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Autore: everlily    02/03/2014    18 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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11.

Boys don't cry


- I try to laugh about it
Cover it all up with lies
I try and laugh about it
Hiding the tears in my eyes
'cause boys don't cry -

(Boys don't cry, The Cure)


Damon


Accosto l'auto ai margini della piazza, a soli pochi metri dall'ingresso di un Grill ancora sbarrato.

Spengo il motore, dico i miei saluti, la guardo scendere.

La riconsegno intatta alla sua vita di tutti i giorni, al suo matrimonio perfetto con l'uomo perfetto, e qualsiasi cosa sia o non sia successa tra locali di New Orleans e motel della Georgia è destinata a rimanere solo lì. Nei locali di New Orleans e nei motel della Georgia.

Una parte di me ne è sollevata. Perché se c'è una cosa che ho capito fin troppo bene da questo viaggetto fuori programma è che, cambia il tempo e cambia il luogo, ma, in fondo, sono sempre lo stesso idiota senza cervello pronto a farsi del male dietro alla persona sbagliata.

Soprattutto quando si tratta di Elena.

Così, durante il viaggio di ritorno, da qualche parte tra il South e il North Carolina, ho mentalmente stilato un piano infallibile: chiusa l'improbabile parentesi delle ultime due notti, non devo fare altro che restare concentrato sull'unico motivo per cui davvero sono qui e lasciarmi tutto alle spalle non appena i miei servigi non saranno più richiesti, il tutto possibilmente senza fare troppi danni, né agli altri né al mio ego.

E ciò include necessariamente anche farla finita di lasciarmi coinvolgere con donne che non posso avere.

E' un piano di cui sono più che mai convinto, mentre la guardo salutare Bonnie e poi incamminarsi lentamente verso il locale; mentre si ferma incerta a pochi passi dalla soglia, si volta, incontra il mio sguardo, curva appena le labbra.

Non è davvero nemmeno un sorriso: è la traccia, fugace ma tangibile, di locali e motel e troppe cose non dette.

Praticamente di tutto ciò che può mandare il mio piano a puttane in qualsiasi momento.

"Sei così fottuto che è quasi doloroso da guardare," scuote la testa Ric mentre io dirigo l'auto verso casa. "Penso di non averti visto così fottuto dai tempi di-"

"Ric," gli intimo perentorio per la dannata milionesima volta, sapendo esattamente a cosa sta per riferirsi. "Ricorda i patti: Non. Dirlo."

In risposta lui sogghigna, prendendosi come sempre gioco delle mie miserie.

"Sei un amico terribile."

"Sono il migliore che tu abbia mai avuto."

Ha così ragione che non ci provo neanche a contro ribattere.

"Wow," commenta con un fischio di apprezzamento non appena imbocco le curve del vialetto ed i contorni imponenti della villa, annunciati dal portico bianco in stile coloniale, iniziano ad emergere tra il folto dei pioppi. "Che bastardo, non mi avevi mai detto di essere pieno di soldi. Ti avrei estorto molte più bevute."

"Era mio padre quello pieno di soldi."

"Qual è la differenza?"

Oh, c'è una grossa differenza, mio caro amico.

Per potergliela spiegare, quando ci sediamo sulle due poltrone davanti al camino di marmo nella sala principale, ho bisogno almeno di una bottiglia di Western Gold e di quasi un secolo di storia dei Salvatore.

Quella che per la precisione parte dal bisnonno Joseph, quando durante la Grande Depressione aveva lasciato la sua famiglia di immigrati italiani a New York per andare ad attraversare il paese in cerca di fortuna. La fortuna l'aveva trovata due volte, in questo spazio nascosto rinchiuso tra gli Appalachi e le piantagioni di tabacco. La prima in una ragazza che sposò nel giro di due mesi; la seconda quando, intorno alla metà degli anni '30, la creazione dello Shenandoah National Park [1] lasciò cinquecento famiglie incazzate e senza casa, e lui sfruttò abilmente la situazione a proprio vantaggio mettendo su la prima compagnia della zona che combinava investimenti, costruzioni di nuove case e mutui finanziari. Divenne schifosamente ricco nel giro di pochi anni. Sfortunatamente per lui, però, suo figlio non aveva lo stesso interesse per soldi, status ed influenza, ma ne aveva uno smisurato per donne, alcol e gioco d'azzardo. Era un perdigiorno pieno di debiti e mio padre lo odiava con tutto se stesso. Lo odiava e se ne vergognava così tanto che non eravamo autorizzati a nominarlo neanche per sbaglio, cosa che non era poi così difficile dato che la sola cosa che a tutt'oggi sappiamo di nostro nonno è che è morto sì e no a 40 anni, nessuno ci ha mai voluto dire come. Ma, per contrasto, mio padre ammirava il bisnonno Joseph, da cui aveva imparato tutto ciò che sapeva, in un modo più che smisurato.

Peccato che le sue ferree intenzioni di fare lo stesso con me e trasformarmi in un suo prolungamento vivente non fossero andate propriamente secondo i suoi piani.

"Come puoi vedere," finisco mentre bevo l'ultimo sorso ed osservo l'alone liquido che il bourbon ha lasciato sul fondo del bicchiere, "Noi Salvatore siamo geneticamente programmati ad essere terribili in tutta quella cosa alla padre-figlio."

Ric mi guarda a lungo, ma non dice niente. Mi torna in mente il fatto che lui ha almeno in parte letto la lettera che, non appena ci penso, prende subito a pesare come un macigno nella mia tasca.

"Cosa?" domando spazientito.

"Damon si dimentica sempre la parte in cui lui non ha precisamente contribuito a rendere le cose più facili," si intromette Stefan.

Giro la testa verso mio fratello in piedi sulla soglia della sala, incurvato con le mani affondate nelle tasche dei jeans e l'espressione accigliata.

"Sempre così fiscale, fratello," lo saluto mentre mi sporgo per posare il bicchiere vuoto sul basso tavolo di vetro. "Ric, ti ricordi di Stefan vero, l'altra metà, quella migliore, della nostra incantevole famiglia."

I due si salutano amichevolmente. Anche se si sono visti solo quelle poche volte in cui Stefan è venuto a trovarmi a San Francisco, hanno fin da subito sviluppato una simpatia immediata che credo abbia qualcosa a che fare con la sorte comune di dover sopportare il sottoscritto.

Mi ricordo ancora della sera in cui ci siamo ubriacati sopra alle mie varie cazzate grazie ad un drinking game di loro invenzione chiamato "Quella volta che Damon".

"Dove diavolo sei stato?" mi domanda Stefan prendendo posto sul divano, di fronte a me.

"Lunga storia, aspetta l'e-book. Davvero il segugio biondo non te l'ha detto?"

