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Autore: Laylath    27/02/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 31. Giornate di pioggia. Prima parte: fratelli maggiori.

 

Al contrario del clima tra Vato e Roy che si era notevolmente rischiarato, il tempo meteorologico era invece di pessimo umore e qualche giorno dopo si scatenò un forte temporale che annunciava l’arrivo in notevole anticipo delle piogge tipiche di quella stagione.
 
Janet era riuscita da poco a superare la sua paura dei temporali, o per lo meno era riuscita a venirci discretamente a patti. Se era già a letto e veniva svegliata dal tuono si raggomitolava sotto le coperte e serrava gli occhi, convinta che in quel nido sicuro quel rumore così brutto e forte sarebbe stato attutito: ed in genere la cosa funzionava.
Così, quando quella notte si svegliò per i primi tuoni, provvide immediatamente a mettersi completamente sotto le coperte.
E’ solo un temporale… non può farmi niente!
Sì ripeté mentalmente quelle parole, cercando di convincersi che finché stava lì non aveva niente da temere, ma all’improvviso si accorse che qualcosa non andava.
“Devo fare pipì…” mormorò, con sorpresa.
Questo sì che era un tremendo dilemma: il bagno si trovava in fondo al corridoio e questo voleva dire uscire dal suo nido protettivo, andare fuori dalla sua camera e percorrere tutto quel lungo tragitto in piena balia del temporale. E, paradossalmente, più pensava alle difficoltà di quel percorso, più l’urgenza si faceva sentire, quasi a farsi beffe di lei.
Alla fine, dopo alcuni minuti di indecisione, accorgendosi che i tuoni non erano più così forti e frequenti, si convinse a tentare la grande impresa e si arrischiò ad uscire dal suo letto. I suoi piedini scalzi toccarono il pavimento di legno e rabbrividì, immergendosi ancora di più nel suo pigiamino rosa.
A tentoni cercò la porta ed uscì dalla stanza, arrivando nel temuto corridoio che di notte faceva davvero paura.
“Non ci sono i fantasmi… non ci sono i fantasmi…”
Iniziò a ripetere quelle frasi quasi fossero un incantesimo per cacciare via eventuali spettri, ma il suo viso tradiva tutta la paura che provava. E sfortuna volle che, proprio in quel momento, i tuoni ed i fulmini tornassero a farsi sentire con prepotenza, manco fossero proprio dentro casa.
Con un singhiozzo si appiattì contro la parete, troppo terrorizzata per proseguire la sua andata verso il bagno. Tastando con la manina si accorse che era arrivata all’altezza della porta della stanza di Jean e con un sospiro di sollievo entrò.
Nel buio quasi inciampò contro qualcosa che suo fratello aveva lasciato per terra, ma riuscì a raggiungere il letto senza troppi danni. Mise le mani avanti cercando di individuare la sagoma di Jean, ma anche lui dormiva completamente immerso nelle coperte e dunque non si capiva molto della massa informe che andava a toccare.
“Fratellone…” chiamò, senza però ottenere risposta.
Dovette stringere le gambe perché proprio non riusciva più a trattenere.
“Jean, devo fare la pipì… per favore, mi accompagni?”
Le coperte si mossero lievemente e per un secondo Janet esultò, ma un mugugno appena udibile fece chiaramente capire che Jean non aveva nessuna intenzione di svegliarsi.
Proprio in quel momento ci fu un nuovo tuono e con un singhiozzo terrorizzato saltò sopra il letto, cercando affannosamente l’ingresso di quel rifugio di coperte ed entrandovi con disperazione. Una volta dentro si aggrappò al corpo di Jean e serrò gli occhi, sperando che il temporale andasse via.
D’istinto suo fratello, che le dava la schiena, si girò e la strinse a sé, come se fosse un pupazzo.
Quel contatto era così bello e rassicurante: ora Janet poteva sentire il suo respiro caldo sulla sua testa, le braccia che la stringevano… non si sarebbe mossa di lì per niente al mondo.
“Fratellone…” sorrise, appellicciandosi maggiormente a lui, mentre il sonno tornava a ripresentarsi.
Era così rilassata che nemmeno si accorse di aver smesso di trattenere.
