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Autore: Laylath    04/03/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 34. Stesse mani.


 
Nonostante un primo periodo di smarrimento, Kain era riuscito a trovare una sua dimensione personale in quel capannone affollato: sulle prime era stato con sua madre, la signora Havoc e Janet, ma poi, come era successo un po’ a tutti, si era reso conto che quelle la dentro erano le solite persone che si conoscevano da sempre e dunque aveva iniziato a girovagare.
Janet l’aveva seguito per un po’ ma, come alcune maestre avevano richiamato i bambini delle prime classi elementari, si era separata da lui, lasciandolo a camminare da solo in quel piccolo sistema autonomo che era diventato il capannone. Aveva scambiato qualche parola con diverse persone, per esempio Elisa ed i suoi genitori, aveva salutato con piacere la madre di Vato ed aveva persino rincontrato la signorina Lola e le altre gentili ragazze del locale dove viveva Roy.
Se non fosse stato per l’ansia che provava per suo padre ed i suoi amici, sarebbe stato anche incuriosito da quel particolare campeggio che si era andato a creare. Ma la tensione non accennava a diminuire e più le ore passavano più capiva che il peggio si stava avvicinando.
Pensò di riavvicinarsi a sua madre, ma vide che stava parlando con la signora Laura: era preoccupata, lo si leggeva a chiare lettere nel suo viso, e questa volta Kain non aveva argomenti per tranquillizzarla.
“Che hai, zuccherino?” gli chiese Lola, vedendo che era imbambolato proprio vicino al tavolo dove lei stava arrotolando alcune garze per eventuali medicazioni.
“Signorina Lola, come si fa a non aver paura?” chiese all’improvviso.
“Spaventato per questa situazione? – sorrise lei, passandogli una garza e invitandolo a sedersi – Beh, è normale: a volte la paura è inevitabile.”
“Vorrei essere forte come i miei amici e come il mio papà: loro sono fuori… ma io avrei troppa paura e non credo che sarei di grande aiuto.”
“Dici? Secondo me ti sottovaluti: sai, sono sicura che tutte le persone che sono fuori, compreso tuo padre, hanno paura. Paura che succeda qualcosa alle persone che amano, come te e tua madre: è per questo che lavorano così tanto. Quanto all’aiuto che puoi dare, non stai dando una mano a me con queste garze?”
Kain sorrise per quella consolazione: sapeva benissimo che quel piccolo lavoro non era niente in confronto a quello che stavano facendo gli altri sotto la pioggia, ma in fondo lo aiutava a stare meglio. Magari se qualcuno si feriva malamente, una garza sistemata bene poteva essere di grande beneficio.
Così, grazie a quell’attività, riuscì a far scorrere il tempo abbastanza serenamente, mentre Lola gli raccontava delle buffe storielle e lo faceva sorridere.
Ma all’improvviso iniziò a sentirsi un forte brusio eccitato e qualcuno gridò che la piena stava arrivando.
“Papà!” esclamò Kain, saltando in piedi e lasciando cadere la garza.
“Vai da tua mamma, svelto – lo incitò la ragazza – adesso ha bisogno che tu stia con lei.”
Il bambino non se lo fece ripetere due volte ed iniziò a sgusciare tra le persone che, a quello strano segnale, avevano iniziato a ricercarsi una con l’altra. Nonostante quel caos, raggiunse Ellie e le cinse le braccia attorno alla vita, nascondendo il viso nel suo grembo.
“Va tutto bene, pulcino – disse lei, prendendolo in braccio – la mamma è qui e papà sta bene… deve stare bene. Da bravo, non ti preoccupare.” ma la stretta con cui cinse il bambino diceva il contrario.
Laura scambiò un’occhiata con lei e poi andò via a cercare Henry, trovandolo poco dopo in un angolino.
“Tesoro, – sussurrò abbracciandolo – va tutto bene.”
“Papà ed Heymans tornano, vero?” sussurrò lui, fissandola con i grandi occhi grigi che, in quel momento, tendevano all’azzurro ad indicare la paura che lo attanagliava.
“Certo, Henry, stai tranquillo. Tornano presto…”
Non voleva sentire niente: strinse Henry e cercò di escludere tutte quelle voci che facevano rimbalzare notizie ogni volta differenti. Pregò con tutto il cuore che Gregor, Heymans ed Andrew fossero sani e salvi, che quella tremenda storia finisse.
Nella sua mente tornarono impietose le immagini del fiume la notte in cui aveva tentato il suicidio: fu una sensazione così sgradevole che serrò gli occhi, emettendo un lieve lamento. Solo le braccia di Henry che la stringevano riuscirono a darle un minimo di conforto e a tenerla ancorata alla realtà.
