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Autore: Laylath    13/03/2014    2 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 39. Punto critico.

 

Stava facendo dei brutti sogni e dunque fu quasi un sollievo quando l’esigenza di andare a bere lo fece destare. Henry scostò le coperte con fastidio, forse era il caso di mettere qualcosa di più leggero dalla prossima notte, del resto si era a fine aprile.
Aprendo la porta con discrezione si passò una mano tra i capelli arruffati: si sentiva stanco e nervoso, erano diverse notti che i brutti sogni gli davano tormento impedendogli di riposare veramente. Forse era questa mancanza di sonno che gli provocava degli sgradevoli mal di testa… insomma era tutto un disastro.
Sperava che un bicchiere d’acqua fresca lo aiutasse a riprendere sonno, ma forse era meglio del latte a questo punto, o una tisana.
Decise di optare per quest’ultima scelta ed invece di scendere le scale proseguì nel corridoio verso la camera dei genitori: avrebbe svegliato la mamma e le avrebbe chiesto questo favore. Forse era il caso di dirle che da qualche tempo non stava molto bene: magari aveva l’influenza e non se ne era accorto e dunque lei…
“Tra tutte le cose, questa è la più assurda.”
La voce di sua madre lo bloccò mentre posava la mano sulla maniglia.
Litigano a notte fonda?
“Assurda, certo, come se non vi conoscessi bene… puttanella, quante volte ti sei concessa a lui?”
“Smettila di parlare in questo modo, Gregor, sei ancora ubriaco e non ti rendi conto di quello che dici.”
“Te lo potevi sposare il tuo prezioso Andrew, mi viene anche da pensare che non siano davvero figli miei.”
“Sei pazzo? Ma se Heymans è identico a te nei tratti… fra tutte le cose che potevi tirare fuori…”
“Già, quello è davvero mio figlio, purtroppo… ma per Henry come la mettiamo? Gli hai anche messo il nome del tuo prezioso fratello, ma non mi assomiglia per niente.”
Quelle parole fecero balzare il cuore di Henry alla gola.
“Come puoi dire cose simili di tuo figlio? – la voce di Laura era carica di rabbia – Negli ultimi tempi lo stai trattando malissimo: invece di comportarti da padre…”
“Andiamo, confessalo, lui è figlio di Andrew.”
“Andrew ed io non siamo mai stati amanti, chiaro? Lui è sposato e ha un figlio! Sei tu che mi tradisci con le ragazze del locale, credi che non lo sappia?”
“Loro almeno non scodellano bastardi.”
“Finiamola qui che è meglio, ma ti dico solo una cosa: Andrew è per me come un fratello, pensare a lui come amante mi pare paragonabile all’incesto. Ma ti giuro… Gregor Breda ti giuro che ci sono momenti in cui vorrei davvero che fosse lui il padre dei ragazzi, almeno avrebbero una vita più facile e…”
Il rumore dello schiaffo fece sussultare il bambino.
“Piano con le parole, donna, sei mia moglie e con te faccio quello che voglio, chiaro?”
Ci fu un lungo silenzio… ancora ed ancora. Henry si accorse di piangere, ma non riuscì ad aprire quella porta e fare qualcosa: iniziò a tremare, sentendo improvvisamente freddo e l’esigenza di allontanarsi da lì. Corse in camera di Heymans e si infilò nel letto con lui, serrando gli occhi per cercare di cacciare dalla mente tutto quello che aveva sentito, anche se era impossibile.
“Henry? – chiamò il fratello – Che c’è?”
“Uno… uno stupido incubo – spiegò con un sussurro – scusa, ma non credo di stare bene. Non… non chiedermi niente, per favore. Non dire niente a mamma, va bene? Solo… solo per stanotte.”
“Va bene – annuì Heymans con perplessità, non riuscendo a distinguere il fratello nel buio, ma sentendo come si stesse sistemando contro la sua schiena, premendosi contro di lui – se stai male posso andare a…”
“E’ solo il brutto ricordo dell’incubo – supplicò lui – adesso mi riaddormento… buonanotte.”