 
Un forte tuono fece svegliare Jean nemmeno un’ora dopo.
Uh, temporale…
Non si degnò nemmeno di aprire del tutto gli occhi: prese coscienza del fatto e si apprestò a girarsi dall’altra parte e riprendere a dormire. Tuttavia si rese conto che c’era qualcosa di attaccato al suo petto e tastando meglio riconobbe i capelli morbidi e sciolti, la guancia paffuta, il braccio stretto a lui.
Oh, è venuta nel mio letto…
Non aveva voglia di pensarci: poteva tollerare la presenza di Janet nelle notti invernali. Sua sorella aveva la pregevole dote di diventare una piacevole palla calda ed inoltre tendeva a restare tranquilla nella medesima posizione, senza occupare tutto il materasso.
Con un sospiro soddisfatto, Jean decise giusto di spostarle leggermente la gamba in modo da potersi mettere più comodo. Per farlo fece scivolare delicatamente la mano verso il basso in modo da accompagnare il movimento e non disturbarla troppo e…
Che…? Che cos’è quest’umido?
Se prima aveva appena semiaperto gli occhi, in quel momento li spalancò di colpo mentre un tremendo sospetto si impossessava di lui. Scostò di colpo le coperte e con mosse affannose scavalcò il corpo della sorella, sentendo la parte inferiore della casacca e buona parte del davanti dei pantaloni del pigiama fradici.
“No… no – supplicò accendendo la luce – non dirmi che… Janet! Maledetta piscialletto!”
A quelle parole dette in tono decisamente alto, la bambina mormorò qualcosa e si girò supina, mostrando pienamente il disastro che aveva combinato.
“Io ti ammazzo, maledetta pulce! Svegliati!”
Iniziò a scrollarla con forza fino a quando la fece destare.
“Uh… fra…fratellone?”
“Guarda che hai fatto, razza di stupida!” la sgridò lui, non potendo credere che fosse successa una tragedia simile proprio nel suo letto. Perché non andava a bagnare quello dei loro genitori? Sempre da lui doveva venire a combinare disastri.
“Mi… mi dispiace – balbettò la bambina, sedendosi e rendendosi conto di quanto era successo – avevo paura ad andare a fare pipì da sola… e tu… tu non ti svegliavi… e poi… poi c’è stato il tuono forte!”
“Te lo do io il tuono, maledetta poppante!” e le diede uno schiaffo sulla nuca, facendola scoppiare a piangere all’istante.
“Sei cattivo!” singhiozzò portandosi i pugni agli occhi.
Ma Jean era fuori di sé dalla rabbia: il suo letto, il suo pigiama… fradici per colpa di quella stupida. Se gli altri lo venivano a sapere era la fine.
“Jean, che cosa succede?” chiese Angela entrando in camicia da notte.
“Che succede? Che succede? Quella stupida ha bagnato il mio letto ed il mio pigiama.”
“Mamma!” tese le braccia la bambina, sicura che la donna l’avrebbe presa in braccio senza sgridarla. Ed infatti Angela non si preoccupò minimamente del pigiama bagnato o del disastro che c’era nel letto e fu pronta a sollevarla e confortarla.
“Oh no, cucciola mia, che cosa è successo? Non è niente di grave, tesoro, non piangere…”
“Niente di grave? Ma mi vedi, mamma? Sono fradicio del suo piscio!”
Pipì, vero Jean? Volevi dire pipì… e non è il caso di farne un dramma. Prendi l’altro pigiama che hai nel cassetto e vai in bagno a lavarti e cambiarti. E sbrigati che poi devo pensare a tua sorella.”
Scuotendo il capo con incredula rassegnazione il ragazzo aprì con rabbia il cassetto e prese l’indumento.
“Domanda: – fece, quando aprì la porta – e dove dormo, dato che sua maestà mi ha bagnato tutto il letto?”
“Vai in camera nostra, va bene? Ci penso domani a sistemare tutto qui… è tardi.”
“Dormire con voi nel lettone? Ma siete matti? Ho quattordici anni, mica quattro!” inorridì lui.
“Il letto di Janet è troppo piccolo per te – sospirò Angela, camminando avanti e indietro nella stanza per cullare la bambina – da bravo, Jean, è notte fonda. Non creare problemi…”
“Io, eh?” sospirò lui, arrendendosi a quella soluzione.
