Tra il lavoro, gli Oscar (deduco che la maggior parte delle persone qui
li abbiano guardati per una sola ragione xD) e quel minimo di vita
sociale che tento di preservare, non ho avuto un minuto libero per
postare u_u
Spero che questo sesto e - ahimè - penultimo capitolo sia in
grado di farmi perdonare!
Un grazie enorme a chi ha commentato la volta scorsa e chi ha letto
soltanto :)
Buona lettura, un bacio!
Vostra,
_Pulse_
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6.
Night
#14
L’ultima
settimana era stata la più movimentata che avesse vissuto da
due anni a quella
parte.
Sette
giorni di telefonate, accordi, novità e tanti, tantissimi
dubbi, ma alla fine
tutto era stato organizzato e ogni decisione era stata presa in maniera
irrevocabile. Ciononostante, non si sentiva tranquilla; al contrario,
aveva la
sensazione di camminare sopra un ponte instabile, sempre sul punto di
crollare.
Era
sempre stata una ragazza abitudinaria, a cui non piacevano troppo i
cambiamenti
improvvisi, perciò se doveva essere completamente sincera
con se stessa era
proprio terrorizzata.
Domani
a quella stessa ora – non proprio in realtà,
dimenticava sempre le sette ore di
fuso orario – sarebbe già stata nel suo nuovo
appartamento, in una città
sconosciuta e con un nuovo lavoro. Niente amici, solo un paio degli
uomini di
Mycroft che lavoravano a tempo pieno per lui negli USA, il cui unico
scopo
sarebbe stato quello di garantire la sua sicurezza.
Il
tempo di una dormita e poi, sull’aereo che in poco
più di otto ore l’avrebbe
portata a Washington D.C., la sua vita non sarebbe più stata
la stessa.
«Sei
migliorata moltissimo, Molly».
L’anatomopatologa
sollevò di scatto la testa e scoprì che Sherlock
non era più
appollaiato sul divano, a criticare a bassa voce una delle tante serie
TV di
cui lei era dipendente, bensì al suo fianco, intento ad
esaminare le camicie
che stava stirando. Le sue camicie.
«L’avevo
detto che era solo una questione di pratica», aggiunse,
rivolgendole un sorriso.
Molly
posò il ferro da stiro e si passò una mano sulla
fronte.
Aveva
trascorso gli ultimi giorni ad impacchettare tutto ciò che
avrebbe portato in
America – ne erano la prova gli scatoloni in giro per
l’appartamento – e come
se non bastasse, proprio la sera prima della partenza, Sherlock le
aveva dato
una decina di camicie da stirare. Avrebbe potuto rifiutare, certo, ma
non se la
sentiva proprio di litigare con lui: quelle erano le ultime ore che
passavano
insieme e chissà quando avrebbe potuto rivederlo o anche
solo sentire la sua
voce.
«Sei
stanca?», le chiese quasi amorevolmente, prendendola in
contropiede.
Molly
accennò un sorriso e rispose con sincerità:
«Un po’. Mi prenderesti un
bicchiere d’acqua, se non ti…?».
«Ho
in mente di meglio», esclamò, interrompendola. La
prese per le spalle e la
spinse verso il corridoio. «Cambiati, andiamo a cena
fuori».
«Cosa?»,
squittì, incredula. «Potresti essere un
po’ più chiaro?».
«Io,
te, a cena fuori, da Angelo. È abbastanza chiaro?».
«No.
Ma non ce n’è bisogno, posso benissimo cucinare
qualc–».
«Vai
a cambiarti, sbrigati. Mettiti il vestito che hai indossato quando sei
uscita
con quel pediatra… Nicholas? Era molto bello».
Molly
strabuzzò gli occhi e per la sua stessa sanità
mentale si convinse che non fare
domande era la decisione migliore.
Quando
si fu chiusa in camera da letto, Sherlock estrasse il cellulare dalla
tasca
interna della giacca ed inviò un breve sms a John.
***
«Mi
prendi in giro?», chiese Molly, afferrando distrattamente la
mano che Sherlock
le aveva offerto per aiutarla a scendere dal taxi.