No, non me li porterai via, maledetto fiume, non puoi… non devi.
Continuò a pregare in questo modo anche quando si sentì distintamente il rombo della piena che si scagliava con tutta la sua ferocia nella parte del fiume più vicina al paese, dove stavano gli uomini. I gemiti ed i pianti delle altre persone la fecero quasi impazzire: era un’angoscia così tremenda e tangibile che quasi la spingeva contro la parete.
“Mamma!” singhiozzò il bambino.
Ma questa volta non ebbe parole di conforto, solo quell’abbraccio convulso che durò anche quando quel rombo assordante passò, dopo un tempo che non riuscì a calcolare.
Fu solo quando sentì quel “ce l’hanno fatta” che continuava ad essere detto, con sempre più frequenza e convinzione che si concesse di tirare un sospiro di sollievo e piangere lacrime di gioia.
 
Circa un’ora dopo quegli eroi sfiniti iniziarono a tornare al capannone.
Fu un piccolo, strano, esodo: piano piano, quasi fossero increduli di essersela cavata così bene, gli uomini rientravano alla spicciolata. Ogni tanto si sentiva qualche esclamazione entusiasta quando una moglie correva ad abbracciare il marito  o qualche famiglia si riuniva. E così tutti aspettavano impazienti, ansiosi di rivedere il propri cari ricomparire fradici, ma illesi.
A un certo punto Henry si staccò da sua madre e corse verso l’ultimo gruppetto di uomini che era entrato.
“Papà!” esclamò aggrappandosi alla robusta figura di Gregor.
“Che ti avevo detto? Non c’è stato nessun pericolo – sbuffò l’uomo, lievemente seccato da quella dimostrazione fanciullesca – e adesso cerca di non piangere come una femminuccia.”
“Va bene.” annuì il bambino, cercando di asciugarsi quelle lacrime di gioia.
“Greg – sorrise Laura, andandogli incontro – caro, stai bene?”
“Ovviamente – annuì, rispondendo all’abbraccio della moglie con una lieve pacca sulle sue esili spalle – di che dovevi preoccuparti?”
“Dov’è Heymans?” chiese lei, alzando il viso dalla sua spalla.
A quella domanda l’espressione di Gregor si indurì: qualsiasi forma di piacere per essere stato accolto da sua moglie ed Henry sparì. Il grande eroe di casa, quello stupido marmocchio che incantava Laura proprio come aveva fatto suo fratello. E ovviamente se Henry Hevans non poteva più creargli problemi, doveva ritornare in scena il suo cagnolino personale… non aveva mancato di notare con quanta confidenza stringeva Heymans a sé durante la piena.
Ma sia lui che quel ragazzino impareranno a stare al loro posto: è mio figlio.
“Chiedilo al tuo grande amico, donna.” si limitò a dire con voce piatta, fissando Laura con sguardo seccato.
“Eh?”  sgranò gli occhi lei.
“Ne riparleremo al momento giusto. Vieni, Henry, stare in questo posto mi dà la nausea. Torniamo a casa…”
“Sì, papà – acconsentì il bambino, fissandolo con adorazione: era così agitato che non si era accorto di quello scambio di battute tra i genitori – mamma, andiamo?”
“Andate pure, io aspetto tuo fratello e poi arrivo.” lo rassicurò lei, accarezzandogli la guancia.
Ma il sorriso le scomparve non appena i due si allontanarono.
Cielo, l’ha visto assieme ad Andrew. Sapevo che prima o poi… e adesso? Che cosa posso fare?
Ma i suoi cupi pensieri vennero interrotti qualche minuto dopo da un’esclamazione.
“Ecco gli eroi del paese! Andrew Fury e James Havoc!”
Oh, Andrew, ma tu non sei quel tipo di eroe…
Fu incredibile non poter far a meno di sorridere.
 
Il capitano Vincent aveva detto quella frase senza che lui se lo aspettasse ed un secondo dopo gli aveva sollevato il braccio in gesto di vittoria.
Andrew arrossì profondamente e si passò una mano sui capelli fradici, mentre la fasciatura improvvisata che aveva sulla testa continuava a gocciolare.
“Non… non mi pare il caso di…”
“Finiscila, ingegnere – lo fermò James Havoc, dandogli una pacca sulla spalla – siamo salvi grazie al tuo incredibile sistema di pompe o qualunque cosa fosse.”