Stupida sorella minore.
 
Una decina di ore dopo, Henry alzò per la sesta volta lo sguardo alla finestra e vide che la pioggia proprio non aveva intenzione di smettere: sapeva che era sciocco sperare una cosa simile, era chiaro che quel tempo sarebbe proseguito per diversi giorni, ma era davvero un peccato sprecare una domenica chiuso in casa.
Con un sospiro abbassò lo sguardo sul libro che aveva iniziato a leggere la sera prima: gli piaceva davvero tanto, ma era così depresso per il tempo che non riusciva a leggere tre righe di fila e stava ormai da tempo sulla stessa pagina.
Il suo udito acuto colse un rumore proveniente dal corridoio e sorrise: forse suo padre si era alzato ed era in una delle sue giornate buone. Magari sarebbe stato felice di passare del tempo con lui, era da almeno una settimana che non succedeva ed Henry sentiva la mancanza di qualcuno con cui poter condividere i suoi racconti: alla mamma non era il caso di dire determinate cose.
Aprì la porta e corse alle scale, in tempo per vedere suo padre che si metteva il cappotto.
Ma come? Esce con questo tempo… e di mattina?
Sua madre arrivò dalla cucina e sembrò che i due si scambiassero qualche parola, prima che lui, con un gesto seccato uscisse dalla porta, il rumore della pioggia che diventava per qualche secondo più forte prima di tornare attutito dalle pareti domestiche.
“Mamma – domandò, scendendo le scale – dov’è andato papà?”
“A quanto pare in paese sono arrivati alcuni suoi amici – disse la donna, portandosi indietro una ciocca di capelli rossi che era sfuggita dal fermaglio  dietro la nuca – e va a trovarli per qualche tempo.”
“Vuoi dire che non torna a casa?” chiese con ansia il ragazzino, accostandosi a lei e notando che gli occhi grigi erano volti a terra. A quella domanda Laura  sospirò e sorrise, inginocchiandosi accanto a lui.
“Ma no che torna, tesoro, non ti preoccupare.”
“Non devo?” mormorò, sentendo che c’era qualcosa che non andava.
“No, Henry, non devi. Tuo padre torna presto, fidati di me.”
Cercò di sorridere, di dimostrare a sua madre che era forte come lo poteva essere Heymans, ma scoprì che non era bravo quanto il fratello a reggere il gioco in quel modo. Così preferì svincolarsi dalla mano materna che gli accarezzava i capelli e salire di nuovo le scale, senza girarsi a guardarla.
Detestava quando in casa c’era quel clima depresso: avrebbe preferito di gran lunga uscire e correre sotto la pioggia piuttosto che stare in quel limbo, cercando di capire se suo padre sarebbe tornato o meno e se la prossima volta che lo vedeva sarebbe stato disposto a chiacchierare con lui o no.
Si appoggiò alla parete del corridoio, le mani dietro la schiena, e rimase a riflettere.
Sentiva che la situazione a casa stava cambiano e non riusciva a capire in che modo. Sapeva che suo padre alternava periodi buoni ad altri cattivi dove lui ne aveva paura, ma si era abituato a quei cambiamenti e tendeva a godersi i momenti positivi, preferendo dimenticare gli altri.
Ma adesso…
Era da qualche tempo che aveva questo sentore: era come se in casa ci fosse un nuovo tipo di tensione, qualcosa che aveva turbato il precario equilibrio a cui si erano più o meno abituati.
“Che ci fai qui fermo nel corridoio?” chiese Heymans uscendo da camera sua e notandolo.
“Papà è uscito.”
“Ah sì? Di mattina e con questo tempo? – la fronte del ragazzo si corrugò per la perplessità – E dov’è andato?”
“Mamma ha detto che ci sono alcuni suoi amici qui in paese e dunque starà con loro per un po’.”
Suo fratello stava sospirando di sollievo? Henry non lo seppe dire con certezza, ma se era così una parte di lui lo seguì in quel sentimento, anche se detestava ammetterlo.
“Heymans…”
“Che c’è?”
“Mamma è preoccupata, da diverso tempo è così. Tu parli di più con lei… che sta succedendo?”
