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Autore: lili1741    24/06/2008    4 recensioni
So che questa storia non interesserà a nessuno, ma ci tengo molto perché parla di fatti veramente accaduti e straordinarii. Nel 1782 l'Imperatore Giuseppe II promulga l'Editto di Tolleranza. Ma il Papa in persona si reca a Vienna per fermarlo...
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Epoca moderna (1492/1789)
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Tolerantia

Roma, gennaio 1782

Il cardinale von Herzan, ambasciatore del Sacro Romano Impero, entra nella sala delle udienze del Papa, pronto a ricevere i rimproveri di Pio VI con freddezza e rispetto, come di consueto.

"E così l’Imperatore ha concesso libertà di culto a tutte le fedi, inclusa quella israelitica?" chiede il Papa, in realtà già sicuro che la risposta sarà affermativa, ma desideroso di ascoltarla dalla bocca del Cardinale per rendersi pienamente conto di quell’enormità.

"Sì, Sua Santità." Risponde laconico von Herzan.

Ecco, questo è il momento delle lamentele, delle minacce, delle sfuriate, pensa il Cardinale. E invece si sbaglia.

"Bene," risponde Pio VI, sfoderando una delle sue espressioni più suadenti. "Ed io andrò a rendergli visita a Vienna per farlo ritornare sulla retta via."

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Vienna, marzo 1782

L’Imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena e il Papa Pio VI Braschi s’incontrano a Neustadt, alle porte di Vienna. L’etichetta impone che si abbraccino, benché nessuno dei due sopporti l’altro.

Un tempo si baciava la mano del Papa... pensa Pio VI. Ma in Austria il baciamano è stato recentemente vietato, in quanto lesivo della dignità dell’uomo. E così ,sorridendo seraficamente, l’Imperatore gli comunica che non potrà baciargli la mano, perché sarebbe di cattivo esempio per il popolo un imperatore che disobbedisce alle leggi che egli stesso ha promulgato.

Che umiliazione per il Papa subire un trattamento simile in un paese cattolico come l’Austria!

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L’Imperatore ed il Papa siedono nella stessa carrozza che li porta al Palazzo imperiale, l’uno davanti all’altro, e si scrutano cercando di ottenere l’uno in un minimo movimento dell’altro la conferma delle dicerie che ha sentito su di lui.

Papa Braschi ha già visto Giuseppe II tredici anni prima, quando il ventottenne Imperatore si era recato a Roma per il Conclave. In quei tredici anni l’Asburgo è invecchiato, ma non è cambiato molto. È considerato uno degli uomini più belli d’Europa: alto, snello, con degli occhi di un celeste così particolare da essere stato definito in suo onore "Blu imperiale". I suoi capelli sono di un biondo molto chiaro e lunghi, tanto che Giuseppe II non porta la parrucca, ma tiene i capelli legati con un nastro nero. La sua espressione scostante ed altezzosa tiene lontane le persone, ma quando l’Imperatore sorride non c’è diplomatico che sappia resistergli: il suo volto diventa dolce e pieno di carità come quello di un cherubino.

Hanno però detto a Papa Braschi che dietro quel sorriso angelico si cela un uomo terribile. Gli hanno detto che l’Imperatore è un miscredente, che venera lo Stato al posto di Dio, che finge di pregare quando è costretto ad assistere ad una messa, che fa riforme per il popolo senza amarlo ma solo per rendere l’Austria moderna e potente, che commissiona ai suoi musicisti opere che offendono la popolazione per divertirsi alle sue spalle.

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Il Papa viene fatto sistemare all’arrivo negli appartamenti che l’Imperatore ha scelto appositamente per lui, accanto ai propri. Sono appartamenti arieggiati e confortevoli. Giuseppe d’Asburgo sa essere un padrone di casa eccellente. Ma quella sistemazione ha uno scopo molto meno nobile: l’Imperatore vuole approfittare di quella vicinanza per spiare e controllare il Papa. Pio Braschi ha sessantacinque anni ma è ancora un uomo pieno di carisma e di fascino. Sembra un Papa rinascimentale, è amante delle opere d’arte, è nepotista e si preoccupa più del prestigio del suo casato che della salvezza dei Cattolici. Ma è affabile, sorride sempre, ha un incedere solenne e maestoso. Piacerà al superstizioso popolo austriaco più di quanto non sia mai piaciuto lui, l’Imperatore amico del popolo con il suo rigore morale e la sua intransigenza. E questo Giuseppe II lo sa bene.

