono, parte e basta quasi sgommando.
 
Appena entrato in casa ha chiamato Rick, gli ha detto di non venire a Bradford la settimana successiva perché non lo avrebbe trovato e gli chiede di prenotargli il primo volo che parte per New York. Non lo fa lui stesso, sa che non ha tutto quel coraggio.
Prende un borsone e vi butta alla rinfusa le prime cose che trova. Non sta pensando. Non riesce a connettere il cervello, sa solo che deve andarsene. Bradford è diventata troppo stretta per lui, non potrebbe mai vivere lì a pochi chilometri da Henry, dal suo sorriso e da quella bambina che ne è la copia esatta!
Trattiene un singhiozzo.
Due.
Tre.
Ed il dolore al torace si fa più insistente e doloroso.
Si porta una mano sul petto: il cuore batte piano.
Louis chiude la valigia e sa che si è arreso. Definitivamente.
Le ginocchia tremano e l’unica cosa che riesce a fare è scivolare a terra e prendere dei respiri profondi; non può avere un attacco di panico. Non in quel momento e non da solo. Non sa cosa deve fare. C’era sempre stato qualcuno con lui in quel momento.
Non c’è Henry…, si dice stringendo la mano sul maglione, come a volerselo strappare di dosso.
Bussano alla porta. Prima un paio di volte, poi più spesso e rapidamente. Spalanca gli occhi quando sente quella voce chiedergli di farlo entrare. Ma è certo di stare sognando.
«Louis!»
Louis si alza di scatto e corre giù per le scale raggiungendo la porta d’ingresso; l’aria è tornata nei suoi polmoni e la paura è scemata. La mano è sulla maniglia ma si ferma. Non la gira. Rimane in attesa.
«Lou… per piacere, aprimi.»
«Perché?» gli trema la voce.
«Voglio parlarti!»
Louis si morde il labbro inferiore, non può parlare con Henry, sa che non riuscirebbe a vincere un confronto con lui; «No!»
«Per favore, Lou.»
«No…» biascica poggiando la fronte sul legno freddo della porta «Non puoi entrare…»
«Ti prego…»
«Io non …» ma un singhiozzo acuto lo interrompe, sa che non può essere Henry, non ha quella voce è più…
«Louis, per favore. Sono qui con la mia bambina!»
E Louis rimane sconvolto. Sono alcuni gradi sotto lo zero ed è sera, si stupisce della stupidaggine che Henry ha fatto. Spalanca la porta «Sei qui, con la bambina, con questo freddo? Ma che cazzo di padre sei?!»
Lou lo guarda, ha il naso e le guance rosse, gli occhi lucidi per il freddo ed un sorriso triste, ma grato, stampato in volto.
«Sono un padre surrogato.» risponde piano, stringendo ancora di più la bambina al petto, per difenderla dal freddo.
Louis stava per affogarlo nelle parole più crudeli possibili, ma quella confessione lo ha spiazzato; si sposta per farli entrare e, quando la figura di Henry è nel centro del salotto, chiude la porta.
Si avvicina piano, ha paura che sia tutto uno strano sogno.
Henry è lì, nel suo salotto con una bambina che non avrà nemmeno due anni; ha tutto il faccino rosso anche se Henry, Suo padre!, l’ha coperta bene, col bomber, cuffia, sciarpa e guantini tutti nei colori del rosa e del rosso; a Louis sembra un enorme caramella. Suo padre le toglie la giacca ed il resto, lasciandola coi pantaloni foderati ed un maglione di lana che la fa sembrare più piccola di quello che è. La culla, il “papà”, la accarezza e le da dei bacini sul naso. La piccola si calma e gli sorride, mostrando quelle fossette adorabili.
«Cosa succede Henry?» gli chiede. Ora che ha visto tutto quello, non può disinteressarsi a ciò che Edwards ha da dire.
«Devo davvero parlarti Lou.» si umetta le labbra e poi fa un sorriso imbarazzato «Lo so che non dovrei, ma prima posso chiederti un po’ di latte caldo? Per lei?»
Louis guarda prima lui e poi la bimba, sospira e gli fa cenno di seguirlo in cucina.
«Grazie.» dice solo Henry, prendendo un borsone bianco e viola che il paroliere non aveva notato fino a quel momento; dentro, può vedere grazie alla zip aperta, biberon, pannolini ed un asciugamano.
Prende un pentolino e poi lascia fare tutto ad Henry; non sa nulla di pappe e biberon o temperature giuste, quindi piuttosto che fare errori grossolani e pericolosi per una bambina, gli lascia carta bianca.
Henry si muove sicuro nella sua cucina, dopo tre mesi di frequentazione quasi assidua, sa esattamente dove trovare le cose e Louis adora la familiare sensazione di casa che quel ragazzo riesce a trasmettergli.
Quando il latte è pronto, lo versa nel biberon, poi sveglia la piccola che si era appisolata tra le sue braccia – e Louis è stupito di come Henry sia riuscito a fare tutto con una sola mano. Mugugna parole incomprensibili la bimba, prima di trovare la tettarella vicino alla bocca ed attaccarsi al biberon; Henry sorride teneramente e le lascia un piccolo bacio sulla fronte. Poi alza gli occhi verdi e li punta in quelli azzurro cielo di Louis.
