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Autore: _Pulse_    04/03/2014    2 recensioni
«Come hai fatto ad entrare? Ho fatto mettere il chiavistello alla porta».
«Avevo dato per scontato che fosse per la tua sicurezza personale, ora che Moriarty sembra essere tornato sul campo di battaglia. Sono lusingato».
I suoi occhi di ghiaccio brillarono come diamanti nella camera da letto buia, rischiarata soltanto da un fascio di luce lunare, e Molly strinse i pugni lungo i fianchi, cercando di mantenere la calma.
«Sono entrato dalla finestra», spiegò, nonostante fosse l'unica soluzione possibile, a quel punto, e Molly avrebbe potuto – e dovuto – arrivarci da sola.
«Perché sei qui?», gli chiese dopo vari secondi di silenzio, fissandosi direttamente i piedi piuttosto che lasciarsi cogliere in flagrante mentre si sorprendeva del candore della sua pelle, dei muscoli definiti e dei piccoli nei che formavano una specie di costellazione sulla sua schiena longilinea.
«Perché tu invece ti ostini a rimanere qui, a farmi domande di cui conosci già la risposta?».
«Non te l'ho mai chiesto prima».
«Non vuol dire che tu non conosca già la risposta».
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Buongiorno e chiedo umilmente perdono per il ritardo! 
Tra il lavoro, gli Oscar (deduco che la maggior parte delle persone qui li abbiano guardati per una sola ragione xD) e quel minimo di vita sociale che tento di preservare, non ho avuto un minuto libero per postare u_u 
Spero che questo sesto e - ahimè - penultimo capitolo sia in grado di farmi perdonare! 
Un grazie enorme a chi ha commentato la volta scorsa e chi ha letto soltanto :)
Buona lettura, un bacio!
Vostra,

_Pulse_

 

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6.      Night #14

 

L’ultima settimana era stata la più movimentata che avesse vissuto da due anni a quella parte.
Sette giorni di telefonate, accordi, novità e tanti, tantissimi dubbi, ma alla fine tutto era stato organizzato e ogni decisione era stata presa in maniera irrevocabile. Ciononostante, non si sentiva tranquilla; al contrario, aveva la sensazione di camminare sopra un ponte instabile, sempre sul punto di crollare.
Era sempre stata una ragazza abitudinaria, a cui non piacevano troppo i cambiamenti improvvisi, perciò se doveva essere completamente sincera con se stessa era proprio terrorizzata.

Domani a quella stessa ora – non proprio in realtà, dimenticava sempre le sette ore di fuso orario – sarebbe già stata nel suo nuovo appartamento, in una città sconosciuta e con un nuovo lavoro. Niente amici, solo un paio degli uomini di Mycroft che lavoravano a tempo pieno per lui negli USA, il cui unico scopo sarebbe stato quello di garantire la sua sicurezza.
Il tempo di una dormita e poi, sull’aereo che in poco più di otto ore l’avrebbe portata a Washington D.C., la sua vita non sarebbe più stata la stessa.

«Sei migliorata moltissimo, Molly».

L’anatomopatologa sollevò di scatto la testa e scoprì che Sherlock non era più appollaiato sul divano, a criticare a bassa voce una delle tante serie TV di cui lei era dipendente, bensì al suo fianco, intento ad esaminare le camicie che stava stirando. Le sue camicie.

«L’avevo detto che era solo una questione di pratica», aggiunse, rivolgendole un sorriso.

Molly posò il ferro da stiro e si passò una mano sulla fronte.

Aveva trascorso gli ultimi giorni ad impacchettare tutto ciò che avrebbe portato in America – ne erano la prova gli scatoloni in giro per l’appartamento – e come se non bastasse, proprio la sera prima della partenza, Sherlock le aveva dato una decina di camicie da stirare. Avrebbe potuto rifiutare, certo, ma non se la sentiva proprio di litigare con lui: quelle erano le ultime ore che passavano insieme e chissà quando avrebbe potuto rivederlo o anche solo sentire la sua voce.

«Sei stanca?», le chiese quasi amorevolmente, prendendola in contropiede.