Con un sospiro amareggiato, Stefan si protende in avanti e scuote avvilito la testa.

"No, perché per farlo dovrebbe parlarmi. Cosa che da tre giorni fa a malapena, ovvero da quando le ho chiesto di vivere insieme e, a quanto pare, era una domanda troppo difficile per potermi dare una qualsiasi risposta. E tu che dicevi che nessuno avrebbe mai trovato il modo di farla stare zitta."

"Ha detto di no?" domando, un po' stupito e un po' irritato nei confronti della responsabile dell'espressione frustrata sul volto di mio fratello.

"Non ha detto niente."

"Mi dispiace. Tieni, amico." Ric si alza per prendere un altro bicchiere e versagli del liquore, oltre a servire anche il nostro secondo giro. "Ne hai bisogno."

"Grazie. Sai Damon, per un momento questa mattina ho quasi pensato che te la fossi squagliata in vista della riunione di domani," mi confessa Stefan rigirandosi in mano il suo bicchiere.

Io tamburello sul bordo del mio e prendo tempo.

La verità che continuo a nascondere a mio fratello è che della riunione di domani, così come di quelle future, davvero non me ne importa abbastanza per farmi pensare di squagliarmela. E' semplicemente là, come un rumore di sottofondo che devo attraversare prima di liberarmene e tornare alla mia solita vita, quella in cui le uniche aspettative da dover soddisfare sono solo le mie o al massimo quelle di un genio eccentrico e paranoico sempre sull'orlo di mandare le cose a puttane ben prima che possa farlo io.

Ma Stefan … Stefan che è due anni più piccolo di me e ha già messo la testa a posto praticamente con la sua prima ragazza; Stefan che è solo da pochi mesi uscito da una Ivy League e sta già facendo di tutto per dimostrare di potercela fare a sessantenni diffidenti pronti a cogliere ogni passo falso della sua inesperienza e a qualcuno che dalla terra dei morti dubito possa davvero curarsi dei suoi sforzi; Stefan che è sempre così maturo e responsabile come io non sarò mai.

A Stefan importa, lo capisco quando incontro il suo sguardo speranzoso.

Per un attimo, è come se gli occhi verdi scuri e gravi che mi osservano fossero quelli dello Stefan diciassettenne, il giorno di settembre in cui gli avevo detto che avevo bisogno di allontanarmi da Mystic Falls, che sarebbe stato solo per un paio di mesi, e poi non ero più tornato per otto anni.

Forse è per quello, per quel lontano senso di colpa che torna a stringermi il petto, per quegli otto anni passati ovunque tranne che qui, a far guarire ferite che non possono davvero essere guarite, che mi sento in dovere di rassicurarlo che non lo lascerò da solo in tutto questo.

"Scherzi? Non me lo perderei per niente al mondo."


***


Quando il giorno dopo partiamo alla volta di Richmond, Stefan è così verde dall'agitazione per il fatto di dover presentare i dettagli finali del suo piano per evitare il fallimento della compagnia che devo fermare l'auto ogni quindici minuti, preoccupato per le sorti dei sedili in pelle della Camaro.

Grazie a dio, Caroline si decide a chiamare quando siamo quasi a metà strada, per fargli sapere con voce incrinata che le è mancato terribilmente e che lo aspetta a casa al suo ritorno, aggiungendoci anche una sequela di incoraggiamenti infiniti per il "grande giorno". La cosa mi sottopone ad un'infernale mezzora di smancerie, ma se non altro ha il potere di migliorare sia l'umore che il colorito di mio fratello e ciò non può che essere un bene.

Quando arriviamo al terzo piano dell'edificio che ospita la sede di Richmond delle Salvatore Associates, siamo perfino in anticipo di dieci minuti.

"Torno subito, ho dimenticato in macchina alcuni appunti per la presentazione," mi fa sapere Stefan, appena prima di tirare fuori il telefono e scomparire di nuovo dentro l'ascensore.

Dal momento che non mi ha neanche chiesto le chiavi, sono pronto a scommettere qualsiasi cosa che gli appunti ce li ha ben stretti sotto il braccio e che sta solo sgattaiolando per andare a chiamare Caroline un'altra volta.

Qualcuno dovrebbe prendere quei due e sottoporli ad accurati studi clinici per grave caso di co-dipendenza.

" … no, dispiace a me, non avrei mai dovuto … Sono solo andato nel panico perché ho pensato che tu non volessi più … Non avrei dovuto farlo senza parlartene."

La voce di Elijah mi arriva all'orecchio da un ufficio con la porta socchiusa a solo un paio di metri da me.

E' con lei che sta parlando? …

Penso al mio infallibile piano (resta concentrato, non fare danni) e mi ripeto che qualsiasi cosa sia successa per far scappare Elena in quel modo sono solo affari loro, non miei. Però poi mi avvicino lo stesso di un paio di passi, prendo il telefono per far finta star leggendo qualcosa e rimango in attesa del resto.

Del resto, faccio schifo ad attenermi ai piani, ho sempre preferito l'improvvisazione.

Elijah non parla per un tempo considerevolmente lungo ma, quando lo fa, la sua voce sembra quasi rompersi. Solo un poco, solo per un frazione di secondo.

"No, capisco. Possiamo parlare domani. Ma posso venire anche stasera se vuoi …" Un'altra pausa, un altro impercettibile cedimento. "Ok, domani. Mi sei mancata. Ti amo."

Sono contento di non poter sentire la risposta dall'altra parte del telefono.

Se la ragazza che solo due notti fa, sul ballatoio di un motel, si è sottratta alla mia carezza un attimo prima che potessi prendere la pessima decisione di baciarla gli ha appena professato il suo amore, preferisco di gran lunga non saperlo.

"Damon, buongiorno," mi saluta Elijah uscendo dalla stanza e venendomi incontro. Sicuro, professionale, chiunque direbbe che le incertezze di pochi secondi prima me le sono solo immaginate. "Tuo fratello?"

"Ci raggiunge."

"Sono passato da Mystic Falls un paio di giorni fa e con l'occasione volevo parlarti di una cosa che ha attirato la mia attenzione, ma Stefan ha detto di non sapere dov'eri …" la sua frase sfuma, come se solo in quel momento gli fosse sovvenuto uno strano pensiero.

Forse che due persone fuori dai radar nello stesso momento è davvero una curiosa coincidenza?

Si volta a guardarmi, dubbioso, ed io gli sorrido amabilmente.

"Un piccolo viaggetto deciso all'ultimo momento. Pochi intimi. Il sud è splendido in questo periodo dell'anno."

Poi entro nella sala riunioni senza neanche preoccuparmi di guardare la sua reazione.


Un venerdì sera inutile, infinito ed uguale a tanti altri.