«Questa è Zoey Louis e sì, è mia figlia.»
Una coltellata, pensa Louis, avrebbe fatto meno male. Ma non può fare a meno di mettere insieme i pezzi e ricordarsi della frase che lo aveva scioccato poco prima.
«Henry, cosa vuol dire che sei un padre surrogato?» chiede piano, quasi con paura di rompere quella tranquillità che si è appena creata.
«Esattamente quello che significa, Lou. Lei è mia figlia, sono il padre biologico, ma non quello “vero”.» Gli occhi di Henry si posano su Zoey che sta per finire il latte «Nicky era una mia amica, siamo sempre stati uniti. Ma poi, sai no? Si cresce, si fanno altre scelte e ci si perde. Noi siamo riusciti a rimanere in contatto fino a tre anni fa, poi, per un anno, non ho più avuto sue notizie.» stacca la bottiglietta dalle manine di Zoey e la ripone sul tavolo della cucina; poggia sulla spalla e le fa fare un ruttino, poi le sussurra un «Bravissima amore, hai finito tutto.»; lei si accoccola al papà per un abbraccio.
«Poi, improvvisamente,» riprende Henry «si fa risentire chiedendomi… beh, lo sperma per poter avere un bambino.»
«Perché proprio a te?»
«In realtà non lo so bene… ha detto che preferiva me, che io ero la persona adatta perché mi conosceva da sempre e non sono riuscito a dirle di no.» le gote si tingono di imbarazzo, si copre il viso con una mano «Era solo questione di masturbarsi e mettere lo sperma in un barattolo.»
Louis inclina un poco la testa di lato, e vede Zoey addormentarsi pian piano tra le braccia di Henry; «E quindi?» chiede incitandolo a continuare perché c’è qualcosa che ancora non torna.
«E niente: io le ho dato il vasetto e lei ha fatto tutto il resto. Non ha voluto niente da me. Né aiuti economici né morali… capisci: usa e getta.»
Lou percepisce una punta di fastidio nella voce dell’altro ragazzo e capisce quanto gli è costato dire di sì: se ha intuito davvero come è fatto Harry, sa che quella richiesta lo ha deluso davvero molto. Fa un cenno, senza dire quello che pensa, lo incita solo a continuare.
«Come sai, ormai un anno fa, sono andato via di casa senza dire niente a nessuno. Beh, è stato perché sono stato chiamato dall’avvocato di Nicky.»
«L’avvocato?» chiede Louis alzando un sopraciglio.
«Sì. Ecco… Nicky aveva avuto un incidente ed è morta mentre la trasportavano in ospedale e non aveva parenti o amici. Zoey era stata mandata in affidamento in una famiglia sconosciuta… l’avvocato mi ha letto il suo testamento ed ero stato nominato padrino di Zoey. Padrino, capisci? Senza che lo sapessi!» si gratta il naso e col pollice e l’indice si massaggia le palpebre.
«Non potevo lasciarla a degli sconosciuti Lou, non ci sono proprio riuscito! Quando l’ho vista, era così piccolina!, ho pensato: “Wow! Quella bambina è una parte di me!” ed allora io…» trattiene un singhiozzo, ma Louis nota i suoi occhi verdi diventare lucidi. Vorrebbe alzarsi, andare da lui ed abbracciarlo, dirgli che va tutto bene, ma non pensa proprio di riuscirci, perché non capisce.
«E perché non me lo hai detto da subito?» gli chiede il paroliere cercando di non usare un tono troppo duro; nonostante le emozioni che lo logorano dentro, questa storia gli fa scoprire altri lati di Henry che si aggiungono al già lungo elenco “delle cose meravigliose che formano Henry Edwards”.
Henry lo guarda ed a Louis si blocca il respiro, non ha mai visto, sul volto dell’altro un sorriso così splendido; è fatto di amore, passione, tenerezza, fermezza, adorazione e rispetto «Perché, Lou, sono innamorato di te…»
«Cosa?»
«E non avevo bisogno, proprio in quel momento, in cui tu eri debole e pieno di preoccupazione, in cui io ero debole e pieno di paura, di un tuo rifiuto solo perché ho Zoey.»
Louis ha gli occhi spalancati, non sa cosa dire. Preferisce ascoltare.
«E, non potevo scegliere tra te e Zoey. Ti giuro Lou! Te lo avrei detto in questi giorni! Lo avrei fatto sicuramente prima di Natale; ma ogni giorno eri sempre più sorridente e pensavo che ti avrei ferito e…»
«E mentendomi pensi di non avermi ferito?»
«Non ti ho mentito!» urla quasi, facendo sussultare la piccola che apre gli occhi impaurita «Ho solo evitato di parlarti di lei!»
«E questo non pensi che ti renda un pessimo padre, Henry?! Come puoi pensare di diventare un buon fidanzato se nascondi una bambina per mesi?»