Molly accennò un sorriso e rispose con sincerità: «Un po’. Mi prenderesti un bicchiere d’acqua, se non ti…?».

«Ho in mente di meglio», esclamò, interrompendola. La prese per le spalle e la spinse verso il corridoio. «Cambiati, andiamo a cena fuori».

«Cosa?», squittì, incredula. «Potresti essere un po’ più chiaro?».

«Io, te, a cena fuori, da Angelo. È abbastanza chiaro?».

«No. Ma non ce n’è bisogno, posso benissimo cucinare qualc–».

«Vai a cambiarti, sbrigati. Mettiti il vestito che hai indossato quando sei uscita con quel pediatra… Nicholas? Era molto bello».

Molly strabuzzò gli occhi e per la sua stessa sanità mentale si convinse che non fare domande era la decisione migliore.

Quando si fu chiusa in camera da letto, Sherlock estrasse il cellulare dalla tasca interna della giacca ed inviò un breve sms a John.

 

***

 

«Mi prendi in giro?», chiese Molly, afferrando distrattamente la mano che Sherlock le aveva offerto per aiutarla a scendere dal taxi.

L’auto si allontanò e lei rimase ferma di fronte all’insegna spenta e alle serrande abbassate del ristorante di Angelo, la mano ancora al caldo in quella del detective.

«Di qua», disse quest’ultimo, trascinandola con sé fino all’angolo della strada.

«Sherlock, mi spieghi che cosa sta succedendo? E rallenta, non riesco a starti dietro con questi tacchi!».

«Perché li hai messi, allora?».

«Perché me l’hai chiesto tu!».

Le gettò un’occhiata sospettosa, come se davvero non lo ricordasse. «L’ho fatto?».

Molly sospirò, arrendendosi al fatto che non le avrebbe spiegato nulla, ed accennò una corsetta, sperando di non cadere faccia a terra sul cemento, fino a portarsi al suo fianco.

Si lasciò guidare in un vicolo stretto e buio e a quel punto si chiese se non avesse voluto coinvolgerla in uno dei suoi casi; se per quell’occasione, anziché di John, avesse avuto bisogno di un’assistente donna e vestita in quel modo. Stava per fargli una bella ramanzina – poteva almeno avvisarla! – quando si rese conto che l’aveva portata di fronte all’uscita sul retro del ristorante di Angelo.

«È chiuso, Sherlock. Cos’hai intenzione di fare, vuoi cucinare tu?».

«Ti ho già detto che io non cucino».

«Dovrei cucinare io, allora?», sbottò, indecisa se scoppiare a ridere oppure portarsi le mani nei capelli.

Sherlock le mostrò un sorriso fin troppo largo ed abbassò la maniglia della porta, trovandola inspiegabilmente aperta. Le indicò di entrare per prima e una volta dietro di lei accese le luci della cucina.

«Andiamo», le disse, porgendole di nuovo la mano.

Molly lo fissò intensamente negli occhi, cercando di capire che cosa avesse in mente, e Sherlock, rendendosene conto, roteò gli occhi irritato.
Amava le deduzioni, ma non quando le persone si soffermavano a farle su di lui.

«So di non essere esattamente la prima persona a cui una madre affiderebbe i propri figli, ma…».

Sherlock si interruppe bruscamente quando Molly infilò la mano nella sua, simile ad un petalo delicato e freddo. Quindi le regalò un piccolo sorriso e la guidò all’interno del locale, anch’esso immerso nel buio. Quella volta non fu lui ad accendere le luci, bensì qualcuno al suo fianco.

Non ci fu il solito coro ad urlare «Sorpresa!», ma tutte le persone a lei più care che le sorridevano e avevano già gli occhi lucidi. Non era una festa in cui l’allegria avrebbe fatto da padrona e ne erano tutti consapevoli, ma ce l’avrebbero messa tutta per rendere quella separazione più facile, per rendere quell’addio un semplice arrivederci.