Jessica aveva iniziato a lamentarsi non appena avevo accostato la Camaro in una delle solite stradine laterali che salivano in mezzo alla boscaglia.

Dopo tre settimane, a quanto pareva, era arrivato il fatale momento dell'upgrade, e tutto d'un tratto le scopate in macchina non andavano più bene. No, voleva di meglio, perché "fa freddo, cazzo, ed io mi rifiuto di andare a nasconderci nei boschi quando vivi da solo e hai un letto dove non devo slogarmi il ginocchio tutte le volte". O qualcosa del genere.

Ovviamente neanche in un milione di anni mi sarei mai sognato di portarla a casa mia.

Soprattutto nel mio letto.

Lo stesso letto che aveva ancora una traccia del profumo di Elena, ormai talmente impercettibile che più probabilmente me la stavo solo immaginando. Anche se Elena dopo quella notte passata rannicchiata accanto a me - dopo quel maledetto mattino - non mi parlava più, troppo impegnata ad intrecciare le mani nei corridoi della scuola con il ragazzo che tutti adoravano, l'idea di fare sesso sopra quella traccia, vera o immaginaria che fosse, era solo sporca e disgustosa. E neanche mi importava che il solo fatto di pensare una cosa del genere mi rendesse praticamente l'essere più patetico sulla faccia della terra.

Così, dopo il fiasco di Jessica, girai la macchina e la parcheggiai fuori casa di Enzo, per raggiungere lui e gli altri dentro al suo garage.

Venni accolto da Paranoid dei Black Sabbath sparata dal vecchio lettore cd appollaiato in un angolo, da un paio di battutine sul fatto che fossi appena andato in bianco e dagli ultimi due tiri di una canna come premio di consolazione.

"Ascolta, amico, devi fartela passare, smettila di stare ancora dietro a questa qua," stava dicendo Enzo con fare convinto, un altro mozzicone ormai spento ancora tra le dita.

Io, allungato su una delle vecchie poltrone che arredavano quella tana impregnata dell'odore dolciastro e pungente del fumo, stavo già finendo di chiuderne e accenderne un'altra. La quarta, forse la quinta.

"Ma Cathy …" iniziò a protestare Mason.

Inspirai, chiusi gli occhi e smisi di ascoltare, perché avrei preferito spararmi un colpo in testa piuttosto che sentire un'altra volta la triste storia della dolce Cathy, che dopo un anno limitato a toccatine fugaci sotto la maglietta con Mason, adesso si rotolava felicemente nel letto di uno dei receivers dei Timberwolves. Maledetti giocatori di football. Quanti diavolo ce n'erano in giro? Un cazzo di esercito. Un cazzo di esercito con l'unica missione di renderti la vita miserabile.

" … hai aspettato un anno e guarda che hai ottenuto, la figura del coglione. Una botta e via è sempre la cosa migliore. Ho ragione, Damon?"

Socchiusi gli occhi verso Enzo, che si era finalmente accorto dopo mezzora che quel mozzicone non tirava più e si era deciso a buttarlo nel posacenere, gli passai quella nuova e annuii.

"Perfettamente ragione," concordai.

Mason si alzò per cambiare cd e mettere su i Led Zeppelin.

"Ok," concesse quindi. Lo sportello del mini frigo si aprì con un tintinnio di vetri. "Si fotta Cathy."

Mason tornò e posò le birre sul tavolo di legno davanti al divano, già troppo ingombro di bottiglie vuote, cartine ed un ultimo pezzettino di hascisc da cui, giudicai ad occhio e croce, poteva ancora scapparci un'altra canna scarsa.

"Chi suggerite?"

Come sempre quando la conversazione virava sulle ragazze, saltarono fuori un paio di nomi sui quali avrei potuto contribuire con diversi commenti ma, al diavolo, mi sarebbe costata troppa fatica.

E poi le note irrequiete di Dazed and Confused erano parecchio meglio delle voci di quei due.

Sweet little baby, I don't know where you've been.

E cosa cazzo ci facevo ancora lì in ogni caso? Sarei dovuto andare da lei. Anzi, sarei dovuto andare da lei già giorni fa, a scusarmi per essere stato un tale coglione. Scusarmi per essere me. E poi pregarla anche solo di parlarmi di nuovo, perché non poterle parlare era la parte peggiore. Di tutto.

Sweet little baby, I want you again.

Non mi importava neanche quanti quarterback potessero tenerla per mano o baciarla sulla guancia di fronte agli armadietti, come dei bravi dodicenni. Ok, forse mi importava, ma non importava. Avrei sempre potuto far finta che non bruciasse così tanto, e magari prima o poi davvero non avrebbe più fatto tanto male. Purché mi parlasse di nuovo. Perché io avevo bisogno di lei molto più di quanto lei avesse bisogno di me. Era l'unica cosa buona e vera in mezzo ad un sacco di stronzate, e senza c'era solo un enorme buco tra lo stomaco e il petto che non sapevo come rimpiazzare.

Dio, ecco perché odiavo pensare quando ero così fatto.

"Magari è la volta buona che riesco a farmela dare dalla Forbes. Giuro che mi fa uscire di testa ogni volta che passa con quelle minigonne…"

"Quella è fin troppo facile. Ci sono passati tutti su quel treno. Ma se proprio ci tieni chiedi a Damon, visto che gli piace giocare a fare il fidanzatino con la sua amica. Magari ci mette una buona parola."

Come risposta, alzai il dito medio verso Enzo.

Scoppiarono entrambi a ridere anche se non ce n'era alcun cazzo di motivo.

"Intendi quella strana, la figlia del Grill?"

La figlia del Grill.

Quella frase davvero non aveva senso.

"Non è strana," replicai sollevandomi quel tanto che bastava per afferrare una delle birre.

"E' un po' strana, invece," insistette Mason. "Non esce mai. Sta quasi sempre per i fatti propri. E suo padre è strano quanto lei. Potrebbe quasi essere figa, te lo concedo, ma resta sempre strana."

"Sua madre è morta, coglione," replicò l'altro.

"Orribile, mi dispiace. Ma sempre strana."

Il mio cervello non era andato abbastanza per poter davvero ancora starli a sentire.

"Io me ne vado," annunciai finendo l'ultimo, lungo, sorso di birra.

"Non resti neanche per l'ultima?" mi chiese Enzo alzando il pezzettino di fumo che avevo adocchiato prima.

Scossi la testa, tirai fuori le chiavi della Camaro ed uscii nella notte gelata.


***


Stefan è eccezionale.

Inizia la sua presentazione un po' tentennante, con quel suo tic nervoso di picchiettare le dita tra di loro, ma dopo un paio di occhiate di rassicurazione e mano a mano che prosegue acquista una tale sicurezza che non si direbbe mai che è lo stesso che da bambino è stato costretto da nostro padre a vedere uno psicologo due giorni alla settimana per curare una timidezza patologica ai limiti della fobia sociale, eventualità considerata ovviamente troppo inaccettabile e fuori da ogni logica per un vero Salvatore.

