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Autore: Laylath    14/03/2014    3 recensioni
Eppure a guardare più da vicino i ragazzi di quella realtà, ci si sarebbe accorti che le loro esistenze non erano così scontate: i piccoli grandi problemi dell’infanzia e dell’adolescenza a volte andavano ad intrecciarsi con situazioni difficili, dove spesso il legame con un amico fidato era la cosa migliore per poter andare avanti.
E spesso le persone più impensabili stringevano un forte legame tra di loro per uno strano susseguirsi di eventi, all’apparenza così normali… anche se poi viverli era tutt’altra cosa.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Team Mustang
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un anno per crescere'
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Capitolo 40. La penna di Kain.

 

Arrivare fino a casa di Kain fu un vero e proprio calvario: il bambino pesava relativamente poco, ma a Roy sembrava di portare un macigno. Quel viso pallido e tumefatto, la bocca semi aperta che respirava debolmente con ogni tanto qualche lamento, il braccio posato sul petto, e soprattutto quella gamba che lui teneva con attenzione, cercando di farle subire meno scossoni possibili.
E continuava a sanguinare, il pezzo di lamiera che fuoriusciva ormai rosso cupo: ad un certo punto Roy si era persino strappato un pezzo di stoffa dalla maglietta e aveva provato a fasciarla dove il metallo non arrivava, ma non era servito a molto.
Non aveva mai visto delle ferite simili e scoprirle per la prima volta sul corpo del suo piccolo amico gli procurava una sensazione di nausea tale che più volte dovette chiudere gli occhi e respirare profondamente per non rimettere di nuovo.
“Coraggio – continuava a ripetersi, mentre le sue braccia si facevano sempre più pesanti – ancora poco e ci siamo, Kain. Vedrai che i tuoi genitori ti cureranno.”
Non gli importava di dover affrontare quella donna, la cosa primaria era prestare soccorso al bambino.
Fu così che, dopo un tempo che gli parve infinito, anche se in realtà furono circa venti minuti, arrivò a casa dei Fury.
“Signor Andrew! – chiamò con disperazione, già a pochi metri dalla porta – Signora, per favore! E’ ferito!”
Dopo qualche secondo, mentre cercava un modo di bussare alla porta senza far cadere Kain, questa venne aperta da Andrew.
“Kain! – esclamò l’uomo, impallidendo – Piccolo mio!”
“Il sangue non si ferma – pianse Roy, mentre l’uomo prendeva con dolcezza il bambino dalle sue braccia e lo portava dentro – nella gamba… nella gamba!”
“Kain, da bravo, rispondimi – continuava a chiamarlo Andrew, portandolo nel salotto e posandolo sul divano – sono papà, piccolo mio… ti prego apri gli occhi.”
Per tutta risposta il bambino emise un singhiozzo e mosse debolmente la testa.
Roy stava accanto a lui, pregando che la voce dell’uomo lo inducesse a svegliarsi, a fare qualcosa… a rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene.
“Dimmi che è successo – disse Andrew, girandosi verso di lui – come si è fatto male?”
“Nella vecchia miniera – mormorò lui, scosso più di quanto credesse – è caduto in una buca e c’era quella cosa che gli ha preso la gamba… ho provato a fasciarla, ma… avevo paura di muoverla ancora… e lui si lamentava come se lo stessi spellando vivo!”
“Che cosa succede? – chiese Ellie arrivando in quel momento. Roy alzò lo sguardo su di lei in tempo per vederla perdere qualsiasi colore nel viso – Kain! Cielo, Kain! Ma che ha? Andrew, che ha nostro figlio?”
“Mamma mia, – mormorò l’uomo, sfiorando la guancia tumefatta del piccolo e levandogli gli occhiali – non c’è tempo da perdere: dobbiamo portarlo dal dottore. Questa cosa va levata il più presto possibile.”
“Amore… amore, piccolo pulcino mio – singhiozzò Ellie, rendendosi conto delle ferite – c’è la mamma con te, non aver paura…”
Andrew si alzò, prendendo in mano la situazione e fece cenno a Roy di seguirlo al piano di sopra.