“Buonanotte.” mormorò Heymans, capendo che non era meglio insistere. Ma prima di riaddormentarsi, attese di sentire il respiro regolare del fratello.
Dev’essere stato il nervosismo degli ultimi giorni – rifletté, chiudendo gli occhi – devo darmi una mossa a risolvere la questione.
 
“Fra due giorni è il compleanno di mia mamma – disse Kain, durante l’intervallo – e ha detto che le farebbe molto piacere se tu venissi a pranzo da noi.”
“Sarebbe bellissimo – annuì Riza – verrò molto volentieri, diglielo pure. Accidenti, devo pensare ad un regalo per lei: dammi qualche suggerimento, coraggio.”
“Perché non prepari una torta al cioccolato da sola? Magari ci scrivi tanti auguri con la panna.”
“Quello sarebbe un regalo per te, ingordo – lo rimproverò Riza, arruffandogli i capelli – tua madre preferisce la torta alla crema, lo sai.”
“Oh, beh, non mi lamento lo stesso – sorrise il bambino – e se proprio lo vuoi sapere, lei adora i fiori di campo, fra me e te che ne dici di farle un mazzo davvero speciale?”
“Non li regalerà tuo padre i fiori?”
“Oh no – scosse il capo Kain, con l’aria di chi la sa lunga – papà deve regalarle degli orecchini con una goccia d’ambra, me l’ha confidato ieri: sono bellissimi, me li ha fatti vedere… mamma sverrà dalla contentezza.”
“Che cosa romantica, certo che tuo padre sa proprio come trattare le donne.”
Quell’ultima frase fece bloccare Henry alla porta. Era andato in bagno e non si aspettava che Kain fosse ancora in classe al suo ritorno.
Erano passati quattro giorni da quella conversazione sentita per caso: la mattina seguente sua madre aveva una faccia tremenda e lui aveva anche intravisto un lieve rossore sulla guancia destra. Possibile che sua madre si vedesse con un altro?
Ora che ci pensava anche Heymans parlava di lui in toni veramente estatici e la cosa non faceva altro che far innervosire suo padre. Che fosse quell’uomo la causa per cui suo padre non gli voleva più bene? La causa per cui aveva picchiato sua madre?
Scosse con decisione il capo, mentre il ricordo del rumore dello schiaffo tornava con prepotenza nella sua mente, seguito da quel tremendo silenzio… perché gli faceva più impressione? Era solo silenzio.
Doveva immediatamente andare a prendere una boccata d’aria.
 
Quel pomeriggio Kain si era messo a scrivere sul suo quaderno: era da tanto che non lo faceva, anche perché negli ultimi tempi aveva avuto così tanto da fare che non si era dedicato alle sue amate radio. Però adesso aveva un paio di ore libere e così si era messo a disegnare lo schema di un circuito, come se fosse una sorta di piacevole ripasso.
Un cinguettio lo distrasse e sorrise nel vedere un passerotto che si posava sul davanzale per mangiare le briciole che lui aveva lasciato poco prima: automaticamente la penna si spostò sul lato della pagina ed iniziò a disegnare l’uccellino.
“Ma che…” mormorò, quando si accorse che la punta faceva difficoltà a scrivere.
Man mano che provava il tratto non veniva più e per qualche tremendo istante pensò di aver in qualche modo rotto la sua preziosissima penna. Ma si disse che molto probabilmente era solo finito l’inchiostro: del resto era una penna diversa dalle solite e dunque aveva sicuramente delle cartucce di riserva.
Così scese nello studio di suo padre.
“Papà, – andò subito alla scrivania – la penna non scrive più, credo sia finito l’inchiostro.”
Osservò con ansia il genitore che la prendeva e la smontava, pregando con tutto il cuore che fosse quello il problema: perdere o rompere quella penna era il suo incubo peggiore, significava troppo per lui.
“Allora?” chiese, come un parente che chiede al dottore le condizioni dell’ammalato.
“Confermo, non c’è più inchiostro – sentenziò Andrew, mostrandogli la piccola cartuccia ormai vuota – fammi controllare nel cassetto, ma credo di aver finito le ricariche.”