Quelle parole fecero sussultare interiormente il maggiore: lui sapeva che stava succedendo? Forse quello che Andrew Fury aveva detto settimane prima: Gregor stava iniziando a vedere in lui un nuovo Henry e questo stava alterando i rapporti.
E forse mamma se ne sta rendendo conto ed è preoccupata…
Abbassò lo sguardo sul fratello minore: sfrontato, arrogante, ma dove finiva tutto questo quando si trovava imprigionato in una situazione troppo difficile da capire? L’aria era desolata, un po’ gli ricordava Vato quando gli aveva parlato dei suoi dubbi nell’amicizia con Roy e nel rapporto con suo padre.
“E’ preoccupata perché… – si fece forza prima di pronunciare quelle parole – pensa ancora al disastro che ho combinato a inizio gennaio con gli altri. Tu eri a dormire dai tuoi amici e non te l’ha detto: me le ha anche date con la spazzola.”
Ebbe la soddisfazione di vedere il viso del fratello che perdeva l’aria sconsolata e lo guardava con sorpresa. E come poteva essere il contrario? Lui era quello responsabile, anche troppo, quello che era sempre pronto a riprenderlo per qualsiasi cosa facesse… quella rivelazione era davvero fuori dall’ordinario.
“… non dimenticare quanti anni avete.” era questo che aveva detto Andrew Fury, del resto.
Tu le hai prese da mamma? – chiese Henry sbalordito – Con la spazzola? Che cosa diavolo hai combinato per meritare una cosa simile.”
“Una caccia al fantasma in piena notte alla stazione di polizia – disse il rosso mettendosi a braccia conserte e assumendo un’aria di offeso orgoglio – finita nel modo peggiore possibile.”
“Alla stazione di polizia? Una caccia al fantasma? – Henry si staccò dalla parete e lo guardò con occhi del tutto nuovo, come a dire ma allora anche tu sei umano – Per quella storia del poliziotto ucciso cento anni fa?”
“Sì, ma non era proprio…”
“Tu hai un sacco di cose da dirmi – esclamò Henry, afferrandolo per il braccio, gli occhi grigi che brillavano – come hai potuto tenermi nascosta una cosa simile? Dev’essere stato fantastico! Raccontami tutto, fino all’ultimo dettaglio, ti prego!”
“Ehi – sbottò Heymans liberandosi dalla presa e mettendogli l’indice in fronte – te lo racconto ma tu non ci devi nemmeno provare a fare una cosa simile. Chiaro?”
“Agli ordini, non ho certo voglia di prenderle con la spazzola. Forza, andiamo in camera tua: voglio sapere assolutamente come è fatta la stazione di polizia… e poi di notte! Non ti credevo capace di cose simili, davvero.”
“Nemmeno io…” sospirò Heymans.
Ma almeno adesso non sta più pensando a papà e a mamma.
 
Jean sapeva che nell’arco di un paio di giorni si sarebbe abituato a quel clima piovoso, ma sapeva anche che quel primo pomeriggio sarebbe dovuto venire a patti con la noia di non poter uscire di casa.
Così si era messo sdraiato supino sul tappeto di camera sua, osservando il mondo alla rovescia, in particolare la finestra con le gocce di pioggia che invece di scivolare verso il basso salivano. Era una cosa quasi ipnotica dopo un po’: c’era sempre qualche goccia più grossa che si faceva largo nei medesimi punti e…
“Fratellone…”
“Che vuoi?” chiese in tono annoiato, senza cambiare posizione. Ma non si sorprese quando Janet gli salì sulla pancia, usandolo come materasso.
“Oggi c’è tanta pioggia, mamma dice che non possiamo andare nemmeno in cortile. Dura tanto?”
“Sì, durerà tanto – ammise lui, prendendole una treccia e giocandoci distrattamente – dovresti saperlo ormai che ogni anno succede così tra febbraio e marzo.”
“Mi annoio, vuoi fare qualcosa con me?”
“Non ho voglia di fare niente, Janet – sbuffò lui, in piena apatia – questo tempo mi deprime.”
“Sei ancora arrabbiato perché ho bagnato il letto?” mormorò lei.