“Ma è stato lei a tirarle e a portarmi via… io la devo ringraziare…” balbettò, cercando di ignorare tutte quelle persone che applaudivano nella loro direzione.
“Smettila, Andrew – sorrise Vincent – è vero quello che ha detto. Sei un eroe.”
“Papà!” esclamò una voce e a quel punto ad Andrew non importò più di nulla.
Kain riuscì a sgusciare in mezzo a quel mucchio di persone e si fiondò su di lui, ridendo e piangendo. Ellie si fece largo pochi secondi dopo, e lo raggiunse baciandolo con una foga incredibile. Si ritrovò a stringerla come mai era successo, consapevole di farle probabilmente male, ma in quel momento andava bene così.
Sono tornato, amore mio, sono tornato! Tornato! Quel maledetto fiume non mi ha portato via da te e da nostro figlio.
“Papà! – pianse il bambino aggrappato alla sua gamba – Per favore… prendimi in braccio.”
“Kain… Kain – rise, sollevandolo e baciandolo: era la cosa più bella del mondo – piccolo mio, figlio mio.”
“Ho avuto paura che non tornassi più…” mormorò lui con disperazione, nascondendo il viso sulla sua spalla.
“Sono qui… sono qui – mormorò stringendo lui ed Ellie – siamo di nuovo insieme…”
Perché fino a quel momento non aveva realizzato che aveva rischiato di non vederli mai più.
 
“Papà, papà! – esclamò Janet, comparendo assieme ad Angela – è vero che sei un eroe?”
“Certo che sì, principessa – sorrise James, prendendola in braccio – ehi, Angela, che è quella faccia?”
“James Havoc sei… sei il marito più folle che conosca! – esclamò la donna saltandogli al collo – Adesso diventare persino un eroe.”
Mentre l’uomo si godeva le moine delle due donne della famiglia e anche Rosie raggiungeva Vincent per stringersi a lui con le lacrime che colavano senza parere, i ragazzi si affacciarono stancamente nel capannone: avevano deciso di restare indietro per non levare la scena a chi davvero lo meritava.
In particolare Heymans, guardò con estremo orgoglio Andrew che si stringeva alla famiglia: ancora non poteva credere di come l’avesse tenuto stretto, facendogli sfogare tutto il terrore che aveva provato nel vederlo ferito in quel modo.
Ma poi spostò vide sua madre e non ci pensò due volte a correre da lei.
“Mamma – sorrise esausto, abbracciandola – sono tornato, va tutto bene.”
“Heymans, piccolo mio – mormorò Laura stringendolo – grazie al cielo…”
“Oh mamma, lui… lui è il mio eroe – ammise il ragazzo, girandosi a guardare Andrew – è stato incredibile: ha rischiato la sua vita per salvare il paese. Ho avuto tanta paura quando l’ho visto ferito, ma ora sta bene… lui è fantastico. Lui e anche il padre di Jean e quello di Vato.”
Laura chiuse gli occhi a quelle parole e si sentì crollare il mondo addosso: lei ed Andrew non si erano più frequentati per evitare proprio che Heymans si affezionasse a lui.
E adesso è finita… è bastato nemmeno un mese, e ora che succederà?
“Mamma?”
“Certo, tesoro, lui è stato fantastico, ma non avevo bisogno di conferme. Oh, ma guardati, sei fradicio, sporco di fango e queste povere mani? Sono piene di vesciche…”
“Come quelle di tutti, stai tranquilla fanno solo un po’ male – mentì - Ma dov’è Henry?”
“E’ già tornato a casa con tuo padre. – sospirò lei, non potendogli tenere nascosto quanto successo – Heymans, tesoro, ascolta: Gregor ti ha visto con Andrew…”
A quelle parole gli occhi grigi di Heymans si sgranarono leggermente, ma poi si incupirono.
“E anche se fosse? – protestò – Devo evitare di essere fiero di una persona che per me vuol dire tanto?… e anche per te…”
“Non sto dicendo questo – scosse il capo lei – però sai che la situazione è complicata…”
“Non è vero, è tutto molto semplice – dovette trattenere le lacrime: perché adesso gli doveva anche vietare di voler bene ad una persona? Non gli bastava avergli rovinato la vita? – Non mi ha mai amato veramente, l’hai detto tu stessa… perché? Perché non posso nemmeno ammirare lui? Perché mi deve impedire di… di trovare finalmente qualcuno che…”
Ma poi vide il viso teso di sua madre e non terminò la frase: non poteva mettere davanti i suoi sentimenti. C’erano lei ed Henry di mezzo: ancora una volta sarebbe stato costretto a restare in silenzio, nell’attesa che la situazione si sbloccasse.