“Oh no – sospirò il bambino – proprio non ne hai più?”
“Forza e coraggio, Kain – lo prese in giro il padre, rimontando la penna e ridandogliela – ti svelo il magico segreto: il negozio dove vedi sempre questi articoli vende anche le cartucce di riserva. Basta che la fai vedere e ti daranno quello che ti serve.”
“Costano tanto? – chiese preoccupato il bambino: non aveva la minima idea del costo di quella penna così pregiata e pensava che le sue piccole finanze non fossero all’altezza della situazione. Anche perché, oltre ai fiori, voleva regalare alla mamma qualcos’altro – Perché non so se posso…”
“Di certo costano più di una comune penna – spiegò Andrew, frugandosi nella tasca – ma per questo tipo di spesa ci penso io, del resto è stata un mio regalo per te. Tieni questi dovrebbero bastare: le ricariche si comprano in scatolette da dieci; e tieniti il resto, va bene, furfante? Così il tuo regalo per la mamma sarà davvero speciale.”
“Davvero? – gli occhi scuri si illuminarono di gioia – grazie, papà! Sei fantastico.”
“Dai, corri pure in paese, ragazzino – rise Andrew, rispondendo all’entusiastico abbraccio del figlio – vai a ricaricare la tua preziosa penna. Avviso io tua madre che stai uscendo.”
“Volo!”
E senza attendere altro il bambino corse fuori di casa, sentendosi felice come non mai. Quelle bellissime giornate, l’avvicinarsi del compleanno di sua madre e della conseguente festa, lo facevano stare al settimo cielo.
Erano passate due settimane da quel fattaccio che aveva portato a quella brutta punizione e i rapporti con sua madre erano tornati sereni. Come l’avevano più volte tranquillizzato Riza ed Heymans, nell’arco di una sera Ellie era tornata ad essere più dolce nei suoi confronti e, anche se la punizione era davvero durata una dolorosa settimana, Kain era del parere che una passata di sculacciate ogni sera fosse stato un prezzo equo da pagare perché sua madre lo perdonasse del tutto.
Certo c’è il fatto che non posso più parlare con Roy, almeno per il momento…
Questo pensiero fece rallentare la sua spensierata corsa verso il paese: ecco, quello era l’unico dettaglio che proprio non si poteva mettere a posto. Gli dispiaceva tantissimo non poter parlare con il suo amico, ma per diverso tempo a venire non era proprio il caso di disobbedire su questo a sua madre.
Per evitare di creare problemi, persino a scuola evitava di andare da lui: certo, questo aveva avuto come conseguenza il dover stare in classe o non presso quegli alberi che ormai erano il loro ritrovo, ma tutti i suoi amici sembravano aver capito la situazione e a turno stavano assieme a lui.
Sperava solo che Roy lo potesse perdonare un giorno e…
“Ciao, gnomo.”
Proprio all’ingresso del paese si imbatté nel ragazzo.
“Roy – mormorò il bambino, temendo che in qualche strano modo sua madre potesse vederlo, tuttavia non era educato non rispondere ad un saluto, almeno per quello non si sarebbe arrabbiata – ciao, come stai?”
“Bene, grazie. E tu? Ti vedo in forma.”
“Davvero? Oh beh, è che sto andando a comprare le ricariche per la penna che mi ha regalato papà.”
“Ah, la tua famosa penna – sorrise Roy, avvicinandosi a lui – sempre a scrivere nel tuo quaderno, vero?”
“Sì, in effetti…”
Rimasero in silenzio per qualche secondo e poi Roy allungò la mano per arruffargli i capelli.
“Ho saputo che con tua madre hai risolto.”
“Sì – annuì lui, arrossendo – ora va tutto bene. Sai, tra due giorni è il suo compleanno e dobbiamo fare un pranzo per festeggiare, verrà pure Riza.”
“Che bello. Senti, gnomo…”
“Mamma non vuole che parli con te – disse Kain – ma spero che con il passare del tempo cambi idea. Però non posso disobbedirle, capiscimi… lei si è arrabbiata così tanto. Io vorrei davvero che fossimo ancora amici, Roy, anche se forse tu mi consideri un vigliacco.”