Quando ha finito, sono tutti conquistati.

Tutti, perfino quell'insopportabile cretino di Cartwright, che si gratta la pelata con fare assorto e per la prima volta mostra un'espressione che potrebbe quasi suggerire una parvenza di movimento tra la ruggine del suo cervello.

Mentre parte la discussione, Stefan torna a sedersi accanto a me che, sotto al tavolo, gli porgo il pugno chiuso. Lo scontra con il suo e con la coda dell'occhio lo vedo quasi sorridere.

Escluso il mio che è suo di diritto, ha altri cinque voti a suo favore, perfino due in più di quanto avevamo sperato, e solamente l'opposizione di Cartwright, ristabilita dopo quegli unici due minuti di indecisione in cui il suo cervello ha effettivamente lavorato, ci separa dall'unanimità.

Solo Elijah non ha ancora detto una parola e continua impassibile a fissare lo schermo con lo schema riassuntivo del piano di Stefan, le dita unite in grembo, lo sguardo fermo e serio.

"Non penso che possa funzionare," dice infine, tornando a voltarsi verso il resto della sala.

Verso di me.

Mi fissa negli occhi per un lungo momento, intanto che un brusio confuso si solleva nella stanza.

Lui si alza in piedi, si abbottona la giacca e lo sovrasta, iniziando a spiegare, con tono convincente e gesti lenti e misurati, perché è una strategia troppo rischiosa; smontandone ogni più piccolo pezzettino in rischi e calcoli e percentuali.

L'istinto di prenderlo a pugni è così forte da farmi stiracchiare le dita.

"Ecco perché non posso dare la mia approvazione."

La discussione riprende decisamente più animata di prima, in vista di una nuova votazione, ma tutto ciò che vedo è la faccia di mio fratello che impallidisce di più ad ogni secondo che passa, ad ogni parola che rende chiaro dove se ne sta andando ogni supporto che aveva trovato.

Osservo quell'uomo che infila una mano in tasca e muove l'altra per rinforzare le sue ragioni, quell'uomo che adesso tutti ascoltano, quell'uomo che ha la fiducia che mio padre non ha mai concesso ai suoi figli, e sono di colpo così incazzato per così tante cose che non sto neanche a chiedermi da dove vengano la rabbia e la frustrazione che mi consumano lo stomaco.

"Tutto questo è una gigantesca cazzata," lo interrompo ad un tratto senza più riuscire a trattenermi, cosa che ha immediatamente il potere di far acquietare l'intera sala.

"Se qualcosa da obiettare Damon," ribatte calmo, "Ti invito ad entrare nel merito, possibilmente con un linguaggio adatto alla situazione."

Qualcuno sussurra, altri si scambiano occhiate e scuotono la testa.

Stefan inclina la testa verso di me, domandandomi con lo sguardo cosa cazzo sto facendo.

Lo ignoro.

"Uso il linguaggio che mi pare e, se proprio ci tieni a saperlo, il merito della mia obiezione sei tu. Non me ne frega niente di come ragionasse mio padre, non puoi davvero pensare di arrivare dall'alto e prendere decisioni per tutti-"

"E' il mio lavoro," replica freddamente, tamburellando distrattamente una penna sul tavolo. E' fortunato che è dalla parte opposta della stanza, o avrei già parecchie idee su dove fargliela mettere. Rialza lo sguardo su di me, sarcastico. "Un lavoro che qualcuno mi ha affidato affinché potessi svolgerlo al meglio. Ti crea qualche problema per caso?"

"Molti. Perché sei chiaramente un incompetente se non riesci a vedere che ciò che ha proposto Stefan è la migliore idea che qualcuno potesse mettere sul tavolo e di sicuro la migliore possibilità che questa compagnia ha per poter restare in piedi …"

"Damon, smettila," mi intima Stefan sottovoce, una richiesta subito coperta e messa in secondo piano dalla successiva replica di Elijah.

"Si tratta di questo, o forse piuttosto di una tua ridicola fantasia di voler essere al posto mio?" E' gelido, ma si assicura di trasmettermi bene il concetto con un altro sguardo prolungato. Per un fugace attimo, ho l'impressione che solo noi due sappiamo fino in fondo cosa significhi. "Perché non succederà."

"Non ho bisogno di occupare il posto di nessuno," ribatto asciutto. "Nel caso non ti sia già chiaro, ti voglio fuori di qui."

"Non puoi licenziarmi," mi ricorda. "Solo il consiglio può."

Indica i presenti con un gesto della mano. Il silenzio solidale e le occhiate prive di stima indirizzate verso di me e mio fratello rendono cristallino da che parte stia pendendo la bilancia.

"Bene," replico alzandomi e rivolgendo un bel sorriso sardonico ad ognuno dei presenti. "Allora potete tutti andare al diavolo."


Parcheggio la macchina sul bordo del vialetto, spengo il motore e mi giro verso Stefan.

Mio fratello non mi guarda, immerso nello stesso silenzio arido che mi ha riservato durante l'intero viaggio di ritorno da Richmond e che non penso di riuscire a sopportare un secondo di più.

Mantiene lo sguardo fisso un momento più a lungo sul tramonto aranciato che sbuca da dietro il profilo bianco di casa nostra, quindi scende di scatto sbattendo con violenza la portiera alle sue spalle.

"Potresti anche dire qualcosa, sai," tento scherzoso andandogli dietro. "Anche solo bladitibla, tanto per dimostrarmi che non hai perso l'uso della parola."

Stefan si ferma poco prima di salire i gradini del portico.

Torna indietro verso di me, ci ripensa, poi torna indietro di nuovo, si passa una mano tra i capelli, la stringe a pugno fino a far sbiancare le nocche, riprende a camminare.

Sì. E' incazzato.

"Hai mandato a fanculo l'intero consiglio. Ben fatto. Contento adesso?" mi domanda alla fine, ironico.

"No, ho mandato al diavolo l'intero consiglio," lo correggo. "Suona più educato."

"Cristo santo, Damon! Riesci mai a prendere sul serio una cosa, una sola cosa, per una dannata volta?"

"La sto prendendo sul serio!" ribatto. "Cosa ti aspetti, che resti zitto e in disparte mentre un coglione con un palo della luce incastrato tra le natiche è capace con tre parole di mandare all'aria tutto ciò per cui ti sei impegnato …"

"No, sei tu che hai mandato tutto all'aria!" esclama allargando le braccia.