Si girò a guardare con malinconia Andrew con Kain sulle spalle ed Ellie stretta al petto: avrebbe voluto prendere per mano sua madre e condurla da lui, avrebbe voluto dirgli ancora una volta di quanto lo ammirava e gli voleva bene.
Ti vorrei dire che ormai sei come un padre…
“Vieni, mamma – fu tutto quello che gli uscì dalla bocca – torniamo a casa. Ti prometto che non reagirò alle provocazioni di papà: oggi non è proprio il caso…”
 
“Accidenti, adesso sono fidanzata con un eroe – sorrise Elisa, andando incontro a Vato – mi sento davvero emozionata.”
“E dai, non prendermi in giro – arrossì Vato con un sorriso: era già stato ampiamente coccolato da sua madre, ma sembrava che anche Elisa volesse la sua parte – gli eroi sono il padre di Kain e quello di Jean, e anche il mio. Ma io direi proprio di no: ero con tutti gli altri a spostare decine e decine di sacchi. Credo che domani non riuscirò a sollevare nemmeno una penna.”
“Oh, suvvia, non essere così severo con te stesso – mormorò lei, invitandolo a sedersi in una coperta – fai vedere quelle mani, sono un disastro, senza contare che avevi anche la bruciatura del giorno prima.”
“Non è niente.” mentì lui, preferendo ignorare il dolore lancinante di quelle ferite.
“Vanno pulite bene: aspetta, vado a prendere dell’acqua pulita e delle garze. A te ci penso io…”
“Eli, non devi – iniziò a chiamarla, ma lei si era già dileguata – non è il caso…”
Guardò in direzione di suo padre che veniva assistito da Rosie con tutte le premure del caso: adesso che erano tutti rientrati, ciascuno pensava ai propri feriti. Vincent intercettò la sua occhiata e gli fece un sorriso, come a dirgli che in quel momento le loro donne avevano il pieno diritto di prendersi cura di loro.
Dopo tutta l’ansia che hanno passato nell’attenderci è anche giusto.
“Allora – disse Elisa, tornando con una bacinella di acqua tiepida e un asciugamano – adesso fai vedere quei palmi e non osare lamentarti: sono molto delicata nel curare le ferite. Quasi quasi da grande faccio l’infermiera.”
“Per me puoi fare quello che vuoi – sorrise lui, ma subito dovette trattenere il fiato per l’intenso bruciore che provò – cavolo… scusa, scusa non sei tu. E’ che fanno un male tremendo.”
“Tu non sei abituato a determinati lavori, Vato, guarda che disastro… oh, amore, quanto sei stato bravo a sacrificarti così.”
“Amore? – arrossì lui – non… non mi avevi mai chiamato così. Uh!” esclamò come si ritrovò la ragazza attaccata al collo. Si irrigidì nel pensare che tutti li potevano vedere, ma dopo qualche secondo si accorse che non gli importava.
La sua fidanzata si stava prendendo cura di lui anche così.
 
“Riza… Riza, dai, rispondimi – mormorò Roy, scuotendo leggermente l’amica – come va?”
La ragazza alzò lo sguardo su di lui con tremenda apatia: era distrutta e non capiva se sentiva più freddo o dolore alle mani e a tutto il corpo in generale. Ricordava solo che quell’infinito trasporto di sacchi di sabbia era stata la cosa peggiore che avesse mai fatto in vita sua. Non si era nemmeno resa conto di quando l’emergenza era finita: era stato Jean a levarle a forza le mani dall’ultimo sacco che stavano trascinando, altrimenti lei avrebbe continuato fino allo svenimento.
Poi qualcuno, forse Roy o forse lo stesso Jean, l’aveva sostenuta per un braccio, incitandola verso il capannone. Qui l’avevano fatta sedere e l’avevano avvolta in una coperta.
E’ finita?
“Dai, brava, guardami. Coraggio è tutto finito – sorrise il ragazzo – la piena è passata ed il paese è salvo. Ma tu sei stata una stupida: dovevi venire qui da subito, come ti avevo detto.”
“Sono stata utile?” riuscì a mormorare.
“Ma certo: Jean mi ha detto che l’hai aiutato a trasportare tantissimi sacchi. Però adesso devi pensare alle tue mani e a te stessa. Aspettami, vado a prendere qualcosa di caldo: sei venuta ad aiutarci vestita così, senza nemmeno l’impermeabile…”
Non riuscì a dire niente mentre Roy si allontanava, ma quelle parole le avevano dato un minimo di conforto: non era come suo padre, lei non…
“Chi è questa ragazzina?” chiese una voce vicino a lei e d’istinto alzò debolmente lo sguardo.