L’anatomopatologa alzò il viso verso quello di Sherlock, ancora al suo fianco, e lo ringraziò con gli occhi, già colmi di lacrime. Il detective la invitò a gettarsi tra le braccia di John, di Mary, della signora Hudson, di Lestrade e di un paio di sue colleghe che poteva considerare le uniche vere amiche che le erano rimaste dopo la rottura con Tom.
Molly non avrebbe voluto lasciargli la mano ed infatti fu lui, rendendosene conto, a lasciarla andare per primo, stringendo le labbra e sforzandosi di sorriderle.

«È dura, eh?», gli disse Angelo, con quel suo inglese dal forte accento straniero. «Farà male, ma col tempo passerà».

Sherlock non le tolse mai lo sguardo di dosso, mentre dispensava baci e abbracci e ringraziava tutti i presenti. Pensò al Bart’s senza Molly e realizzò che non avrebbe mai smesso di fare male.

 

***

 

Nessuno aveva fatto domande sul perché da un giorno all’altro avesse deciso di trasferirsi a Washington D.C., ma Molly era convinta che solo la signora Hudson e le sue due colleghe ne fossero del tutto all’oscuro. Di sicuro Greg e John, e quindi per forza di cose sua moglie Mary, dovevano aver almeno intuito che la causa era l’incredibile ritorno di Jim Moriarty, che quella era una decisione che non aveva preso di sua iniziativa e che quel lavoro al Quartier Generale dell’FBI non le era stato assegnato solamente per la sua competenza e serietà.
Tutti però le avevano fatto gli auguri più sinceri, assicurandole che la città le sarebbe piaciuta e che si sarebbe ambientata in fretta. Molly non ne era altrettanto sicura, ma aveva apprezzato.
L’unico che non aveva aperto bocca era stato proprio Sherlock, il quale si era subito seduto in un angolo e non si era più mosso. Non c’era bisogno che le dicesse qualcosa perché in realtà non c’era nulla da dire ed entrambi preferivano il silenzio alle false speranze.

Era seduta con Mary e John, quando proprio quest’ultimo si alzò per raggiungere il detective. La signora Watson aspettò che fosse lontano, poi allungò le braccia sul tavolo e le prese le mani, sorridendole dolcemente.

«Non puoi nemmeno immaginare quanto ti capisca, tesoro».

Molly ricambiò il sorriso, abbassando gli occhi. «Non ho mai avuto così tanta paura in vita mia».

«Lo so, lo so. Ma quando le cose si sistemeranno, spero il prima possibile, potrai tornare qui e tutto sarà come prima».

«Non è solo questo, Mary». Si morse le labbra e con la coda dell’occhio scorse Sherlock e John parlare a bassa voce in fondo al locale.

«Cercheremo di stargli ancora più vicino, te lo prometto».

Quelle parole furono come balsamo sulla sua anima e riuscì a rilassare un po’ le spalle, mentre gli occhi le si inumidivano di nuovo.

«Non sarà facile», aggiunse Mary sorridendo e portandosi una mano sul pancione. «Ma io e John ce la metteremo tutta. Gli mancherai davvero moltissimo».

«E se non partissi? Se domani non salissi su quell’aereo, che cosa succederebbe?».

La signora Watson scosse lievemente il capo, gli occhi tristi. «Vuoi davvero sapere che cosa penso?».

Molly bevve tutto d’un fiato il cocktail che si girava nervosamente tra le mani, annuendo con un cenno del capo.

«Sherlock non riuscirà mai ad affrontarlo: sapendoti così alla sua portata, non riuscirebbe a concentrarsi totalmente. Con te in America, invece, il suo unico scopo sarebbe la sua cattura e ci metterebbe tutto se stesso, solo per averti di nuovo al suo fianco il prima possibile».

Era una teoria fin troppo romantica, una che avrebbe potuto benissimo essere stata presa dai suoi lontani sogni, quelli che aveva da tempo rinnegato e che ora stavano tornando a galla.

Si ritrovò a ridacchiare e Mary corrugò la fronte, chiedendole se avesse detto qualcosa di divertente.

«No, scusami. Stavo solo pensando alla povera anima di chi gli stirerà le camicie in mia assenza. Lo sai che mi ci sono voluti giorni, prima di capire come volesse la piega sulle maniche?».