“Che ci facevate nella vecchia miniera?” chiese mentre salivano le scale.
“Non lo so perché è entrato lì: il cane di Riza ha iniziato a incitarmi verso quel posto e quando sono arrivato l’ho sentito piangere e così sono entrato…”
“Era già privo di sensi? – entrarono nella camera di Kain ed Andrew prese la coperta – La gamba…”
“Si lamentava, ma non ha aperto gli occhi, nemmeno quando l’ho chiamato – si disperò Roy – e la lamiera… ho dovuto tirare per staccarla dalla parte attaccata al terreno. Ho paura di aver peggiorato… ma come potevo…”
“Tranquillo ora – l’uomo trasse un profondo respiro, come a farsi forza – adesso lo portiamo dal medico.”
Scesero di nuovo al piano di sotto dove Ellie continuava a chiamare il bambino e gli accarezzava i capelli.
“Andrew… – supplicò, alzando gli occhi pieni di lacrime sul marito – la sua gamba.”
“Deve vederla il dottore… tieni la coperta che lo sollevo. Ecco, piano, la gamba non deve ricevere scossoni: lasciala scoperta. Bene, adesso vieni, piccolino, andiamo a farti curare.”
E sistemandosi il bambino tra le braccia si diresse verso la porta, con Ellie che lo tallonava. Roy fece per seguirli, ma non poté fare a meno di dare un’ultima occhiata a quel divano.
Solo pochi minuti e si era riempito di sangue.
 
“Ellie, esci.” disse Andrew, andando a lavarsi le mani.
“No – scosse il capo lei – non puoi chiedermi di uscire fuori quando mio figlio è in queste condizioni.”
“Signora, per favore esca – consigliò il medico – adesso dobbiamo levargli quel pezzo di metallo ed è meglio che non sia presente.”
La donna fissò il bambino che giaceva nudo ed esanime nel letto dell’ambulatorio: il medico aveva tagliato tutti i vestiti con le forbici per controllare che il corpo non avesse subito altri danni con la caduta. La parte destra del fianco presentava delle escoriazioni e diversi lividi, ma era la gamba… quello squarcio che prendeva quasi tutta la coscia.
“Ellie – sussurrò Andrew accostando la fronte alla sua – per l’amor del cielo, esci. Non devi vedere, ti prego. Resto io con lui, da brava… ti prometto che andrà tutto bene, te lo giuro. Farò di tutto per il nostro bambino, meraviglia mia, fatti forza.”
A quelle parole la donna fu costretta ad annuire e ad indietreggiare verso la porta.
Come la richiuse alle sue spalle, si lasciò scivolare contro di essa, iniziando a singhiozzare.
Roy, che era rimasto fuori da quella stanza ad attendere, si accostò a lei ansioso di avere notizie.
Ellie si accorse della sua presenza e si girò a guardarlo, notando la maglietta strappata e sporca di terra e sangue… il sangue di Kain che adesso stava in quella stanza con la gamba terribilmente ferita.
“Ti senti soddisfatto adesso?” chiese, fissandolo con gli occhi identici a quelli del bambino, ma carichi di un dolore cieco ed impotente.
“Io…” mormorò il ragazzo, sentendo un impatto fisico per quella disperazione, tanto da farlo indietreggiare.
“Era così difficile accettare che fosse un bambino obbediente che non faceva mai cose avventate? Dovevi spingerlo a queste prove assurde di coraggio?”
“Non è come pensa, signora, io non…” balbettò lui.
“Mio figlio è in quella stanza con la gamba distrutta! – esclamò la donna, serrando gli occhi – Ti prego… ti prego, non di nuovo… non voglio rischiare di perderlo ancora una volta.”
Roy non capì il senso di quell’ultima supplica, gli erano bastate le prime frasi chiaramente rivolte contro di lui. Era davvero colpa sua se Kain aveva tentato una cosa simile? L’aveva spinto lui ad essere così spericolato?