Non conosceva quelle donne, non le aveva mai viste in vita sua… che volevano?
“Non c’è la sua famiglia?”
“Ah, aspettate – fece una di loro – è la figlia di Hawkeye, quello strambo.”
“Lui? Beh, ha un bel coraggio a stare qui con noi… suo padre non ha contribuito per niente a dare una mano al paese in quest’emergenza.”
A quelle parole Riza sentì il suo cuore smettere di battere: voleva dire qualcosa, supplicare quelle donne di guardarla bene e capire che anche lei aveva aiutato.
Non sono come lui… per favore… per favore…
Ma tutto quello che riusciva a fare era guardarle con stanca incredulità.
“Sentito, ragazzina? Perché non la smetti di fare la finta tonta e non torni a casa? Qui ci sono le persone che hanno aiutato il…”
“Andatevene al diavolo, stupide!” esclamò una voce e una sagoma gocciolante si frappose tra lei e le donne. Non era Roy, no…
“Jean…” sussurrò.
“Ehi, che hai da dire, giovanotto?”
“Il fatto che il paese sia salvo lo dovete anche a lei – sibilò Jean, il volto indurito dalla rabbia e dal disgusto – non lo vedete che è fradicia e piena di sporco? E lo sapete perché? Era tutto il tempo a spostare quei maledetti sacchi di sabbia assieme a noi altri!”
Si girò e prese Riza per il braccio, costringendola ad alzarsi.
“Guardate le sue mani, avanti! Stanno sanguinando per tutto il lavoro che ha fatto! Ma si è sempre bravi a giudicare le persone vero? – adesso si sentiva davvero furioso, ricordando anche quello che aveva passato Heymans con sua madre per colpa della mentalità chiusa di quella gente – Ipocriti, ecco cosa siete!”
“Ti rendi conto che suo padre…”
Lei non è suo padre!” e questa volta fu la voce di Roy a parlare.
Riza trovò la forza di alzare lo sguardo su di lui, mentre un violento tremore la percorreva: attraverso la vista annebbiata capì che era furioso, lo sguardo pronto ad uccidere.
“Non provate mai più a darle fastidio, capito?”
“E' il ragazzo che vive in quel posto: non mi sarei aspettata altro da lui…”
“Brutte st…”
“Basta così – disse una voce calma e Andrew si portò stancamente vicino a quel gruppo di persone – non mi pare il caso di continuare con queste idiozie. Roy, Jean, lasciate stare: siete sfiniti dopo tutto il lavoro che avete fatto… andate a mettervi una coperta sulle spalle e a riposare.”
Nel sentire la voce di quell’uomo così gentile, Riza non riuscì più a trattenere le lacrime che scesero silenziose: era troppo esausta anche per singhiozzare.
“Vieni, piccola Riza, – mormorò Andrew, prendendola in braccio – hai bisogno di stare tranquilla.”
“Mi dispiace… mi dispiace… ho fatto tutto quello che potevo…” riuscì a sussurrare, cercando disperatamente di spiegare tutta l’angoscia che provava.
“Sssh, va tutto bene: adesso hai solo bisogno di stare al caldo e riposare. Chiudi gli occhi, mia coraggiosa bimba, adesso è tutto finito.”
“Tu non sei come lui, Riza – disse la voce di Roy, prima che l’oblio la circondasse – nemmeno un po’.”
 
Dopo quell’istante a Riza sembrò che il tempo scorresse in modo davvero strano: a volte sembrava velocissimo, altre un secondo durava un’eternità. Eppure in tutto questo non riusciva a riaprire gli occhi: solo ogni tanto sentiva delle voci vicino a lei che dicevano frasi senza senso che le rimbombavano nella mente.
“E’ crollata, povera piccola…”
“Riza! No, Riza! Ma che ha?”
“Portiamola immediatamente a casa di mio padre…”
“…polmonite…”
“Va tutto bene, bambina mia, sta tranquilla…”
Quell’ultima frase continuava ad essere ripetuta più volte e questo la convinse che sua madre era tornata: stava male, questo era chiaro, e dunque la sua mamma si stava prendendo cura di lei.
“Riza, da brava, apri gli occhi…”
La ragazzina obbedì, sentendo che un panno piacevolmente fresco le veniva passato sulla fronte accaldata.
“Mamma…” chiamò debolmente, non riuscendo ad identificare quel soffitto, quel letto.
“Cara, sono io… Ellie.”