Mary la fissò incredula fino a quando insieme non scoppiarono a ridere.

 

***

 

«Quanto manca prima che tu te ne vada nel bel mezzo della festa?», domandò John, sedendosi di fronte all’amico detective con un bicchiere tra le mani.

«Non è una festa», replicò Sherlock, unendo le punte delle dita e portandosele di fronte alla bocca.

«Okay, non lo è, ma sarebbe carino se tu parlassi con qualcuno».

«E cosa dovrei dire?».

Il dottor Watson si strinse nelle spalle, guardando il soffitto.

«Appunto», mormorò il consulente investigativo, gettando l’ennesima occhiata verso Molly, seduta di fronte a Mary.

«Potresti raccontarmi che cos’è successo esattamente in questi giorni. È stata un’idea di Mycroft, non è così? Molly è in pericolo?».

Sherlock annuì. «Qualcuno le ha lasciato un messaggio sul suo blog, la stessa frase pronunciata da Moriarty in quel filmato. Mycroft ha ritenuto opportuno che Molly si allontanasse per un po’».

«E tu l’hai lasciato fare?», gli chiese, inarcando le sopracciglia.

«Perché ti stupisci? È la soluzione migliore: a Washington avrà un lavoro migliore di quello che ha adesso, un salario più alto, un appartamento più bello, e sarà tenuta sotto stretta sorveglianza».

«Ma non avrà accanto le persone che ama».

Sherlock strinse i denti e socchiuse gli occhi, sibilando: «Bisogna fare dei sacrifici, John. E non sarà per sempre».

«Voglio sperarlo», esclamò, con un sorriso storto sulla bocca. «Sarai intrattabile».

«Come al solito», mormorò sbuffando.

«No, più del solito.  È davvero la soluzione migliore, Sherlock? Per te, intendo».

«Come ho già detto, bisogna fare dei sacrifici».

John sorrise, quella volta teneramente, e si allungò per dargli una pacca sulla spalla.

«Che cos’era quella?», chiese Sherlock, confuso.

«Una pacca di sostegno».

«Sostegno?».

«Se hai qualcosa da dirle, credo che dovresti farlo. Città nuova, lavoro nuovo, gente nuova… Potrebbe anche decidere di non tornare, sai?».

«L’ho messo in conto».

«Quand’è che non lo fai?», domandò John retoricamente, sospirando.

Finì il suo drink e si alzò proprio mentre al loro tavolo Molly e Mary scoppiavano a ridere. John si voltò e sorprese uno Sherlock contagiato, con una risata intrappolata tra le labbra incurvate in un sorriso già malinconico.

 

***

 

Molly si schiarì la voce e chiese un po’ d’attenzione, portandosi al centro della sala per poter avere un contatto visivo con tutti.

«Volevo solo ringraziarvi di cuore per ciò che avete fatto per me questa sera. Avevo immaginato addii piagnucolosi e voi mi avete regalato solo sorrisi. Mi mancherete tantissimo, tutti quanti».

Il suo sguardo si incatenò a quello di Sherlock per un paio di secondi di troppo, ma nessuno lo notò – o fece notare di averlo notato.

«Un grazie speciale ad Angelo. Grazie per la tua disponibilità, sei stato gentilissimo».

«Per gli amici di Sherlock, questo ed altro!», esclamò, stritolando Molly in un abbraccio caloroso e dandole tre baci sulle guance.

Tutti scoppiarono a ridere di fronte allo sbigottimento dell’anatomopatologa e dopo gli ultimi saluti non rimase più nessuno nel locale, eccetto Molly, Sherlock e i coniugi Watson.

«Noi ci avviamo, voi… fate pure con calma», disse John, guardando Sherlock in modo eloquente.

Il detective sgranò gli occhi e lanciò un’occhiata allarmata a Molly, quindi la prese per il braccio e seguì a ruota John e Mary.
«È inutile rimanere qui, veniamo con voi», spiegò, per la delusione di John.

Uscirono da dov’erano entrati e sul piazzale dietro il ristorante trovarono l’ispettore Lestrade, fermo a fumare una sigaretta, illuminato da un lampione dalla luce fioca.