«Non l’ho nascosta! Aidan lo sa, tutta la comunità Irlandese lo sa. E sono padre da meno di un anno, Louis, concedimi di poter ancora fare degli errori! Mi sono ritrovato con una bimba di pochi mesi tra capo e collo! Ho dovuto imparare a prendermi cura di lei; so che sbaglio! È ovvio, non mi ha insegnato nessuno! Ma ci sto provando Lou, ma sono solo! Io non…» Zoey ha iniziato a piangere ed Henry ha spostato tutta l’attenzione su di lei.
Ma Louis non ce la fa, si sente ferito, quasi massacrato da quelle menzogne durate mesi; eppure… eppure ha visto un altro volto di Henry, qualcosa con cui non ha mai avuto a che fare. Non è solo la solitudine, l’ansia di perdere i propri obiettivi, la certezza di sbagliare; c’è un qualcosa che non riesce a definire davvero. Vede Henry cullare la piccola Zoey con le lacrime agli occhi e la paura di andarsene a mani vuote.
«Lou…» riprende tra i singhiozzi della bimba «io non posso più scegliere della mia vita e basta, ora sono io e Zoey. Ma se tu vuoi, noi…»
Non riesce a finire la frase, le parole gli muoiono in gola quando vede Louis avvicinarsi ed allungare le mani verso la bambina in una muta richiesta di prenderla tra le braccia.
Henry tentenna per una manciata di istanti e poi gliela porge, con diffidenza, ma appena vede il modo gentile e sicuro con cui inizia a cullare Zoey e come questa smetta di piangere dopo un paio di singhiozzi, si rende conto che anche Louis non gli ha raccontato tutto.
«Ho cinque sorelle più piccole. So come comportarmi.»
Ed Henry si accascia quasi sfinito sul divano e si lascia andare, piange piano, silenziosamente, cercando di non svegliare la sua bambina; Louis si accomoda al suo fianco «Henry» dice «per favore, non mentirmi mai più. Non potrei sopportarlo di nuovo.»
«Scusa.»
«Scuse accettate, Eddy.»
Henry apre le dita che sono ferme sul suo viso e non può non sorridere a quell’immagine meravigliosa che si trova davanti: il suo Lou sorridente con in braccio la sua bambina dormiente. Adesso vorrebbe solo piangere di felicità. Ma pensa di aver già dato abbastanza spettacolo.
«State qui a dormire» sussurra Louis facendo coincidere i loro fianchi «Zoey potrebbe coricarsi in mezzo a noi.»
E, beh, Henry non può che dirgli di sì.
 
 
Louis apre gli occhi piano, con molta calma; sono settimane che non dorme così bene e gli sembra strano visto che sono in tre – in realtà due e mezzo – a dormire nel suo lettone che non è matrimoniale. Ma non gli importa, si sente bene anche stretto tra quattro mani dalle dimensioni assolutamente diverse.
Quando i suoi occhi azzurri sono totalmente aperti, vede Henry, il suo Henry, guardarlo con quello sguardo pieno di adorazione che ha imparato a sostenere ed amare.
«Buongiorno Lou» gli dice teneramente con quella voce roca che lo manda in visibilio.
«Buongiorno Eddy.»
E Louis sa che ha fatto centro con quel soprannome, perché gli occhi verdi e grandi di Henry si illuminano come fossero lampadine sull’albero di Natale.
Un piccolo mugolio infastidito si fa largo quasi a spintoni, come a voler rovinare quel momento tra di loro e Edwards sorride «Zoey si sta svegliando.»
«Vuol dire che devi andare a preparare la colazione.»
Henry arriccia il naso «Perché io?»
«Perché vorrei mangiare delle uova alla benedict con la pancetta abbrustolita!» sospira puntellando i gomiti sul materasso per alzarsi quel tanto che basta per lasciare un bacio sottile sulle labbra dell’altro «E perché io non so assolutamente cucinare se non roba surgelata.»
Henry ride, abbastanza forte da svegliare la piccola che lo guarda scocciata – e Louis può solo pensare a quanto quella bambina assomigli in tutto e per tutto al suo papà – scalciando un pochino.
«Va bene, vado a preparare da mangiare. Rimanete qui ancora dieci minuti, Zoey adora le coccole al mattino.»
«Se è per quello anch’io.»
Henry lo bacia di nuovo «Per quello c’è tempo.» con un balzo salta giù dal letto e, a piedi nudi, scende al piano terra per raggiungere la cucina.
Louis, rimasto con Zoey che lo guarda incuriosita da quella mattinata decisamente diversa, decide che sì, cinque minuti di coccole non faranno del male a nessuno.
Si mette a sedere, le gambe incrociate, poi prende la bambina in braccio; la solleva in aria e la guarda come se fosse la cosa più strana ma affascinante sulla faccia della terra «Ciao Zoey» le dice con un sorriso splendente «Io sono Louis. O Lou, se preferisci.» la riporta verso di sé e le da un bacino sul naso, Zoey ride.