Deglutisco con un notevole sforzo per riuscire a mandar giù quell'accusa, perché lui non lo sa che ho passato le ultime due ore a tormentarmi sulla stessa cosa. L'ho fatto davvero, forse ancora prima di entrare in quella stanza.

"Non puoi proprio farne a meno, vero?" continua imperterrito. "Dio, papà ha sempre avuto ragione su di te."

"La vuoi smettere per una cazzo di volta di tirare in ballo papà?" sbotto risentito di fronte a quella corda che non avrebbe dovuto far saltare. L'amarezza mi esplode nelle vene e finisce dritta a riversarsi in ogni mia parola. "Ma ti senti parlare? Continui ancora a pendere da ogni sua stronzata, quando invece dovresti essere il primo ad essere incazzato nero. Dimmi una cosa, allora, a cosa ti è servito essere sempre così bravo e irreprensibile, sempre così pronto a compiacerlo, a voler essere una sua fottuta copia sputata, quando non ti ha lasciato nient'altro che una quota del cazzo che conta meno di niente? Tu conti meno di niente. Non ti fa incazzare questa cosa qua? Neanche un po'? Sapere che fino alla fine lui ha preferito me, quello che ha sempre combinato casin-"

Il destro di Stefan mi colpisce così all'improvviso da farmi barcollare all'indietro, il volto mi si spacca dal dolore.

Respiro pesantemente mentre ritrovo l'equilibrio, intontito dal colpo, dal sangue tra i denti e da un veleno dentro che non sapevo neanche di avere. Non più almeno.

"Stef!"

L'esclamazione acuta di Caroline, che accorre uscendo di corsa dal portone, è l'unica cosa che si frappone tra me, mio fratello e la voglia di schiacciargli la testa contro la ghiaia del vialetto come quando eravamo ragazzini.

Solo che allora erano sempre zuffe di poco conto, adesso è rabbia e desiderio di ferirlo, puro e semplice.

"Cosa diavolo vi prende, si può sapere?" domanda con una voce al limite dell'isteria, mentre afferra Stefan per un braccio per tirarlo indietro e sposta lo sguardo colmo d'ansia da lui a me.

"Il tuo ragazzo è fottuto nel cervello quanto tutti quanti, ma non gli piace sentirselo ricordare," rispondo tagliente.

Sputo via il sangue amaro che ho in bocca, in una macchia rossastra che va a deturpare il vialetto reso grigio dalle ombre del tramonto, a pochi centimetri dalle scarpe di Stefan che alza lo sguardo su di me con tutta la furia ferita che mette anche nelle sue parole.

"Sai una cosa, Damon? Era meglio se non ti prendevi neanche il disturbo di tornare."

"Basta!" grida Caroline, in lacrime. "Entrambi. Per favore."

Vorrei dirle che non ce n'è bisogno. Quell'ultima frase di Stefan, improvvisa e aspra, mi si conficca nel petto così a fondo che non avrei parole per rispondere neanche se lo volessi.

"Stefan, vieni dentro."

Caroline lo prende per una mano e lo tira via. Lui la segue docile con lo sguardo fisso per terra.

"Damon …" Nel rivolgersi nei miei confronti la biondina si ferma, per indirizzarmi uno sguardo di scuse imbarazzate che rende chiaro cosa ha deciso di farne di me. "Penso che sia meglio se te vai, per adesso."


***


Cazzo, fu il mio unico pensiero coerente quando il volante mi sfuggì di mano, le ruote sobbalzarono fuori dal mio controllo, una scarica di adrenalina mi annebbiò il cervello e per alcuni interminabili secondi non seppi più dov'era la strada.

Quando tutto si fermò, fu fortunatamente in un modo molto più dolce rispetto all'impatto a cui mi ero preparato. Solo la ruota destra era finita ad ancorarsi nel fossato di fango secco che fiancheggiava la strada, lasciando la Camaro storta e appena inclinata verso il basso.

Appoggiai la testa all'indietro e presi un respiro profondo per far rallentare le pulsazioni impazzite. Ma, cazzo, fu doppiamente il mio unico pensiero quando, prima che avessi il tempo di riprendermi del tutto e tornare a ragionare su come tirarmi fuori da lì, silenziosi lampeggianti blu passarono dal lato opposto, fecero inversione e si fermarono pochi metri dietro me.

Nello specchietto retrovisore vidi una figura scendere dall'auto ed avvicinarsi velocemente con il piglio risoluto di chi è abituato a portare l'uniforme.

Quando mi fu davanti, la donna mi alzò in faccia il fascio di luce della sua torcia, ferendomi in pieno gli occhi ancora troppo arrossati e pesanti.

Ero nella merda.

"Cos'è successo?" domandò, abbassandosi verso il finestrino per guardarmi meglio.

Grandioso, lo sceriffo in persona.

"Una lastra di ghiaccio," buttai là, mezzo biascicando.

"La strada è a posto." La luce saettò verso il basso, tornò su a scandagliare dentro l'abitacolo e quindi ad abbagliarmi di nuovo dritto negli occhi. "Un documento. E scendi dalla macchina."

Spinsi via lo sportello e mi arrampicai fuori dalla Camaro.

Mentre lo sceriffo Forbes spostava la torcia sulla patente che le avevo appena dato, mi feci coraggio e mi voltai per vedere con i miei occhi quanto danno potessi aver fatto alla mia auto. Difficile dirlo con quel buio. Cazzo.

La donna mi rialzò la luce in faccia.

"Giuseppe è tuo padre?"

"Purtroppo."

Qualche metro più in là, l'apertura di uno sportello risuonò nell'estrema silenziosità della notte fonda.

"Cosa hai lì?" le gridò il suo partner, restando accanto alla volante.

Lo sceriffo mi scrutò con attenzione ed una discreta dose di disapprovazione, come se sapesse perfettamente cosa si stava trovando davanti. Un altro ragazzino fatto e ubriaco dietro al volante.

Benvenuta comunità di recupero.

Ma, con mia estrema sorpresa, gli gridò di rimando. "Niente. Ci penso io."

"Resta qui," mi intimò più a bassa voce, quando l'altro poliziotto tornò a rinchiudersi al caldo dentro la macchina.

La seguii incuriosito con lo sguardo mentre si allontanava di qualche passo, prendeva il telefono e componeva la chiamata. Cosa cazzo stava facendo?

" … droghe leggere, molto probabilmente mischiate con dell'alcol… Sì, sta bene. Ok, aspetto qui."

Chiuse la conversazione e tornò da me, che la stavo ancora guardando come se fosse lei ad essersi fumata canne per tutta la sera, invece che il sottoscritto.

"Ha davvero appena chiamato mio padre?…" le chiesi del tutto disorientato. Forse ero ancora in tempo per scegliere la comunità di recupero. "Non dovrebbe prima ammanettarmi, schedarmi e sbattermi in galera?"