L’auto
si allontanò e lei rimase ferma di fronte
all’insegna spenta e alle serrande
abbassate del ristorante di Angelo, la mano ancora al caldo in quella
del
detective.
«Di
qua», disse quest’ultimo, trascinandola
con sé fino all’angolo della
strada.
«Sherlock,
mi spieghi che cosa sta succedendo? E rallenta, non riesco a starti
dietro con
questi tacchi!».
«Perché
li hai messi, allora?».
«Perché
me l’hai chiesto tu!».
Le
gettò un’occhiata sospettosa, come se davvero non
lo ricordasse. «L’ho fatto?».
Molly
sospirò, arrendendosi al fatto che non le avrebbe spiegato
nulla, ed accennò
una corsetta, sperando di non cadere faccia a terra sul cemento, fino a
portarsi al suo fianco.
Si
lasciò guidare in un vicolo stretto e buio e a quel punto si
chiese se non
avesse voluto coinvolgerla in uno dei suoi casi; se per
quell’occasione,
anziché di John, avesse avuto bisogno di
un’assistente donna e vestita in quel
modo. Stava per fargli una bella ramanzina – poteva almeno
avvisarla! – quando
si rese conto che l’aveva portata di fronte
all’uscita sul retro del ristorante
di Angelo.
«È
chiuso, Sherlock. Cos’hai intenzione di fare, vuoi cucinare
tu?».
«Ti
ho già detto che io non cucino».
«Dovrei
cucinare io, allora?», sbottò, indecisa se
scoppiare a ridere oppure portarsi
le mani nei capelli.
Sherlock
le mostrò un sorriso fin troppo largo ed abbassò
la maniglia della porta,
trovandola inspiegabilmente aperta. Le indicò di entrare per
prima e una volta
dietro di lei accese le luci della cucina.
«Andiamo»,
le disse, porgendole di nuovo la mano.
Molly
lo fissò intensamente negli occhi, cercando di capire che
cosa avesse in mente,
e Sherlock, rendendosene conto, roteò gli occhi irritato.
Amava
le deduzioni, ma non quando le persone si soffermavano a farle su di
lui.
«So
di non essere esattamente la prima persona a cui una madre affiderebbe
i propri
figli, ma…».
Sherlock
si interruppe bruscamente quando Molly infilò la mano nella
sua, simile ad un
petalo delicato e freddo. Quindi le regalò un piccolo
sorriso e la guidò
all’interno del locale, anch’esso immerso nel buio.
Quella volta non fu lui ad
accendere le luci, bensì qualcuno al suo fianco.
Non
ci fu il solito coro ad urlare «Sorpresa!», ma
tutte le persone a lei più care
che le sorridevano e avevano già gli occhi lucidi. Non era
una festa in cui
l’allegria avrebbe fatto da padrona e ne erano tutti
consapevoli, ma ce
l’avrebbero messa tutta per rendere quella separazione
più facile, per rendere
quell’addio un semplice arrivederci.
L’anatomopatologa
alzò il viso verso quello di Sherlock, ancora al suo fianco,
e lo
ringraziò con gli occhi, già colmi di lacrime. Il
detective la invitò a
gettarsi tra le braccia di John, di Mary, della signora Hudson, di
Lestrade e
di un paio di sue colleghe che poteva considerare le uniche vere amiche
che le
erano rimaste dopo la rottura con Tom.
Molly
non avrebbe voluto lasciargli la mano ed infatti fu lui, rendendosene
conto, a
lasciarla andare per primo, stringendo le labbra e sforzandosi di
sorriderle.
«È
dura, eh?», gli disse Angelo, con quel suo inglese dal forte
accento straniero.
«Farà male, ma col tempo
passerà».
Sherlock
non le tolse mai lo sguardo di dosso, mentre dispensava baci e abbracci
e
ringraziava tutti i presenti. Pensò al Bart’s
senza Molly e realizzò che non
avrebbe mai smesso di fare male.