“Non… non volevo…” mormorò, abbassando la testa e restando accanto a lei.
E non si dissero altro per tutto il tempo in cui quella porta rimase chiusa.
 
Dopo più di un’ora il medico finì di tastare con delicatezza la testa del bambino e provvide a coprirlo con un lenzuolo.
“Non c’è nessun trauma alla testa – dichiarò – solo delle escoriazioni superficiali. Può far entrare sua moglie,ingegnere, vi esporrò il quadro clinico del bambino.”
Andrew annuì stancamente: si era lavato con cura le mani e le braccia, ma se le sentiva ancora sporche del sangue di Kain. Il suo sguardo corse automaticamente a quel contenitore di stagno dove, tra le garze arrossate, giaceva quella lama di metallo arrugginito lunga almeno dieci centimetri: quando il medico l’aveva estratta gli era sembrato di sentire il rumore di quel corpo estraneo che dilaniava i muscoli, la carne, le ossa.
Forza, Andrew Fury, non puoi cedere adesso.
Aprì con delicatezza la porta, quasi intuendo che Ellie fosse lì.
Immediatamente la donna si alzò in piedi e lo fissò con timore misto a speranza.
“Andrew…”
“Vieni, il dottore vuole parlarci.”
Ellie annuì debolmente ed entrò nella stanza, andando accanto al letto dove giaceva il bambino, ancora privo di sensi.
“E’ sotto sedativi, signora – disse il dottore – dormirà per diverse ore.”
Andrew socchiuse la porta, completamente dimentico di Roy che stava ancora nel corridoio.
Così non si accorse di come il ragazzo si accostasse per sentire pure lui quanto si stava per dire.
“Allora?” chiese, andando vicino alla moglie ed abbracciandola.
“La testa non ha subito danni gravi, quelle escoriazioni e quel gonfiore non sono niente di preoccupante; anche nel torso le ferite non sono gravi, certo, c’è quella brutta frattura al braccio… ma è la gamba a preoccuparmi davvero.”
“Che cosa intende?” chiese Ellie con ansia.
“Ho estratto il pezzo di lamiera, ma parte di essa era vecchia ed arrugginita e non posso garantire che tutti i frammenti siano levati, c’è la possibilità che alcuni si siano sbriciolati in parti davvero minuscole. – sospirò – Ho dato al bimbo una prima massiccia dose di antibiotici, che dovrete continuare a somministrargli, per contrastare l’inizio d’infezione  e speriamo facciano effetto.”
Infezione.
Quella parola cadde pesante nel cuore di tutti, compreso quello di Roy che sentiva tutto appoggiato al muro, appena accanto alla porta. Gli occhi scuri si dilatarono, ma non ebbe tempo di pensare perché le voci all’interno proseguirono… e lei stava piangendo.
“E se non si riesce a bloccarla?” la voce del padre di Kain era tremante.
“In caso estremo, per evitare che si diffonda al resto del corpo, mettendo a rischio la vita del bambino, mi troverò costretto a procedere all’amputazione. Mi dispiace.”
A Roy sembrò che il mondo iniziasse a vorticare vertiginosamente attorno a lui.
Sentiva il pianto disperato della donna, la voce del marito e del medico che cercavano di calmarla.
Dovevi spingerlo a queste prove assurde di coraggio?
“No – balbettò, riprendendo a piangere – no… non è colpa mia, non volevo! Non volevo!”
Battendo un violento pugno contro il muro, scappò via da quell’ambulatorio, come se la vicinanza di Kain ridotto in quelle condizioni fosse un marchio di colpevolezza. Cercava di ripetersi che tutte le volte che l’aveva spinto a fare prove di coraggio non gli aveva mai messo in testa follie simili.
Eppure lo sguardo accusatorio di Ellie Fury continuava a tormentarlo.
Non è colpa mia… non volevo! Non volevo che accadesse questo! Mai! Mai!