"Immagino che sia la tua serata fortunata."

Chissà perché ne dubitavo.

La familiare Mercedes grigia arrivò dopo circa quindici minuti e parcheggiò dalla parte opposta della strada. Mio padre ne scese per dirigersi deciso verso lo sceriffo.

Non mi gettò neanche mezza occhiata.

Rimasi in disparte a braccia conserte, ad osservarli parlottare a bassa voce, con qualche cenno nella mia direzione ed un sacco di occhiate gravi e fronti corrugate.

Neanche stessero decidendo le sorti della fottuta pace in Medio Oriente.

"Grazie, Liz." Mio padre le posò una mano sulla spalla. "Ti devo un favore."

Non appena lo sceriffo Forbes tornò alla volante e ripartì, si incamminò e si fermò dritto di fronte a me.

Solo in quel momento si decise a guardarmi. Direttamente negli occhi, con le mani sprofondate nelle tasche del cappotto e le spalle dritte. Senza dire niente.

Non ne aveva bisogno. La linea della sua labbra e l'espressione che lampeggiò nei suoi occhi azzurro intenso erano, anche immersi nel buio, di gran lunga peggiori di qualsiasi parola.

Fui io ad abbassare lo sguardo per primo.

"Tutto qui?" domandai con una smorfia, tirando un calcio ad un sassolino.

"Sali in macchina," mi intimò asciutto.

Rialzai lo testa per vederlo avviarsi verso la sua berlina senza né aggiungere altro né preoccuparsi di aspettarmi, come se non lo sfiorasse neanche per un secondo il pensiero che potessi non seguirlo. Non che avesse torto.

Quando mise in moto ed io appoggiai la fronte contro il finestrino, mi resi conto che, passata l'adrenalina e passato anche qualsiasi stordimento, la testa mi faceva solo un male cane.

I numeri rossi sul display digitale scattarono sulle 3:55. E ancora non aveva detto niente.

"Da quando tu e lo sceriffo vi conoscete per nome?" domandai fingendo noncuranza. "Te la scopi per caso?"

"No, non me la scopo."

Non riuscivo a capire se fosse incazzato, o disgustato da me, o chissà cos'altro.

Dopo un altro lungo silenzio, aggiunse solo, "Liz è un'amica e ti ha fatto un favore."

Vidi la smorfia sarcastica che mi deformò le labbra riflessa contro il buio, sopra il vetro del finestrino.

"Ha fatto un favore a te."

"E' la stessa cosa."

"Non lo è."

Nello svoltare verso il viale che portava a casa, la sua mano scivolò dal volante verso il cambio, che ingranò con fare sicuro ma tenendolo solo con la punta della dita. Io avevo lo stesso identico vizio. Non avrebbe neanche dovuto essere una sorpresa visto che era stato lui ad insegnarmi a guidare, ma mi infastidì comunque.

"In ogni caso, non cambia il fatto che dovresti essere grato," replicò in un tono che non ammetteva altre obiezioni. "E se qualcuno ti chiede cos'è successo, è stata colpa del ghiaccio. Tutto il resto rimane tra noi. Non ne fai parola con nessuno, nemmeno con tuo fratello."

Aggrottai le sopracciglia, spaesato. Era davvero tutto qui? Niente lezioni morali, niente sfuriate, niente stoccate in grado con poco di farmi sentire uno schifo.

No, non stava andando affatto come me lo ero immaginato.

Parcheggiata l'auto al solito posto, di fronte all'apertura del garage, si voltò a guardarmi di nuovo, inchiodandomi con un'occhiata perentoria. "Siamo intesi?"

E allora capii.

"Cazzo," sussurrai tra me e me, quando collegai tutti i pezzi.

L'intensificarsi delle donazioni e delle raccolte fondi; gli incontri con il governatore uscente e le cene "di lavoro" sempre più frequenti; i viaggi a Washington.

"Ti candidi, cazzo, non è così?" esclamai, girandomi verso di lui. "Ecco perché non vuoi che la gente lo sappia. Se già essere divorziato è un discreto svantaggio, immagino che il figlio drogato sia la ciliegina sulla torta."

"Sì, Damon, è la cazzo di ciliegina sulla torta che tu sai decorare alla perfezione," ribatté con l'impeto che iniziavo a riconoscere, "Ogni dannata volta che sprechi tutto il tuo potenziale senza combinare niente dalla mattina sera, che ti impunti su questa ridicola storia del college, che preferisci andare in giro con perditempo strafatti e figlie di alcolizzati-"

"Che cosa hai detto? …" lo interruppi, incredulo. "Cosa diavolo ne sai?"

Mi guardò come se fossi un completo deficiente.

"Pensi che solo perché vivi a trenta metri da me, io non sappia quello che fai, o chi frequenti? Ho visto quella ragazza venire qua e starti intorno fin troppo spesso. Conosco suo padre, e so che è un buono a nulla, così come so che piega sta prendendo tutta quella situazione, e tu non vuoi confonderti con certa gente perché, credimi, l'ultima cosa che vuoi è ritrovarti ad averla messa incinta e ad aver gettato via in un solo attimo tutto il tuo futuro."

Non gli risposi nemmeno.

Scesi direttamente dalla macchina sbattendo la portiera in faccia al suo bel consiglio del cazzo.

Alle mie spalle, lo udii aprire lo sportello e scendere dall'auto.

"Damon!"

Sentii la ghiaia scricchiolare sotto ai suoi passi mentre mi raggiungeva.

"Sai," dissi d'un tratto, fermandomi sotto il flebile cono di luce del portico e voltandomi per fronteggiarlo di nuovo, con quel grumo amaro di pura rabbia che stava gridando dalla voglia di essere sputato fuori. "Stasera, avrebbe potuto esserci un'altra macchina dalla parte opposta, o un cazzo di albero, o magari perché no, pure un bel ponte da cui saltare. Ho avuto paura, per un momento, davvero paura. Te ne frega almeno qualcosa?"

Si bloccò, spiazzato. E forse per un breve istante, sembrò quasi … perso.

Sbatté le palpebre, una volta, due volte.

"Certo che m'importa. Come puoi anche solo pensare una cosa del genere?"

Già, come potevo?

Scrollai le spalle, gli diedi la schiena e ripresi a camminare.

Di nuovo non gli diedi una risposta. Ma questa volta non mi richiamò più.


***

Invio il messaggio prima di avere il tempo di ripensarci e mi dirigo sul retro. Tiro la porta in avanti, infilo nella serratura un pezzetto di legno abbastanza appuntito trovato per terra, lo muovo in alto e poi a sinistra e la faccio scattare.