***
Nessuno
aveva fatto domande sul perché da un giorno
all’altro avesse deciso di
trasferirsi a Washington D.C., ma Molly era convinta che solo la
signora Hudson
e le sue due colleghe ne fossero del tutto all’oscuro. Di
sicuro Greg e John, e
quindi per forza di cose sua moglie Mary, dovevano aver almeno intuito
che la
causa era l’incredibile ritorno di Jim Moriarty, che quella
era una decisione
che non aveva preso di sua iniziativa e che quel lavoro al Quartier
Generale
dell’FBI non le era stato assegnato solamente per la sua
competenza e serietà.
Tutti
però le avevano fatto gli auguri più sinceri,
assicurandole che la città le
sarebbe piaciuta e che si sarebbe ambientata in fretta. Molly non ne
era altrettanto
sicura, ma aveva apprezzato.
L’unico
che non aveva aperto bocca era stato proprio Sherlock, il quale si era
subito
seduto in un angolo e non si era più mosso. Non
c’era bisogno che le dicesse qualcosa
perché in realtà non c’era nulla da
dire ed entrambi preferivano il silenzio
alle false speranze.
Era
seduta con Mary e John, quando proprio quest’ultimo si
alzò per raggiungere il
detective. La signora Watson aspettò che fosse lontano, poi
allungò le braccia
sul tavolo e le prese le mani, sorridendole dolcemente.
«Non
puoi nemmeno immaginare quanto ti capisca, tesoro».
Molly
ricambiò il sorriso, abbassando gli occhi. «Non ho
mai avuto così tanta paura
in vita mia».
«Lo
so, lo so. Ma quando le cose si sistemeranno, spero il prima possibile,
potrai
tornare qui e tutto sarà come prima».
«Non
è solo questo, Mary». Si morse le labbra e con la
coda dell’occhio scorse
Sherlock e John parlare a bassa voce in fondo al locale.
«Cercheremo
di stargli ancora più vicino, te lo prometto».
Quelle
parole furono come balsamo sulla sua anima e riuscì a
rilassare un po’ le
spalle, mentre gli occhi le si inumidivano di nuovo.
«Non
sarà facile», aggiunse Mary sorridendo e
portandosi una mano sul pancione. «Ma
io e John ce la metteremo tutta. Gli mancherai davvero
moltissimo».
«E
se non partissi? Se domani non salissi su
quell’aereo, che cosa succederebbe?».
La
signora Watson scosse lievemente il capo, gli
occhi tristi. «Vuoi davvero sapere che cosa penso?».
Molly
bevve tutto d’un fiato il cocktail che si
girava nervosamente tra le mani, annuendo con un cenno del capo.
«Sherlock
non riuscirà mai ad affrontarlo:
sapendoti così alla sua portata, non riuscirebbe a
concentrarsi totalmente. Con
te in America, invece, il suo unico scopo sarebbe la sua cattura e ci
metterebbe tutto se stesso, solo per averti di nuovo al suo fianco il
prima
possibile».
Era
una teoria fin troppo romantica, una che
avrebbe potuto benissimo essere stata presa dai suoi lontani sogni,
quelli che
aveva da tempo rinnegato e che ora stavano tornando a galla.
Si
ritrovò a ridacchiare e Mary corrugò la
fronte, chiedendole se avesse detto qualcosa di divertente.
«No,
scusami. Stavo solo pensando alla povera
anima di chi gli stirerà le camicie in mia assenza. Lo sai
che mi ci sono
voluti giorni, prima di capire come volesse la piega sulle
maniche?».
Mary
la fissò incredula fino a quando insieme
non scoppiarono a ridere.
***
«Quanto
manca prima che tu te ne vada nel bel mezzo della festa?»,
domandò John, sedendosi di fronte all’amico
detective con un bicchiere tra le
mani.
«Non
è una festa», replicò Sherlock, unendo
le
punte delle dita e portandosele di fronte alla bocca.
«Okay,
non lo è, ma sarebbe carino se tu
parlassi con qualcuno».
«E
cosa dovrei dire?».
Il
dottor Watson si strinse nelle spalle,
guardando il soffitto.
«Appunto»,
mormorò il consulente investigativo,
gettando l’ennesima occhiata verso Molly, seduta di fronte a
Mary.
