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Autore: _Pulse_    10/03/2014    10 recensioni
«Come hai fatto ad entrare? Ho fatto mettere il chiavistello alla porta».
«Avevo dato per scontato che fosse per la tua sicurezza personale, ora che Moriarty sembra essere tornato sul campo di battaglia. Sono lusingato».
I suoi occhi di ghiaccio brillarono come diamanti nella camera da letto buia, rischiarata soltanto da un fascio di luce lunare, e Molly strinse i pugni lungo i fianchi, cercando di mantenere la calma.
«Sono entrato dalla finestra», spiegò, nonostante fosse l'unica soluzione possibile, a quel punto, e Molly avrebbe potuto – e dovuto – arrivarci da sola.
«Perché sei qui?», gli chiese dopo vari secondi di silenzio, fissandosi direttamente i piedi piuttosto che lasciarsi cogliere in flagrante mentre si sorprendeva del candore della sua pelle, dei muscoli definiti e dei piccoli nei che formavano una specie di costellazione sulla sua schiena longilinea.
«Perché tu invece ti ostini a rimanere qui, a farmi domande di cui conosci già la risposta?».
«Non te l'ho mai chiesto prima».
«Non vuol dire che tu non conosca già la risposta».
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Eccoci alla fine! 
Diavolo, mi mancherà tantissimo pubblicare ogni settimana - era un sacco che non lo facevo, tra l’altro xD - è una routine così rassicurante! Ma questa è un’altra storia.
Prima di lasciarvi al capitolo finale, volevo solo spiegare il senso del titolo “In my place”.
Sono pessima a dare i titoli, perciò mi sono lasciata un po’ guidare dalla mia colonna sonora e tra le canzoni che ascoltavo di frequente mentre scrivevo c’era proprio “In my place” dei Coldplay, che adoro. Oltre ad essere in qualche modo azzeccata per il tema di questa FF, mi piaceva pensare alla specie di gioco di parole che si veniva a creare, dato che “place” in gergo vuol dire anche “casa”, o luogo in cui si vive insomma.
Bene, dopo questa spiegazione patetica, vi auguro buona lettura e ci vediamo infondo per i ringraziamenti e i saluti finali!

Vostra,

 

_Pulse_

 

 

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7.      Epilogue – Day #1

 

«È tutto pronto, signorina Hooper».

Molly si voltò verso Anthea – o qualunque fosse il suo vero nome – ed annuì con un cenno del capo.

«Arrivo subito».

Ascoltò i tacchi dell’assistente personale di Mycroft echeggiare sulle scale e si voltò di nuovo verso la finestra da cui stava guardando l’alba di un nuovo giorno illuminare la sua Londra.
Col cuore pesante come piombo sospirò e prese in braccio Toby per poterlo infilare nel suo trasportino.

«Sarà un lungo viaggio, ma staremo bene. Vedrai, andrà tutto bene», gli sussurrò, cercando di convincere anche se stessa.

 

Molly tenne gli occhi sempre incollati sul finestrino, facendo del proprio meglio per imprimersi nella mente le strade che non avrebbe visto per chissà quanto tempo: i marciapiedi pieni di persone a tutte le ore del giorno e della notte, la guida a sinistra, i taxi neri, le ultime caratteristiche cabine telefoniche rosse.

Passarono anche di fronte al Bart’s e fu un colpo al cuore. 
Le sarebbe mancato da morire e una volta lontana sapeva che avrebbe vissuto e rivissuto i momenti trascorsi nel laboratorio d’analisi, nell’obitorio e persino in mensa. Era lì che aveva incontrato Sherlock per la prima volta, lì lo aveva aiutato e gli aveva permesso di rubare i suoi strumenti, i suoi cadaveri, il suo tempo… e non solo.
Perché non le sarebbe mancato il Bart’s di per sé, o Londra, bensì i luoghi che per lei avevano un significato particolare, quelli a cui erano legati i ricordi migliori e quelli peggiori da quando lo aveva conosciuto.

Si ritrovò a dover tirare su col naso e Anthea le offrì distrattamente un fazzoletto, che Molly accettò sentendosi ancora più piccola, insignificante e patetica al suo fianco.

 

***

 

«Eccoti qua, finalmente ti ho trovata», disse John, aprendo le braccia per stringerla a sé. «Come ti senti?».