Il Grill è silenzioso e vuoto, la parete destra della cucina sventrata fino al suo scheletro di tubi, l'unico suono il basso ronzio del generatore di emergenza. E' una creatura agonizzante che non vuole mollare, in paziente attesa di cure che possano rimetterla in sesto.

Dal freezer prendo una busta di spinaci surgelati, mi siedo su un tavolo, allungo le gambe ed aspetto anche io.

Così forse ci facciamo compagnia a vicenda.

Ma non dobbiamo aspettare a lungo, visto che solo dopo una ventina di minuti un breve rumore di chiavi anticipa l'apertura della porta principale.

"Damon, ho visto il tuo messaggio e …" Elena non finisce più la frase, quando solleva lo sguardo e nota il pacco ghiacciato che continuo a tenermi premuto contro la mascella. Posa la borsa sul primo tavolo disponibile e si avvicina a passi piccoli ma veloci, squadrandomi preoccupata. "Cosa ti è successo?"

Sono ancora troppo sorpreso per risponderle immediatamente perché, in verità, anche se sono stato io a chiederle di incontrarci qui, ero piuttosto convinto che avrebbe educatamente rifiutato accampando la più banale delle scuse disponibili.

In quel mio breve attimo di spiazzamento, la sua mano mi coglie ancora di più alla sprovvista posandosi sul mio profilo dalla parte non contusa e muovendolo delicatamente verso di sé.

Incontro i suoi occhi e si ferma, restituendomi lo stesso sguardo. Cautamente allunga l'altra mano, per invitarmi a scansare la busta di surgelati. Io la assecondo senza opporre resistenza.

La punta delle sue dita mi sfiora la guancia, che è adesso quasi del tutto anestetizzata dal ghiaccio, cauta e apprensiva. E' il miglior balsamo in cui potessi sperare e mi sento in colpa anche solo per averlo pensato.

"Stefan," dico a bassa voce, e solo a nominarlo il dolore cresce di nuovo.

Elena lascia cadere la mano e mi scruta stupita.

"Stefan ti ha colpito?"

Annuisco. "Sì, ma non è per approfittarmi del tuo inimitabile spirito da crocerossina che ti ho chiesto di vederci."

Le sue sopracciglia si increspano, in un misto di prudenza e aspettativa.

"E allora perché?"

Poso gli spinaci alle mie spalle e mi prendo qualche secondo, per decidermi se voglio davvero andare fino in fondo e riaprire quel capitolo. Una parte di me sa che vivrebbe molto meglio se continuasse semplicemente ad ignorarlo come ha fatto per anni, cacciandolo in quell'angolino remoto della mia mente che preferisco evitare di visitare. L'altra … non può sopportare l'idea di non sapere tutto quello che gli è passato per la testa, fino al giorno in cui un momento era qui e quello dopo non più.

"In che modo mio padre ha iniziato a lavorare con Elijah?"

Elena mi osserva come se per un momento non avesse capito la mia domanda. O come se non fosse quella la domanda che si aspettava.

Poi scuote quasi impercettibilmente la testa, si ritrae di un passo, serra le labbra e se le mordicchia appena. Sta pensando. Perché ci sta pensando?

"Damon, tuo padre …" inizia, ma il modo in cui ha addolcito il tono mi fa subito pentire di averglielo chiesto. E' uno di quei toni che si usano per dare le notizie delicate, e che mi spinge a pensare che non so più se voglio davvero sapere cosa ha dire. "Io e tuo padre ci siamo incontrati circa un anno fa. Aveva iniziato a venire qui, al Grill, e mi ricordo che la cosa all'inizio mi era sembrata piuttosto strana, perché non lo aveva mai frequentato prima. Ma passava di qua quasi tutti i giorni … a volte solo per colazione, altre volte si fermava ad un tavolo ad angolo a lavorare. E parlavamo. Ogni volta."

Cerco i suoi occhi sentendomi smarrito, come se potessero davvero darmi la risposta a tutti i milioni di domande strozzate che mi sono improvvisamente salita sul fondo della gola. A fatica, ne faccio uscire almeno una.

"Di cosa?"

Elena si porta due dita sulle labbra, come se sapesse esattamente quale è stata la prima cosa che ho pensato, che ho sperato, e fa appena cenno di no con la testa, quasi per scusarsi del fatto che la risposta non sia davvero quella che voglio o che ho bisogno di sentire.

"Di niente, in realtà. Insomma … il tempo, le notizie del giorno, la clientela. Queste piccole cose. Ma era gentile. E divertente," si lascia sfuggire un accenno di sorriso che ha un effetto peggiore di quanto potessi pensare, facendomi sentire derubato di qualcosa che non sapevo neanche di avere. Si sfalda quanto nota la mia espressione. "Mi dispiace, Damon, vorrei che ci fosse di più, lo vorrei davvero."

Il trillo del mio telefono risuona ovattato da dentro la mia tasca. Ma fanculo chiunque sia, fosse anche Stefan, lo tiro fuori solo per rifiutare la chiamata senza neanche guardare.

"Perché non me lo hai detto?" le chiedo, posando il cellulare sul tavolo.

"Volevo, ma … Tuo padre non è un argomento che affronti volentieri. Non sapevo come."

Non posso davvero controbattere, così mi stringo solo nelle spalle e mi lascio sfuggire una smorfia amara.

"Quindi è così che ha incontrato Elijah. Tramite te," osservo iniziando ad avere un quadro più preciso della situazione.

"Sì," conferma. "E' stato poco dopo che mi aveva chiesto di sposarlo, prima dello scorso Natale … Non avevo neanche idea, sul momento, che potessero iniziare a lavorare insieme. Damon, perché lo vuoi sapere, che importanza ha?"

"Perché non sopporto il tuo fidanzato. Non sopporto le sue idee. Non sopporto il modo in cui muove le mani, e non farmi nemmeno iniziare a dire quanto non sopporto i suoi capelli."

Le vere cose che non sopporto, però, non sono quelle che dico ad alta voce.

"E' una brava persona," mi ricorda prontamente.

"Non mi importa. Non lo sopporto lo stesso. O magari è solo che non capisco il perché. Perché lui."

"Beh, è davvero bravo nel suo lavoro e tuo padre-"

"Non stavo parlando di mio padre."

Le parole mi escono di bocca senza che io riesca a trattenermi.

Osservo la sua reazione inclinando la testa, prima che abbia il tempo di defilarsi nella sua zona sicura, quella in cui diventa quasi impossibile capire cosa pensa davvero.

I suoi occhi sono grandi, palpitanti, di quell'intenso castano che diventa ancora più scuro quando è agitato o combattuto per qualcosa.

Li distoglie subito, come se non volesse farmelo scoprire. Non del tutto, almeno.