Louis la annusa un attimo e poi un’espressione quasi schifata si fa largo sul suo volto «Ugh! Signorina, siamo proprio puzzolenti, eh?!»
Zoey lo guarda ed a Lou sembra quasi che sia imbarazzata dal momento ed allora, Louis, sorride di nuovo, abbracciandola e scendendo dal letto, afferrando la borsa bianca e viola e dirigendosi in bagno.
Per quanto non sappia nulla di pappe e biberon – a quello ci ha sempre, sempre!, pensato sua madre – è davvero molto bravo nella pulizia di sederini; pensandoci in quel momento, è quasi certo che sua madre lo obbligasse a pulire e lavare le sue sorelline solo per puro divertimento, o per punirlo di qualche cosa.
Fa spallucce, Alla fine, si dice, si sta risultando molto utile.
Quando ha pulito la bambina e le ha cambiato il pannolino – e si stupisce di quanto la piccola sia brava e ferma in quei momenti – prende i vestiti di ricambio che sono nella borsa: un paio di pantaloni gialli della tuta e una felpa con disegnata un’ape stilizzata che Louis trova adorabile; poi la prende in braccio e si dirige in cucina.
Un profumo di uova e pancetta si spande al piano terra; Louis lo trova così inusuale da sembrare un sogno, ma Henry è proprio lì, davanti a lui, che prepara due piatti di quelle che sono le più gustose uova alla benedict che abbia mai visto ed una pancetta cotta al punto giusto.
«Mi hai davvero fatto la colazione?!» dice in un sospiro che sa più di attesa che di incredulità.
Henry si volta verso di lui e gli sorride, dolce, «Me le hai chieste tu, è ovvio che te le avrei fatte.»
«Ma io… non pensavo sapessi farle…»
«Sono un ottimo cuoco, Lou. Non te lo avevo detto?»
Louis scuote la testa in un cenno negativo, poi si avvicina all’isola e si siede sugli sgabelli tenendo ben ferma la piccola Zoey; si stupisce del bancone apparecchiato in modo così preciso e pulito.
«Wow» esclama guardando il pane tostato alla perfezione, il burro – che non ricordava di avere – due bicchieri pieni di succo d’arancia, il caffè caldo ed il piatto con le uova e la pancetta che Henry gli sta porgendo «Non credo di aver mai fatto una colazione del genere.»
«È per quello che sei troppo magro, Lou. La colazione è il pasto più importante della giornata!» dice allungando le braccia per prendere la figlia perché «così puoi mangiare tranquillo.»
E Louis gliene è grato; è da molto tempo che non fa colazione con qualcuno, si sente un po’ impacciato, ma dopo il primo morso alle uova, non può che esalare estasiato il suo entusiasmo «Cielo! Henry, sono buonissime!»
«Te l’ho detto che sono un ottimo cuoco.» ridacchia giocando con una ciocca di capelli di Zoey.
«Decisamente! Non sai quanto vorrei fare una colazione del genere ogni mattina!» dice masticando senza rendersene davvero conto, Louis.
«Se me lo permetterai, sarei felice di farlo.»
Louis Parker-Smith alza gli occhi dal piatto e si specchia in quelli luminosi di Henry; non sa che dire, gli pare tutto un sogno che sta andando a velocità raddoppiata. È tutto bellissimo, emozionante, ma forse non dovrebbe andare in quel modo. Non hanno nemmeno mai chiarito quello che sono, quello che dovrebbero essere, quello che potrebbero essere, hanno discusso di tutt’altro e Louis non è sicuro che sia un bene per la sua sanità mentale, abituata a routine precise, ad avventurarsi in qualcosa di così estraneo e pericoloso come una relazione. Con un ragazzo. Per di più padre.
Ma gli occhi luminosi, verdi speranza e dolci di Henry lo mandano in una confusione tale che le uniche parole che gli escono dalle labbra sono «Nel caso, ricordami di comprare un seggiolone da lasciare qui a tempo indeterminato.»
 
 
***
 
È incredibile come, in soli venti giorni, la vita di Louis Parker-Smith sia cambiata così radicalmente. Se prima la sua casa era il regno dell’ordine e del silenzio, ora è il regno del disordine e del rumore. Ma è un rumore piacevole, fatto di risate e di sentimenti: cose di cui ha sempre sentito la mancanza.
E gli piacciono i giocattoli in giro per le stanze, dei pannolini per bambini in un angolo del bagno, del cassetto nella camera degli ospiti coi vestiti di ricambio sia per Zoey che per Henry, dei biberon che svettano sopra al frigo e dei tupperware pieni di pastina e omogeneizzati. Per non parlare dei biscotti con gocce di cioccolato con cui Henry ha intasato la dispensa.
E, davvero, gli va bene così.
Adesso ha un sorriso sulle labbra, gentile e spontaneo, ogni giorno e per chiunque; e si trova ad amare tutta quella confusione naturale che è diventata la sua vita.
È la vigilia di Natale e sa che non potrà essere più felice di così.
Il telefono squilla e sopprime una risata leggendo il nome sul display «Henry!»