“Ma no, gnomo, non ti considero un vigliacco – sospirò il moro – non capisco tua madre, tutto qui. Ma noi siamo sempre amici, stai tranquillo.”
“Sul serio?” chiese lui, speranzoso.
“Sul serio – sorrise Roy, arruffandogli i capelli – e per questo rispetterò la tua decisione di obbedire a tua madre, per adesso. Tanto sono sicuro che in qualche modo la risolviamo, fidati di me.”
“Niente follie, va bene? Non questa volta.”
“Promesso, Kain, non ti preoccupare. Dai, adesso vai pure a fare la tua commissione: abbiamo già rotto il divieto per diversi minuti e può bastare.”
“Ti voglio bene, Roy – lo abbracciò il bambino – sul serio.”
“Anche io, ragazzino.” arrossì lievemente lui, davanti a quella sincera manifestazione d’affetto.
Quel piccolo incontro con Kain l’aveva fatto sentire meglio del previsto.
 
Ancora quel senso di nausea, proprio non gli voleva passare.
Eppure non era febbre, ne era certo, non si sentiva per niente caldo.
“Mamma – mormorò Henry, entrando nella stanza matrimoniale – posso stare qui con te?”
“Vieni, piccolo – annuì Laura, sdraiata nel letto – certo che puoi stare con me.”
Il bambino si sdraiò accanto a lei, posando la testa sulla sua spalla e cercando di rilassarsi: la mano materna iniziò ad accarezzargli i capelli e finalmente si sentì meglio. Un momento di rassicurante quiete era quello di cui aveva bisogno.
“Mamma, andrà tutto bene, vero?” si trovò a chiedere.
“Certo, Henry, stai tranquillo.”
Per ora bastava quella dichiarazione, non aveva bisogno d’altro: per almeno dieci minuti voleva illudersi che davvero tutto si sarebbe sistemato, nel senso che sarebbe tornato tutto a posto e che il padre non avrebbe più detto quelle cose… quel nome che sembrava distruggere tutto quanto.
“Ragazzino, non stare attaccato a tua madre come un poppante.”
La voce di Gregor giunse come uno schiaffo ed Henry aprì immediatamente gli occhi staccandosi da Laura.
Quel minimo di tranquillità sparì all’improvviso ed il malessere tornò a ripresentarsi.
“Henry…” mormorò Laura, mettendosi a sedere nel letto.
“Quel piccolo bastardo di Heymans è uscito, sarà andato dal suo grande eroe?”
“Doveva andare a studiare a casa di un suo amico – rispose la donna, massaggiandosi la tempia con aria stanca – domani ha compito in classe e dovevano ripassare assieme.”
“Certo, il grande studente… e tu, Henry? Come va a scuola?” c’era così tanto sarcasmo in quella voce.
“B… bene… ho preso sette e mezza nell’interrogazione di matematica ieri…”
“Andrew Fury sarà davvero fiero di te, allora!” la mano di Gregor si posò sulla sua testa e gli arruffò i capelli con estrema cattiveria.
“Lascialo stare immediatamente – il braccio di Laura scattò in avanti per interrompere quel contatto – Henry, da bravo, vai a fare un giro fuori. Oggi papà non sta molto bene…”
“Sei davvero sicura che sia mio figlio?”
Quelle parole accompagnarono Henry fuori dalla porta, dato che aveva sentito l’ansia di sua madre nel dargli quell’ordine. Doveva uscire, doveva andare fuori come gli aveva detto…
“Io non ce la faccio più!” esclamò tra le lacrime, aprendo la porta con violenza e catapultandosi in strada.
Iniziò a correre come un disperato, senza nemmeno guardare dove andava, voleva solo che quella nausea finisse e quel nome maledetto non venisse mai più pronunciato.
Di conseguenza, quando impattò contro una persona la forza fu tale che caddero entrambi a terra.
Aprendo gli occhi scoprì che si trattava di Kain Fury.