“Oh – mormorò lei, mettendo a fuoco la figura della donna che, con gentilezza le puliva il viso con un panno umido – e dov’è la mamma?”
“Piccola, hai ancora la febbre alta. Non ricordi? Sei svenuta dopo tutto lo sforzo che hai fatto.”
Sforzo? Che sforzo?
“Riza? – la chiamò una voce, accanto a lei e girandosi vide Kain – Non ti ricordi la piena del fiume? Hai lavorato tanto con Jean e gli altri e poi ti sei sentita male…”
Quelle parole la fecero piombare la realtà addosso: ecco perché si sentiva così debole. Aveva ammazzato il suo corpo sotto quella pioggia, trasportando quei sacchi. Si accorse di avere le mani bendate e anche i suoi piedi erano avvolti in qualcosa.
“Dove sono?” mormorò.
“Sei a casa dei miei nonni: ti abbiamo portato qui perché dovevi essere visitata dal dottore – spiegò il bambino – sei rimasta più di un giorno senza svegliarti, sai ho avuto paura e…”
“Sssh, Kain – lo bloccò Ellie con gentilezza – è stanca, da bravo.”
“Come andiamo? – chiese Andrew, entrando – Ehi, piccola Riza, ci siamo svegliate finalmente…”
“Lo so che è difficile, tesoro – fece la donna, aiutandola a mettersi seduta sul letto – ma devi assolutamente mettere qualcosa nello stomaco. Vediamo di farti bere un po’ di brodo caldo.”
Per la ragazzina era completamente nuovo essere accudita così amorevolmente da due adulti. In occasioni normali avrebbe protestato per tanta premura, ma era così debole da aver disperato bisogno di quel sostegno, di quelle parole gentili, di quelle carezze sui capelli umidi.
Non era il momento di opporsi.
 
Per quattro giorni rimase confinata in quella stanza da letto con l’unica compagnia di Ellie e Kain. Il signor Fury veniva a trovarla mattina e sera, ma per il resto era completamente assorbito dal lavoro.
Quando la febbre finalmente iniziò a scemare, fu in grado di ricostruire tutti i pezzi mancanti della vicenda, anche grazie al racconto di Kain. Era svenuta tra le braccia di Andrew e nell’arco di poche ore le era salita una forte febbre: l’avevano immediatamente portata a casa dei nonni paterni di Kain, dove il dottore aveva diagnosticato una polmonite, e per un giorno intero non aveva ripreso conoscenza.
Nel frattempo la situazione in paese si era leggermente stabilizzata: passato il pericolo della piena, la maggior parte delle famiglie era tornata alle proprie case, il capannone ormai svuotato, e ora tutti si stavano adoperando per i danni che inevitabilmente si erano avuti nell’altra sponda del fiume.
Insomma tutto il paese era ancora mobilitato, ma almeno la pioggia aveva smesso di scendere ed un primo timido sole faceva la sua comparsa tra le nuvole da almeno due giorni.
“Comunque io mamma e papà restiamo qui dai nonni ancora per una settimana – disse Kain, saltando abilmente sopra il letto e sistemandosi accanto a lei – papà sta sovrintendendo ai lavori assieme al padre di Vato e anche quello di Jean. Sai, bisogna levare tutta l’acqua dai campi, dr…drenare il fiume, mi pare che si dica così, fare l’elenco dei danni. Insomma tante cose: papà ogni sera torna a casa sfinito.”
“Mi dispiace – sospirò Riza – siete già così pieni di impegni e vi state prendendo cura di me…”
“Oh, ma che dici? – sorrise il bambino, abbracciandola – Noi ti vogliamo bene, Riza, non ti potremmo mai lasciare da sola. Ah, e non ti devi preoccupare per Hayate: Roy va tutti i giorni a controllare che stia bene e gli dà la pappa.”
“E mio padre?” chiese lei con voce piatta.
“Non lo so – ammise Kain – ma sicuramente per lui non ci sono problemi che tu stia qui: del resto non era prudente che ti muovessi se stavi così male. Ma so che il mio papà è andato a parlare con lui per dirle che eri con noi e… uh, ho detto qualcosa che non va?”
Alla rivelazione che c’era stato quell’incontro a Riza venne un groppo al cuore. E se suo padre aveva trattato in malo modo anche quella persona meravigliosa?
Fu quasi con terrore che quella sera attese il ritorno di Andrew.
“Ehi, giovanotto – sorrise l’uomo, quando Kain saltò come sempre giù dal letto per correre ad abbracciarlo – perché non scendi un attimo giù in salotto? Mamma ti deve far vedere una cosa.”