Aveva un disperato bisogno di scappare, di rifugiarsi da qualcuno che avrebbe potuto lavare via quella tremenda colpa che lo stava attanagliando. La sua folle corsa lo portò al commissariato di polizia; superò le persone che incontrava, liberandosi anche da un poliziotto che cercava di bloccarlo, sorpreso dal suo improvviso arrivo.
Aprì la porta dell’ufficio di Vincent con tutta la disperazione che aveva in corpo.
“Roy?” esclamò l’uomo, alzandosi dalla scrivania.
“Non volevo che accadesse! – pianse correndo verso di lui e abbracciandolo – Non volevo…”
“Ma di che parli? – chiese Vincent, accarezzandogli i capelli corvini e facendo cenno agli altri poliziotti che erano entrati di uscire e chiudere la porta – Da bravo, che è successo?”
“Rischia di perdere la gamba – singhiozzò – ed è tutta colpa mia…”
“La gamba? – scosse il capo l’uomo non capendo. Scrollò lievemente il ragazzo per farlo calmare e si chinò per posare la fronte contro la sua – Adesso calmati, figliolo, e raccontami quanto è successo.”
 
Nell’arco di poche ore la notizia di quel grave incidente si sparse per tutto il piccolo paese.
Riza entrò nell’ambulatorio, librandosi dalla stretta di Elisa, e senza pensare ad altro corse verso la porta della stanza dove stava Kain. Proprio in quel momento stava uscendo Andrew che fu rapido a bloccarla.
“No, no, piccola mia, non devi vederlo in queste condizioni.”
“Sta male! – pianse lei, dimenandosi persino nella sua stretta – Come posso non andare da lui?”
“Sssh, ti prego…”
“Ma è vero che rischia di perdere la gamba?”
Andrew si inginocchiò nel pavimento e la strinse ancora più forte: cercava parole per confortarla, ma proprio non ci riusciva. Voleva trovare una nuova forza dentro di sé, ma tutta la sua anima continuava a gridare che non era disposto a sopportare un nuovo calvario come quello di sette anni prima.
Le parole dei suoi genitori, di Vincent degli amici, gli suonavano vuote e prive di significato davanti a quella nuova tragedia.
Era uscito fuori da quella stanza perché la vista di Ellie china su quel letto di dolore gli aveva fatto piombare sul cuore dei tremendi ricordi, quando ogni ora, ogni minuto poteva essere l’ultimo.
Le braccia di Riza si strinsero al suo collo, sentì la testa bionda che si strofinava contro la sua in cerca di sostegno e rassicurazione. Si costrinse a farsi forza, trovando in quella fiducia così assoluta la stessa spinta che gli aveva dato quella di Heymans durante la piena.
“Andrà tutto bene – riuscì a dire – deve andare tutto bene… deve…”
Sentì un nuovo abbraccio sulle sue spalle e aprendo gli occhi vide la chioma rossa di Heymans contro la sua spalla.
“Certo che andrà tutto bene – pianse il ragazzo – è forte… è in grado di farcela… sono solo cazzate quelle dell’amputazione… Kain non…”
“Heymans – sospirò, includendo anche lui nell’abbraccio – da bravo…”
Il rosso scosse il capo: doveva andare tutto bene, non poteva sopportare una simile tragedia.
Come Vato era corso a casa sua per dirgli la notizia, era uscito di corsa, lasciando sua madre al capezzale di Henry che ancora ansimava per quella brutta crisi nervosa. Ma se sapeva che suo fratello si sarebbe ripreso, quello che stava accadendo a Kain era molto più grave.
Non deve succedere proprio a lui… non a Kain…
 
“E’ stata tutta colpa mia – disse per la centesima volta Roy – se non l’avessi spinto a quelle disobbedienze lui non avrebbe mai fatto una follia simile…”
“Non dire questo Roy – boy, – lo consolò Madame, dandogli una pacca sulle spalle – il tuo amico piumino se la caverà vedrai. I medici sono sempre pessimisti.”