«Ciao Lou…»
Louis aggrotta le sopracciglia «Che succede?»
«C’è un cambio di programma per oggi… non potremo esserci.»
«Ah» dice con una punta di delusione «Non potete venire questa sera?»
«No Louis, mi spiace, ma Zoey ha preso l’influenza e non vorrei attaccartela.»
«Non importa!» risponde con foga come per cercare di fargli cambiare idea, ma a quanto pare Henry non vuole sentire ragione e continua a dirgli che «No, non è proprio il caso.»
Louis si guarda attorno, l’isola della cucina è piena di buste della spesa ed il ricettario è aperto alla pagina del pesce; aveva deciso di cucinare qualcosa per loro tre, invece…
«Ok.» sussurra solo, triste: non era quello il suo piano di come festeggiare il compleanno. L’aveva sognato e programmato per dieci giorni interi, eppure il Karma è stato davvero crudele; deve essere stato uno spietato serial killer nella sua vita precedente, o tutto quello non si spiega per davvero!
«Mi spiace Lou.»
«No, capisco. Hai ragione. Ma, se domani dovesse stare meglio vorresti…?»
«Se Zoey starà bene, veniamo sicuramente Louis. Non potrei mai lasciarti solo.»
E Louis direbbe che invece lo ha fatto e proprio nel giorno sbagliato.
«Ok, ci sentiamo. Dà un bacio a Zoey da parte mia.»
«Sarà fatto.»
E la telefonata si interrompe.
Louis si morde il labbro inferiore, per cercare di non piangere, i suoi occhi sono così liquidi che fa fatica a distinguere bene le figure; si passa la manica del maglione sul volto ricacciando indietro le lacrime prima di andare in sala e sedersi sul divano per fare zapping col telecomando.
Rufus appare dal nulla, come al solito, e si sdraia composto.
Louis lo guarda stupito: in tutto quel tempo che Rufus è con lui non gli si è mai seduto accanto di sua spontanea volontà. È quasi certo che Henry e Zoey siano la ragione del suo cambiamento: un paio di giorni dopo essersi svegliato per la prima volta con i due Edwards nel letto, Rufus ha ricevuto una bella lavata di capo dalla bimba. Sorride al ricordo: lui ed Henry erano seduti sul divano, Zoey tra loro e Rufus è apparso all’improvviso spaventando Louis e graffiandogli una mano – “Perché”, Lou è certo che abbia letto questo nei suoi occhi gialli “quello è il mio posto!”.
La piccola Zoey si è sporta verso il micio e gli ha preso il muso fra le manine paffute – Louis ed Henry erano terrorizzati da quella situazione – ed ha iniziato a discutere con una serietà incredibile per una bimba di un anno, a suoni di “bababa”, “tatata” e “dadada” con Rufus. Il gatto è rimasto immobile, poi è sceso ed è andato a sedersi sulla poltrona libera lasciando Henry e Louis scioccati. Zoey, invece, aveva un bel sorrisone tutto guanciotte sul volto.
Louis sospira e con una mano fa un grattino dietro alle orecchie morbide dell’animale; Rufus non si lamenta.
 
«Rick?! Oh mio Dio! Che bello vederti! Che ci fai qui?!» domanda felice e quasi estasiato di vedere il suo migliore amico sulla porta di casa con il pugno ancora alzato per bussare – Louis era nei paraggi e dopo il primo “toc” è corso ad aprire, nella speranza che fosse Henry.
Rick Jackson entra avvinghiandolo in un abbraccio che sa di malinconia «Che ci faccio qui?! Ma è il tuo compleanno, stupido!»
«Lo so, ma credevo non tornassi.» grida quasi staccandosi dall’amico e prendendo il trolley «Quanto ti fermerai?»
«Solo per oggi, domani torno a casa a salutare i miei genitori e le mie sorelle.»
«Va bene comunque, sono felice di vederti! Com’è andata in America?»
Rick si toglie il cappotto e lo appende su una sedia vicino all’ingresso «Bene, è andata bene. Probabilmente dovrò tornarci per l’anno nuovo, a tempo indeterminato. Ho trovato lavoro presso un’agenzia di management.»
Louis è contento per lui, molto contento, ma non può nascondere il velo di tristezza che per un misero istante gli è passato sul volto.
«Oh, LP, non fare quella faccia. Non vorrei partire, non vorrei farlo, ma qui non c’è una buona agenzia…»
«Ma… la AICOS Management?»
Rick aggrotta le sopracciglia e fa un gesto curioso con la mano, come volesse scacciare una mosca «Sono degli incompetenti. Non lavorerò mai più per gente come loro!»            
«Capisco.» in realtà Louis non capisce, Rick non gli ha mai raccontato nulla del lavoro a Londra, ma se ha deciso così, allora ci deve essere un motivo più che valido.
Jackson si guarda attorno accigliato, ma anche divertito «Cos’è diventata casa tua? Un asilo nido?»
«Molto divertente Rick.» borbotta l’altro incrociando le braccia al petto «I giochi sono di Zoey.»