“Ahia – mormorò il bambino occhialuto, rimettendosi a sedere – scusami non ti avevo visto… oh, Henry…”
“Correvo pure io – ansimò lui, pronto a rialzarsi in piedi e riprendere la sua corsa – non fa nien…”
“Andrew Fury sarà davvero fiero di te, allora!”
“Andiamo, confessalo, lui è figlio di Andrew”
“Tuo padre…” sibilò, mettendosi in ginocchio.
“Uh? Che hai detto… piuttosto, hai visto la penna? Mi è caduta di mano e, oh eccola!”
Ma prima che potesse allungarsi, Henry la raccolse.
“Non è una di quelle che usiamo a scuola…” mormorò cercando di allontanare i suoi maledetti pensieri.
“No – spiegò Kain, tendendo la mano speranzoso – me l’ha regalata mio padre e…”
Andrew Fury…”
“Sì.” ammise con preoccupazione il bambino bruno, osservandolo rialzarsi in piedi.
“Maledetto lui, quanto lo odio!” esclamò.
La sua mano si strinse su quella penna, facendosi male con la clip del tappo. Ma non gli importava, riprese a correre come un disperato, ignorando le grida di Kain che lo inseguiva.
Quanto continuò quella folle corsa per i campi? Non lo sapeva, non guardava nemmeno dove stava andando. Capiva solo che la sua famiglia era distrutta, che suo padre lo odiava e nemmeno lo considerava più suo figlio… non c’era speranza, nessuna speranza.
Ed era tutta colpa di quell’uomo, dell’eroe del paese.
Alla fine dovette fermarsi: le gambe gli cedettero e inciampò pesantemente su una pietra.
Dove sono? Dove?
Si guardò intorno, cercando di recuperare il contatto con la realtà: era una sorta di piccola vallata con l’erbetta rada che cresceva in alcuni punti. Osservando con attenzione il punto dove era caduto, si accorse che non aveva inciampato su una pietra, ma su…
… una rotaia?
Era l’ingresso della vecchia miniera di carbone che doveva essere sigillata a breve. Rialzandosi in piedi guardò la poco distante cava, la cui soglia era in parte ostruita da alcune travi di legno poste a protezione.
Era lì che portavano i binari… quasi d’istinto si incamminò fino ad arrivare a pochi passi dall’ingresso.
“Henry! – arrivò in quel momento Kain, il fiato al limite – Ti prego, ridammi la penna! E’ troppo importante per me…”
“La penna? – solo allora si ricordò dell’oggetto che serrava in mano – oh, certo, questa.”
Il rumore dello schiaffo e poi quel silenzio ancora più pesante dalla camera dei suoi genitori.
Andrew Fury…
“Che possa marcire per sempre in questa miniera!” gridò con tutta la sua disperazione, lanciandola dentro.
“No!” esclamò Kain, aggrappandosi ad una delle travi che fungevano da blocco e guardando l’interno buio di quel tunnel scavato nella roccia.
“Mi ha rovinato… ha rovinato tutto…” scoppiò a piangere Henry.
E a questo punto non gli importava più niente: lasciò Kain in quel posto ed andò via, non gli importava dove… tanto sapeva bene che sarebbe tornato a casa, da sua madre.
 
“Ehilà, botolo – sorrise Roy, passando davanti a casa di Riza e vedendo che Hayate correva al cancello per salutarlo – come va? Se sei fuori in cortile vuol dire che la tua padroncina è fuori, vero? E già che doveva andare a trovare Elisa.”
Il cane si alzò su due zampe, supplicando qualche attenzione e così, Roy aprì il cancelletto ed entrò nel cortile per accarezzarlo. Hayate apprezzò moltissimo tutta quella considerazione e si mise a pancia all’aria, desideroso di essere coccolato.
“Dannazione a te quanto sei cresciuto – sogghignò il ragazzo, accontentandolo – sei praticamente raddoppiato da quando ti abbiamo trovato, eh? Quattro mesi passano in fretta…”
Sebbene non avesse ancora raggiunto il massimo sviluppo, Hayate era ormai un cane di piccola-media taglia, dal pelo lucido e gli occhi intelligenti. Roy gli sistemò meglio il collare rosso, un regalo di Kain.