Il ragazzo non rispose immediatamente. Beh, aveva dovuto dormire nel lettone dei suoi con accanto Janet e si era svegliato stretto nell’abbraccio della sorella e in quello della madre, con sommo divertimento di suo padre. Fortunatamente adesso la sua camera era di nuovo agibile e lenzuola e pigiama sporchi erano finiti a mollo per cancellare quell’onta tremenda che aveva subito.
“Chiamami più forte la prossima volta: preferisco essere svegliato piuttosto che ritrovarmi simili sorprese.”
“Va bene… dai, adesso gioca con me. Ti va?”
“Se non gioco con te non la smetterai di seccare, vero? – sospirò lui, mettendosi a sedere, con Janet che abilmente seguiva i suoi movimenti e si spostava a cavalcioni sulle sue ginocchia – Allora, che vuoi fare? E non provare a proporre di giocare con le bambole.”
Janet ci rifletté a lungo: non si era aspettata che suo fratello si arrendesse così in fretta e che le concedesse di scegliere il gioco. Doveva proporre qualcosa di bello, in modo che lui fosse felice di partecipare: ora che non aveva compiti da fare e non usciva con Heymans aveva l’occasione di stare con lui per tanto tempo
“Mi insegni ad arrampicarmi sui mobili?” chiese infine con gli occhi che si illuminavano dall’aspettativa.
“Ma se l’altra volta sei caduta dagli scaffali del magazzino e sei piombata sui sacchi di zucchero…” sbuffò lui.
“Appunto, insegnami tu, fratellone… tu sei bravo a farlo, me lo racconti sempre.”
Il ragazzo la fissò dubbioso, chiedendosi se quello scricciolo avrebbe mai potuto raggiungere i suoi livelli di bravura. Non è che avesse le gambe forti come le sue e l’equilibrio lasciava un po’ a desiderare…
Però è pur sempre mia sorella, un minimo di predisposizione ce l’ha.
“Papà è in magazzino, vero?” chiese Jean con aria dubbiosa: quello sarebbe stato il luogo ideale per farla allenare e mostrarle le tecniche giuste. Ma ovviamente era una cosa che andava fatta totalmente di nascosto dai loro genitori.
“Sì…” ammise lei mogia, vedendo scomparire le sue speranze.
“Ma in camera tua c’è il mobile con i ripiani – fece lui con aria furba – andiamo, nana, vedrai che con i miei consigli arriverai sino in cima!”
Sì, ormai aveva deciso: sarebbe stato il suo passatempo della serata insegnare a Janet a fare un’arrampicata decente. Anzi a ben pensarci, era suo dovere di fratello maggiore farle da maestro in questa meravigliosa arte.
“Ecco qua, nana: ci sono cinque ripiani da scalare, forza e coraggio: il segreto dell’arrampicata perfetta è trovare il percorso giusto, ossia dove ci sono meno oggetti che ti possono dare fastidio. Col tempo si può aggiungere anche questo livello di difficoltà per dare più gusto alla sfida, ma dato che sei alle prime armi, direi che conviene che ti piazzi qui – e la portò davanti alla parte del mobile dove stavano meno oggetti – Pronta? Datti la spinta con le gambe e con le braccia e dimostrami cosa sei capace di fare.”
“Va bene!” esclamò lei con foga, rimboccandosi le maniche del maglione e posando le mani sul primo ripiano.
Jean si scostò da lei, arretrando di qualche passo e mettendosi a braccia conserte proprio come farebbe un istruttore militare davanti all’addestramento delle reclute.
“Continua così, coraggio – iniziò ad incitarla – evita di urtare gli oggetti con il piede: trova lo spazio giusto.”
Non se la cavava male, doveva ammetterlo, non per niente era sua sorella. Certo era ancora traballante e a volte sembrava esitare, ma aveva tutte le carte in regola per arrivare in cima.
“E’ alto…” mormorò lei arrivata al terzo ripiano.
“Forza, non guardare in basso. Non vorrai mollare proprio adesso, spero.”
Spronata da quelle parole la bambina tornò a guardare il ripiano successivo e allungò il braccio.
“Brava, continua così… sei in cima ormai, come arrivi vai a gattoni che lì non c’è niente che puoi urtare.”