«Credevo fossi andato via», disse John sorpreso, ma non quanto Sherlock.

«Mi sono dimenticato di dire una cosa a Molly. Posso averla per due minuti?».

«In realtà…», iniziò a dire Sherlock, ma il dottor Watson gli strinse il polso e concluse al posto suo: «Certo Greg, vi aspettiamo in strada».

Molly guardò i tre allontanarsi e si avvicinò all’uomo, sorridente nonostante il freddo che le faceva tremare le gambe.
«Ho resistito per tutta la sera, non vorrai farmi piangere proprio adesso».

Greg sorrise e fece l’ultimo tiro alla sigaretta, poi se la gettò alle spalle senza curarsi di spegnerla.

«Volevo augurarti buon viaggio e farti una promessa».

Si avvicinò di un passo e Molly sollevò gli occhi nei suoi, sentendosi un po’ a disagio: non erano mai stati così vicini e i suoi occhi erano così seri, così tristi…

«Fosse anche l’ultima cosa che faccio, prenderò Moriarty – se è ancora vivo – o chiunque altro abbia agito per lui. Chiunque ti stia costringendo ad andare via».

Sollevò una mano e le accarezzò i capelli che le sfioravano una guancia, quindi timidamente si avvicinò al suo viso con l’intento di baciarla. Molly arretrò di un passo, allontanando la sua mano stringendola tra le proprie congelate.

«Mi dispiace, Greg. Non posso», mormorò e non riuscì ad impedire ad una lacrima di scivolarle sulla guancia.

L’ispettore di Scotland Yard stirò un sorriso che trasudava tristezza e gliel’asciugò con il pollice. «Perdonami, Molly».

«Lo sai che non c’è nulla da perdonare».

«Già… Infondo nessuno più competere con Sherlock Holmes».

Molly chiuse gli occhi e sospirò, poi allungò le braccia perché Lestrade l’abbracciasse.
«Abbi cura di te, Greg», sussurrò.

«Anche tu. E sappi che la mia promessa rimane valida».

«Grazie. Grazie davvero».

Si separarono e Molly gli sorrise prima di voltarsi ed incamminarsi nel vicolo buio, verso la strada affollata.

Vide Sherlock, John e Mary accanto all’auto di questi ultimi e li raggiunse, sforzandosi perché non notassero il suo dispiacere.
Non era mai stata brava a mentire e il detective era l’ultima persona che si potesse fregare, ma con l’aiuto di Mary, la quale aveva subito colto qualcosa nei suoi occhi sfuggenti, riuscì a non dover dare spiegazioni.

«Vieni qui tesoro, fatti abbracciare», le disse, avvolgendole le braccia intorno alle spalle e baciandola su una guancia. «Dovrai fare il possibile per essere qui quando nascerà la piccola Watson, intese?».

Molly sorrise ed annuì. «Assolutamente».

Successivamente fu il turno di John, nonostante si fossero salutati ormai una decina di volte.

«Vi diamo un passaggio, non c’è problema», propose, pescando le chiavi dell’auto dalla tasca del cappotto.

«No, prendiamo un taxi», rifiutò Sherlock, con un sorriso piatto sulle labbra. John non osò contraddirlo e Mary imitò il marito, salendo in auto.

«Chi ti accompagna in aeroporto, domani mattina?», si informò il dottor Watson, ormai già dentro l’abitacolo per metà.

«Mycroft manderà un’auto con la sua assistente personale», rispose Molly.

«Okay, allora ci vediamo direttamente in aeroporto».

«Non è necessario John, davvero…».

Il dottore scosse il capo, determinato a non voler sentire altro. «Buonanotte, a domani!».

Molly e Sherlock guardarono l’auto dei Watson allontanarsi e poi il detective si sporse oltre il marciapiede per fermare un taxi. Cinque minuti dopo erano già in viaggio verso casa, seduti vicini ma consapevoli di essere lontani come non lo erano mai stati in quelle due settimane.

L’anatomopatologa si sentiva vagamente in colpa per ciò che era quasi successo con Greg e per spezzare quel silenzio imbarazzante disse: «Angelo ha tenuto il ristorante chiuso questa sera, solo per me. Quando smetterà di sentirsi in debito con te?».