“Lo sai, amico mio? Oggi ho parlato di nuovo con il tuo compagno di giochi… ne sono felice e spero che si possa rimediare a quello che è successo. Un po’ come con Riza che adesso mi parla di nuovo e sembra tranquilla.”
Forse aveva capito che stava parlando di Kain, perché le orecchie si rizzarono di colpo.
“Ehi? Ma che c’è?”
L’animale si era teso e si era alzato in piedi, fiutando l’aria.
Qualche gatto?
Ma prima che Roy potesse capire, il cane scattò in avanti e uscì dal cancello ancora aperto.
“No, Hayate! – esclamò rincorrendolo – Torna qui!”
L’animale si fermò e tornò indietro, girando attorno a lui e uggiolando con urgenza.
“Ma che hai? – chiese Roy, perplesso – Si può sapere… ehi, non tirare la manica coi denti, la rompi! Che succede? Non ti sei mai comportato così…”
Il cane continuava a correre in avanti e poi tornare indietro per girargli attorno… c’era una strana urgenza nel suo comportamento.
“Va bene, ti seguo…” cedette il ragazzo alla fine.
Era abbastanza palese che il cane avesse sentito qualcosa.
 
Kain rimase diversi minuti affacciato a quel tunnel così buio, con la luce dell’esterno che riusciva ad arrivare solo a due metri dall’ingresso. Aveva le lacrime agli occhi, mentre la disperazione prendeva possesso di lui di secondo in secondo.
La sua preziosissima penna era lì dentro, come poteva fare?
Sapeva bene di che posto si trattava e sapeva altrettanto bene che era pericoloso: suo padre gli aveva detto più volte che non vedeva l’ora che la sigillassero per sempre a causa dei continui crolli.
Ma se la sigillano io non potrò più riprendere la penna.
No, non poteva tollerare una cosa simile: era l’oggetto a cui teneva di più al mondo, simbolo di quel legame fantastico e profondo che si era venuto a creare con suo padre. Non prendersi cura di quella penna voleva dire tradire la grande fiducia che lui nutriva nei suoi confronti.
Non può… non può averla lanciata troppo lontano.
Cercò di ripercorrere mentalmente la scena, provando a ricordare se aveva sentito il rumore della caduta sul terreno, in modo da potersi fare un’idea della distanza. Ma purtroppo non gli venne in mente niente.
Certo che quel posto era così buio…
“Ma io non posso lasciarla lì…” mormorò, sollevando la gamba per scavalcare quella trave di legno.
Osservò la sua ombra stagliarsi in quella piccola nicchia di luce appena all’ingresso: ovviamente sarebbe stato troppo bello che la penna fosse caduta lì. No, decisamente era più avanti.
Si accostò alla parete di roccia e vi posò la mano, decidendo di usarla come guida.
Era disperato, non aveva la minima idea di come fare: come poteva vedere dove era andata a finire in una galleria che era larga almeno cinque metri? Aveva bisogno di luce.
“La mia penna – pianse, mentre proseguiva a tentoni, ormai dentro la zona buia: la sua voce gli faceva paura, era come se quel posto la amplificasse e la privasse di umanità – ti prego… dove è andata…”
Una piccola parte di lui sapeva bene che in quel posto si erano verificati dei crolli, anche di recente e avrebbe voluto tanto scappare via, ma come poteva? Come?
Si girò a guardare la luce dell’ingresso che gli sembrava così lontana.
Non vide la buca davanti a lui, a onor del vero non l’avrebbe vista nemmeno se avesse avuto lo sguardo in avanti: c’era oggettivamente troppo buio.
Forse era stata fatta per metterci del materiale o per altri oscuri motivi… o forse un cedimento del terreno.
Kain cadde rovinosamente in quella buca profonda due metri: era stato il piede destro a muoversi nel vuoto e forse fu per questo motivo che nel rapido volo che fece si trovò girato di lato e fu quella parte del suo corpo a colpire quanto stava nel fondo.