“Jean… ho paura.”
“Che?”
“E’ alto, ho paura – si impanicò lei – vieni a prendermi.”
“Venire a prenderti? Ma come fai ad aver paura se è niente in confronto ai ripiani del magazzino. Sei proprio un caso disperato.”
“Non ce la faccio – balbettò la bambina affacciandosi dall’ultimo piano – vieni, ti prego.”
“Non posso: non regge il mio peso quella cosa, non più. No, no, no… non piangere che se arriva mamma sono guai seri sia per me che per te.”
“Voglio scendere…” le prime lacrime iniziarono a colare.
“Oh cazzo – sibilò Jean – va bene, facciamo così, lanciati che ti prendo al volo.”
“Eh? Da qui? No… no… Mamma!” iniziò a chiamare.
“Ssssh, cretina! – sibilò lui – se arriva mamma pensi che non te le suonerà per esserti arrampicata? Avanti, non aver paura: ti prendo io, fidati.”
“No, dai… provo a scendere – iniziò lei, girandosi e facendo sporgere la gambetta dal mobile – ma tu stai lì ad aiutarmi, eh?”
“Fidati – annuì il biondo tendendo le mani – avanti, inizia… sporgi di più che sei quasi arrivata al ripiano.”
Forse c’erano possibilità di farcela senza troppi drammi e senza che i loro genitori lo venissero a scoprire…
“Janet, tesoro – fece la voce di sua madre, mentre la porta si apriva – ti ho riportato il pigiamin… Janet!”
Quel richiamo fece perdere la presa alla bambina che con un urlo cadde. Con prontezza Jean la afferrò,ma il risultato concreto fu che entrambi caddero a terra, con il ragazzo a fare da materasso alla sorella.
“Ohi, ohi… che botta! – si lamentò, rimettendosi seduto – Ci sono danni?”
“No – ammise lei, scrollando la testolina – tutto bene… uh, dai, però è stato divertente!”
“Vero che è grandioso?” sorrise Jean.
“Divertente, eh? – esclamò Angela, chiudendo la porta alle sue spalle – Adesso sentiamo le risate mentre vi faccio il sedere bollente!”
“Che? – protestò il ragazzo, mentre la sorella si aggrappava a lui con aria terrorizzata – Janet oggi non fai altro che combinare disastri che coinvolgono anche me! Stupida poppante!”
 
Avere un fratello che continua a guardarti con occhi adoranti era qualcosa che Heymans non aveva mai sperimentato fino a quella mattina e non sapeva se esserne felice o meno. Il fatto che Henry fosse estasiato da quella bravata non era proprio un buon segnale e c’era da sperare che mantenesse fede alla promessa di non tentare alcuna emulazione in quel senso.
Però c’era un’innegabile soddisfazione nel vedere che per una volta tanto pendeva dalle sue labbra e non da quelle del padre. Probabilmente se gli avesse chiesto di saltellare con una gamba sola sul posto l’avrebbe fatto.
Eppure se mi avessero raccontato una bravata simile a me sarebbero cascate le braccia. Come può ammirarmi in questo modo sapendo che in realtà era un cagnolino e che è finita con quella punizione? Ci sono tutti i presupposti per prendermi in giro non per adorarmi.
Era forse questo uno dei grandi muri nel rapporto tra Heymans ed Henry: il primo era troppo imparziale nel giudicare le cose, persino per se stesso. Henry invece aveva un indole pronta a riconoscere il fascino di un’impresa, anche se era destinata a finire male. Sotto questo punto di vista assomigliava un po’ a Jean, con la sua esuberanza, anche se tendeva ad estremizzare questa caratteristica.
E dunque si era creato un divario abbastanza difficile da colmare: Henry diverse volte aveva cercato di vedere in Heymans qualcosa di spericolato a cui aggrapparsi, ma il maggiore non aveva mai offerto simili appigli, per lo meno in sua presenza.
Questo proprio perché Heymans se mai si concedeva strappi alla regola preferiva farlo lontano da Henry, in modo da fornirgli un buon esempio, al contrario del padre, e non influenzarlo negativamente.
E così se Jean non aveva problemi ad incoraggiare Janet ad arrampicarsi sugli scaffali, Heymans era invece pronto a fare l’esatto contrario.