Come il bambino trotterellò fuori dalla porta, Andrew andò accanto al letto di Riza e le tastò la fronte.
“Mi sembra che la febbre ormai sia del tutto scesa, signorina. Direi che domani possiamo anche pensare di lasciare questo letto e stare qualche ora in salone, che ne pensi?”
“Spero di non aver disturbato troppo, signore – sospirò lei  – i suoi genitori sono così gentili a tenermi qui, ma forse è il caso che torni a casa mia.”
“Non se ne parla nemmeno – scosse il capo lui ­– sei ancora molto debole: il dottore ha detto che almeno per altri quattro giorni è fuori discussione che tu metta naso fuori. E non pensare nemmeno di essere un disturbo, capito? Dopo tutto quello che hai fatto è il minimo prenderci cura di te.”
Riza avrebbe voluto lanciarsi contro quell’uomo e abbracciarlo: quelle parole erano così calde e gentili che le laceravano il cuore. Guardandolo si capiva bene che era esausto dall’ennesima giornata di lavoro ininterrotto, eppure trovava il tempo di pensare anche a lei.
“Ho… ho saputo che è andato da mio padre.” mormorò.
“Sì. Mi sono premurato di informarlo di quanto era successo e gli ho subito detto che avremmo pensato io ed Ellie a te.”
“Mi… mi dispiace – arrossì lei – posso immaginare che non le abbia fatto una bella impressione. Lui non… io, mi scuso profondamente se l’ha trattata male.”
Andrew sospirò: a quanto sembrava era suo destino incontrare dei ragazzi che non avevano un bel rapporto con il proprio padre. Prima Heymans, e solo il cielo sapeva come sarebbe andata a finire quella storia alla luce degli ultimi eventi, e adesso Riza. Sapeva che Berthold Hawkeye non era una persona come tutte le altre, ma non si era mai aspettato un tipo del genere… una domanda sulle condizioni della bambina? No, era stato lui a continuare a parlare dicendogli dove l’avevano portata, quanto aveva detto il medico…
“Posso sapere dov’è la camera di Riza? Così le prendo almeno il pigiama e qualche cambio…”
Era stata quella l’unica domanda a cui aveva risposto. Per il resto era come se della figlia gli importasse veramente poco o niente: per un istante gli era sembrato di riconoscersi in quella concentrazione sullo studio, ma poi aveva scosso il capo. No, se qualcuno gli avesse detto che Kain stava male avrebbe mollato anche il libro più interessante per correre da lui… quella di Berthold Hawkeye era una bruciante ossessione che in qualche modo aveva scottato anche Riza.
Adesso capiva le parole di Roy: no, quella bambina non aveva niente del padre.
“Lascia stare, l’importante è che tu sia qui e ti stia riprendendo – si costrinse a sorridere, accarezzandole i capelli – Piuttosto, ti senti abbastanza in forma per delle visite?”
“Visite? – sgranò gli occhi lei – Per me?”
“Volevano venire già dal primo giorno, ma era meglio che riposassi – ridacchiò, andando verso la porta – ma sappi che ogni mattina, appena mi vedevano, ancora prima di salutarmi chiedevano di te. Allora, truppa, volete entrare?”
A Riza vennero le lacrime agli occhi come vide i suoi amici entrare nella stanza ed accostarsi al letto.
Roy, Jean, Vato, Heymans, Kain… c’erano proprio tutti.
“Finalmente, ragazzina – sorrise Jean – ci hai fatto stare in pensiero.”
“Meno male che ti sei ripresa.”
“Ne siamo davvero felici. Anche Elisa ti manda i tuoi saluti: verrà a trovarti presto, mi ha detto di riferirtelo.”
“Ehi, colombina – sorrise Roy, accarezzandole la guancia con una mano fasciata – che spavento quando ti ho visto chiudere gli occhi in quel modo.”
“Roy – mormorò lei, arrossendo e ricordando la difesa spietata che lui e Jean avevano fatto – grazie… grazie per avermi difesa. E anche a te Jean, siete stati così buoni con me…”
“Oh, smettila – disse il biondo con serietà – sono solo delle stupide galline starnazzanti che non hanno meglio da fare. Non ti conoscono nemmeno… non sanno niente di te. Non fare caso a loro.”
“No, hanno avuto ragione su mio padre – sospirò lei, abbassando gli occhi sulle coperte – mi dispiace… lui proprio non ha voluto fare niente, mentre molti altri si sono messi in prima fila per salvare il paese…”
“Ma tu non sei tuo padre! – esclamò Roy – Quante volte te lo dovrò ripetere? Tu sei venuta ad aiutarci perché per te era importante… tu sei speciale, Riza, ancora non lo capisci? Tuo padre non è parte del paese, magari, ma tu sì… tu sei parte di noi.”