“Devo tornare in ambulatorio – scosse il capo il ragazzo, alzandosi dal letto – non posso lasciarlo solo.”
“No, devi stare tranquillo e riposare un po’ – lo ammonì Vincent, spingendolo sul cuscino – hai fatto uno sforzo fisico e mentale molto forte e devi concederti un minimo di tregua. Hai avuto una brutta crisi di pianto, Roy, se torni in quel posto si riscatena e metterai in difficoltà tutti quanti… i genitori di Kain in primis, lo capisci?”
“Vado a preparati una camomilla, ragazzino: ne hai proprio bisogno.”
Rimasto solo col ragazzo, Vincent si sedette sul bordo del letto e iniziò ad accarezzargli i capelli neri e sudati, accorgendosi che quel gesto aveva un effetto calmante.
“La madre di Kain mi odia, crede che sia stato io…” mormorò lui.
“Te l’ha detto esplicitamente? Ti ha detto che sei stato tu a far cadere il bambino in quel fosso?”
“No, ma ha detto che se non avessi spinto Kain ad essere così disobbediente lui non avrebbe mai fatto una cosa simile.”
“Roy, lei è solo molto preoccupata per le condizioni di suo figlio, non le pensa davvero queste cose.”
“Sì invece… e forse ha ragione.”
“Non essere sciocco – lo rimproverò l’uomo, scuotendo il capo – Kain è un ragazzino molto giudizioso che non fa mai una cosa senza un motivo particolare. Non è stata pura e semplice avventatezza, sono pronto a scommetterlo… se ci rifletti sono sicuro che anche tu arrivi alla mia stessa conclusione.”
“E allora che cosa è successo?” chiese Roy, con disperazione.
“Non lo so, figliolo, per quello dobbiamo aspettare che il tuo piccolo amico si risvegli e ci dica come è andata. Adesso però – disse, vedendo che Madame Christmas stava tornando con una tazza fumante – l’unica cosa a cui devi pensare è bere questa camomilla e concederti un paio di ore di sonno.”
E nonostante tutti i suoi sforzi, Roy non riuscì ad opporsi a quelle mani gentili ma ferme che lo costringevano a bere e a riadagiarsi nei cuscini. Protestò debolmente ancora per qualche minuto, ma poi quelle carezze ai capelli e quel tono rassicurante lo fecero sprofondare in un sonno tormentato da visioni di sangue e lamiere, dove l’unico suono che sentiva era il lamento di Kain.
 
Andrew adagiò il bambino sul letto matrimoniale, sistemandogli con delicatezza la gamba ed il braccio. Subito Ellie provvide a coprirlo e a sedersi accanto a lui.
Il fatto che il medico avesse concesso loro di portarlo a casa era sicuramente un bene. Andrew notava che la moglie era nettamente più tranquilla e aveva smesso di piangere. Vedendola china ad accarezzare con estrema delicatezza la guancia sana del bambino, assistette ad una meravigliosa metamorfosi: eccolo di nuovo accanto a lui quell’angelo che aveva accudito Kain nei primi quattro anni. Si era in parte dimenticato di quella strana forma di bellezza che Ellie assumeva quando vegliava il bambino malato, quel tangibile effetto consolatorio che spesso aveva fatto da balsamo per tutte le sue paure.
“Ellie…” mormorò, andandole accanto e baciandole i capelli.
“Sono le nove, tra sei ore dobbiamo fargli un’iniezione di antibiotico – disse lei con voce dolce e calma – puoi controllare che ci sia tutto nel pacco che ci ha preparato il medico? Tra poco preparo un impacco di arnica per il suo povero faccino, così si sgonfierà prima…”
Ma il messaggio nel suo sguardo era chiaro:
Non dire nemmeno per errore la parola amputazione.
“Vado subito, amore mio – annuì Andrew, sentendosi di nuovo pronto ad affrontare i problemi di salute di Kain – andrà tutto bene, ne sono sicuro. Vero, piccolo?”