«Avete iniziato ad abitare insieme? Ma… non è un po’ presto?» chiede con una punta di curiosità mista ad avvertimento nella voce.
«Non abitiamo insieme, diciamo solo che così evita di portarsi tutte le cose di Zoey ogni volta che viene a trovarmi.»
«E dov’è adesso?»
Louis sbuffa deluso «Oh, Zoey è malata, quindi…»
«E non può lasciarla a nessuno?» quando Rick nota il cenno negativo del capo ed un sorriso triste apparire sul volto del suo amico, decide che: «Andiamo! Ti porto fuori a cena!»
Louis biascica un «Cosa?!» stupito, ma non  è in grado di dire altro, visto che l’amico lo spinge fuori casa buttandogli tra le braccia il cappotto e la sciarpa.
 
Dopo quelli che gli sembrano venti minuti di giri a vuoto in taxi che puzza di tabacco stantio, il mezzo si ferma davanti ad una chiesa che Louis è certo di avere già visto.
«Rick?»
«Uhm?»
«Che ci facciamo qui?»
Rick lo guarda senza comprendere «In che senso?»
«Sai che non vado in chiesa da una vita! E non è certo lì che voglio festeggiare il mio compleanno.»
L’amico sorride dandogli una pacca sulle spalle «Non preoccuparti, qui vicino c’è un ristorante nuovo di zecca.»
Louis lo guarda confuso «Che io ricordi, qui ci sono solo pub…»
«Beh, andiamo a vedere chi ha ragione, ok?»
Lou non risponde, segue Rick tenendo la testa bassa, sulle proprie scarpe da ginnastica bagnate dalla neve che scende da quel pomeriggio; avrebbe voluto avere Henry con lui in quella passeggiata per la ricerca di un ristorante. E anche Zoey. Si, avrebbe voluto entrambi, avrebbe voluto tenere in braccio Zoey e per mano Henry ed avrebbe voluto ricevere il più bel bacio della sua vita in quella sera di una solita vigilia di Natale.
Sa anche che ad Henry non ha mai detto quando sarebbe stato il suo compleanno, ma era quasi certo che il suo Eddy lo avrebbe sorpreso con un mazzo di fiori ed un abbraccio fatto di amore e gratitudine.
La voce di Rick che esclama «Siamo arrivati!» lo risveglia dai suoi pensieri.
Alza la testa e rimane perplesso nel vedere quello, che è certo, è un pub. Irlandese per di più.
«Non è un ristorante.» sospira annoiato «Te lo avevo detto.»
L’amico fa spallucce «Non importa, possiamo sempre mangiare un hamburger e bere una birra.» dice spingendo Louis per le spalle e facendolo entrare nel locale.
E Louis è perplesso, perché la porta è aperta, le luci esterne accese, ma dentro è tutto buio, quindi non capisce se il pub è o meno aperto.
Si volta verso Rick un istante e lo vede ridacchiare della sua espressione scettica, poi si rivolta verso la sala nell’esatto momento in cui le luci si accendono simultaneamente e un vociare concitato urla «Buon compleanno!» nel medesimo momento.
E Louis Parker-Smith è stordito dalla confusione e dai sorrisi, dai coriandoli e dal numero spropositato di persone che sono lì, per lui.
Non sa cosa dire, guarda la sala a 180 gradi.
«Louis» dice la voce roca di Henry che si sta avvicinando verso di lui con in braccio Zoey.
«Henry? Ma cosa…?» non finisce la frase, viene zittito da un bacio leggero ed a stampo sulle labbra dove Harry sussurra «Tanti auguri Lou!».
Un sorriso sciocco ed inebetito si staglia sul volto del paroliere che ricambia il bacio prendendo poi in braccio Zoey che lo abbraccia contenta.
«Perché?» domanda ad Henry con una punta di panico nella voce, non è sicuro che riuscirà ad interagire con tutti i presenti senza sentirsi inadeguato.
«Perché è il tuo compleanno, ed ogni compleanno va festeggiato in grande!» esulta allargando le braccia mostrando i festoni appesi al soffitto ed i palloncini sparsi ovunque.
Louis sorride, sente una lacrima formarsi in un angolo dei suoi occhi azzurri; ingoia tutte le cose brutte che lo hanno colto in quel momento e decide di seguire il consiglio di Henry e divertirsi.
 
Tre ore dopo Louis si è finalmente accomodato ad un tavolo con una fetta della sua torta di compleanno – «L’ha fatta Henry!» gli ha detto Aiden porgendogli il piattino di plastica rosso – imboccando la piccola Zoey con la panna montata che sembra apprezzare più del suo intruglio serale fatto di carne e verdure tritate e bollite.
Si è divertito, ha parlato con tutti i componenti del clan O’Brien al completo, col fidanzato di Aiden, Mark – e qui Louis ha chiesto spiegazioni visto che non gli ha mai rivelato di stare con una persona, per di più un ragazzo; e Aiden ha ribattuto che nemmeno lui gli aveva raccontato della relazione che ha con Henry da tre mesi! – che trova davvero bello ed un po’ inquietante con tutti quei tatuaggi, il chiodo di pelle e quell’aria un po’ burbera sul volto. Ma se ha capito davvero come è realmente Mark, allora sa che è tutta apparenza, Come quella che circondava me sino ad un mese fa.