Sherlock la guardò con la coda dell’occhio, un angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso. «L’ho scagionato da un’accusa di triplice omicidio ed è italiano, perciò… mai, suppongo».

Le strappò una lieve risata che la fece sentire meglio, ma non si dissero altro per l’intera durata del viaggio.

Una volta di fronte al condominio di Molly, Sherlock scambiò qualche parola con il tassista, probabilmente per dirgli di tenere il resto, poi la seguì all’interno, fino alla porta dell’appartamento.

«Non entri?», gli chiese sbigottita e un tantino preoccupata, trovandolo ancora fermo sul pianerottolo.

«Ho chiesto al tassista di aspettarmi».

«Cioè… Non dormi qui, questa notte?».

Sherlock scosse il capo, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto. Molly allora si avvicinò per guardarlo negli occhi da più vicino.

«Torno a Baker Street».

«Okay», mormorò, anche se in realtà avrebbe voluto pregarlo di restare. Non voleva passare da sola l’ultima notte a Londra, non era pronta a dirgli addio.

«Prima di andare, voglio che tu sappia una cosa», disse Sherlock, guardandola dritta negli occhi. «Voglio che tu sappia che non avrei mai permesso a Mycroft di organizzare il tuo trasferimento a Washington se questo non fosse stato realmente necessario. Moriarty ha commesso un errore, pensando che tu non contassi nulla per me. Non lo commetterà di nuovo, anzi… sarai la prima persona che colpirà. E non posso permetterlo».

Molly si strinse le braccia al petto, annuendo. Non riuscì a resistere ed esclamò, per poi interrompersi di colpo: «È solo che…».

«Cosa?».

«Come farai a mantenere il tuo giuramento, a 6000 chilometri di distanza?».

«5904,58*».

Molly non riuscì a trattenere un sorriso, nonostante le lacrime che le avevano riempito gli occhi. Si strofinò il naso con una mano e crollò, lasciando che un singhiozzo le bruciasse la gola.
Sherlock si paralizzò, non sapendo come reagire al suo pianto, ma Molly si ricompose quasi subito, tirando su col naso e spazzando via le lacrime con entrambe le mani. Fu allora che entrambi si accorsero di Toby, il quale si era infilato tra loro e si stava strusciando contro le gambe di Sherlock.

«Alla fine sei riuscito a farti piacere», commentò Molly, l’ombra di un pallido sorriso sul volto.

«Alla fine. Perché non succede mai all’inizio?».

«È successo, molto tempo fa», rispose Molly, anche se forse Sherlock avrebbe voluto che quella domanda rimanesse solo un pensiero inespresso nella sua mente.

Il detective infatti alzò gli occhi, la fronte corrugata. Poi capì ciò a cui si riferiva e sentì il cuore sprofondare, letteralmente. Non sapeva dove, né perché, solo… sprofondò.

Molly si avvicinò lentamente, quasi con cautela, e gli prese il viso tra le mani per accarezzarlo con la delicatezza che si usa con le cose a cui si tiene, quelle inestimabili ed infinitamente fragili. Poi si alzò in punta di piedi e senza mai distogliere lo sguardo dal suo si avvicinò in maniera esitante alle sue labbra, fino a sentire i loro respiri unirsi.
Sherlock la sentì tremare contro di lui e le accarezzò un braccio per rassicurarla, chiuse persino gli occhi, ma quando le loro bocche erano ormai ad un soffio dallo sfiorarsi si allontanò, maledicendosi.

«Buonanotte, Molly Hooper», disse quasi con freddezza e si voltò.

Molly lo ascoltò scendere le scale velocemente e quando non lo sentì più chiuse la porta di casa per appoggiarvisi contro con la schiena. Si morse le labbra e serrò forte gli occhi, poi respirò profondamente e andò a preparare le ultime valigie.

.

.

*Numero di chilometri che separano Londra e Washington. Ho usato diversi siti di calcolo e questo è il numero che è uscito più volte, ma non ne assicuro l'esattezza.

   
 
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