“Tranquillo, pulcino, – mormorò Ellie baciando la fronte del figlio – mamma e papà penseranno a te, guarirai presto.”
Per chissà quale miracolo, Andrew fu sicuro di vedere il viso del bambino che riusciva a rilassarsi leggermente, come se avesse sentito quelle rassicurazioni, quell’amore attorno a lui.
Piccolo mio, tu mi hai abituato a degli incredibili miracoli in tutti i tuoi undici anni di vita… te ne chiedo ancora uno, per favore.
“Papà…” fu solo un sussurro, ma lo sentì chiaramente.
Kain mosse a fatica la testa, emettendo un lamento.
“L’effetto dei sedativi sta iniziando a passare, come ha detto il dottore – capì, accostandosi al letto – ehi, Kain, piccolo mio, sta tranquillo. Va tutto bene.”
“Fa male…” ansimò lui, serrando gli occhi ed iniziando ad agitarsi debolmente.
“Sssh, amore, lo so – lo bloccò con gentilezza Ellie – ma non devi muoverti. Ci sono io con te, pulcino mio, passerà il dolore, te lo prometto.”
“Penna… la penna…”
“Penna? Amore, adesso non puoi scrivere.”
“La penna? – sussurrò Andrew, ricollegando il motivo dell’uscita di Kain – Tranquillo, vado a prendertela.”
Scese al piano di sotto dove avevano posato il pacco che tra le altre cose conteneva anche i vestiti strappati che il bambino indossava: frugò in ogni tasca, in ogni piega della stoffa, ma niente.
Tornò al divano insanguinato e controllò anche lì vicino, ipotizzando che magari fosse caduta mentre lo posava lì dopo che Roy l’aveva portato a casa.
Nemmeno qui… maledizione, deve essere caduta da qualche altra parte.
“Andrew – chiamò Ellie da sopra – vieni, per favore, gli sta salendo la febbre…”
“La febbre? No… no, pessimo segnale… te la troverò poi la penna, Kain, promesso.”
 
Papà… la penna…
Roy si svegliò ansimando, mentre la voce straziante di Kain lo tormentava per la centesima volta.
Quella notte era destinato a non dormire, ne era sicuro.
Preferisco stare sveglio piuttosto che affrontare ancora questi incubi.
Si alzò dal letto e accese la luce della stanza: nonostante tutto alcune ore di riposo fisico l’avevano aiutato a superare quel momento di debolezza, ma gli avevano anche sfasato i tempi. Da sotto sentiva le risate, la musica e le chiacchiere degli avventori del locale: era notte inoltrata, come testimoniava anche la luna che si vedeva dalla finestra.
Si sedette alla scrivania, cercando di distogliere i pensieri dal suo piccolo amico.
Madame gli aveva detto che l’avevano riportato a casa, sarebbe stata una sistemazione certamente più confortevole per lui ed i genitori. Ma la diagnosi non era cambiata: si trattava di vedere se la lotta veniva vinta dagli antibiotici o dall’infezione.
“Non possono amputarti la gamba – mormorò a testa china – come pretendi che ti insegni ad andare in bici se hai una gamba sola?”
Si ricordò dell’esistenza degli automail, ma la sola idea di uno di quegli aggeggi montato sul corpicino di Kain gli diede un forte senso di nausea. No, Kain aveva le sue gambe, perfette e pronte a correre per i campi, ad arrivare ai pedali della bici, a scalare gli alberi…
“Devo fare qualcosa per lui – sussurrò, mentre nuove lacrime scorrevano nel suo viso – ma cosa…?”
Una goccia cadde su uno dei fogli bianchi che aveva davanti a sé e con un gesto seccato cercò di asciugarla. Così facendo urtò una penna che giaceva lì vicino.
Papà… la penna…
… è che sto andando a comprare le ricariche per la penna che mi ha regalato papà.
L’immagine di Kain, tutto sorridente, mentre annunciava quella commissione che doveva compiere gli tornarono di prepotenza alla mente.
“Lui non farebbe mai niente di avventato senza un motivo… vuoi vedere che…?”