Ma la rivelazione di quella folle notte alla stazione di polizia aveva smosso qualcosa nel minore dei Breda.
In situazioni normali avrebbe passato quella serata piovosa in camera sua a leggere, ma questa volta si sentiva così sovreccitato da voler stuzzicare il fratello per fargli fare qualcosa non da lui.
E a conti fatti era anche un’esigenza dettata dal non voler pensare troppo all’assenza del padre.
“Heymans…” iniziò entrando in camera del fratello e notando con soddisfazione che era chino alla scrivania.
“Mh?”
“Ti piace il blu?” chiese trattenendo una risata e portandosi dietro di lui.
“Il blu? Perc… no, ma cosa fai!?” esclamò mentre Henry gli rovesciava sulla testa una boccetta di inchiostro blu. Il rosso, anche se adesso i suoi capelli erano parzialmente colorati, si alzò dalla sedia e si portò una mano sulla testa, sentendo il liquido che gli colava sul collo e sulla fronte.
La sua espressione era così stupefatta che Henry non trattenne più le risate e rotolò sul pavimento, trattenendosi la pancia e scalciando.
“Pezzo di cretino! Adesso ti insegno io…”
“E prova a prendermi!” esclamò il ragazzino rialzandosi con grande rapidità e sgusciando fuori dalla portata del fratello maggiore.
“Oh, se ti prendo… se ti prendo!”
Fu questione di pochi istanti ed iniziò una spericolata gara tra i due, con Henry che se la rideva deliziato correndo ovunque in casa ed un furioso Heymans che lo inseguiva, lasciando gocce d’inchiostro blu dietro di lui, una curiosa variante della pista lasciata da Pollicino.
Ad un certo punto irruppero in cucina dove Laura stava preparano l’impasto per i famosi biscotti al cioccolato.
“Ehi! – esclamò sorpresa – Ragazzi che… Heymans ma che hai in testa?”
“Chiedilo a questo scemo!” sbottò lui, portandosi davanti al tavolo mentre Henry se ne stava beatamente dall’altra parte. Arrivò persino a fargli la linguaccia, sicuro di potersela cavare e si stava divertendo un mondo: era incredibile che Heymans si rivelasse un ottimo compagno di gioco.
“Dai ragazzi, non mi pare il caso di…” ma prima che Laura potesse proseguire la situazione di stallo si spezzò con Heymans che quasi saltò sopra il tavolo. Henry ne approfittò per fare il giro e correre in salotto.
Non seppe nemmeno lui per quanto corsero tra i mobili, ma alla fine cadde sul divano, mentre uno sfinito Heymans finalmente lo raggiungeva.
“Stupido ragazzino! – esclamò con il fiatone, andandogli addosso – ti piace il blu? Pitturati anche tu la faccia, allora!” e passandosi le mani sui capelli, le mise sulle guance e sulla fronte di Henry, lasciando notevoli tracce di pittura.
Si fermò a guardare compiaciuto quella piccola vendetta, ma dopo qualche secondo iniziò a ridere.
“Che hai?” gli chiese Henry.
“Dovresti guardarti allo specchio!”
“Perché tu no? Sembri un pappagallo con quei capelli rossi e blu.”
“E tu un indiano.”
Si guardarono per un istante in completo silenzio e poi scoppiarono a ridere come mai era successo.
Heymans si lasciò completamente andare a quel gioco con il fratello, dimenticandosi della maturità, del padre, di tutti i problemi: si godette pienamente, forse per la prima volta, la compagnia esuberante di Henry. Non importava se si stavano impiastricciando entrambi con le mani sporche d’inchiostro, ridendo come degli stupidi, era un qualcosa che lo faceva sentire bene in un modo nuovo ed incredibile.
Laura dalla cucina sentì tutta quell’ilarità e riuscì a rasserenarsi: non le sembrava vero che la casa risuonasse in quel modo delle risate di entrambi i suoi figli. L’uscita di Gregor, quella mattina, l’aveva messa in notevole difficoltà: vederlo andare via senza sapere quando sarebbe tornato aveva fatto vacillare l’equilibrio che aveva creato con quel marito così particolare.