«Nervosa, disorientata… Grazie per essere qui», sussurrò Molly, staccandosi per sorridergli dolcemente.

Il dottor Watson si guardò intorno, rivolse un cenno di saluto ad Anthea – la quale non ricambiò, concentrata sul suo smartphone – poi sospirò e con espressione mesta disse: «Sherlock non è venuto».

Era più un’affermazione che una domanda, ma Molly si sentì comunque in dovere di difenderlo, spiegando: «Ci siamo già salutati ieri, non avremmo avuto nient’altro da dirci».

La guardò intensamente negli occhi, cercando di intuire cosa mai potevano essersi detti, ma ogni ipotesi che formulava veniva scartata nel giro di pochi secondi, lasciandolo come prevedibile senza la più pallida idea.

Il check-in era già stato fatto e i bagagli, compreso Toby, erano già stati imbarcati, quindi i due uomini di Mycroft, per la precisione un uomo ed una donna, muniti di auricolare, dissero a Molly che era arrivato il momento di passare i controlli di sicurezza e di dirigersi al gate d’imbarco.
La ragazza provò un’irresistibile desiderio di scappare tra la folla e nascondersi da qualche parte, oppure di aggrapparsi a John perché impedisse loro di portarla via, ma fu solo un momento passeggero.

«Devo andare», disse, non senza che la voce le tremasse un poco.

«Cerca di vederla come una vacanza, okay? Poi ci racconterai tutti i segreti dell’FBI», esclamò John sorridendo, ma fu subito fulminato dai due agenti. 
«Era una battuta», precisò, sollevando le mani in segno di resa.

In quel momento un mendicante dai vestiti logori si avvicinò a loro, in particolare a Molly, e con la scusa di farle qualche falso complimento per ottenere degli spiccioli le prese le mani. Subito i due agenti lo placcarono e lo spinsero via, cacciandolo in malo modo, e Molly sfruttò il fatto che fossero tutti distratti per leggere il fogliettino stropicciato che l’uomo le aveva lasciato tra le dita.

Quando gli uomini di Mycroft tornarono, Molly sorrise loro brevemente e chiese: «Posso andare un attimo in bagno a lavarmi le mani? Non vorrei che, sapete… Faccio in un attimo».

I due acconsentirono, a patto che l’agente donna l’accompagnasse, ma Molly insistette perché la lasciassero andare da sola.
Messa alle strette, prese John per un braccio ed esclamò: «Andrebbe bene se mi accompagnasse John? È un soldato, ha affrontato moltissime avventure pericolose con Sherlock Holmes e ne è uscito sempre abbastanza bene, riuscirà a proteggermi nel caso ce ne fosse bisogno».

«Lasciateli andare, per l’amor del cielo», borbottò Anthea e i due agenti si ammutolirono, dando controvoglia la propria approvazione.

Molly si voltò e si trascinò dietro John, correndo quasi.

«Che cosa sta succedendo?», le chiese ad un tratto, puntando i piedi perché si fermasse e gli spiegasse la situazione.

L’anatomo patologa si limitò a dargli il biglietto che quel barbone le aveva consegnato e riprese a correre senza aspettarlo.
John lo aprì e dopo aver letto quelle parole scritte in modo frettoloso con una penna quasi scarica sorrise, scuotendo il capo.

 

“Worldwide Newspapers”
SH

 

***

 

Sherlock abbassò il giornale svedese che aveva aperto di fronte al viso e gettò un’occhiata verso l’uscita dell’edicola, domandandosi come mai Molly ci stesse mettendo tanto. Forse il senzatetto che aveva pagato non aveva portato a termine il proprio lavoro, forse gli uomini di Mycroft non le avevano permesso di allontanarsi, forse lei non voleva più vederlo.

Strinse le labbra e si calò un po’ di più la visiera del berretto da baseball sul viso, dicendosi di non perdere la speranza.