Fu questione di pochi secondi e si era già alzato dalla sedia. Si levò il pigiama ed iniziò a vestirsi: doveva andare alla miniera e levarsi quel dubbio. Se la penna era in quel posto doveva assolutamente recuperarla e riportarla al bambino: era troppo importante per lui.
Mettendosi la giacca, corse al cassetto della scrivania e prese la torcia: non l’aveva più usata dai tempi della fatidica caccia al fantasma…
“Ma a questo giro non ci sarà fantasma che mi fermerà.”
Stava uscendo che era notte fonda per andare in una miniera abbandonata a cercare un oggetto minuscolo come una penna.
Ma non gli importava di nient’altro.
 
“Ellie, amore, sdraiati un poco – sussurrò Andrew, accarezzandole la guancia – sono le tre e mezza passate e non ti sei concessa un attimo di tregua.”
“Tranquillo, sto bene.” scosse il capo lei.
No, non si sarebbe addormentata per nessun motivo al mondo, lo sapeva bene. Conosceva quella placida determinazione, così impressionante in una donna così minuta e dall’aspetto infantile, l’aveva vista all’opera altre volte.
Si avvicinò per tastare la fronte del bambino: la febbre era arrivata un cinque ore prima e non l’aveva ancora lasciato. Il dottore non aveva detto quanto margine di tempo si prendeva per decidere se amputare la gamba o meno, ma Andrew sapeva che era qualcosa che andava fatto nell’arco di pochi giorni.
No, non ci devo pensare… non ci devo pensare.
“Papà – ansimò il bambino – papà, dove sei?”
“Sono qui, piccolo mio – rispose accarezzandogli i capelli sudati – stai tranquillo, sei a casa con me e la mamma, va tutto bene.”
“E la penna?”
“La penna… è in… in camera tua – mentì – però adesso è notte e devi riposare, non pensare alla penna, bambino mio, è al sicuro.”
“Andrew, perché non vai a prendergliela? – suggerì Ellie – gliela mettiamo in mano così è più tranquillo.”
Lui scosse il capo e le fece cenno di alzarsi, la condusse lontano da letto, per evitare che Kain sentisse e mormorò.
“Non la trovo da nessuna parte, deve averla persa in quel posto o chissà dove.”
“La penna… papà! – pianse il bambino, dimenandosi ora che non c’era più nessuno a tenerlo – La penna!”
Subito Ellie corse di nuovo al suo capezzale, bloccando quei movimenti che potevano peggiorare le ferite.
Andrew scosse il capo e per un allucinante momento fu tentato dall’idea di andare a cercare quella maledetta penna all’interno della miniera.
Ma il suo folle piano, perché era da folle pensare di abbandonare moglie e figlio in quel frangente, venne spezzato da un forte bussare alla porta.
Girandosi a guardare, notò che Ellie era ancora impegnata a calmare Kain e probabilmente non se ne era nemmeno resa conto. Così scese al piano di sotto ed andò ad aprire, chiedendosi chi mai potesse essere a quell’ora e…
“Roy?”
“La penna – esclamò il ragazzino, mostrando l’oggetto nella mano tremante– ho ritrovato la sua penna.”
 
“Sei andato in quel posto in piena notte mettendoti a cercare la penna con il solo aiuto di quella piccola torcia?” chiese Andrew, mettendogli una coperta sulle spalle e facendolo sedere nel letto di Kain.
“La stava cercando – spiegò Roy con voce tremante, profondamente scosso da quella tremenda ora passata a perlustrare ogni centimetro di quel posto, sussultando per ogni minimo rumore, anche per il suo stesso battito del cuore. Era quasi scoppiato a piangere quando finalmente l’aveva individuata molto più lontano di quanto avesse mai pensato – è per quello che è entrato nella miniera, ne sono certo.”
“Potevi farti seriamente male, così al buio, con tutti i pericoli che ci sono in quel posto.”
“Non ci metterò mai più piede – giurò lui – ma… che altro potevo fare?”