Ha conosciuto anche Alexandra e Joy Edwards, rispettivamente madre e sorella di Henry, che lo hanno stritolato in un abbraccio quasi spassionato – ed ora ha capito da chi Henry ha preso tutto quell’affetto da donare.
Poi c’è Rick che gli ha rivelato di aver ricevuto una telefonata da Henry che lo pregava di tornare per la vigilia e di aiutarlo con la festa a sorpresa.
E Louis non sa davvero che pensare perché, tutto quello, è molto più di quello che ha sognato per quel suo ventinovesimo compleanno.
Sospira e dà un bacio a Zoey sulla fronte «Spero che tu ti stia divertendo piccola.»
Zoey, per tutta risposta, sorride e prende due dita di Louis tra le sue manine.
Le luci si abbassano ed una voce roca si spande nel pub; Parker-Smith si volta verso il piccolo palco situato in fondo al locale.
«Buona sera a tutti!» saluta Henry davanti al microfono nel centro della pedana «Grazie per essere qui a festeggiare il compleanno di una persona splendida e per me molto importante!» la risata di Zoey riempie il locale ed Henry puntualizza «Amore scusami, ma per questa volta non mi riferisco a te. E l’hai già festeggiato il compleanno!» tutte le persone nel locale ridono della battuta mentre il viso di Louis si tinge di rosso.
«Dicevo?!»
«Che ci hai costretti a venire qui per un tuo fantastico capriccio» riassume Louis che si è alzato per avvicinarsi al palco; altre risate riempiono la sala.
«Grazie…» borbotta «Comunque, visto che siamo qui a festeggiare il compleanno di una persona splendida ed antipatica» Rick trattiene una risata appena Louis gli scocca un’occhiataccia «volevo solo dargli il mio regalo.»
Louis si ferma ad un paio di metri da Henry, Joy lo fa accomodare su una sedia di legno presa ad un tavolo e allunga le mano per prendere Zoey; ma Lou le fa un gesto con la testa come per dire «Non preoccuparti, non mi dà fastidio.», Henry sorride a quel dialogo silenzioso.
«Allora, io non sono molto portato per queste cose, ho iniziato a suonare la chitarra da tre mesi. Ed inizialmente l’ho fatto solo per riuscire ad avere un contatto migliore con mia figlia… però, ora, sono contento di aver imparato in fretta ed essere qui, per cantarti quello che provo per te.»
Il volto di Louis si imporpora pesantemente.
«Aiden mi ha aiutato nella composizione… hai un allievo splendido Lou!» conclude facendo l’occhiolino al ragazzino, in piedi accanto a lui, con un’altra chitarra classica tra le mani. Henry sistema il microfono e poi si accomoda sullo sgabello ed inizia a cantare.
Se Louis Parker-Smith volesse valutare la composizione come insegnante, direbbe che sarebbe il caso di ripassare bene i bemolle perché Henry ha la tendenza di dimenticarli per strada, ma come Lou la può valutare solo per il trasporto, le emozioni e le parole che Henry Edwards , il suo Eddy, ha messo in quelle poche strofe. Parla di lui, del suo dolore, delle sue paure, dei suoi desideri e delle sue speranze che possono fargli aprire gli occhi su un mondo migliore; parla di lui, Louis ne è certo tanto quanto lo è della delicatezza che Henry usa per pizzicare le corde e per parlare di come riuscirà a sollevarlo da terra ogni volta che cadrà e che non riuscirà ad alzarsi senza il suo aiuto. Louis ne è certo tanto quanto lo è il sentimento che continua ad aumentare per quel ragazzo tutto boccoli, fossette e denti bianchi.
Henry e Aiden cantano il ritornello insieme, dolcemente, e Louis pensa a quanto siano bravi; questo lo rende orgoglioso del suo lavoro e dei suoi alunni.
Louis sente qualcosa nascergli dentro e non sono solo le lacrime che vogliono uscire con prepotenza, ma anche una strana passione, una sensazione che credeva fosse totalmente morta, pietrificata dentro di sé. Ed invece, proprio come aveva detto Henry, era solo assopita.
Quando i ragazzi modulano la voce abbassandola piano, Louis si alza, con Zoey in braccio e raggiunge Henry sul palco e lo guarda. Lo guarda come se fosse l’unica cosa importante presente in quella sala, in tutto il mondo.
«Eddy» sussurra mettendosi sulle punte dei piedi ed allungando il collo per baciarlo senza problemi; fischi ed applausi riempiono il pub, qualcuno urla il bis e qualcun altro stappa lo spumante fresco.
«Uhm?»
«Questo è il regalo più bello che qualcuno mi abbia mai fatto.»
«Ti è… piaciuto quindi?»