Quella notte non era riuscito a chiudere occhio, nella sua vecchia stanza del 221B di Baker Street: rotolandosi tra le lenzuola non aveva fatto altro che pensare a quel bacio non dato, all’espressione che aveva visto sul viso di Molly, e alla fine aveva capito che non poteva lasciarla partire con quell’ultimo suo ricordo.
John aveva ragione: era l’ultima occasione che aveva per mettere in chiaro qualsiasi cosa ci fosse in sospeso tra loro e doveva sfruttarla, prima di pentirsene per sempre. E anche se Molly forse ne era già a conoscenza – conosceva praticamente tutti i suoi difetti – doveva farle capire che infondo era un fottuto egoista.

Con la coda dell’occhio la vide affacciarsi nell’edicola ed allungare il collo tra i diversi espositori. Rincuorato che fosse corsa da lui anche quella volta, sorrise. Quindi chiuse di scatto il giornale svedese, attirando la sua attenzione, e dopo averlo sistemato in mezzo a quelli francesi si diresse verso il fondo dell’edicola, nell’area fumetti.

Molly lo raggiunse e la prima cosa che gli disse fu: «Non è una buona mossa usare due volte lo stesso travestimento».

«Ero di fretta», le rispose, mettendosi il berretto da baseball di traverso sulla testa.

«Ormai ero convinta che non saresti venuto a salutarmi, sai?».

«Beh, John una volta ha detto che sono una drama queen».

«E ha ragione, eccome».

Si scambiarono un sorriso e Sherlock si avvicinò di un passo, sollevando le mani per posargliele ai lati del viso.

«Mycroft ti ha dato un incentivo, dicendoti che ho ucciso un uomo, perché ti allontanassi da me. L’ho fatto davvero, sai? Nel caso non ci credessi».

Molly respirò profondamente, posando le mani sulle sue. «Stai per dirmi che forse dovrei fare degli esami, che probabilmente soffro di una sindrome simile a quella di Stoccolma?».

Sherlock trattenne una risata e sussurrò: «No, volevo semplicemente darti il mio incentivo».

Senza darle il tempo di capire, le alzò il viso e posò le labbra sulle sue, intrappolandole in un bacio che se fosse stato per lui sarebbe stato solo il primo di diversi altri. Ma sapeva di avere i secondi contati, prima che gli uomini di Mycroft la individuassero e gliela portassero via. Perciò si scostò e posò la fronte contro la sua, obbligandola a guardarlo negli occhi.

«Non crearti una nuova vita, a Washington, perché tornerai qui. Dammi un paio di mesi al massimo. Siamo d’accordo?».

Molly, vagamente sotto shock, annuì muovendo la testa.

«Ora vai, Molly Hooper. E non avere paura».

L’anatomopatologa lo guardò negli occhi e mettendocela tutta perché la propria voce risultasse fiera e decisa, disse: «Nemmeno tu. Ci riuscirai anche questa volta, ne sono certa».
Gli sorrise e gli sistemò il cappellino da baseball in modo che avesse di nuovo la visiera al posto giusto, poi gli diede le spalle per uscire dall’edicola senza più guardarsi indietro.

Sherlock la seguì con lo sguardo e dopo cinque minuti si diresse anche lui verso l’uscita, trovando John intento a girare con ben poco interesse un espositore di cartoline.

«E così…», iniziò a dire il dottore, ma il detective lo interruppe subito.

«Hai da fare?».

«Nulla che non possa essere rimandato».

«Bene. Devo portare tutte le mie cose di nuovo a Baker Street».

Sherlock sorrideva soddisfatto, come se avesse appena scoperto il crimine del secolo, in attesa solo che lui lo risolvesse.
John lo affiancò con una corsetta e ridacchiò, contando i secondi che mancavano prima che dicesse la sua ormai celebre frase.

«Adesso il gioco può cominciare, John».

Il dottor Watson aprì la bocca, colpito da quel cambio di sintassi.
Piacevolmente colpito.

 

 

 

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Here we are again!
Spero davvero che vi sia piaciuta questa conclusione (non vedo l’ora di sapere che cosa ne pensate) e vi ringrazio di cuore, tutti quanti: chi ha recensito immancabilmente tutti i capitoli, chi passava ogni tanto, chi ha letto soltanto. Siete tutti importantissimi *^*
Spero anche di tornare presto: ho qualche idea che mi frulla nella testa, anche se il tempo è sempre quello che è, purtroppo D:
Di nuovo:  grazie, grazie, grazie! Lots of love :)

Vostra,

 

_Pulse_

   
 
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