Durante la cena di benvenuto lo squadra attentamente mentre mangia, conversa con la nobiltà, beve il buon vino ungherese ed italiano che per l’occasione accompagna le pietanze. Di solito alla mensa imperiale non c’è alcun vino, perché Giuseppe II è astemio.

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"Come ha preso la popolazione la notizia del vostro Editto di Tolleranza e dei vostri decreti sulla nomina imperiale dei vescovi?" chiede il Papa l’indomani, nello studio privato dell’Imperatore.

Touché, pensa quest’ultimo.

"Non bene, lo ammetto." Risponde Giuseppe II. "Non credo che i miei sudditi capiscano che questi decreti faranno dell’Impero un paese moderno. Ma del resto non sono pronti a decidere per loro stessi, benché ogni mio sforzo sia orientato in questa direzione."

"Ma non pensate di offendere il loro sentimento religioso e di inimicarveli?" incalza Pio VI.

"Sì, è vero..." è costretto di nuovo ad ammettere, a denti stretti e con le guance rosse, il Sacro Romano Imperatore. "Del resto, anche quando ho abolito la tortura nessuno mi ha sostenuto, eccetto gli intellettuali. Ma non tornerei mai sui miei passi. Chissà quanto dolore ho risparmiato con quel decreto..."

Un sorriso di soddisfazione appena accennato si accende sulle labbra del sovrano.

Irremovibile, lo bolla Papa Braschi. Irremovibile perché è un illuso, perché è convinto di poter costruire da solo contro tutti la sua "Città del Sole" su questa terra, perché pensa che la perfezione non appartenga solo al Paradiso. Non lo leggono più Machiavelli, in Austria?

Ma c’è ancora speranza che si ravveda, pensa il Pontefice, quando si renderà conto delle conseguenze dei suoi atti sconsiderati sui sudditi.

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Qualche giorno più tardi una folla osannante di più di centomila persone si accalca davanti alla chiesa di Santa Maria Am Hof per ricevere la benedizione del Papa.

"Sua Santità, proteggeteci dagli eretici!" urla in preda al delirio mistico, grondante di santini e di erbe per proteggersi dal malocchio. Il Papa si fa attendere a lungo, mentre l’Imperatore assiste a quegli eventi guardando da una finestra secondaria della chiesa. Infine Pio VI si concede alla folla, affacciandosi da una sorta di balcone rivestito da ricchi paramenti liturgici d’oro e di seta e concedendo l’assoluzione ai fedeli. A quel punto scoppia il putiferio: tutti cercano di avvicinarsi quanto più possibile al Pontefice per ricevere l’indulgenza, travolgendo nella loro foga chi sta davanti a loro. Davanti alla finestra dell’Imperatore una donna si trova schiacciata dall’opposto impeto delle file posteriori che cercano di avanzare e quello delle prime file che cercano di resistere.

C’è così tanto rumore che le sue grida strazianti non si sentono, ma Giuseppe II le percepisce, vede la bocca della donna contorcersi per implorare aiuto ed urla dalla sua finestra: "Indietro! Indietro, per l’amor di Dio! Indietro, vi imploro!" L’Imperatore implora il suo popolo, ma nessuno lo ascolta e la donna è sempre più debole, la sua bocca si muove sempre di meno.

Giuseppe II non ce la fa ad assistere a quella sorta di martirio e rientra nella chiesa, mentre delle lacrime scorrono sulle sue guance pallide.

"È colpa tua!" lo accusa una voce di donna alle sue spalle. Egli si volta e vede sua sorella, l’Arciduchessa Maria Cristina, che lo guarda con disprezzo. L’Imperatore è così sconvolto che non ha la forza di ribattere, di domandare perché sarebbe colpa sua.