«Potresti
raccontarmi che cos’è successo
esattamente in questi giorni. È stata un’idea di
Mycroft, non è così? Molly è
in pericolo?».
Sherlock
annuì. «Qualcuno le ha lasciato un
messaggio sul suo blog, la stessa frase pronunciata da Moriarty in quel
filmato. Mycroft ha ritenuto opportuno che Molly si allontanasse per un
po’».
«E
tu l’hai lasciato fare?», gli chiese,
inarcando le sopracciglia.
«Perché
ti stupisci? È la soluzione migliore: a
Washington avrà un lavoro migliore di quello che ha adesso,
un salario più
alto, un appartamento più bello, e sarà tenuta
sotto stretta sorveglianza».
«Ma
non avrà accanto le persone che ama».
Sherlock
strinse i denti e socchiuse gli occhi,
sibilando: «Bisogna fare dei sacrifici, John. E non
sarà per sempre».
«Voglio
sperarlo», esclamò, con un sorriso
storto sulla bocca. «Sarai intrattabile».
«Come
al solito», mormorò sbuffando.
«No,
più
del solito. È
davvero la soluzione
migliore, Sherlock? Per te, intendo».
«Come
ho già detto, bisogna fare dei sacrifici».
John
sorrise, quella volta teneramente, e si
allungò per dargli una pacca sulla spalla.
«Che
cos’era quella?», chiese Sherlock, confuso.
«Una
pacca di sostegno».
«Sostegno?».
«Se
hai qualcosa da dirle, credo che dovresti
farlo. Città nuova, lavoro nuovo, gente nuova…
Potrebbe anche decidere di non
tornare, sai?».
«L’ho
messo in conto».
«Quand’è
che non lo fai?», domandò John
retoricamente, sospirando.
Finì
il suo drink e si alzò proprio mentre al
loro tavolo Molly e Mary scoppiavano a ridere. John si voltò
e sorprese uno
Sherlock contagiato, con una risata intrappolata tra le labbra
incurvate in un
sorriso già malinconico.
***
Molly
si schiarì la voce e chiese un po’
d’attenzione, portandosi al centro della sala per poter avere
un contatto
visivo con tutti.
«Volevo
solo ringraziarvi di cuore per ciò che
avete fatto per me questa sera. Avevo immaginato addii piagnucolosi e
voi mi
avete regalato solo sorrisi. Mi mancherete tantissimo, tutti
quanti».
Il
suo sguardo si incatenò a quello di Sherlock
per un paio di secondi di troppo, ma nessuno lo notò
– o fece notare di averlo
notato.
«Un
grazie speciale ad Angelo. Grazie per la tua
disponibilità, sei stato gentilissimo».
«Per
gli amici di Sherlock, questo ed altro!»,
esclamò, stritolando Molly in un abbraccio caloroso e
dandole tre baci sulle
guance.
Tutti
scoppiarono a ridere di fronte allo
sbigottimento dell’anatomopatologa e dopo gli ultimi saluti
non rimase più
nessuno nel locale, eccetto Molly, Sherlock e i coniugi Watson.
«Noi
ci avviamo, voi… fate pure con calma»,
disse John, guardando Sherlock in modo eloquente.
Il
detective sgranò gli occhi e lanciò
un’occhiata allarmata a Molly, quindi la prese per il braccio
e seguì a ruota
John e Mary.
«È inutile rimanere qui, veniamo con
voi»,
spiegò, per la delusione di John.
Uscirono
da dov’erano entrati e sul piazzale
dietro il ristorante trovarono l’ispettore Lestrade, fermo a
fumare una sigaretta,
illuminato da un lampione dalla luce fioca.
«Credevo
fossi andato via», disse John sorpreso,
ma non quanto Sherlock.
«Mi
sono dimenticato di dire una cosa a Molly.
Posso averla per due minuti?».
«In
realtà…», iniziò a dire
Sherlock, ma il
dottor Watson gli strinse il polso e concluse al posto suo:
«Certo Greg, vi
aspettiamo in strada».
Molly
guardò i tre allontanarsi e si avvicinò
all’uomo, sorridente nonostante il freddo che le faceva
tremare le gambe.
