(Capitolo
I) La normale giornata di una
persona particolare… o neanche quello?
Albus Severus Potter era convinto che
nella sua vita
mancasse qualcosa. Era ricco, famoso, apparentemente felice e
circondato da
centinaia di persone, che talvolta non pensava di aver mai conosciuto
in prima
persona. La fama, la ricchezza, persino le amicizie, sia vere sia
false, non
erano merito suo. Nessuno s’interessava ad Albus, il
sedicenne timido,
studioso, con un’enorme fissazione, quasi patologica, per il
sovrannaturale e
le creature magiche; tutti erano interessati al suo cognome, se non
fosse stato
il secondo genito del grande Harry James Potter, probabilmente nessuno
nella
scuola di magia e stregoneria di Hogwarts si sarebbe interessato a lui.
Ad Albus, questa situazione dava sui
nervi: lui non era suo
padre, lui non aveva salvato nessuno nella sua breve vita, non si era
mai
nemmeno messo nei guai. Insomma era un ragazzo qualunque, che molti avrebbe
definito monotono, noioso
o, nel migliore dei casi, regolare.
Non era particolarmente attratto
dall’avventura e dalla trasgressione
in genere, per buona pace della madre che doveva già badare
ai disastri che
combinava James e alle continue scenate di Lily, che da quando era
entrata a
Hogwarts, sembrava insofferente a qualsiasi cosa. Albus viveva una vita
tranquilla, in pace con il mondo, cercando di scampare agli scherzi dei
suoi
compagni di casa, che sembravano stufi che lui avesse tanta fortuna con
le
ragazze, fortuna di cui avrebbe fatto volentieri a meno, non si sentiva
attratto dal genere femminile, anche se faceva fatica ad ammetterlo
persino a
se stesso. Se anche così non fosse stato, l’essere
spiato in continuazione dal
“AS Fan Club”, capitano da Mary Jane McDonald,
nipote di una compagna di scuola
di sua nonna Lilian e che pensava di essere la sua anima gemella, non
avrebbe
giovato alla sua psiche, né tantomeno al suo pudore naturale.
Passava la maggior parte del tempo
chiuso, ermeticamente,
nella sua stanza insieme a sua cugina, Rose, a chiacchierare oppure in
biblioteca a leggere racconti sulle creature più strane e
fantasiose.
Ultimamente, la sua fissazione era passata dai maghi antichi, quali
Merlino e
Morgana, alle creature immortali: i vampiri lo affascinavano, come
avrebbero
fatto con qualunque ragazzo Babbano, ma ad Al pareva impossibile che
esistessero animali come i Thestral e quelle meravigliose creature
immortali
fossero solo frutto della fantasia. Suo padre aveva riso, quando da
piccolo gli
aveva detto che un giorno avrebbe dimostrato la loro esistenza; Harry
pensava
che potessero esistere, come esistevano i Lupi Mannari o le Sirene, ma
sperava
che non incontrassero uno dei suoi figli, poiché erano
sempre degli esseri
assetati di sangue, di conseguenza aveva cercato di far desistere Albus
che,
però, non si era dato per vinto.
Stava leggendo, appoggiato a un
albero, con la solita voglia
di cambiare la sua identità o con la speranza che qualcosa
d’interessante
potesse succedere nella sua vita, quando un’ombra
coprì il sole, impedendogli
di vedere le parole sulla carta, alzò lo sguardo e vide una
donna dai capelli
castani ondulati, gli occhi chiari con un guizzo di
malignità malcelata
all’interno e un vestito verde che sembrava appartenere
all’epoca di Merlino.
“Ciao Albus.”
disse la donna con voce melliflua. “Mi stavo
chiedendo, perché leggi libri su quelle creature
mostruose… sono pericolose!
Dovresti tornare a letture più consone e smettere di pensare
a loro… o potresti
trovarti nei guai. Per esempio chiamarne uno!” La voce era ferma,
suadente quando pronunciò
le ultime parole, poi sparì nel nulla. Albus
sbatté le palpebre, si guardò
intorno, chiedendosi se avesse sognato.
Capì di non averlo fatto,
quando Mary si precipitò verso di
lui, chiedendo chi fosse quella donna che gli si era avvicinata in quel
modo,
sbraitando e scuotendolo. Nella sua mente c’erano solo tre
parole: “Posso
convocarne uno!”
Si alzò velocemente,
staccandosi di dosso la ragazza, che si
ritrovò a terra e venne soccorsa in fretta dalle amiche.
Albus non se ne curò e si
diresse nella biblioteca, passò
ore intere su libri di tutti tipi, cercando notizie sui vampiri e
chiedendosi
come poteva incontrare uno di loro. A un certo punto, girò
la settantunesima
pagina di un libro antico che parlava di vari clan e lesse le prime
righe: era
l’introduzione a un intero capitolo su una tribù
particolare, quella dei
Volturi, i quali erano considerati fra i più potenti vampiri
esistenti, ma quello che
catturò di più la sua attenzione fu scoprire che
uno di loro poteva togliere i
sensi, grazie a una nebbia perlacea; non era presente il suo nome e la
miniatura che lo raffigurava era sbiadita, ma Albus intrigo molto di
più che le
cento pagine sul leader del clan, Aro, o le trenta su un certo Marcus.
Prese il libro e percorse i corridoi
fino al suo dormitorio,
entrò nella sua stanza e si chiuse a chiave,
silenziò la camera e chiuse le
tende del letto a baldacchino, mettendosi a leggere quei pochi
paragrafi su
quel vampiro, cercando significati nascosti fra le parole.