"Tu hai costretto il Papa a venire fino a qui, tu hai offeso la religiosità della popolazione con le tue stupide riforme, che non giovano a nessuno. Se tu non avessi calpestato la fedeltà degli Austriaci alla Chiesa Cattolica, oggi non ci sarebbe stata così tanta gente qui. Questo è un segno di protesta nei tuoi confronti, non lo capisci? E forse quella donna non sarebbe morta."

L’Imperatore guarda la sorella, la pia, la moderata Maria Cristina che non ha mai condiviso il suo zelo riformista, e poi guarda la piazza di Am Hof, ormai svuotatasi, sul cui suolo giace come addormentato il corpo di una donna dai vestiti popolani. L’Imperatore guarda tutto ciò e pensa che forse sua sorella ha ragione.

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L’Imperatore è nella sua stanza e si pettina i capelli, con la mente ancora rivolta alla Morte, che poche ore prima ha dato davanti a lui la sua ennesima manifestazione di forza. Non è normale che un sovrano si pettini da solo, ma Giuseppe II non sopporta che altre mani lo tocchino, e non sopporta di toccare altre cose o persone senza i guanti. La solitudine, dice la corte, gli ha provocato tutte queste ossessioni, ed in effetti l’Imperatore è molto solo. I fratelli e le sorelle che lo comprendono sono lontani, quelli che vivono con lui non lo capiscono. Il popolo non gli è grato per le riforme con cui lui ne ha migliorato le condizioni. Le riforme, la sua ragione di vita, si stanno rivelando motivi di sconforto.

L’Imperatore passa la spazzola tra i folti capelli d’un biondo chiarissimo e si accorge che qualcosa non va. Guarda la spazzola: attaccata ad essa sta una ciocca dei suoi capelli, pressoché intatta. Sulle spalle di Giuseppe II si trova un mare di sottili fili dorati. Giuseppe si volta: alle sue spalle si trovano una pendola su cui campeggia il motto "MEMENTO MORI" ed un crocifisso su cui è appeso un Gesù sanguinante e straziato.

L’Imperatore fissa quest’ultimo.

"Perché?" si rivolge a Gesù, l’unico superiore a cui lui ha mai pensato di dover rendere conto. "Perché mi stai ammonendo sulla brevità della vita? Io so fin da piccolo che dovrò morire presto per la mia tisi congenita! Perché vuoi che ora rifletta sul fatto che la Morte è vicina?"

L’Imperatore guarda Cristo in attesa di una risposta. Contempla le piaghe e le ferite di quell’uomo umiliato e perseguitato per aver portato la nuova, la vera Fede nel mondo.

Un raggio di sole d’un tratto gli illumina il viso e la mente dell’Imperatore si rischiara.

"Grazie..." dice a Gesù. "Ora ho capito cosa devo fare."

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La festa per la partenza del Papa è stata preparata in grande stile. Al Prater, il grande parco che l’Imperatore ha donato ai viennesi, vengono fatti scoppiare fuochi d’artificio bellissimi e ricchi di colori magnifici, tra cui spiccano il giallo ed il bianco dello stemma papale. Gli spettatori assistono allo spettacolo su delle poltroncine poste tra gli alberi e conversano amabilmente. Giuseppe II e Pio VI siedono l’uno accanto all’altro e non si guardano più con sospetto o astio, ma sembrano finalmente rappacificati. L’Imperatore ha lo sguardo grato ma ancora timoroso del figliol prodigo perdonato dal padre.

"E allora il vostro Editto di Tolleranza?" chiede il Papa, con tono un po’ canzonatorio.

"Ci devo pensare meglio, Vostra Santità. La Vostra visita mi ha fatto riflettere su molte cose. Forse il bene che pensavo di fare con esso al mio popolo non era poi tale." Risponde l’Imperatore, con lo sguardo basso e contrito, a cui segue uno dei suoi rari, bellissimi sorrisi.

Pio Braschi gli mette una mano sulla spalla, disposto a perdonare tutto all’uomo che è riuscito a domare, secondo l’insegnamento della Chiesa. Ha imparato ad apprezzare quell’uomo così idealista da non sembrare di essere fatto per questo mondo crudele. Apprezza la forza con cui sostiene le sue idee, il suo senso distorto ma in qualche modo nobile dell’uguaglianza, il suo tentativo di essere un esempio per il popolo.