«Ho resistito per tutta la sera, non vorrai farmi
piangere proprio adesso».
Greg
sorrise e fece l’ultimo tiro alla
sigaretta, poi se la gettò alle spalle senza curarsi di
spegnerla.
«Volevo
augurarti buon viaggio e farti una
promessa».
Si
avvicinò di un passo e Molly sollevò gli
occhi nei suoi, sentendosi un po’ a disagio: non erano mai
stati così vicini e
i suoi occhi erano così seri, così
tristi…
«Fosse
anche l’ultima cosa che faccio, prenderò
Moriarty – se è ancora vivo – o chiunque
altro abbia agito per lui. Chiunque ti
stia costringendo ad andare via».
Sollevò
una mano e le accarezzò i capelli che le
sfioravano una guancia, quindi timidamente si avvicinò al
suo viso con
l’intento di baciarla. Molly arretrò di un passo,
allontanando la sua mano
stringendola tra le proprie congelate.
«Mi
dispiace, Greg. Non posso», mormorò e non
riuscì ad impedire ad una lacrima di scivolarle sulla
guancia.
L’ispettore
di Scotland Yard stirò un sorriso
che trasudava tristezza e gliel’asciugò con il
pollice. «Perdonami, Molly».
«Lo
sai che non c’è nulla da perdonare».
«Già…
Infondo nessuno più competere con Sherlock
Holmes».
Molly
chiuse gli occhi e sospirò, poi allungò le
braccia perché Lestrade l’abbracciasse.
«Abbi cura di te, Greg», sussurrò.
«Anche
tu. E sappi che la mia promessa rimane
valida».
«Grazie.
Grazie davvero».
Si
separarono e Molly gli sorrise prima di
voltarsi ed incamminarsi nel vicolo buio, verso la strada affollata.
Vide
Sherlock, John e Mary accanto all’auto di
questi ultimi e li raggiunse, sforzandosi perché non
notassero il suo
dispiacere.
Non era mai stata brava a mentire e il detective
era l’ultima persona che si potesse fregare, ma con
l’aiuto di Mary, la quale
aveva subito colto qualcosa nei suoi occhi sfuggenti, riuscì
a non dover dare
spiegazioni.
«Vieni
qui tesoro, fatti abbracciare», le disse,
avvolgendole le braccia intorno alle spalle e baciandola su una
guancia. «Dovrai
fare il possibile per essere qui quando nascerà la piccola
Watson, intese?».
Molly
sorrise ed annuì. «Assolutamente».
Successivamente
fu il turno di John, nonostante
si fossero salutati ormai una decina di volte.
«Vi
diamo un passaggio, non c’è problema»,
propose, pescando le chiavi dell’auto dalla tasca del
cappotto.
«No,
prendiamo un taxi», rifiutò Sherlock, con
un sorriso piatto sulle labbra. John non osò contraddirlo e
Mary imitò il
marito, salendo in auto.
«Chi
ti accompagna in aeroporto, domani mattina?»,
si informò il dottor Watson, ormai già dentro
l’abitacolo per metà.
«Mycroft
manderà un’auto con la sua assistente
personale», rispose Molly.
«Okay,
allora ci vediamo direttamente in
aeroporto».
«Non
è necessario John, davvero…».
Il
dottore scosse il capo, determinato a non
voler sentire altro. «Buonanotte, a domani!».
Molly
e Sherlock guardarono l’auto dei Watson
allontanarsi e poi il detective si sporse oltre il marciapiede per
fermare un
taxi. Cinque minuti dopo erano già in viaggio verso casa,
seduti vicini ma consapevoli
di essere lontani come non lo erano mai stati in quelle due settimane.
L’anatomopatologa
si sentiva vagamente in colpa
per ciò che era quasi successo con Greg e per spezzare quel
silenzio
imbarazzante disse: «Angelo ha tenuto il ristorante chiuso
questa sera, solo
per me. Quando smetterà di sentirsi in debito con
te?».
Sherlock
la guardò con la coda dell’occhio, un
angolo della bocca sollevato in un mezzo sorriso.