«Assolutamente. Quella canzone era splendida! È stata…» gli prende una mano e la stringe forte nella sua «Mi ha ispirato Henry. Tu mi hai ispirato. Zoey mi ha ispirato. Aiden e Mark, il clan O’Brien e il clan Edwards; tutti mi hanno ispirato.»
Henry sorride, intenerito.
«Sto sentendo proprio qui» si poggia la mano sul cuore «una sensazione “calda”, che sa di malinconia, passione e desiderio.» Henry spalanca gli occhi e tappa le orecchie alla figlia; Louis ride «Non parlo di sesso Henry, anche se non vedo l’ora di fare l’amore con te!, ma no, parlo della musica. Riesco a sentire le parole!»
Ed in quel momento, il sorriso smagliante, importante, emozionato di Louis, contagia Henry che lo abbraccia, forte, stringendo talmente tanto che la piccola Zoey si lamenta un poco.
«Ho voglia di scrivere per te, Henry, di te e di Zoey. E del clan O’Brien, perché no!» ammette vedendo Mark abbracciare Aiden complimentandosi della canzone e della sua bravura.
«Sono così contento per te, Lou.»
«Oh, no, sii contento per noi, Henry. Perché appena potrò e se tu sarai ancora con me, ti assicuro che tutto il mondo saprà quanto sei – siete! – importanti per me. Di quanto io vi ami e di quanto sia splendida la vita con voi. E stai certo Eddy» prosegue indifferente degli sguardi curiosi dei presenti che si sono zittiti per sentire il loro dialogo di promesse, e degli occhi liquidi di felicità del suo compagno «che ti sposerò.»
«Cosa!?» urlano i famigliari e gli amici più stretti dei due scioccati positivamente della proposta.
«Ti sposerò! E, se me lo permetterai, adotterò Zoey per accudirla insieme a te. Voglio essere anch’io un suo papà. Anche se non biologico.»
Henry ha trattenuto il fiato, se ne è accorto quando Aiden gli ha dato una pacca sulla spalla per farlo riprendere, gli occhi azzurri di Louis sono in attesa di una sua qualunque parola, pieni di speranza. E chi è Henry per tradire tale aspettativa? Nessuno, quindi risponde semplicemente «Ti aspetterò Lou. Per tutto il tempo che serve.»
E poi il resto non lo ricorda. Gli pare che Louis gli si sia lanciato sulle labbra in un bacio più umido che casto, le persone ridevano, i bambini gridavano, sua sorella e sua madre saltavano e piangevano emozionate e poi, beh, Zoey ha iniziato a colpire Louis per avere attenzione; il paroliere lo guarda e legge rabbia e felicità in quello sguardo furbetto, poi la piccola esclama, puntando il dito verso di lui «Bu!».
La sala si zittisce di colpo e la piccola Edwards capisce di aver l’attenzione su di sé.
«Bu» ripete rivolta verso Louis successivamente si gira verso Henry e pronuncia un «Ri!» entusiasta.
Henry e Lou si guardano con la bocca spalancata e poi abbracciano la piccola Zoey in una stretta che sa di casa. Di amore. Di famiglia.
Ed ora Louis ne è certo, la musica e l’amore, qualunque tipo di amore, non possono scindersi.
Mai.



 
Ciao a tutti!
Sono tornata!
Questa dovrebbe essere una OS, un pò lunga, ma comunque una OS.
Ero così combattuta se dividerla o meno... alla fine ho deciso di inserirla così com'è, completa.
Dall'inizio alla fine. E se siete arrivati sino a qui, vuol dire che avete letto quelle 16.000 e passa parole... Ops XD
Non chiedetemi come mi sia venuta in mente quest'idea... non lo so. Una mattina mi sono svegliata e OPLA'!, un intero plot completo di inizio, intermezzo e fine si era formato nella mia testa! Mi sono divertita a scriverla, soprattutto di Rufus (conosco un gatto che ha lo stesso caratteraccio!) e di Zoey - piccola fragola ambulante XD
Avrei dovuto pubblicare questa OS almeno il mese scorso, ma non ho avuto tempo (adesso è diventato ancora più ristretto di prima, cavolo!) e poi questo nuovo HTML di EFP mi fa imbestialire... ci ho litigato un sacco! Per non parlare del fatto che ancora non mi va bene completamente; quindi perdonate qualunque formattazione sia venuta fuori (se è davvero brutta cercherò di sistemarla il prima possibile!). :( non sono nemmeno riuscita ad inserie un'immaginina (ma la metto sulla mia pagina autore). 
Tutte le canzoni che Aiden canta, ascoltatele almeno una volta, penso che siano molto belle (ed io ho una fissa per l'Irlanda che non immaginate XD).
Spero che vi sia piaciuta!
Un abbraccio
Charty, il ritorno!!! XD


p.s.
La considerazione sulla AICOS è puramente casuale. Non ho la più pallida idea di come lavorino; è solo una delle più importante case di management dell'Inghilterra, quindi mi è solo servita per la storia. Prendetela come una "licenza poetica". lol
  
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