Alec, membro della guardia dei
Volturi, non si era mai
chiesto perché si trovasse a Volterra, in Italia,
perché fosse diventato un
vampiro, perché già prima della trasformazione si
sentisse diverso. Si era
limitato ad accettare il Fato e tutte le conseguenze che derivano da
essere un’arma
al servizio di Aro.
Non aveva mai pensato che mancasse
qualcosa nella sua vita,
non sentiva il bisogno di una moglie, come i suoi capi, né
tantomeno dell’amore
eterno, come alcuni vampiri d’infima lega e tutti gli umani
in genere. Di una
cosa, però, aveva sempre sentito il bisogno: un amante,
possibilmente maschio.
Le donne urlavano troppo forte, quando le mordeva e questo lo irritava;
era un
vampiro, aveva i suoi bisogni, che comprendevano bere il sangue umano.
Gli
uomini sapevano restare al loro posto, fieri e virili anche mentre
emettevano
il loro ultimo respiro, alcuni gemevano persino e non era dolore;
poteva quasi
sentire l’eccitazione nel sangue stesso: esistevano esseri
umani molto strani,
lo aveva imparato nel tempo e non grazie all’aiuto di Aro.
Fosse stato per lui,
sarebbero rimasti segregati nel loro castello a marcire e invecchiare,
quasi
fossero stati vecchi cimeli. Erano poche le occasioni in cui facevamo,
realmente, qualcosa: qualche condanna, qualche omicidio, qualche
punizione. Poi
c’era solo la noiosa vita da creatura immortale.
Alec non si era mai lamentato, gli
piaceva uccidere, si
divertiva a vedere le persone impazzire, ma a volte si chiedeva se ci
potesse
essere altro, oltre al piacere che provava nel vedere gli occhi
accecati ma
allo stesso tempo terrorizzati delle sue vittime.
Non cercava una persona che non
avrebbe cercato di scappare
scoprendo la sua natura, solo Jane sembrava non avere paura di lui,
voleva
incontrarne una che gli facesse sentire le stesse sensazioni che aveva
provato
uccidendo per la prima volta: paura, eccitazione e soddisfazione.
Vide Jane entrare nella sua stanza
vestita d’assalto o così
amava definire lui il completo rosso e nero con tanto di mantello, che
Aro
faceva indossare loro, durante le punizioni: quando un vampiro o
qualunque
altra creatura magica infrangeva una regola, l’intero clan
dei Volturi si
muoveva in branco per riportare l’ordine. Per la cronaca,
Aro, Caius e Marcus
stavano fermi al centro, ben protetti e le guardie si occupavano dei
condannati. In tutto ciò, i capi si guadagnavano la gloria e
lui e la sorella
si rintanavano in un angolo a guardarli gioire. Li trovava stupidi e
inutili,
tutti quanti; credevano di poter tutto, che nessuno potesse fermarli,
ma la
realtà era diversa: non sarebbero stati nulla senza di loro,
non avrebbero
avuto nulla senza di loro.
Il ragazzo non si lamentava della
situazione, forse in un’altra
vita avrebbe assunto il potere, si sarebbe ribellato; per ora, il gioco non valeva la candela, non
c’era nulla o nessuno per cui valesse la pena rischiare.
“Andiamo,
fratello.” La voce di Jane lo risvegliò.
Tirò su
il cappuccio del mantello e uscì dalla stanza.
L’ora di uccidere era arrivata
e, stranamente, era l’unica cosa che lo teneva ancora in
vita, anche senza dare
un vero significato a quell’insulsa parola. Lui non era vivo,
non era nemmeno
libero. Era solo un oggetto nelle mani di un pazzo assettato di potere
e di giustizia.
La battaglia era stata persino
più noiosa del previsto: il
clan che si era ribellato era piccolo e senza alcuna abilità
particolare. Aro
non li aveva mai visti come un bottino
degno, di sicuro li avrebbe voluti tutti morti e la fatica sarebbe
toccata a
lui; il potere di Jane era troppo violento, il suo, invece, ti faceva
morire
lentamente ma senza dolore. Aro voleva dimostrarsi magnanimo, giusto.
La nebbia aveva avvolto quattro corpi
contemporaneamente, il
sorriso di Aro si era allargato, ma Alec non sembrava interessato, non
voleva
sentirsi dire di aver fatto un buon lavoro: lui non sbagliava, mai!
I poveretti si contorcevano,
gridavano, ma neanche questo lo
appagava più; si sentiva spento, vuoto, inutile.
La nebbia che
toglie
i sensi, capace di estraniarti dal mondo… una morte,
sì, ma soave… il dolore
non c’entra… la vittima non sa, non vede, non
sente, non odora, non tocca e non
gusta… i sensi sono annullati… è come
essere morti prima della morte vera!
Sbatté gli occhi,
velocemente, cosa alquanto strana per uno
della sua specie e cercò di far sparire quella voce dalla
sua testa: no, non
era solo la voce, c’erano anche delle parole…
riusciva a vederle, descrivevano
il suo potere. Il suo nome non veniva mai detto e quella voce ripeteva
sempre
le stesse frasi, come un mantra, come a non volerle dimenticare.
“Alec!” si
sentì chiamare da Aro, mentre tornava in sé. La
nebbia aveva smesso di fuoriuscire dalle sue mani, i condannati si
muovevano di
nuovo.
Prese un respiro, mentre guardava il suo capo, non vedendolo realmente;
le
frasi vorticavano nella sua testa, la voce continuava a parlare. Poi
vide un
volto, non lo conosceva. Sentì un battito, era umano.
Sentì il richiamo del
sangue e sparì, seguito dall’urlo della sorella.
Non aveva idea di dove sarebbe
finito, ma doveva trovare
quella persona e ucciderla o sarebbe impazzito.