Si appoggia alla mia sinistra contro il bordo del tavolo. Porta una ciocca di capelli, lasciati sciolti sulle spalle, dietro all'orecchio. Sposta lo sguardo sulla punta delle sue scarpe, un paio di converse nere mezze sfilacciate che fa dondolare un po' incerta.

Sta prendendo tempo ed io mi chiedo se si renda quanto ogni suo gesto mi faccia implodere il petto sotto al peso di ricordi e emozioni passate. Perché in ognuno di quei gesti è ancora la ragazzina che io conoscevo, a dispetto dell'apparenza e dell'anello da grandi. E io amavo quella ragazzina.

"Lui …" comincia infine, con le converse che dondolano ancora. "Elijah è entrato nella mia vita in un momento in cui tutto stava lentamente iniziando ad andare al suo posto. Mio padre aveva iniziato a rimettersi in sesto, il locale aveva ripreso ad andare bene, ed io per la prima volta mi sono concessa di pensare che forse … Che forse le cose potessero davvero funzionare. Che io potessi funzionare. Ed è stato così. Lui era là, io mi sono innamorata, ed ha funzionato." Solleva le spalle, lascia uscire un altro respiro. "Ha funzionato."

"Dunque è questo il grande segreto," dico piano, forse più a me stesso che a lei. "Il momento giusto."

"Immagino di sì." Sento il suo corpo spostarsi appena, magari solo di un centimetro, e le punte dei suoi capelli sfiorarmi l'avambraccio al di sotto delle maniche della camicia arrotolate sui gomiti, in un piacevole formicolio. Poi aggiunge in un unico, impalpabile, soffio, "Ma forse a volte il momento può cambiare."

Per un momento, sono perso. Perché ciò che ha appena detto, il modo in cui lo ha appena detto ... Non può davvero voler dire quello che penso voglia dire.

Ma poi seguo il suo sguardo, che non è più sulle converse. Lo seguo fino a scoprire che si spostato sulla sua mano. O sulla mia. O su quei due miseri millimetri che le separano.

E sono tirato, trascinato, ancora una volta, come sempre, verso di lei. Al diavolo i piani, le conseguenze, le buone ragioni per cui non dovrei, e in generale ogni singola cosa che esista al di fuori di questo preciso momento.

Muovo la mano nello stesso momento in cui lei muove la sua. Quando la sfioro, o lei sfiora me, quando le nostre dita si intrecciano quasi con cautela, non sono due millimetri quelli che ho appena attraversato. Sono più un continente, o otto anni, solo per toccarla.

Ma il momento non è mai giusto.

Se lo sapevo già prima, ne sono più che mai convinto adesso, quando il mio telefono suona di nuovo, riverberando il suo squillo nell'intero locale peggio di un allarme anti-incendio.

Elena si raddrizza di scatto con un sussulto e ritira la mano. Tutto è finito.

"Rispondi, per favore," sospira. Sembra quasi esasperata.

Si stacca decisa dal tavolo, si stringe le braccia al petto, e mette molto impegno nel fissare la parete di fronte pur di evitare di guardarmi.

Rispondo al cellulare in uno scatto a metà tra la rassegnazione e l'istinto omicida.

"Cosa c'è?"

"Vegas è qui," dice Alaric dall'altro lato.

"Ric, cristo santo, per l'ennesima volta, se è uno scherzo non è più divert-"

"Quando sono tornato, era a casa tua a parlare con tuo fratello e la sua ragazza, chiedendo di te. Sono arrivato troppo tardi, non ho potuto …"

"Grazie al cielo, finalmente! Eccoti qui."

Mi congelo all'istante quando sento quella voce giungere dalle mie spalle.

Lascio scivolare via il telefono dall'orecchio quasi fossi in trance, senza più ascoltare una sola parola di ciò che sta dicendo Ric perché, davvero, non ha più importanza.

L'inferno è qui.

"Hai anche solo una vaga idea di quanto mi ci è voluto per trovarti in questo cavolo di posto dimenticato da dio? Perfino il satellitare si rifiutava di portarmici."

Probabilmente perché il satellitare ha una coscienza, mi verrebbe da dirle se non fossi troppo scioccato per spiccicare parola.

Mi volto a rilento, come se potessi davvero ritardare l'inevitabile, ma comunque in tempo per poterla vedere contro la porta che Elena aveva lasciato socchiusa e cogliere la smorfia che le arriccia le labbra quando alza la testa per gettare una veloce un’occhiata attorno.

"Cos …?"

"… diavolo ci faccio qui?" finisce per me, e sorride.

La stronza sorride, mentre avanza verso di me sui tacchi alti dei suoi stivali. Mollemente, inesorabilmente.

"Oh, penso che tu lo sappia benissimo. Voglio la mia parte di soldi. Mi spetta di diritto."

Elena fa un passo avanti da dietro le mie spalle.

"Scusa, e tu chi sei?" domanda, con le braccia ancora strette al petto ma un nuovo sguardo, quasi felino, mentre sospettosa passa in rassegna ogni centimetro di quella che ha già catalogato come un'intrusa nel suo territorio.

Sono fottuto. Completamente, totalmente, assolutamente … fottuto.

"Elena …" tento subito, in extremis.

Ma è questione di una manciata di secondi. Tutto accade così in fretta e così lentamente al tempo stesso, che è come guardare un incidente stradale svolgersi davanti ai proprio occhi senza avere il minimo potere di impedirlo.

La punizione per tutti i miei errori sorride di nuovo e le tende una mano che Elena si limita a guardare con diffidenza.

"Sono Katherine," annuncia come se se ne stesse gustando ogni singolo secondo. "Sua moglie."


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Note:

[1] Evento storico realmente accaduto nella zona in cui la storia è ambientata. Tutto il resto è naturalmente di fantasia.


Spazio autrice

Prima di tutto: grazie a Bloodstream_ per il nuovo stupendo banner su in alto. Mi ha fatto fangirleggiare come un'idiota.Thank you


Venendo al capitolo. Vi ricordate quando tempo fa dissi che alcuni commenti fatti da Damon un giorno avrebbero assunto tutto un altro significato? Beh, direi che l'entrata in scena di Katherine spiega cosa intendessi dire. Lo avevate capito? ...

Siamo circa a metà della storia, di conseguenza questo capitolo era un po' il "mid-season finale". Il prossimo aggiornamento dunque non arriverà con le solite tempistiche, ma ci sarà una pausa più lunga del solito. Spero comunque di avervi lasciato con abbastanza domande con cui riempire l'attesa.

Grazie a tutte coloro che hanno messo la storia fra le preferite e grazie per le recensioni! Se avete anche solo una curiosità, una critica o una cosa a caso da dire, se ve la sentite di regalarmi un minutino extra del vostro tempo per un commento, anche solo con due righe, mi scaldate sempre il cuore.

Un bacio


   
 
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