“Aspettare domattina e chiedere a me o a Vincent di andare a prenderla.”
“No, troppo tardi, Kain la cercava… lui… lui non perderà la gamba, vero?”
“Non pensare a queste cose e sdraiati a riposare: sei gelato e terrorizzato.”
“Sono stufo che mi diciate quello che devo fare, voglio andare da Kain e…”
La frase venne interrotta da Ellie che entrò nella stanza.
“Andrew, vai a darmi un po’ il cambio, per favore?”
“Certo, tesoro.”
Come la porta si chiusa Roy alzò gli occhi sulla sua nemica numero uno, la donna che odiava perché aveva un’ascendente sui suoi amici che lui non poteva scalfire. Gli tornarono in mente le parole che gli aveva detto all’ambulatorio e, per un perverso gioco, il suo cervello le collegò alle accuse che quelle maledette donne avevano lanciato a Riza il giorno della piena.
“Va meglio?” chiese Ellie, sedendosi accanto a lui.
“Per il freddo dice? Sì, va meglio.” rispose laconicamente lui, spostando lo sguardo davanti a sé e concentrandosi su un minerale azzurrino che stava nella libreria dall’altra parte della stanza.
“Sei andato in quel posto per recuperare la penna, è così?”
“Sì, signora.” mormorò, pronto a sentire le nuove accuse nei suoi confronti: tanto era per quello che si era disturbata a lasciare il capezzale di Kain.
“Grazie.”
No, non era questo ciò che Roy si era aspettato e si girò a fissare quella donna, restando profondamente sorpreso per la sincera gratitudine e preoccupazione che leggeva nei suoi occhi.
“Però – aggiunse Ellie – non fare mai più niente di così pericoloso, va bene?”
La mano che gli accarezzò i capelli fu gentilissima, come solo quella di una madre poteva esserlo. Un tocco che riusciva a sciogliere tutte le paure ed i traumi di quella notte di terrore.
Perché sei così diversa?
“Non… non sono stato io a portare Kain lì…” si trovò a dire.
“Lo so – sussurrò lei, abbracciandolo – tu l’hai solo salvato ed io non avrei mai dovuto dirti delle simili parole, ti chiedo scusa.”
Roy sgranò gli occhi nel sentire quelle braccia che lo cingevano: nonostante fosse esausta e preoccupata, quella donna emanava un senso d’amore tale che finalmente gli fece capire cosa portava Riza ad adorarla in una maniera simile.
E si accorse che non riusciva ad odiarla, forse non l’aveva mai fatto.
“Volevo che Kain fosse più… sono stato solo uno stupido.” le lacrime gli uscirono da sole quando iniziò a rendersi conto dell’assurdità di quanto aveva fatto.
“E’ acqua passata – lo consolò la donna, continuando ad accarezzargli i capelli – l’hai salvato, Roy, se non fosse stato per te sarebbe morto in quel posto. Sei un ragazzo coraggioso, sul serio.”
Il ragazzo si strinse ancora di più a lei: com’era consolatore quell’abbraccio, quella voce… con che coraggio aveva preteso di staccare Kain da quella donna meravigliosa?
“Signora – mormorò ad un certo punto – mi scusi, la sto trattenendo, lei ora dovrebbe andare da Kain che ha tanto bisogno di…”
“Calmo – lo bloccò lei – c’è Andrew con lui: io resterò con te fino a quando non ti sarai addormentato.”
“Ma…”
“Coraggio, parlami di quella miniera.”
“No – scosse il capo Roy, accorgendosi di averne davvero paura anche solo a ricordare – non posso…”
“Sì che puoi – lo consolò Ellie – funziona così: una volta che ne parli fa meno paura… tu non hai idea di come conosca bene i dettagli della vostra avventura al commissariato di polizia.”
Il ragazzo fissò incredulo quel timido sorriso sul volto infantile di lei.
E le parole iniziarono ad uscire da sole, come un veleno che viene estratto da una ferita.
  
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