Sì, aveva paura che le cose stessero per cambiare, che tutto quello che era riuscita a costruire in anni ed anni di sacrifici stesse per essere messo a dura prova. E la cosa più spaventosa era che i ragazzi sarebbero stati travolti in pieno da quei cambiamenti, sebbene in modo diverso: era Henry quello che la preoccupava maggiormente, perché sapeva che era lui il figlio di Gregor.
Ma forse, se riesce a trovare un equilibrio con Heymans ce la potrà fare anche lui. Henry, fratello mio, ti prego in qualche modo cerca di vegliare su di loro…
 
Jean finì di mettersi il pigiama e si buttò nel letto (dopo aver controllato che non ci fosse più nessun odore): finalmente quella giornata iniziata male e finita peggio era agli ultimi atti. Grazie al cielo era andata meglio del previsto per lui: sua madre si era arrabbiata di più con Janet, fatto strano ma possibile nell’assurda realtà di casa sua. E per fortuna suo padre non aveva agito in merito a quella questione, anzi ci aveva persino riso sopra a cena.
“Stupida nana, a volte è davvero un inferno averla in mezzo alle scatole.”
Si mise sotto le coperte, sentendo come il temporale non accennasse a diminuire: pazienza, non avrebbe avuto problemi ad addormentarsi. Sperava solo che il giorno successivo la pioggia concedesse un minimo di tregua per prendere una boccata d’aria in cortile.
Confidando in quella piccola grazia chiuse gli occhi, ma al contrario delle altre volte non si addormentò immediatamente: continuò a rigirarsi alla ricerca della posizione giusta, ma non c’era niente da fare.
Oh, andiamo… non vorrai scendere a questi livelli, Jean Havoc.
Rimase per qualche minuto a ripetersi che non era assolutamente il caso di fare una cosa simile. Ma quando mai doveva?
Però sembrava che il non riuscire a dormire fosse un chiaro segnale.
Con un sospirò si alzò dal letto e arruffandosi i capelli uscì dalla stanza per andare in quella della sorella.
“Ehi, nana, stai dormendo?” chiese accendendo la luce e sedendosi accanto al cumulo di coperte.
Gli rispose un movimento che, ad interpretarlo bene, assomigliava ad un “no”.
“E dai, mamma ti ha sculacciato è vero, ma è successo ore fa… perché devi essere così scema da tenere sempre il broncio, eh?”
Il cumulo di coperte si mosse e rinculò contro l’angolo opposto del letto.
Jean sospirò: forse avrebbe potuto difenderla maggiormente, in fondo lui aveva approvato a piene mani l’idea dell’arrampicata… anche se a dirlo a posteriori era sempre facile.
“Va bene, vediamo che possiamo fare – afferrò il cumulo informe ed iniziò a cercare il bandolo – che ne dici di uscire fuori da qui?”
Finalmente Janet spuntò fuori da quelle coperte, il viso chino in parte nascosto dai lunghi capelli sciolti. Non era offesa con lui, solo con il mondo in generale.
“Senti, perché non…”
La frase fu interrotta da un tuono e in men che non si dica si trovò la sorella catapultata sul suo petto.
“E’ solo un tuono, stupida: ha piovuto tutto il giorno, perché solo di notte ne hai paura?”
“Perché sì!” disse lei, parlando per la prima volta.
“Vuoi dormire nel mio letto?” propose, accarezzandole i capelli.
Finalmente lei alzò il viso e lo guardò con occhi supplicanti.
“Posso?”
“Andiamo.” sorrise Jean, prendendola in braccio e avviandosi fuori dalla stanza.
“Non voglio nessun altro fratellone – dichiarò lei abbracciandolo – voglio solo te. E tu, Jean? Vorrai sempre me come sorellina?”
“Ma che domande fai? – sbottò lui – Dopo che ti ho insegnato ad arrampicarti decentemente pensi che butterei via così un simile risultato? Certo che mi tengo te come sorellina, immagina il fastidio di dover riniziare tutto daccapo.”
Mise la mano sulla maniglia quando gli vene un orrendo dubbio esistenziale.
“Sei andata in bagno, vero?”
Perché per le sorelle si era disposti a tutto, doveva ammetterlo, ma c’erano determinati limiti.
  
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