«L’ho scagionato da un’accusa
di triplice omicidio ed è italiano,
perciò… mai, suppongo».
Le
strappò una lieve risata che la fece sentire meglio, ma non
si dissero altro
per l’intera durata del viaggio.
Una
volta di fronte al condominio di Molly, Sherlock scambiò
qualche parola con il
tassista, probabilmente per dirgli di tenere il resto, poi la
seguì
all’interno, fino alla porta dell’appartamento.
«Non
entri?», gli chiese sbigottita e un tantino preoccupata,
trovandolo ancora
fermo sul pianerottolo.
«Ho
chiesto al tassista di aspettarmi».
«Cioè…
Non dormi qui, questa notte?».
Sherlock
scosse il capo, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto. Molly
allora si
avvicinò per guardarlo negli occhi da più vicino.
«Torno
a Baker Street».
«Okay»,
mormorò, anche se in realtà avrebbe voluto
pregarlo di restare. Non voleva
passare da sola l’ultima notte a Londra, non era pronta a
dirgli addio.
«Prima
di andare, voglio che tu sappia una cosa», disse Sherlock,
guardandola dritta
negli occhi. «Voglio che tu sappia che non avrei mai permesso
a Mycroft di
organizzare il tuo trasferimento a Washington se questo non fosse stato
realmente necessario. Moriarty ha commesso un errore, pensando che tu
non
contassi nulla per me. Non lo commetterà di nuovo,
anzi… sarai la prima persona
che colpirà. E non posso permetterlo».
Molly
si strinse le braccia al petto, annuendo. Non riuscì a
resistere ed esclamò,
per poi interrompersi di colpo: «È solo
che…».
«Cosa?».
«Come
farai a mantenere il tuo giuramento, a 6000 chilometri di
distanza?».
«5904,58*».
Molly
non riuscì a trattenere un sorriso, nonostante le lacrime
che le avevano
riempito gli occhi. Si strofinò il naso con una mano e
crollò, lasciando che un
singhiozzo le bruciasse la gola.
Sherlock
si paralizzò, non sapendo come reagire al suo pianto, ma
Molly si ricompose
quasi subito, tirando su col naso e spazzando via le lacrime con
entrambe le
mani. Fu allora che entrambi si accorsero di Toby, il quale si era
infilato tra
loro e si stava strusciando contro le gambe di Sherlock.
«Alla
fine sei riuscito a farti piacere», commentò
Molly, l’ombra di un pallido
sorriso sul volto.
«Alla
fine. Perché non succede mai
all’inizio?».
«È
successo, molto tempo fa», rispose Molly, anche se forse
Sherlock avrebbe voluto
che quella domanda rimanesse solo un pensiero inespresso nella sua
mente.
Il
detective infatti alzò gli occhi, la fronte corrugata. Poi
capì ciò a cui si
riferiva e sentì il cuore sprofondare, letteralmente. Non
sapeva dove, né
perché, solo… sprofondò.
Molly
si avvicinò lentamente, quasi con cautela, e gli prese il
viso tra le mani per
accarezzarlo con la delicatezza che si usa con le cose a cui si tiene,
quelle
inestimabili ed infinitamente fragili. Poi si alzò in punta
di piedi e senza
mai distogliere lo sguardo dal suo si avvicinò in maniera
esitante alle sue
labbra, fino a sentire i loro respiri unirsi.
Sherlock
la sentì tremare contro di lui e le accarezzò un
braccio per rassicurarla,
chiuse persino gli occhi, ma quando le loro bocche erano ormai ad un
soffio
dallo sfiorarsi si allontanò, maledicendosi.
«Buonanotte,
Molly Hooper», disse quasi con freddezza e si
voltò.
Molly lo ascoltò scendere le scale velocemente e quando non lo sentì più chiuse la porta di casa per appoggiarvisi contro con la schiena. Si morse le labbra e serrò forte gli occhi, poi respirò profondamente e andò a preparare le ultime valigie.
.
.
*Numero
di chilometri che separano Londra e Washington. Ho usato diversi siti
di calcolo e questo è il numero che è uscito
più volte, ma non ne assicuro l'esattezza.