Gli dispiace di aver dovuto affossare le convinzioni di Giuseppe d’Asburgo, ma si consola pensando che l’ha fatto unicamente per la Santa Romana Chiesa, per qualcosa di eterno e non di effimero come gli ideali illuministi di un imperatore. Pio VI si rilassa, guardando Giuseppe II sussurrare qualche parola all’orecchio del suo ministro plenipotenziario von Kaunitz, e poi si mette comodo ad ammirare i fuochi d’artificio.

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Roma, aprile 1782

La carrozza del Papa sta per entrare a Roma, ma quando la notizia del suo ritorno giunge nella Città Eterna viene fatto partire un messo che gli vada incontro. Rapido il messo giunge dal Papa, e trafelato gli consegna una lettera che proviene dall’Arcivescovo di Vienna.

Pio VI Braschi l’apre e sbianca. La lettera lo avvisa che l’Editto di Tolleranza e tutti gli altri decreti in materia religiosa sono entrati in vigore esattamente due giorni dopo la sua partenza da Vienna. Il pianto durante la benedizione ad Am Hof, l’aria ravveduta dell’Imperatore durante l’ultima sera della permanenza del Papa erano stati sporchi inganni di quell’essere demoniaco, di quell’uomo che con i suoi sorrisi e la sua esibita onestà aveva raggirato addirittura il Papa. E solo ora si rende conto di cos’era stata quella conversazione, durante lo spettacolo pirotecnico, tra l’Imperatore ed il suo ministro. Era un ordine, l’ordine di far partire quella lettera, che probabilmente era stata scritta con largo anticipo, giusto in tempo perché Pio VI si rendesse conto dell’inutilità di quel viaggio ancora prima di essere ritornato.

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Praga, aprile 1782

Le mura del ghetto di Praga vengono abbattute al suono delle orchestrine di musica ebraica che dal loro interno concedono agli abitanti di festeggiare con canti e danze gioiose. L’Imperatore guarda le rovine di quelle mura che sono state per secoli luoghi di terrore e di disperazione, sopra le quali sta il cielo che quel giorno è dello stesso colore dei suoi occhi, come se da lassù qualcuno volesse dare un segno d’approvazione.

Gli Ebrei del ghetto di Praga, come quelli di tutti i ghetti dell’Impero, innalzano lodi ed inni all’Imperatore che ha decretato che discriminarli è un crimine. Non dovranno più vivere in ghetti. Potranno esercitare qualunque mestiere, addirittura le cariche statali. I loro templi potranno essere costruiti, se lo vorranno, dai migliori architetti d’Europa. Le loro voci gioiose non si stancano di ripetere le parole con cui Giuseppe II d’Asburgo ha donato loro l’uguaglianza, la ricchezza più importante di tutte: "considerando i grandi vantaggi che derivano da una vera tolleranza cristiana..." Il rabbino si avvicina all’Imperatore, timoroso e in soggezione, ma sicuro di essere ascoltato: "Maestà, questo nuovo quartiere che sorge sulle rovine del ghetto lo vorremmo chiamare Josefod, la città di Giuseppe..."

L’Imperatore si ricorda delle fatiche sopportate per arrivare a questo, la visita del Papa, la donna morta sotto il suo balcone e quella frase di sua sorella, la moderata, la pia Arciduchessa Maria Cristina: "A chi giovano le tue riforme?"

"A loro." Si risponde da solo Giuseppe II, che nell’ammonizione all’imminenza della sua morte che gli sembra di aver ricevuto quel pomeriggio dopo la visita ad Am Hof non ha visto un invito a pentirsi della sua ribellione al Papato, o il presagio di un castigo ultraterreno. Egli ha visto un’esortazione: "Fai in fretta, Giuseppe, fai le tue riforme prima di andartene da questo mondo!" E quel crocefisso gli aveva parlato, certo, ma non tramite una visione mistica o un’allucinazione. Esso gli aveva detto solo la cosa più semplice che un crocefisso può dire: ecco cosa succede a perseguitare chi professa una religione diversa.

 

  
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