Fu tremendo, un dolore lancinante che gli mozzò il grido che stava per uscire.
Qualcosa di appuntito gli penetrò per tutta la lunghezza della coscia… fu impressionante come riuscì a sentire ogni millesimo di secondo in cui la carne gli veniva lacerata in maniera straziante. Il dolore gli risalì in tutto il corpo ed esplose nel cervello in centinaia di schegge appuntite.
Per tre tremendi secondi non respirò e davanti ai suoi occhi vide solo una forte luce colorata.
Poi arrivò la consapevolezza del dolore al braccio e alla guancia, perché nel primo impatto il suo cervello aveva dato priorità alla ferita peggiore. Ma adesso poteva sentire come il suo arto superiore pulsasse malamente e come fosse in un angolazione sbagliata… e poi la guancia, la tempia… bruciavano, tantissimo.
Sangue? C’era del sangue? Gli colava sulla guancia, nel labbro inferiore… nella gamba.
“Papà! – pianse debolmente – Mamma!”
 
Henry aprì la porta di casa e salì di corsa le scale.
Arrivò in bagno e si chinò nel gabinetto per vomitare.
“Henry! – esclamò Heymans che era rientrato pochi minuti prima di lui – Che hai?”
“Non lo so – ammise tra un conato e l’altro, sentendosi impazzire – fai smettere quel silenzio… ti prego… le sta facendo male, lo so. Perché lei non dice mai niente!”
“Fratellino… fratellino, tu stai male.” si accostò lui, sostenendolo.
“Deve finire… è colpa di quello lì… e del silenzio, è di quello che devi aver paura!”
“Merda, sei fradicio di sudore… mamma! Mamma!”
Ed Henry non capì più nulla, ma forse andava meglio così.
 
Hayate abbaiò furiosamente, sollevandosi su due zampe davanti all’ingresso della miniera.
“Perché diavolo mi hai portato qui?” chiese Roy, raggiungendolo con un leggero fiatone.
Si appoggiò alle travi che chiudevano quel tunnel e vi guardò all’interno: non ci vedeva niente di strano, ma il cane sembrava smentire tutto quello, raspando come un disperato.
“Che hai? Si può sapere?”
Ma indietreggiò di colpo quando sentì un lamento provenire da quel luogo così buio.
Impallidì, ma poi trovò la forza di affacciarsi di nuovo e tendere l’orecchio.
Qualcuno si sta lamentando…
Per dieci tremendi secondi pensò a qualche fantasma di minatore, ma poi l’ex fantasma della stazione di polizia gli tirò i pantaloni con i denti, riportandolo alla realtà.
No, i fantasmi hanno una spiegazione logica… non è vento. E’ proprio qualcuno che si sta lamentando.
“Ehi! – provò a chiamare – C’è nessuno?”
Ancora quel lamento…
“Cazzo, e va bene!” si fece coraggio e scavalcò quelle travi.
Guardò nel ridotto cerchio di luce, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo ad illuminare oltre. Purtroppo non c’era nulla, ma non si scoraggiò e girandosi iniziò a spostare e scardinare quelle travi mezzo marce che ostruivano parte dell’ingresso e dunque della luce.
La cosa richiese qualche minuto durante il quale il lamento continuava a farsi sentire, ma una volta che ebbe levato con un calcio l’ultima trave, riuscì ad ottenere una zona di luce più accettabile ed una penombra percepibile per diversi metri avanti.
“Bene – annuì, andando a posarsi contro la medesima parete che aveva usato Kain come appiglio – ora vediamo fino a dove possiamo spingerci.”
Ma Hayate era già corso avanti e proprio al limite della zona di penombra si fermò ed iniziò ad abbaiare furiosamente, i suoi latrati amplificati dal tunnel.
“Sssh, ma che hai?” chiese Roy, raggiungendolo e notando che c’era… una buca?
Il lamento si rifece sentire: veniva proprio da lì dentro e…
“Oh merda! Oh merda! Kain!”