“Riza – la chiamò Heymans – noi non siamo i nostri genitori, fidati.”
Lo disse con sincera convinzione e fu proprio quel tono a spingere la ragazza ad incontrare lo sguardo di quegli occhi grigi.
“Noi abbiamo le stesse mani.” sorrise il rosso, mostrando le proprie, fasciate per le ferite e le vesciche provocate da quel massacrante lavoro.
A quel segnale anche Jean, Vato e Roy porsero le proprie, nelle medesime condizioni: mani che forse avevano lavorato altre volte, o forse no, ma non si erano risparmiate per aiutare. E ora ne portavano i segni con orgoglio, come un riconoscimento tra di loro.
Riza allungò le proprie: adesso non le facevano più così male, anche se avrebbe dovuto tenere quelle bende ancora per qualche giorno.
“Mh, però io ero troppo piccolo per lavorare con voi…”
“Tranquillo, nano – lo prese in giro Jean – dopo tutto quello che ha fatto tuo padre, direi che sei a pieno diritto nel gruppo. Che? Oh no, dai Riza adesso non piangere… non… dannazione!”
La ragazza venne immediatamente abbracciata da Kain e da Roy che la strinsero in un cerchio protettivo. Ma anche gli altri si accostarono e provvidero a confortarla, arruffandole con gentilezza i capelli, mormorandole di quanto fosse importante per loro.
“E poi sei un’eroina anche tu, lo sapevi?” le chiese Vato
“Ma che dici? – riuscì a ridere lei, asciugandosi le lacrime dopo quel momento di commozione – sono tuo padre e gli altri gli eroi.”
“Davvero?” sorrise il ragazzo, girandosi verso la porta.
Come vide Andrew entrare insieme al padre di Vato, Riza arrossì e si accorse per la prima volta di essere in pigiama davanti a tutte quelle persone.
“Buongiorno Riza – la salutò il capitano con un sorriso – sono felice di sapere che sei in piena ripresa.”
“La ringrazio, signore.”
“Mi hanno detto che sei abbastanza timida e dunque era meglio non fare cerimonie pubbliche, ma ci tenevo a darti questo.” e le consegnò un plico, stretto da un nastro rosso.
“Per me?” si sorprese lei, prendendolo con mano tremante.
“Dai, perché non lo apri? – chiese Kain con curiosità – Vediamo che cosa c’è scritto.”
“E’ solo un piccolo riconoscimento – spiegò Vincent, mentre la ragazzina svolgeva il foglio e leggeva con occhi increduli quelle parole scritte in bella calligrafia, come per i documenti importanti – alla più giovane eroina del nostro paese. Quello che hai fatto è stato un bellissimo gesto e volevo che tu lo sapessi: sono orgoglioso di te…”
“Ma anche tutti loro hanno fatto quanto me… anzi, decisamente più di me. Andrebbe a loro un simile riconoscimento.” protestò Riza, asciugandosi le nuove lacrime.
“Bambina mia – sorrise Andrew, toccandosi leggermente il grosso cerotto che portava ancora sulla parte destra della fronte, proprio all’attaccatura dei capelli – quello che hai fatto tu è stato davvero speciale per tutti loro e anche per me. E non importa se hai portato meno sacchi di Jean o di Roy, o sei crollata svenuta: hai dimostrato di essere una persona meravigliosa pronta a sacrificarsi per le persone a cui vuole bene.”
“E se qualcuno dice cose brutte su di te, non dargli retta – aggiunse Heymans – conta quello che diciamo noi, perché siamo noi quelli che ti conosciamo meglio.”
“Anche più di tuo padre.” dichiarò Roy con decisione.
“Riza – sorrise Kain, abbracciandola di nuovo – per me sei una sorella e sono fierissimo di te, sul serio. Tu sei speciale.”
“Grazie… grazie – sussurrò lei, rispondendo a quell’abbraccio – non… non ne dubiterò mai più.”
Non l’avrebbe mai più fatto, come avrebbe potuto dopo tutto quello che era successo?
Forse quelle voci avrebbero sempre continuato ad esserci su di lei, ma adesso non le avrebbero fatto più male perché sapeva che i suoi eroi l’avrebbero sempre protetta.
Perché loro avevano le stesse mani.





il bellissimo disegno è di Mary_
^_^
  
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