Nella poca luce disponibile riuscì ad identificare il suo piccolo amico e si accorse immediatamente che era ferito. Non rispondeva ai suoi richiami e ogni tanto dalla bocca semiaperta usciva il flebile lamento che aveva sentito anche all’ingresso.
Stava per buttarsi dentro quella fossa, ma poi si rese conto che non avrebbe potuto risalire senza niente da usare come rialzo: erano almeno due metri di profondità. Si guardò attorno affannosamente e individuò una vecchia cassetta di legno: andava più che bene. La prese, ignorando eventuali schegge e si calò in quella trappola, cercando di non franare addosso al bambino.
“Kain – lo chiamò scuotendolo con delicatezza – ti prego, rispondimi.”
Purtroppo all’interno della buca la luce era davvero poca e non riusciva a capire quanto fosse ferito. Riuscì a vedere le brutte escoriazioni sul viso, la cui parte destra era tumefatta, una lente degli occhiali graffiata, per il resto si mise a tastare con frenesia, ma si dovette bloccare quando gli toccò il braccio.
Il lamento del bambino fu straziante.
“Ahia, questo è come minimo fratturato – scosse il capo – cazzo, piccolo amico mio, ma che hai fatto? Perché sei entrato qui e…”
Si fermò, perché era arrivato alla gamba.
C’era qualcosa di tremendamente freddo e appuntito che sporgeva… no che penetrava dentro la carne.
Roy dovette trattenere un conato mentre cercava di mettere a fuoco quel.. quel pezzo di lamiera.
“Cazzo – singhiozzò – Cazzo! Come faccio… come faccio?!”
“Papà… la penna…” chiamò flebilmente il bambino.
“Ti porto fuori da qui – cercò di rassicurarlo Roy, levandosi la giacchetta e mettendola sotto la testa del piccolo – ti… ti libero da questa cosa, eh?”
Mise la mano sulla parte di lamiera che penetrava nella coscia di Kain e iniziò a percorrerla verso il terreno, cercandone l’inizio. Ad un certo puntò a una decina di centimetri, sentì che c’era una giuntura con delle viti che si muovevano.
Se stacco questa posso muoverlo… il resto glielo deve levare un medico.
“Kain, scusa – iniziò, facendosi forza e iniziando a forzare quella parte. Subito il bambino iniziò ad emettere strazianti lamenti – lo so… lo so, ma cazzo! Deve staccarsi questa maledetta!”
Mio dio, sembra che lo sto scannando vivo! Ti prego… cedi! Cedi, cazzo! Non vedi che lo sto uccidendo dal dolore?
Quando finalmente la giuntura cedette gli sembrò passata un’eternità.
“Scusami, scusami – disse con le lacrime che scendevano senza parere… le sue mani erano piene di sangue, come era possibile che un bambino ne perdesse così tanto? – Adesso ti porto via, promesso.”
Fu una cosa estremamente faticosa e dolorosa: sollevò il bambino tra le braccia e si mise sopra la cassetta, pregando che non cedesse: erano comunque più di trenta chili che doveva sollevare da solo, ma riuscì a tendere le braccia il tanto che bastava per farlo rotolare nel bordo della buca… purtroppo era inevitabile che le ferite venissero sballottate.
Stava per darsi la spinta e uscire anche lui dalla buca, quando si dovette piegare per vomitare… ora che la luce colpiva maggiormente il bambino aveva visto con maggior chiarezza la ferita alla gamba. Non aveva capito quanto fosse grave.
“Va bene – ansimò, asciugandosi la bocca con un braccio – non è il momento… non ora.”
Controllò il forte tremito alle gambe e uscì da quella buca maledetta.
Mise la giacca sopra il busto di Kain e lo prese in braccio, mentre Hayate gli gironzolava intorno uggiolando.
“Kain… Kain, parlami, ti prego – mormorò mentre usciva da quel posto – chiama di nuovo i tuoi… non… non restare così immobile, dai.”
Lo scosse, era troppo vederlo praticamente cadavere: il lamento che ottenne gli diede nuova forza.
“Ti porto a casa, coraggio… non temere… non temere… devi farti forza!”
E iniziò a camminare, con le lacrime che gli offuscavano la vista.
  
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